L'equazione di Dio Robert J. Sawyer Come si sono estinti i dinosauri? Domanda vecchia, per il lettore di fantascienza. E che ha avuto mille risposte. Nel caso di questo brillante romanzo, tuttavia, l’interrogativo è molto più complesso e andrebbe riformulato così: provata scientificamente l’esistenza di Dio, perchè ci ha fatto come ci ha fatto? E soprattutto, perchè ha deciso di estinguere periodicamente le forme di vita superiori su tutti i mondi abitati? E’ l’assillo che tormenta Hollus, un ragno intelligente venuto dallo spazio che un bel giorno entra nel Royal Museum, a Toronto, e chiede di parlare con uno scienziato. Lo portano da Thomas Jericho, paleontologo, e l’aracnide rivela importanti informazioni sulle origini della vita. Non solo, ma propone alle menti migliori della Terra di unirsi in una ricerca che altri pianeti hanno già cominciato per loro conto, e che solo lo sforzo di tutte le intelligenze potrà coronare di successo. La domanda è infatti: che intenzioni ha il Creatore? Robert J. Sawyer L’equazione di Dio A Nicholas A. DiChario e Mary Stanton, che erano lì per noi, quando abbiamo avuto il massimo bisogno di amici È raro trovare scheletri fossili completi. È consentito integrare le pani mancanti, secondo le ipotesi del ricostruttore, ma, tranne per montaggi da esposizione, bisogna distinguere con chiarezza le parti che sono vero materiale fossile da quelle che rappresentano semplici congetture. Solo i fossili autentici sono vera testimonianza, in prima persona, del passato; i contributi del ricostruttore sono invece una sorta di narrazione in terza persona.      Dr. Thomas D. Jericho,      nella sua introduzione alla Guida alla ricostruzione paleontologica,      (Danilova and Tamasaki Editori) Nota dell’autore Il Royal Ontario Museum esiste realmente e ha, com’è logico, un vero direttore, un vero consiglio d’amministrazione, vere guardie di sicurezza e via dicendo. Tuttavia i personaggi di questo romanzo sono interamente frutto della mia fantasia: nessuno di loro ha reale somiglianza con le persone che attualmente ricoprono o in passato hanno ricoperto incarichi presso il rom o qualsiasi altro museo. 1 Lo so, lo so… pareva pazzesco che l’alieno fosse giunto a Toronto. Certo, la città attira il turismo; ma si penserebbe che una creatura di un altro mondo punti sulle Nazioni Unite o forse su Washington. Klaatu non andò a Washington, nel film di Robert Wise, Ultimatum alla Terra? Naturalmente si potrebbe anche ritenere pazzesco che il regista di West Side Story abbia fatto un buon film di fantascienza. In realtà, ora che ci penso, Wise ha fatto tre film di fantascienza, ciascuno meno appassionante del precedente. Ho divagato. Mi accade spesso, negli ultimi tempi, e mi scuso. No, non sono i primi segni di demenza senile: ho cinquantaquattro anni appena, santo cielo. Ma a volte il dolore rende difficile concentrarsi. Parlavo dell’alieno. E del perché giunse a Toronto. Ecco tutta la storia… La navetta dell’alieno atterrò davanti all’ex planetario McLaughlin, che si trova proprio accanto al Royal Ontario Museum, dove lavoro io. Ho detto “ex” perché quel taccagno di Mike Harris, premier dell’Ontario, ha tagliato i finanziamenti per il planetario. Ha deciso che i ragazzi canadesi non devono sapere niente dello spazio: un vero progressista, Harris. Una volta chiuso, il planetario fu affittato per un’esposizione pubblicitaria di Star Trek, con una copia del classico ponte dell’astronave posta nella sala d’osservazione delle stelle. Per quanto mi piaccia Star Trek, non riesco a immaginare un peggiore commento alle priorità educative canadesi. In seguito quell’area era stata presa in affitto da varie imprese del settore privato, ma in quel momento era deserta. Forse era ragionevole che un alieno visitasse un planetario, ma in realtà quella creatura voleva proprio andare al museo. Un bene, in fin dei conti: pensate alla brutta figura che avrebbe fatto il Canada se l’ambasciatore extraterrestre, stabilito il primo contatto sul nostro territorio, avesse bussato alla porta e non avesse trovato nessuno in casa. Il planetario, con la bianca cupola che lo fa assomigliare a un gigantesco igloo, sorge di parecchio rientrato rispetto alla via, quindi ha davanti un vasto spiazzo di cemento… perfetto, per l’atterraggio di una piccola navetta spaziale. Non ho assistito di persona all’atterraggio, anche se ero proprio nell’edificio accanto. Ma tre turisti e un mio concittadino hanno registrato su videocassetta l’avvenimento e le televisioni lo hanno trasmesso in tutto il mondo per parecchi giorni. La navetta era a forma di cuneo, sottile come la fetta di torta che prende chi finge di stare a dieta. Tutta nera, non aveva sistemi di scarico visibili ed era scesa silenziosamente dal cielo. Era lunga forse trenta piedi. (Sì, lo so, in Canada si usa il sistema metrico decimale, ma io sono nato nel 1946: non credo che quelli della mia generazione, anche se scienziati come me, si siano facilmente adattati alla novità; cercherò di correggermi.) Lo scafo della navetta, anziché essere coperto di automatismi assortiti, come ogni nave spaziale di ogni film da Guerre stellari in poi, era completamente liscio. Appena la navetta si posò al suolo, nella fiancata si aprì un portello. Rettangolare, più largo che alto. Scivolò in su… immediato indizio che l’occupante quasi certamente non era umano: gli esseri umani fanno di rado portelli di quel tipo, considerando quant’è vulnerabile la testa. Dopo qualche secondo uscì l’alieno. Pareva un gigantesco ragno bruno-dorato; aveva corpo sferico, delle dimensioni di un grosso pallone da spiaggia, e arti che sporgevano da tutte le parti. Davanti al planetario, una Ford Taurus tamponò una Mercedes marrone: i rispettivi guidatori erano rimasti a bocca aperta davanti allo spettacolo. C’erano diversi passanti, che parvero stupefatti, più che atterriti, anche se alcuni si precipitarono giù per le scale della stazione della metropolitana, che ha due uscite davanti al planetario. Il ragno gigante percorse la breve distanza che lo separava dal museo; il planetario era una sezione del rom e perciò i due edifici erano collegati da un camminamento soprelevato all’altezza del primo piano, mentre al livello stradale erano separati da un vicolo. Il museo fu costruito nel 1914, molto tempo prima che si cominciasse a parlare di problemi d’accessibilità. Nove larghi gradini portano alle sei porte a vetri principali; solo molto più tardi è stata aggiunta una rampa per disabili. L’alieno si fermò un momento, come per decidere quale via d’accesso prendere. Scelse la scalinata: le ringhiere della rampa erano un po’ troppo vicine per consentirgli un comodo passaggio, visto quanto sporgevano i suoi arti. In cima alla scalinata, rimase di nuovo perplesso. Probabilmente viveva in un tipico mondo fantascientifico, pieno di porte che si aprono da sole. Adesso aveva di fronte la fila di porte a vetri; per aprirle, bisogna tirare, usando le maniglie tubolari, ma l’alieno pareva non capirlo. Subito dopo il suo arrivo, però, un ragazzo uscì dal museo e sulle prime non si rese conto di che cosa accadeva; poi, nel vedere l’extraterrestre, lanciò un grido di stupore. L’alieno, con calma, bloccò con un arto il battente aperto (adoperava sei arti per camminare e due, adiacenti, come braccia) e riuscì a entrare nel vestibolo. Si trovò davanti, a breve distanza, una seconda serie di porte a vetri: una intercapedine simile alle camere d’equilibrio, che permetteva un certo controllo sulla temperatura interna del museo. Capito ormai il funzionamento delle porte terrestri, l’alieno aprì una di quelle interne ed entrò nella Rotonda, l’ampio atrio ottagonale del museo caratteristico del rom, tanto che la rivista trimestrale riservata agli operatori del museo era chiamata “Rotonda” in suo onore. Sul lato sinistro della Rotonda c’era la sala d’esposizione Garfield Weston, usata per mostre speciali; al momento ospitava la mostra di fossili del Burgess Shale, alla cui organizzazione avevo collaborato. Le due migliori raccolte mondiali di scisti fossiliferi si trovavano al rom e allo Smithsonian Institute; i due musei però di norma non le esponevano al pubblico. Avevo combinato di metterle insieme temporaneamente per esibirle prima qui, poi a Washington. L’ala del museo a destra della Rotonda era stata un tempo la nostra rimpianta sala Geologia, ma ora ospitava negozi di articoli da regalo e una gastronomia Druxy… uno dei tanti sacrifici fatti dal rom, sotto la direzione di Christine Dorati, per divenire un’“attrazione”. L’alieno comunque andò rapidamente in fondo alla Rotonda, tra il banco delle ammissioni e quello di assistenza per i soci. Non ho visto di persona neppure questa parte, ma la scena fu registrata da una telecamera della sicurezza; per fortuna, perché altrimenti nessuno ci avrebbe creduto. L’alieno arrivò, camminando di sghembo, davanti all’agente della sicurezza in blazer blu (Raghubir, un sikh brizzolato e affabile, da una vita alle dipendenze del rom) e disse in perfetto inglese: — Mi scusi, vorrei vedere un paleontologo. Raghubir sgranò gli occhi, ma si riprese in fretta. Più tardi disse d’avere pensato a uno scherzo. A Toronto girano molti film e, per chissà quale motivo, una quantità enorme di serie televisive di fantascienza, comprese, negli anni, cose come Gene Roddenberry’s Earth: Final Conflict, Ray Bradbury Theater e la rinata Twilight Zone. Raghubir pensò che fosse una comparsa in costume o un aggeggio scenico animato. — Che tipo di paleontologo? — disse, impassibile, per stare allo scherzo. Il corpo sferico della creatura ballonzolò. — Un paleontologo piacevole, immagino — rispose l’alieno. Nel video si vede il vecchio Raghubir tentare, senza riuscirci appieno di tenere a freno un sorriso. — Volevo dire, vuole un invertebrato o un vertebrato? — Non tutti i vostri paleontologi sono umani? — domandò l’alieno. Parlava in modo curioso, ma ci arriveremo. — Ci sarebbero quindi anche i non vertebrati? Lo giuro, è tutto nel video. — Sono tutti umani, naturalmente — disse Raghubir. Intanto si era radunata una piccola folla di visitatori e un altro gruppo, per quanto non inquadrato, di sicuro guardava dalla galleria interna del piano superiore la scena che si svolgeva sul lucido pavimento di marmo della Rotonda. — Alcuni però si specializzano in fossili di vertebrati e altri di invertebrati. — Oh — disse l’alieno. — Una distinzione artificiosa, a mio parere. Uno qualsiasi andrà bene. Raghubir prese il telefono e compose il numero del mio interno. Su nel Centro Amministrativo, nascosto dietro l’orripilante nuova Galleria Inco Limited di Scienze Terrestri (la quintessenza del modo in cui Christine vede il rom) risposi all’apparecchio. — Jericho. — Dottor Jericho — disse Raghubir, con la sua particolare inflessione — c’è qui un tale che desidera vederla. Rivolgersi a un paleontologo non è come chiedere un incontro con un alto dirigente, certo, e preferiremmo che si prendesse un appuntamento, ma siamo dipendenti pubblici, lavoriamo per quelli che pagano le tasse. Tuttavia… — Chi è?—domandai. Raghubir esitò. — Penso sia meglio che venga a vedere di persona, dottor Jericho. Bene, il cranio di Troodonte che Phil Curie ci aveva spedito dal museo Tyrrell aveva aspettato pazientemente settanta milioni di anni; poteva aspettare ancora qualche minuto. — Arrivo — dissi. Lasciai l’ufficio e scesi, passando davanti alla Galleria Inco… Dio, quanto la odio, con gli insultanti murales a fumetti, il gigantesco vulcano finto e il pavimento che vibra… e attraversai la Galleria Currelly, entrai nella Rotonda e… Oddio. Oh, Cristo! Rimasi impietrito. Forse Raghubir non riconosceva la differenza fra la carne vera e un costume di gomma, ma io sì. La creatura ferma accanto al banco d’ammissione era un’autentica entità biologica. Non ne avevo il minimo dubbio. Era una forma di vita… Avevo studiato la vita sulla Terra fin dalle origini, nel cuore del precambriano. Avevo visto spesso fossili che rappresentavano nuove specie o nuovi generi, ma non avevo mai visto alcun animale di grandi dimensioni che rappresentasse un phylum del tutto nuovo. Fino a quel momento. La creatura era indubbiamente una forma di vita e, altrettanto indubbiamente, non si era mai evoluta sulla Terra. Ho già detto che pareva un grosso ragno; così l’avevano descritta quelli che per primi l’avevano vista, dal marciapiede. Ma era molto più complessa di un ragno. Malgrado la superficiale somiglianza con gli aracnidi, l’alieno aveva chiaramente uno scheletro interno. Gli arti erano coperti di pelle piena di bolle, che rivestiva la muscolatura rigonfia: non erano certo le sottili zampe dell’esoscheletro di un artropode. Ogni moderno vertebrato terrestre ha quattro arti (oppure, come nel caso dei serpenti e dei cetacei, si è evoluto da una creatura che li aveva) e ogni arto termina in non più di cinque dita. Gli antenati di quella creatura erano chiaramente sorti in un altro oceano, su un altro pianeta: l’alieno aveva otto arti, disposti radialmente intorno al corpo centrale, e due degli otto servivano da mani e terminavano in sei dita a tripla articolazione. Sentivo il cuore battere forte e avevo difficoltà a respirare. Un alieno! E senza dubbio un alieno intelligente! Il corpo sferico della creatura era nascosto da un indumento, quella che pareva una lunga striscia di stoffa azzurro vivo, avvolta varie volte intorno al tronco, passando fra un arto e l’altro per lasciarli sporgere. I lembi dell’indumento erano chiusi, fra le braccia, da un disco adorno di pietre preziose. Non mi è mai piaciuto portare la cravatta, ma so fare il nodo e ci riesco anche senza guardarmi allo specchio (meglio così, di questi tempi): nell’indossare ogni mattina quel suo indumento, probabilmente l’alieno trovava le stesse difficoltà che ho io ad annodarmi la cravatta. Dai lembi di stoffa sporgevano anche due sottili tentacoli che terminavano in quelli che forse erano occhi: due globi iridescenti ricoperti di un rivestimento duro, cristallino. Quei due peduncoli ondeggiavano lentamente avanti e indietro, si avvicinavano e poi si allontanavano molto l’uno dall’altro. Mi domandai quale fosse la profondità di percezione di quella creatura: non c’era distanza fissa, tra i suoi due globi oculari. L’alieno non parve minimamente allarmato dalla mia presenza o da quella delle altre persone nella Rotonda, anche se faceva ballonzolare un poco il tronco, in quello che mi augurai non fosse ostentazione di possesso territoriale. A dire il vero, era un movimento quasi ipnotico: lentamente il tronco si sollevava e si abbassava, mentre le sei zampe si flettevano e si rilassavano e i peduncoli oculari si avvicinavano e si allontanavano. Ancora non avevo visto il video della conversazione fra l’alieno e Raghubir; pensai che forse si trattava di un tentativo di comunicare, un linguaggio di movimenti del corpo. Forse, mi dissi, avrei dovuto flettere le ginocchia e addirittura (trucco imparato al campeggio estivo una quarantina d’anni prima) incrociare e disincrociare gli occhi. Ma le telecamere della sicurezza ci inquadravano: se la mia ipotesi era sbagliata, avrei fatto la figura dell’idiota nei notiziari di tutto il mondo. Eppure dovevo fare qualche tentativo. Alzai la destra, palma in fuori, in un amichevole gesto di saluto. L’alieno copiò subito il mio gesto: piegò un braccio in uno dei due punti d’articolazione e allargò le sei dita all’estremità. E poi accadde una cosa incredibile. Una fessura verticale si aprì nel segmento superiore delle due gambe più vicine a me e dalla fessura di sinistra provenne la sillaba “sal” e da quella di destra, in tono lievemente più basso, la sillaba “ve”. Rimasi a bocca aperta; dopo un istante, lasciai ricadere la mano. L’alieno continuò a ballonzolare e a muovere avanti e indietro i peduncoli oculari. Riprovò: dalla gamba sinistra provenne “bon” e dalla destra “jour”. Era un’ipotesi ragionevole: la maggior parte dei cartelli del museo sono in due lingue, inglese e francese. Scossi leggermente la testa, incredulo, poi cominciai ad aprire bocca (e non ho idea di che cosa stessi per dire) ma la chiusi subito, non appena l’alieno parlò di nuovo. Le sillabe rimbalzarono dalla bocca sinistra e dalla bocca destra, come una pallina in una partita di ping-pong: “Auf “Wie” “der” “sehen”. E a un tratto ritrovai la voce: — In realtà, auf Wiedersehen significa “arrivederci”, non “salve”. — Oh — disse l’alieno. Alzò due arti in quella che poteva essere una scrollata di spalle, poi continuò col rimbalzo di sillabe da una bocca all’altra: — Il tedesco non è la mia lingua principale. Rimasi troppo sorpreso per sorridere, ma mi rilassai (un poco, almeno) anche se il cuore continuava a battermi all’impazzata. — Sei un alieno — dissi. Dieci anni di studi universitari, pensai, per avere la laurea in Banalità Comparate… — Esatto — confermarono le gambe-bocche. Le voci parevano maschili, ma solo quella della bocca di destra aveva un vero tono di basso. — Perché poi usare termini generici? Appartengo alla razza forhilnor e mi chiamo Hollus. — Uh, piacere di conoscerti. Gli occhi ondeggiarono avanti e indietro, in attesa. — Ah, scusa. Appartengo alla razza umana. — Lo so. Homo sapiens, come direbbero i vostri scienziati. Ma il tuo nome personale… — Jericho. Thomas Jericho. — È consentito abbreviare Thomas in Tom? Rimasi stupito. — Come mai sai tante cose sui nomi della razza umana? E, diavolo, come fai a conoscere l’inglese? — Studio il vostro mondo. Per questo sono qui. — Sei un esploratore? I peduncoli oculari si avvicinarono e rimasero ravvicinati. — Non esattamente — fu la risposta. — Cosa, allora? Non… non sarai un invasore, vero? I peduncoli oculari si incresparono in un movimento a S. Forse l’equivalente di una risata? — No — disse Hollus. Allargò le braccia. — Chiedo scusa, ma voi possedete ben poco che io o i miei associati possiamo desiderare. — Esitò, come se riflettesse. Poi mosse la mano in un gesto, come per indicare di girarmi. — Naturalmente, se vuoi, posso farti una sonda anale… Dalla piccola folla radunata nel vestibolo provenne un ansito. Tentai di inarcare le sopracciglia che non ho più. I peduncoli oculari si incresparono di nuovo. — Scusami… scherzavo. Voi umani avete davvero pazzesche mitologie sulle visite di extraterrestri. Onestamente, non farò del male a voi… né al vostro bestiame, se è per questo. — Grazie. Ah, hai detto di non essere un esploratore. — Infatti. — E nemmeno un invasore. — No. — Allora cosa sei? Un turista? — Tutt’altro. Sono uno scienziato. — E volevi parlare con me? — Non sei un paleontologo? Annuii. Poi mi resi conto che poteva non capire il significato del cenno e spiegai: — Sì. Paleontologo specializzato in dinosauri, per la precisione. I Teropodi sono il mio campo. — Allora, sì, voglio parlare con te. — Perché? — Non c’è un posto dove parlare in privato? — disse Hollus, con un movimento dei peduncoli oculari che includeva tutti coloro che si erano radunati intorno a noi. — Ah, sì, certo — risposi. Ero sbalordito, mentre lo guidavo nel museo. Un alieno, un autentico alieno. Sorprendente, davvero sorprendente! Oltrepassammo le scalinate gemelle, ciascuna delle quali girava intorno a un enorme totem, quello dei Nisga a destra, che arriva a ottanta piedi… scusate, venticinque metri… dal basamento al lucernario del terzo piano, e l’altro degli Haida, più basso, sulla sinistra. Entrammo nella Galleria Currelly, con le semplificate bacheche orientative, tutto fumo e niente arrosto. Era un fine settimana d’aprile, il museo non era affollato e per fortuna non incrociammo gruppi di studenti durante il tragitto fino al Centro amministrativo. Tuttavia i visitatori e le guardie della sicurezza si girarono a fissarci e alcuni emisero esclamazioni al nostro passaggio. Il Royal Ontario Museum fu aperto quasi novant’anni fa. E il più grande museo del Canada e uno dei pochi musei interdisciplinari del mondo. Come proclamano le incisioni su calcare poste ai lati dell’ingresso, il nostro compito è preservare “la testimonianza della Natura nel corso d’innumerevoli epoche” e “le arti dell’uomo nel corso degli anni”. Il rom ha gallerie dedicate alla paleontologia, all’ornitologia, alla mammalogia, all’erpetologia, all’arte tessile, all’egittologia, all’archeologia grecoromana, ai manufatti cinesi, all’arte bizantina e ad altro. L’edificio ha mantenuto a lungo l’originale pianta a H,ma nel 1982 i due spazi vuoti sono stati riempiti con sei piani di nuove gallerie a nord e con i nove piani del Centro amministrativo a sud. Sezioni di muro che un tempo davano sull’esterno adesso si trovano all’interno e l’ornata pietra in stile vittoriano dell’edificio originale ora è a ridosso della semplice pietra gialla delle aggiunte più recenti: poteva risultare un gran pasticcio, ma in realtà l’insieme è molto bello. Mi tremavano le mani per l’emozione, quando arrivammo agli ascensori e salimmo al dipartimento di paleobiologia; in origine il rom aveva dipartimenti di paleontologia divisi per invertebrati e vertebrati, ma i tagli alle spese praticati da Mike Harris ci hanno costretto a riunirli. I dinosauri portano al rom più visitatori di quanto non facciano i trilobiti, perciò Jonesy, il curatore anziano del dipartimento invertebrati, ora lavora alle mie dipendenze. Per fortuna, quando uscimmo dall’ascensore, nel corridoio non c’era nessuno. Condussi rapidamente Hollus nel mio ufficio, chiusi la porta e mi sedetti alla scrivania: anche se ormai m’era passato lo spavento, non mi sentivo molto fermo sulle gambe. Hollus vide sulla scrivania il cranio di Troodonte, Si avvicinò e lo prese con delicatezza per accostarlo ai peduncoli oculari, che smisero di ondeggiare e si concentrarono sull’oggetto. Mentre lui esaminava il cranio, diedi un’altra buona occhiata all’alieno. Il suo corpo misurava più o meno quanto il cerchio che avrei potuto fare con le braccia. Come ho già detto, era coperto da lunghe strisce di stoffa azzurra. Ma la pelle era visibile sulle sei gambe e sulle due braccia. Assomigliava a un rivestimento a bolle, ma le singole bolle erano di vario formato. Parevano piene d’aria e quindi potevano significare un sistema d’isolamento. Ciò implicava che Hollus fosse endotermico: sulla Terra i mammiferi e gli uccelli usano peli o piume per tenere aria a contatto della pelle, come isolante, ma possono rilasciarla per raffreddarsi, col sistema di drizzare il pelo o di arruffare le penne. Mi domandai come una pelle a bolle d’aria potesse essere usata per refrigerare; forse le bolle potevano sgonfiarsi. — Un / teschio / affascinante — disse Hollus, alternando ora intere parole da una bocca all’altra. — Quanti/anni/ha? — Circa settanta milioni — risposi. — Proprio / il / genere / di / cosa / che / sono / venuto / a / vedere. — Hai detto d’essere uno scienziato. Sei paleontologo come me? — Solo in parte — rispose l’alieno. — Il mio campo originario è la cosmologia, ma in anni recenti ho spostato gli studi su materie più ampie. — Esitò qualche istante. — Come ormai probabilmente hai capito, con i miei colleghi ho osservato per un certo periodo la vostra Terra… quanto basta per imparare dalla televisione e dalla radio le vostre lingue principali e per fare uno studio delle vostre diverse culture. Un procedimento frustrante. Della vostra musica popolare e delle vostre tecniche di preparazione del cibo so molto di più di quanto m’interessi… anche se sono incuriosito dal Popeil Automatic Pasta Maker. Ho anche guardato tanti di quegli eventi sportivi da bastare per una vita. Ho trovato però grandi difficoltà nel reperire informazioni scientifiche: dedicate poco spazio a discussioni approfondite in quel campo. Ho l’impressione di conoscere una sproporzionata quantità di cose su certi argomenti specifici e proprio niente su altri, — Esitò. — Ci sono dati che semplicemente non riusciamo ad acquisire da soli, né dalle vostre trasmissioni né con le nostre visite in segreto sul vostro pianeta. Soprattutto per argomenti rari, come i fossili. Cominciavo ad avere l’emicrania, per quella voce che rimbalzava da una bocca all’altra. — Perciò vuoi esaminare gli esemplari qui nel rom? — Esatto — disse l’alieno. — Per noi è stato facile studiare la flora e la fauna contemporanee, senza rivelare la nostra presenza; ma, come sai, i fossili ben conservati sono rari. Il modo migliore per soddisfare la nostra curiosità sull’evoluzione della vita su questo pianeta ci è sembrato quello dì chiedere il permesso di esaminare una collezione di fossili. Inutile reinventare la leva, per così dire. Ero ancora sbalordito, ma non vedevo motivo di non collaborare. — Certo, puoi esaminare quanto vuoi i nostri esemplari; abbiamo di continuo visite di studiosi. Ti interessa un periodo particolare? — Sì — rispose l’alieno. — Sono incuriosito dalle estinzioni di massa come svolta decisiva nell’evoluzione della vita. Cosa mi puoi dire in proposito? Mi strinsi nelle spalle: era un argomento vastissimo. — Siamo a conoscenza di cinque estinzioni di massa nella storia della Terra — risposi. — La prima avvenne alla fine del periodo ordoviciano, forse 440 milioni di anni fa. La seconda, nel tardo devoniano, circa 365 milioni di anni fa. La terza, di gran lunga la maggiore, al termine del permiano, 225 milioni di anni fa. Hollus mosse i peduncoli in modo tale che per un attimo i globi oculari si toccarono con un debole clic prodotto dal contatto del rivestimento cristallino. — Precisa / meglio / questa / terza / estinzione. — In quel periodo scomparve forse il 96% delle specie marine e si estinsero i tre quarti delle famiglie di vertebrati terresti. Abbiamo avuto un’altra estinzione di massa nel tardo triassico, circa 210 milioni di anni fa. In quel caso abbiamo perduto un quarto delle famiglie, compresi tutti i labirintodonti; forse fu un evento cruciale per i dinosauri, creature come quella di cui reggi il cranio, che stavano per avere il predominio. — Sì — disse Hollus. — Continua. — Be’, 65 milioni di anni fa si verificò la più nota estinzione di massa, al termine del cretaceo. — Indicai di nuovo il cranio di Troodonte. — Proprio allora scomparvero dinosauri, pterosauri, mosasauri, ammoniti e altre specie. — Questa creatura era piuttosto piccola — disse Hollus, sollevando il cranio. — Già. Dal muso alla punta della coda, non più di cinque piedi. Un metro e mezzo. — La sua famiglia ne comprendeva di più grossi? — Oh, sì. I più grossi animali terrestri mai vissuti, in realtà. Morirono tutti in quell’estinzione, agevolando il predominio della mia specie, la classe dei mammiferi. — In / cre / di / bi / le — dissero le bocche di Hollus. A volte l’alieno alternava intere parole, a volte solo sillabe. — Perché? — Come avete calcolato le date delle estinzioni? — disse Hollus, senza badare alla mia domanda. — Ipotizziamo che tutto l’uranio sulla Terra si sia formato nello stesso periodo in cui si formò il pianeta, quindi misuriamo il rapporto dell’uranio-238 a fronte del prodotto del decadimento, piombo-206, e dell’uranio235 a fronte del piombo-207. Questo ci dice che il nostro pianeta ha 4,5 miliardi di anni. Allora… — Bene — disse una bocca. — Bene — confermò l’altra. — Le date da voi calcolate dovrebbero essere precise. — Esitò. — Non mi hai ancora domandato da dove provengo. Mi sentii un idiota. Hollus aveva ragione: probabilmente quella era la prima domanda che avrei dovuto fare. — Scusami — dissi. — Da dove provieni? — Dal terzo pianeta di una stella che voi chiamate Beta Hydri. Avevo frequentato un paio di corsi di astronomia mentre prendevo la laurea di primo grado in geologia e avevo studiato latino e greco… utili strumenti per un paleontologo. Hydri è il genitivo di Hydrus, il piccolo serpente d’acqua, una debole costellazione nei pressi del polo sud celeste. E Beta ovviamente è la seconda lettera dell’alfabeto greco: quindi Beta Hydri è la seconda stella in ordine di luminosità di quella costellazione, vista dalla Terra. — E quanto dista da noi? — domandai. — Ventiquattro dei vostri anni luce — rispose Hollus. — Ma non siamo giunti direttamente qui. Ormai viaggiamo da tempo e abbiamo già visitato altri sette sistemi solari. In totale abbiamo percorso finora 103 anni luce. Annuii, ancora stupefatto; poi, accortomi d’avere ripetuto il cenno, spiegai: — Quando muovo su e giù la testa in questo modo, voglio significare: Sono d’accordo, sì, vai avanti. — Lo so — disse Hollus. Accostò i globi oculari, producendo un clic. — Questo mio gesto ha lo stesso significato. — Rimase per qualche attimo in silenzio. — Ho già visitato nove sistemi stellari, ma il vostro è soltanto il terzo pianeta sul quale esiste vita intelligente. Il primo, è ovvio, è il mio e l’altro è il secondo pianeta di Delta Pavonis, una stella a circa venti anni luce dalla Terra, ma a soli 9,3 dal mio pianeta. Delta Pavonis è la quarta stella in ordine di luminosità della costellazione Pavo, il Pavone. Mi pareva di ricordare che, come Hydrus, fosse visibile solo dall’emisfero meridionale. — Anche nella storia del mio pianeta si sono verificate cinque grandi estinzioni di massa — riprese Hollus. — Il nostro anno è più lungo del vostro; esprimendo le date in anni terrestri, avvennero all’incirca 440, 365, 225, 210 e 65 milioni di anni fa. Restai a bocca aperta. — Anche Delta Pavonis II ha subito cinque estinzioni di massa — continuò Hollus. — L’anno di quel pianeta è un po’ più breve del vostro, ma facendo la conversione, anche quelle si sono verificate all’incirca 440, 365, 225, 210 e 65 milioni di anni fa. Mi girava la testa. Trovavo già difficile parlare con un alieno; ma ascoltarne le assurdità era troppo. — Non può essere giusto — replicai. — Sappiamo che le estinzioni erano collegate a fenomeni locali. Quella al termine del permiano fu verosimilmente causata da una glaciazione da polo a polo; e quella al termine del cretaceo pare collegata all’impatto con un corpo celeste proveniente dalla cintura di asteroidi di questo stesso sistema solare. — Anche noi imputavamo a fenomeni locali le estinzioni avvenute sul nostro pianeta. E i Wreed, così chiamiamo la razza intelligente di Delta Pavonis II, avevano spiegazioni che parevano collegate unicamente a circostanze locali. È stata una sorpresa scoprire che le date delle estinzioni di massa sui due pianeti corrispondevano. La somiglianza di un paio di date poteva essere una coincidenza, ma pare impossibile che tutte le estinzioni siano avvenute negli stessi periodi. Può darsi però che le nostre precedenti spiegazioni delle cause fossero inesatte o incomplete. — Così siete venuti qui per determinare se la storia della Terra coincide con la vostra? — In parte — disse Hollus. — E pare che coincida. Scossi la testa.— Proprio non capisco come sia possibile. Hollus depose con delicatezza sulla scrivania il cranio di Troodonte. Era abituato a trattare con cura i reperti fossili, lo si capiva subito. — Inizialmente la nostra incredulità è stata pari alla tua — disse. — Sul mio mondo e su quello dei Wreed, però, non c’è solo concomitanza di date. Sono simili anche gli effetti sulla biosfera. La maggiore estinzione di massa su tutti e tre i pianeti è stata la terza, quella che qui segna la fine del permiano. Da ciò che mi hai detto, pare che sui tre pianeti in quel periodo sia stata eliminata quasi tutta la biodiversità. “Poi, l’evento che voi assegnate al tardo giurassico portò una sola classe di animali a dominare le nicchie ecologiche superiori. Qui furono le creature che chiamate dinosauri; sul mio pianeta, si trattò dei grandi pentapodi esotermici. “L’ultima estinzione di massa, quella che per voi avvenne alla fine del cretaceo, pare abbia portato alla scomparsa di quella specie e alla comparsa della classe ora dominante. Sulla Terra sono stati i mammiferi a soppiantare i dinosauri. Su Beta Hydri III, gli octopodi endotermici come me hanno assunto la centralità nei confronti dei pentapodi. Su Delta Pavonis II, forme vivipare hanno occupato nicchie ecologiche un tempo dominate da ovipari.” Tacque per qualche istante. — Almeno — concluse poi — così pare, basandosi su ciò che mi hai appena detto. Ma vorrei esaminare i vostri fossili per stabilire fino a che punto sia accurata la mia esposizione. Scossi la testa, meravigliato. — Non riesco a immaginare un motivo per cui la storia dell’evoluzione debba essere simile su vari pianeti. — Un motivo è evidente — disse Hollus. Si spostò di lato di qualche passo: forse era stanco di sostenere il proprio peso, anche se non riuscivo proprio a immaginare quale sorta di sedia potesse solitamente usare. — Così è stato perché così Dio ha voluto. Non so spiegarmelo, ma rimasi sorpreso nell’udire un alieno parlare in quel modo. Quasi tutti gli scienziati che conosco sono atei o non parlano di religione… e Hollus era uno scienziato. — Sì, è una spiegazione — mormorai. — La più assennata. Gli esseri umani non hanno un criterio di verifica secondo il quale la spiegazione più semplice è sempre quella preferibile? — Lo chiamiamo “Rasoio di Occam”. — La spiegazione che fu la volontà di Dio postula una sola causa per tutte le estinzioni di massa; ciò la rende preferibile. — Be’, sì, immagino, se… — Maledizione, mi sarei dovuto limitare a mostrarmi educato, annuire e sorridere, come faccio quando un fanatico religioso mi si avvicina, nella galleria Dinosauri, e mi domanda come c’entrano Noè e il diluvio universale; ma qualcosa dovevo pur dire! — Se si crede in Dio. Hollus spostò i peduncoli oculari a quella che pareva la massima distanza, come se mi guardasse dai due lati nello stesso tempo. — Sei il paleontologo più anziano di questo istituto? — domandò. — Sì, sono il direttore del dipartimento. — Non c’è nessun paleontologo con maggiore esperienza? Corrugai la fronte. — Be’, c’è Jonesy, il direttore anziano del reparto invertebrati. In età potrebbe rivaleggiare con alcuni suoi esemplari. — Forse dovrei parlare con lui. — Se vuoi. Cosa c’è che non va? — Dalla vostra televisione so che in questa parte del pianeta c’è molta ambivalenza nei riguardi di Dio, almeno fra il pubblico normale; sono sorpreso però nel sentire che uno della tua posizione non è personalmente convinto dell’esistenza del Creatore. — Allora Jonesy non è la persona che fa per te. È direttore del csicop. — Sky Cop? — Comitato per le Indagini Scientifiche sulle Rivendicazioni del Paranormale. Decisamente non crede in Dio. — Sono sbalordito — disse Hollus e distolse gli occhi da me, esaminando i poster alle pareti del mio ufficio, un Gurche, uno Czerkas e due Kish. — Tendiamo a considerare la religione una faccenda personale — dissi in tono gentile. — La natura stessa della fede implica la mancanza di fatti reali che diano la certezza. — Non parlo di questioni di fede — disse Hollus, tornando a guardare me. — Piuttosto, di veri e propri fatti scientifici. Che il nostro universo sia stato creato risulta evidente a chiunque abbia intelligenza e informazioni sufficienti. Non ero offeso, ma sorpreso di sicuro; in precedenza avevo udito commenti simili solo dai cosiddetti scienziati creazionisti. — Troverai parecchie persone religiose, qui al rom — dissi. — Per esempio, Raghubir, che hai già incontrato nel vestibolo. Neppure lui, però, direbbe che l’esistenza di Dio è un fatto scientifico. — Allora tocca a me educarti su questo argomento — disse Hollus. Sai che gioia, pensai. — Se lo ritieni necessario… — Lo ritengo necessario, se sarai tu ad aiutarmi nel mio lavoro. La mia non è opinione minoritaria; l’esistenza di Dio è parte fondamentale della scienza sia di Beta Hydri sia di Delta Pavonis. — Molti ritengono che simili problemi siano al di là della sfera della scienza. Hollus mi guardò di nuovo come se non avessi superato chissà quale prova. — Niente è al di là della sfera scientifica — dichiarò con fermezza. In realtà condividevo quella posizione, ma quasi subito ci trovammo su posizioni contrastanti. — La meta primaria della scienza moderna — continuò Hollus — è scoprire perché Dio si è comportato come si è comportato e determinare i suoi metodi. Noi non crediamo che si limiti a muovere la mano e a desiderare che le cose esistano. Viviamo in un universo con leggi fisiche e lui, per portare a termine i suoi scopi, ha usato senza dubbio procedimenti fisici quantificabili. Se in realtà ha guidato l’evoluzione su almeno tre pianeti, allora dobbiamo chiederci come abbia fatto. E perché. Cosa cerca di realizzare? Dobbiamo… In quel momento la porta del mio ufficio si spalancò e comparve la testa dai capelli candidi di un’immusonita Christine Dorati, direttrice e presidentessa del museo. — Che diavolo è quell’affare? — disse Christine, puntando su Hollus il dito magro come uno stecco. 2 Alla domanda di Christine Dorati rimasi di sasso. Era accaduto tutto troppo in fretta, non avevo avuto tempo di riflettere davvero sull’importanza dell’evento. Era entrato nel museo il primo autentico visitatore extraterrestre e io, invece di informare le autorità (o anche solo il mio capo, Christine) me ne stavo lì con quella creatura a indulgere in una di quelle chiacchierate fra soli uomini tipiche degli studenti universitari a tarda sera. Prima che potessi rispondere, Hollus si girò verso la dottoressa Dorati, facendo ruotare il corpo sferico mediante lo spostamento del peso da una all’altra delle sei gambe, in senso antiorario. — Salve — disse. — Mi / chiamo / Hol / lus. — Le due sillabe del nome si sovrapposero leggermente: una bocca iniziò prima che l’altra avesse terminato. Christine era adesso amministratrice a tempo pieno. Anni prima, quando faceva ancora ricerche sul campo, si occupava di tessili e quindi forse non si rese subito conto dell’origine non terrestre di Hollus. — È uno scherzo? — disse. — Niente / affatto — replicò Hollus, nella sua bizzarra voce stereofonica. — Sono / un… — Spostò i peduncoli oculari per un attimo nella mia direzione, quasi a far capire che ripeteva una mia citazione fatta poco prima. — Mi / consideri / uno/ studioso / in / visita. — In visita da dove? — domandò Christine. — Beta Hydri — rispose Hollus. — E dove sarebbe? — domandò Christine. Aveva una larga bocca da cavallo e doveva fare uno sforzo per richiudere le labbra sopra i denti. — È un’altra stella — intervenni. — Hollus, lei è Christine Dorati, direttrice del rom. — Un’altra stella? — ripeté Christine, anticipando la risposta di Hollus.—Andiamo, Tom! La sicurezza mi ha chiamato per dire che c’era chissà quale carnevalata e… — Non ha visto la mia astronave? — domandò Hollus. — Astronave? — ripetemmo insieme Christine e io. — Sono atterrato davanti all’edificio col tetto a cupola. Christine entrò nella stanza, passò davanti a Hollus e premette il pulsante interfonico del mio Nortel da tavolo. Poi compose sulla tastiera il numero di un interno. — Gunther? — disse. Gunther era l’agente della sicurezza all’ingresso del personale, posto a fianco del vicolo fra il museo e il planetario. — Parla Dorati. Mi faccia un favore: esca e mi dica che cosa vede davanti al planetario. — L’astronave? — disse Gunther dal viva voce. — L’ho già vista. Adesso è circondata dalla folla. Christine riattaccò senza neppure salutare. Guardò l’alieno. Non poteva non vedere che il tronco si espandeva e si contraeva nella respirazione. — Cosa…, ah, cosa vuole? — domandò. — Faccio delle ricerche paleontologiche — rispose Hollus. Notai con sorpresa che la parola paleontologiche (di che riempire la bocca anche a un essere umano) non fu suddivisa fra i due orifizi orali: ancora non avevo capito quali regole imponessero il passaggio da una bocca all’altra. — Devo riferire a qualcuno questa storia — disse Christine, quasi tra sé. — Notificarla alle autorità. — Qual è l’autorità appropriata in un caso come questo? — domandai. Christine parve sorpresa che avessi udito. — La polizia? L’rcmp? Il ministero degli Esteri? Non so. Peccato che abbiano chiuso il planetario: forse lì qualcuno avrebbe saputo a chi rivolgersi. Ah, potrei chiedere a Chen. — Donald Chen era l’astronomo del ROM. — Informi pure chi vuole — disse Hollus — ma per favore non dia troppo rilievo alla mia presenza. Interferirebbe col sito lavoro. — Al momento lei è il solo alieno sulla Terra? — domandò Christine. — O altri della sua specie visitano altre nazioni? — Attualmente sono l’unico sul pianeta — disse Hollus. — Vari altri però scenderanno giù fra breve. La nave madre, ora in orbita geosincrona, ha un equipaggio di 34 individui. — Geosincrona su quale punto? — domandò Christine. — Toronto? — Le orbite geosincrone devono passare sull’equatore — dissi. — Non possono passare su Toronto. Hollus girò verso di me i peduncoli oculari: forse ero cresciuto nella sua stima. — Esatto — confermò. — Questo posto era la nostra prima meta, perciò la nave è in orbita lungo la stessa linea di longitudine. La nazione direttamente sotto la nave mi pare si chiami Ecuador. — Trentaquattro alieni — disse Christine, come se cercasse di digerire l’idea. — Esatto — replicò Hollus. — Metà sono Forhilnor come me e metà sono Wreed. Mi sentii percorrere da un brivido: esaminare una forma di vita di un diverso ecosistema era già stupefacente, ma esaminare forme di vita di due diversi ecosistemi sarebbe stato sbalorditivo! In anni precedenti, quando stavo bene, avevo tenuto all’università di Toronto un corso sull’evoluzione, ma tutte le nostre conoscenze del funzionamento evolutivo si basano su un solo campione. Se avessimo potuto… — Non so proprio chi chiamare — ripeté Christine. — Diavolo, non so neppure chi mi crederebbe, se lo raccontassi! In quel momento squillò il mio telefono. Presi il ricevitore. Era Indira Salaam, l’assistente di Christine. Passai a quest’ultima il ricevitore. — Sì — disse Christine nel microfono. — No, resto qui. Puoi accompagnarli su? Bene. Ciao. — Mi restituì il ricevitore. — I più bravi di Toronto stanno salendo. — I più bravi di Toronto? — domandò Hollus. — La polizia — dissi, rimettendo a posto il ricevitore. Hollus rimase in silenzio. Christine mi guardò. — Qualcuno ha chiesto l’intervento per l’atterraggio dell’astronave e per il suo pilota alieno che è entrato nel museo. Quasi subito giunsero due agenti in uniforme, accompagnati da Indira. Si bloccarono sulla soglia, a bocca aperta. Un agente era magro come un chiodo, l’altro molto tarchiato: la versione gracile e la versione robusta dell’Homo praetorius, a fianco a fianco, lì nel mio ufficio. — Deve essere un falso — disse il magro all’altro. — Perché tutti continuano a pensare a un falso? — disse Hollus. — Voi umani a quanto pare avete una grande capacità di ignorare l’evidenza. — Puntò su di me i peduncoli oculari. — Chi di voi è il direttore del museo? — domandò il poliziotto tarchiato. — Io — rispose Christine. — Christine Dorati. — Bene, signora, secondo lei cosa dovremmo fare? Christine si strinse nelle spalle. — L’astronave intralcia il traffico? — No — rispose il poliziotto. — Si trova sullo spiazzo del planetario, però… — Sì? — Be’, si dovrebbe fare rapporto. — Concordo — disse Christina. — A chi? Il telefono sulla scrivania squillò di nuovo. Era l’assistente di Indira… non hanno i soldi per tenere aperto il planetario, ma l’assistente ha l’assistente. — Ciao, Perry — dissi. — Te la passo subito. — Sì? — disse Indira. — Capisco. Uhm, aspetta un attimo. — Si rivolse a Christine. — Ci sono quelli di city-tv. Vogliono vedere l’alieno. — La city-tv è una stazione locale nota per le “notizie in faccia”; il suo slogan è semplicemente “Dappertutto!” Christine si girò verso i due poliziotti per capire se avevano intenzione di obiettare. I due si scambiarono uno sguardo e una scrollata di spalle. — Quassù non possiamo far salire altra gente — disse Christine. — Nell’ufficio di Tom non ci stanno. — Si rivolse a Hollus. — Le dispiace scendere di nuovo nella Rotonda? Hollus ballonzolò, non credo per mostrare d’essere d’accordo. — Sono ansioso di continuare le mie ricerche — dichiarò. — Prima o poi deve parlare a qualcuno — notò Christine. — Tanto vale farlo subito. — Va bene — disse Hollus, in tono di grande riluttanza. Il poliziotto tarchiato parlò nel microfono agganciato alla spallina dell’uniforme, rivolgendosi presumibilmente a qualcuno della stazione di polizia. Intanto uscimmo tutti nel corridoio e ci avviammo all’ascensore. Scendemmo in due gruppi: Hollus, Christine e io nel primo, Indira e i due agenti nel secondo. Aspettammo gli altri a pianterreno, poi passammo nell’atrio a cupola del museo. city-tv chiama i suoi tecnici (tutti giovani, tutti alla moda) “videografi”. Uno di loro ci aspettava, infatti, al pari di una piccola folla di spettatori rimasti in previsione del ritorno dell’alieno. Il videografo, un canadese con i capelli legati a coda di cavallo, venne subito avanti. Christine, da politicante, cercò di entrare nel campo della telecamera, ma il tecnico voleva solo riprendere Hollus da tutte le angolature possibili. Notai che uno dei due poliziotti teneva la mano sulla fondina; immagino che il loro superiore avesse dato ordine di proteggere l’alieno a tutti i costi. Alla fine Hollus esaurì la pazienza. — Così / basta / e / avanza — disse al tecnico della city-tv. Che l’alieno parlasse inglese stupì la folla; molti erano giunti dopo che Hollus e io avevamo parlato nell’atrio. All’improvviso il videografo cominciò a subissare di domande l’alieno: — Da dove venite? Qual è la vostra missione? Quanto tempo avete impiegato ad arrivare qui? Hollus cercò di rispondere meglio che poteva (non nominò mai Dio) ma dopo qualche minuto due uomini in completo blu scuro, un bianco e un nero, entrarono nel mio campo visivo. Osservarono brevemente l’alieno, poi il bianco mosse un passo avanti e disse: — Mi scusi. — Aveva l’inflessione del Quebec. Evidentemente Hollus non udì. Continuò a rispondere alle domande del videografo. — Mi scusi — ripeté il bianco, a voce molto più alta. Hollus si spostò. — Sono spiacente — disse. — Voleva passare? — No — disse il bianco — volevo parlare con lei. Siamo del csis, il servizio di sicurezza canadese. Vorrei che venisse con noi. — Dove? — In un luogo più sicuro, dove potrà parlare alle persone giuste. — Esitò. — Esiste un protocollo per simili eventi, anche se ci sono voluti alcuni minuti per trovarlo. Il primo ministro è già andato all’aeroporto di Ottawa e stiamo per informare il presidente degli Stati Uniti. — No, mi spiace — disse Hollus. Girò i peduncoli oculari sull’atrio ottagonale e su tutti i presenti, prima di riportarli sui due agenti federali. — Sono venuto qui a fare ricerche paleontologiche. Sarò lieto di salutare il vostro primo ministro, naturalmente, se si farà vedere qui, ma ho rivelato la mia presenza per una sola ragione, ossia per parlare al qui presente dottor Jericho. — Mi indicò e il videografo si spostò per riprendermi. Mi sentii piuttosto montato, lo confesso. — Spiacente, signore — disse il franco-canadese del csis — ma dobbiamo proprio fare come le ho spiegato. — Lei non ascolta — disse Hollus. — Mi rifiuto di andare via. Sono qui per un’importante ricerca e voglio proseguirla. I due agenti del csis si guardarono. Alla fine il nero disse: — Senta, lei in teoria dovrebbe dire: “Portatemi dal vostro capo”. In teoria dovrebbe chiedere d’incontrare le autorità. — Perché? — domandò Hollus. I due agenti si guardarono di nuovo. — Perché? — ripeté il bianco. — Perché è questa, la procedura! L’alieno spostò su di lui i peduncoli oculari. — Sospetto di avere più esperienza di voi in questo campo. Il bianco estrasse una piccola pistola. — Devo proprio insistere — dichiarò. I due poliziotti vennero avanti. — Vediamo i documenti — disse quello tarchiato. Il nero del csis lo accontentò. Non ho idea di come sia fatto un tesserino d’identità del csis, ma il poliziotto parve soddisfatto e arretrò. — Ora, per favore — disse il nero — venga con noi. — Sono sicurissimo che non userà quell’arma — replicò Hollus — perciò faccio a modo mio. — Abbiamo ordini — disse il bianco. — Non ne dubito. E di sicuro i vostri superiori capiranno, se non siete stati in grado di eseguirli. — Indicò il videografo, che si agitava per cambiare cassetta. — La registrazione proverà che avete insistito, che io ho declinato l’invito e che la faccenda si è conclusa qui. — Non è il modo di trattare un ospite! — gridò una donna tra la folla. Parevano in molti a pensarla così: altri protestarono sullo stesso tono. — Vogliamo solo proteggere l’alieno — disse il bianco del csis. — Col cavolo — replicò un visitatore del museo. — Ho visto gli X-Files. Se uscite di qui con lui, nessuno lo vedrà più. — Lasciatelo in pace! — aggiunse un tipo anziano che parlava con inflessione europea. I due agenti guardarono il videografo e il nero indicò al bianco una telecamera della sicurezza del museo. Senza dubbio avrebbero voluto che non ci fossero registrazioni d i quella scena. — Con le maniere gentili — disse Hollus — non prevarrete. — Be’, però non avrà niente da obiettare alla presenza di un nostro osservatore — disse il nero. — Qualcuno che garantisca che non le accada niente di male. — Su questo non ho motivi di preoccupazione — disse Hollus. Intervenne Christine. — Sono presidente e direttore del museo — dichiarò ai due del csis. Poi si rivolse a Hollus. — Senza dubbio si rende conto che ci piacerebbe avere una registrazione, una cronistoria, della sua visita qui. Se non le dispiace, faremo in modo che lei e il dottor Jericho siate accompagnati da almeno un operatore televisivo. — Il tizio della city-tv venne avanti, ben lieto di offrirsi volontario. — Cero che mi dispiace! — disse Hollus. — Dottoressa Dorati, sul mio pianeta solo i criminali sono soggetti a osservazione costante; lei acconsentirebbe a che la tenessero d’occhio per tutto il giorno mentre lavora? — Be’, veramente… — Nemmeno io — disse Hollus. — Vi sono grato per l’ospitalità, ma… lei, lì. — Indicò il videografo. — Lei è il rappresentante di una stazione televisiva; mi consenta di fare una supplica. — Tacque per un secondo, mentre l’operatore regolava la telecamera. — Sono alla ricerca di accesso senza restrizioni a un’estesa raccolta di fossili — riprese, parlando a voce alta. — In cambio, condividerò informazioni raccolte dal mio popolo, quando lo riterrò opportuno ed equo. Se c’è un altro museo che mi offre ciò che cerco, sarò felice di presentarmi lì, anziché qui. Semplicemente… — No! — disse Christine, precipitandosi avanti. — No, non sarà necessario. Naturalmente collaboreremo in tutti i modi possibili. Hollus distolse dalla telecamera i peduncoli oculari. — Allora posso fare i miei studi a condizioni per me accettabili? — Sì — dichiarò Christine. — Sì, qualsiasi cosa desideri. — Il governo canadese pretenderà ancora… — iniziò il bianco del csis. — Posso facilmente andare negli Stati Uniti — disse Hollus. — O in Europa o in Cina o in… — Lasciategli fare ciò che vuole! — gridò un visitatore di mezz’età. — Non intendo minacciare — disse Hollus, guardando prima un agente federale, poi l’altro — ma non m’interessa affatto diventare una celebrità né farmi mettere alle strette da documentaristi o da agenti della sicurezza. — Onestamente, non abbiamo libertà nei nostri ordini — disse il bianco. — Lei deve semplicemente venire con noi. I peduncoli oculari si inarcarono all’indietro, tanto che i globi guardarono il mosaico nel soffitto a cupola della Rotonda, composto da più di un milione di tessere di vetro veneziano; forse era l’equivalente forhilnor del roteare gli occhi. Le parole “Che tutti gli uomini possano conoscere la Sua opera”, una citazione dal Libro di Giobbe, erano disposte in un quadrato all’apice della cupola. Dopo un momento i peduncoli si puntarono di nuovo in avanti e si fissarono uno sull’agente bianco, uno sull’agente nero. — Sentite — disse Hollus — ho passato più di un anno a studiare dall’orbita la vostra cultura. Non sono tanto sciocco da scendere sul pianeta in una forma che mi renderebbe vulnerabile. — Frugò in una piega della stoffa avvolta intorno al tronco (in un lampo anche l’altro agente del csis impugnò la pistola) ed estrasse un oggetto poliedrico delle dimensioni di una pallina da golf. Poi si mosse lateralmente nella mia direzione e mi diede l’oggetto. Lo presi: era più pesante di quanto non sembrasse. — Quel congegno è un proiettore d’ologramma — disse Hollus. — Ha appena registrato le biometrie del dottor Jericho e funzionerà solo in suo possesso; anzi, posso fare in modo che si autodistrugga in maniera molto spettacolare, se qualcun altro lo maneggia; perciò vi consiglio di non tentare di portarglielo via. Inoltre il proiettore funzionerà soltanto nei posti da me approvati, come l’interno di questo museo. — Tacque per qualche istante. — Sono qui in forma di ologramma — riprese. — In realtà mi trovo ancora nella navetta d’atterraggio, davanti all’edificio accanto a questo; sono sceso sul pianeta solo per sovrintendere alla consegna del proiettore ora in mano al dottor Jericho. Quel proiettore usa olografia e campi di forza micromanipolati per dare l’impressione che io sia qui e per consentirmi di maneggiare oggetti. — L’alieno, o la sua immagine, si immobilizzò per alcuni secondi, come se il vero Hollus fosse impegnato a fare altro. — Ecco fatto — disse poi. — La mia navetta ritorna in orbita, col vero me stesso a bordo. — Alcuni corsero fuori per dare un’occhiata alla navetta che si allontanava. — Non potete fare niente per costringermi e non potete procurarmi danni fisici. Non voglio essere scortese, ma il contatto fra la razza umana e il mio popolo avverrà alle nostre condizioni, non alle vostre. Il poliedro in mano mia emise un bip bitonale: la proiezione di Hollus tremolò per un secondo e svanì. — Lei dovrà consegnarci quell’aggeggio, ovviamente — disse il bianco del csis. Sentii l’adrenalina riversarsi nelle vene. — Mi spiace — dissi — ma avete visto che Hollus l’ha consegnato a me direttamente. Non credo che abbiate diritti su di esso. — Ma è un manufatto alieno — disse il nero del csis. — E allora? — replicai. — Be’, insomma, dovrebbe essere in mano alle autorità. — Lavoro anch’io per il governo — dichiarai in tono di sfida. — Volevo dire, in mani sicure. — Perché? — Ah, be’, perché sì. Non accetto “perché sì” come argomentazione nemmeno da mio figlio, che ha sei anni. — Non posso consegnarcelo — dichiarai. — Hollus ha detto che esploderebbe, l’avete sentito anche voi. Hollus è stato molto chiaro su come andrà la faccenda… e voi, signori, non vi avete parte. Perciò — guardai il bianco, quello che parlava con inflessione francese — vi dico adieu. 3 Tutto era iniziato otto mesi prima, con la tosse. Non ci avevo badato. Come un idiota avevo trascurato l’evidenza, ciò che avevo proprio sotto gli occhi. Sono uno scienziato. Avrei dovuto saperla più lunga. Invece mi ero detto che era solo colpa della polvere nel mio ambiente di lavoro. Usiamo trapani dentistici per rimuovere la roccia dai fossili. Naturalmente, quando facciamo quel lavoro portiamo la mascherina… la maggior parte del tempo (ci ricordiamo anche di usare gli occhiali protettivi… la maggior parte del tempo). Tuttavia, malgrado il sistema di ventilazione, nell’aria c’è un mucchio di sottile polvere di roccia; basta guardare il velo che lascia sulle pile di libri e di carte, sulle attrezzature non adoperate. Inoltre, me ne accorsi per la prima volta nel caldo soffocante dell’agosto scorso; uno strato d’inversione gravava su Toronto e la sanità metteva in guardia sull’inquinamento atmosferico. Pensai che la tosse mi sarebbe passata quando ce ne saremmo andati dalla città su al nord nel nostro cottage. E così parve. Ma quando tornammo a sud, la tosse tornò. Tuttavia non mi ero accorto di niente. Finché non vidi il sangue. Solo un filino. Quando mi soffiavo il naso, avevo visto tracce di sangue nel muco, più di frequente in inverno, per l’aria secca. Ma quella era l’estate calda e umida di Toronto. E non si trattava di muco, ma catarro, espettorato dal fondo dei polmoni, staccato con la punta della lingua dal palato e trasferito su un fazzoletto di carta per liberarmene. Catarro, con fili di sangue. Me ne accorsi, ma per un paio di settimane la cosa non si ripeté e così non ci pensai più. Finché non accadde di nuovo, verso la fine di settembre. Avessi fatto più attenzione, avrei notato che la tosse si faceva più insistente. Sono a capo del dipartimento di paleobiologia; avrei dovuto fare qualcosa, lamentarmi con gli addetti ai servizi per l’aria troppo secca, per l’alto contenuto di polvere minerale. La seconda volta, nel catarro c’era un bel po’ di sangue. E ancora di più il giorno dopo. E il seguente. Così alla fine consultai un medico e fissai un appuntamento con il dottor Noguchi. Il simulacro di Hollus se n’era andato all’incirca alle 4.00 del pomeriggio; solitamente lavoravo fino alle 5.00 e così andai a piedi (barcollai, sarebbe un termine migliore) in ufficio e mi misi a sedere, sbalordito, per un paio di minuti. Il telefono continuava a suonare, perciò lo spensi: pareva che ogni stazione televisiva del mondo volesse parlare con me, l’uomo che era stato da solo in compagnia dell’alieno. Diedi istruzione a Dana, l’assistente dipartimentale, di passare all’ufficio della dottoressa Dorati tutte le chiamate. Christine si sarebbe trovata nel suo elemento, a trattare con i media. Poi mi misi al computer e cominciai a scrivere: doveva esserci un documento, una cronaca, di tutto ciò che avevo visto e appreso. Scrissi furiosamente per circa un’ora e alla fine lasciai il museo, uscendo dall’ingresso del personale. All’esterno si era radunata parecchia gente, ma grazie al cielo si trovava davanti all’ingresso principale, mezzo isolato più in là. Guardai brevemente se c’erano segni dell’atterraggio della navetta spaziale: niente. Scesi in fretta i gradini di cemento ed entrai nella stazione della metropolitana, storcendo il naso nel vedere le piastrelle di un nauseante color giallo-bruno. Nell’ora di punta quasi tutti vanno a nord, verso la periferia. Come al solito, presi il treno diretto a sud, giù per University Avenue, intorno al raccordo della stazione Union e poi su per la linea Yonge fino alla North York Centre; non era la linea più diretta, ma mi garantiva un posto a sedere per tutto il percorso. Le mie condizioni erano evidenti, certo, perciò spesso qualcuno mi offriva il posto. Come al solito avevo nella valigetta alcune bozze di articoli che volevo rileggere, ma non riuscivo a concentrarmi. Un alieno era giunto a Toronto. Un alieno vero. Incredibile. Continuai a pensarci per tutta la corsa di 45 minuti. E mentre guardavo le centinaia di facce intorno a me… di tutti i colori, di tutte le razze, di tutte le età, quel mosaico che è Toronto… pensai all’impatto che gli eventi di quella giornata avrebbero avuto sulla storia dell’uomo. Mi domandai se ero io o Raghubir, la persona che sarebbe stata citata negli articoli delle enciclopedie; l’alieno era venuto a parlare con me (almeno, con qualcuno nella mia posizione) ma il primo a cui si era rivolto (avevo dato uno sguardo alle riprese della telecamera della sicurezza) era in realtà Raghubir Singh. La metropolitana scaricò molti passeggeri alla Union e molti altri alla stazione di Bloor. Quando entrò nella North York Centre, penultima fermata della linea, c’erano sedili per tutti, anche se, come sempre, alcuni passeggeri, sopportato in piedi quasi tutto il viaggio, disdegnavano i posti a sedere, come se quelli di noi che avevano trovato dove parcheggiare il fondoschiena fossero una razza più debole. Uscii dalla metropolitana. Qui le pareti erano piastrellate in bianco, più rilassante per lo stomaco. Al tempo della mia nascita. North York era una cittadina; più tardi, un sobborgo; poi una città a buon diritto; infine, per un altro decreto del governo Harris, era stata assorbita, con tutti gli altri sobborghi satellite, nella megacittà di Toronto. Percorsi a piedi i quattro isolati (due a ovest, due a nord) dalla North York Centre alla nostra abitazione in Ellerslie Street. I crochi già spuntavano e le giornate cominciavano ad allungarsi. Come al solito Susan, contabile in una ditta, era già tornata a casa; era passata a prendere Ricky dal doposcuola e aveva iniziato a preparare la cena. Da ragazza, Susan si chiamava Kowalski; i suoi genitori erano giunti a Toronto dalla Polonia, poco dopo la Seconda guerra mondiale. Susan aveva occhi marrone, capelli castano scuro, zigomi alti, naso piuttosto piccolo e un simpatico interstizio fra gli incisivi superiori. Negli anni Sessanta avevamo amato tutt’e due i Mamas and Papas, Simon Garfunkel e Peter, Paul and Mary; ora ascoltavamo la New Country, compresi Deana Carter, Martina McBride e Shania Twain; proprio l’ultimo brano di Shania proveniva dallo stereo, mentre mi avvicinavo alla porta. Più di tutto mi piaceva tornare a casa e trovare lo stereo che suonava a basso volume, sentire il profumo della cena sui fornelli, trovare Ricky che risaliva di corsa gli scalini del seminterrato, vedere Susan scendere dalla cucina a darmi un bacio… proprio ciò che avvenne. — Ciao, tesoro — mi disse. — Com’è andata oggi? Non sapeva niente. Non aveva sentito parlare dell’alieno. Il suo capoufficio non voleva che il personale ascoltasse la radio durante l’orario di lavoro e Susan in macchina ascoltava libri su nastro. Guardai l’ora: le sei meno dieci… nemmeno due ore dalla partenza di Hollus. — Benissimo — risposi, ma non riuscii a reprimere un sogghigno. — Perché sorridi? — domandò Susan. Allargai il sorriso. — Vedrai… — risposi. Proprio in quel momento arrivò Ricky. Gli arruffai i capelli. Biondi, quasi come erano stati i miei alla sua età; simpatica coincidenza, questa. I miei erano diventati castani verso i venti anni e grigi verso i cinquanta, ma fino a qualche mese fa li avevo ancora quasi tutti. Susan e io avevamo aspettato ad avere figli… troppo, risultò. Avevamo adottato Ricky quando il bambino aveva solo un mese e gli avevamo dato noi il nome: Richard Blaine Jericho. Chi non sapeva dell’adozione a volte diceva che Ricky ha gli occhi di Susan e il naso come il mio. Era un tipico bambino di sei anni, ginocchia sempre spellate, braccia e gambe magre come stecchi, capelli lunghi e radi. Ed era intelligente, grazie a Dio. Io non sono un atleta e Susan neanche: ci guadagniamo da vivere col cervello. Non so come sarei andato d’accordo con Ricky, se il bambino non fosse stato intelligente. Ricky era d’indole buona e faceva subito amicizia; ma nelle ultime settimane era stato picchiato da un attaccabrighe nel tragitto per la scuola e non sapeva spiegarsi il motivo di un tale comportamento. — La cena è quasi pronta — disse Susan. Andai di sopra in bagno a lavarmi. Sopra il lavandino c’era lo specchio, ovviamente; mi sforzai di non guardarmi. Avevo lasciato aperta la porta e Ricky entrò dopo di me. Lo aiutai a lavarsi le mani, controllando poi che fossero pulite, e scendemmo insieme in stanza da pranzo. Ho sempre avuto la tendenza a mettere su peso, ma per anni sono riuscito a controllarmi, seguendo una dieta corretta. Di recente però ho letto un opuscolo che dice: Se non potete mangiare troppo, è importante che mangiate cibi davvero nutrienti. Dovrebbero anche contenere il maggior numero possibile di calorie. Potete aumentare l’assunzione di calorie aggiungendo burro o margarina ai cibi; mescolando passati in scatola e latte o panna semigrassa; bevendo zabaione e frappé; aggiungendo alle verdure salse di fior di latte o formaggio fuso; e facendo spuntini di noci, semi, burro d’arachidi e cracker. Tutte cose che mi piacevano, ma che per anni avevo evitato. Ora in teoria avrei dovuto mangiarle… ma non le trovavo per niente appetitose. Susan aveva preparato cosce di pollo con Rice Krispies; e anche fagiolini e purè di patate, fatto con vera panna, e per me un piattino di Cheez Whiz fuso da versare sulle patate. E aveva fatto frappé alla cioccolata, necessità per me e leccornia per Ricky. Non era giusto che lei dovesse cucinare, Io sapevo. Di solito facevamo a turno, ma ormai non ce la facevo più, non sopportavo l’odore. Controllai di nuovo l’ora; mancava qualche minuto alle sei. In famiglia avevamo una regola: anche se la tv del soggiorno era ben visibile dalla stanza da pranzo, la tenevamo sempre spenta durante i pasti. Quella sera però feci un’eccezione: mi alzai da tavola, mi sintonizzai su CityPulse News at Six e lasciai che mia moglie e mio figlio guardassero a bocca aperta i video amatoriali e le riprese che il cameraman aveva dedicato a me e a Hollus. — Oddio — continuò a ripetere Susan, a occhi sgranati.— Oddio. — Grande! — disse Ricky, guardando le riprese fatte nella Rotonda. Sorrisi a mio figlio. Aveva ragione, naturalmente. Era davvero grande, il massimo possibile. 4 I vari leader della Terra c’erano rimasti male, ma pareva che gli alieni non fossero interessati a stabilire contatti con le Nazioni Unite, la Casa Bianca, il parlamento europeo, il Cremlino, il parlamento indiano, la Knesset, il Vaticano… ciascuno dei quali aveva subito provveduto a mandare l’invito. Tuttavia, all’inizio del giorno seguente, sulla Terra c’erano altri otto extraterrestri (o il loro avatar in ologramma): tutti Forhilnor. Uno frequentava un ospedale psichiatrico nel West Virginia: era affascinato dai comportamenti umani insoliti, soprattutto dalle forme gravi di schizofrenia. (A quanto pareva, l’alieno era comparso prima in un analogo istituto di Louisville, Kentucky, ma era rimasto insoddisfatto del livello di cooperazione che riceveva e così aveva fatto precisamente ciò che Hollus aveva minacciato di fare nel ROM: si era trasferito in un posto più compiacente.) Un altro alieno era nel Burundi, viveva con un gruppo di gorilla di montagna che parevano averlo accettato senza problemi. Un terzo si era unito a un avvocato difensore d’ufficio di San Francisco e assisteva a tutte le chiamate in giudizio. Un quarto era in Cina, in un remoto villaggio, e trascorreva il tempo in compagnia di un coltivatore di riso. Un quinto era in Egitto e partecipava a uno scavo archeologico nei pressi di Abu Simbel. Un sesto, nel nord del Pakistan, esaminava fiori e alberi. Un altro era stato visto qua e là lungo i vecchi campi della morte in Germania, in piazza Tienanmen e fra le macerie del Kosovo. E grazie al cielo un altro ancora si era stabilito a Bruxelles ed era a disposizione dei giornalisti di tutto il mondo. Parlava fluentemente inglese, francese, giapponese, cinese (sia mandarino sia cantonese), hindi, tedesco, spagnolo, olandese, italiano, ebraico e altre lingue (e imitava, a seconda dell’interlocutore, l’inglese della Gran Bretagna, della Scozia, di Brooklyn, del Texas, della Giamaica e di altre zone anglofone). Anche così, quelli che volevano parlare con me non finivano mai. Il mio numero di telefono non compariva sulla guida, da quando alcuni fanatici avevano iniziato a tormentare me e Susan, dopo un mio dibattito pubblico con Duane Gish dell’Istituto di Ricerca Creazionista. Tuttavia avevamo dovuto staccare il telefono: aveva iniziato a squillare non appena la notizia si era diffusa. Eppure, con sorpresa e piacere, quella notte ero riuscito a farmi una buona dormita. Il giorno seguente, quando uscii dalla metropolitana, verso le nove e un quarto, vidi una grande folla davanti al museo; mancavano quarantacinque minuti all’apertura al pubblico, ma quella gente non voleva vedere gli oggetti esposti. Portava cartelli con benvenuti sulla terra! e portateci con voi! e potere alieno! Un tizio mi scorse, lanciò un grido e mi indicò: tutti iniziarono a spostarsi dalla mia parte. Per fortuna il tragitto dalla scala della metropolitana all’ingresso del personale era breve e riuscii a entrare nel rom prima d’essere avvicinato. Salii in fretta in ufficio e sistemai al centro della scrivania il proiettore d’ologramma grande come una pallina da golf. Circa cinque minuti dopo, udii un doppio hip e Hollus (la sua proiezione, comunque) comparve davanti a me. Quel giorno aveva un indumento diverso, di stoffa color salmone, con esagoni neri, chiusa non da un disco gemmato, ma da una spilla d’argento. — Lieto di rivederti — dissi. Avevo temuto che, malgrado le sue parole del giorno precedente, non sarebbe più tornato. — Se / è / le / ci / to — sillabò — sa / rò / qui / a / que / st’o / ra / o / gni / gior / no. — Magnifico! — esclamai. — Determinare che le date delle cinque estinzioni di massa coincidono per tutti e tre pianeti abitati è soltanto l’inizio del mio lavoro, naturalmente. Riflettei su quella dichiarazione, poi annuii. Anche accettando l’ipotesi esposta da Hollus, mi dissi, quei disastri simultanei su vari pianeti dimostravano solo che Dio aveva avuto una serie di crisi isteriche. Il Forhilnor continuò: — Voglio studiare i minuti particolari degli sviluppi evolutivi correlati alle estinzioni di massa. Pare a un primo esame che ogni estinzione fosse progettata per spingere in precise direzioni le rimanenti forme di vita, ma vorrei trovare conferma a questa tesi. — Allora dovremmo iniziare a esaminare fossili del periodo a cavallo di ogni estinzione — dissi. — Per l’appunto — ammise Hollus, movendo ansiosamente i peduncoli oculari. — Vieni con me. — Se vuoi che ti segua, devi portare con te il proiettore. Annuii, non ancora a mio agio all’idea di quella telepresenza, e presi il piccolo congegno. — Funziona bene anche se lo tieni in tasca — disse Hollus. Misi in tasca il congegno e guidai Hollus nell’enorme sala di raccolta del dipartimento di paleobiologia» nel seminterrato del Centro Amministrativo; non fu necessario uscire in una delle aree aperte al pubblico. La sala di raccolta era piena di armadietti metallici e di scaffalature a giorno con fossili già trattati e innumerevoli contenitori di calchi in gesso, alcuni ancora chiusi mezzo secolo dopo il loro arrivo al museo. Iniziai con l’aprire un cassetto contenente crani di pesci privi di mascella del periodo ordoviciano. Hollus li esaminò, maneggiandoli con delicatezza. I campi di forza emessi dal proiettore d’ologramma parevano definire una solidità che uguagliava esattamente le sembianze fisiche dell’alieno. Ci urtammo un paio di volte, mentre ci facevamo strada negli stretti passaggi della sala di raccolta, e con le mani toccai varie volte quelle di Hollus, mentre gli passavo reperti fossili. Quando la proiezione veniva a contatto con la mia pelle, sentivo una sorta di solletico, l’unica indicazione che in realtà Hollus non era lì. Mentre lui esaminava i crani, mi venne da dire che avevano un aspetto piuttosto alieno. Hollus parve sorpreso dal mio commento. — Sono curioso — disse — dei vostri concetti di vita aliena. — Credevo che sapessi tutto sull’argomento — replicai con un sorriso. — Sonde anali eccetera. — Ormai seguiamo le vostre trasmissioni televisive da quasi un anno. Sospetto però che abbiate materiale molto più interessante di quello che ho visto. — Cosa hai visto? — Uno spettacolo riguardante un accademico e la sua famiglia, che sono di origine extraterrestre. Impiegai un momento a capire. — Ah, quello è 3rd Rock from the Sun. Una commedia. — Questione di opinioni — disse Hollus. — Ho anche visto il programma sui due agenti federali che danno la caccia agli alieni. — Gli X-Files. Sbatté i globi oculari, in segno di assenso. — Mi è sembrato frustrante. Continuano a parlare di alieni, ma in pratica non se ne vede uno. Più istruttiva era una produzione d’arte grafica sugli umani giovani. — Non ci arrivo. — Uno di loro si chiama Cartman — disse Hollus. Risi. — Ah, South Park! Sono sorpreso che, dopo avere visto quei cartoni animati, non abbiate fatto i bagagli e non ve ne siate andati! Posso però mostrarti alcuni esempi migliori. — Mi guardai intorno. In fondo alla sala di raccolta, uno studente del corso di specializzazione passava fra i banchi di microfossili del pliocene. — Abdus! — chiamai. Lo studente alzò gli occhi, sorpreso, e si avvicinò. — Sì, Tom? — disse; ma fissava Hollus, non me. — Abdus, puoi fare un salto al Blockbuster a prendermi alcuni video? — Gli studenti erano utili in tanti modi. — Porta la ricevuta e Dana ti rimborserà. Gli dissi che cosa volevo e lui si allontanò rapidamente. Restai con Hollus a guardare gli esemplari dell’ordoviciano fino a mezzogiorno, poi tornammo in ufficio. Probabilmente, mi dissi, in qualsiasi punto dell’universo l’intelligenza richiedeva un alto metabolismo. Tuttavia pensavo che il Forhilnor potesse irritarsi perché dovevo fare l’intervallo del pranzo (e irritarsi ancora di più perché, interrotto il lavoro, non avrei mangiato quasi niente). Invece pranzò pure lui… ovviamente, a bordo della nave madre in orbita sopra l’Ecuador. Una scena bizzarra: il suo simulacro, che pareva replicare qualsiasi movimento del corpo reale, eseguì i movimenti per trasferire cibo nell’apposita fessura: una scanalatura orizzontale in cima al tronco, lasciata libera dalla stoffa che lo fasciava. Il cibo stesso però era invisibile e avevo l’impressione che Hollus fosse un Marcel Marceau extraterrestre impegnato a mimare il procedimento di nutrirsi. D’altro lato io avevo bisogno di cibo vero. Susan mi aveva preparato un frappé di fragole e banane e due cosce di pollo avanzate dalla cena del giorno prima. Trangugiai il denso liquido e mangiai mezza coscia. Rimpiansi di non avere un cibo diverso: mi pareva un po’ troppo primitivo, davanti a un alieno, usare i denti per strappare dall’osso la carne, anche se, per quel che ne sapevo, Hollus in quel momento poteva anche ingurgitare dei criceti vivi. Mentre facevamo colazione, Hollus e io guardammo i video portati da Abdus, sul vcr-tv che avevo chiesto al dipartimento didattico. Il primo era “Arena”, un episodio della serie Star Trek originale; bloccai subito l’immagine su una inquadratura di Spock. — Vedi quello? — dissi. — È un alieno… un vulcaniano. — Pare un essere umano — disse Hollus. Poteva mangiare e parlare nello stesso tempo. — Nota le orecchie. Hollus smise di ondeggiare avanti e indietro i peduncoli. — E quelle lo rendono un alieno? — Be’, ovviamente è un attore che recita la parte… un certo Leonard Nimoy. E, sì, le orecchie in teoria suggeriscono la natura aliena del personaggio; quella serie fu fatta senza spendere molto. A dire il vero, Spock è solo per metà vulcaniano; l’altra metà è umana. — Com’è possibile? — Sua madre era umana; suo padre, vulcaniano. — Non ha senso, dal punto di vista biologico — replicò Hollus. — Sembrerebbe più probabile l’incrocio tra una fragola e un essere umano. Almeno si sono evoluti sullo stesso pianeta. Sorrisi. — Lo so, credimi. Aspetta, però: in questo episodio c’è un altro alieno. — Azionai per un poco l’avanzamento veloce, poi premetti di nuovo il pulsante. — Quello è un gorn — dissi, indicando il rettile verde, privo di coda, con occhi compositi e una veste color oro. — È il capitano di un’altra astronave. Bello, eh? Mi è sempre piaciuto… mi ricordava un dinosauro. — Davvero — disse Hollus. — Ciò significa, ancora una volta, che ha un aspetto troppo terrestre. — Be’, è un attore in un involucro di gomma. Hollus mi guardò di nuovo come se fossi monsieur de La Palice. Guardammo per un poco il gorn barcollare sullo schermo, poi tolsi la cassetta e inserii Viaggio a Babel. Non usai l’avanzamento veloce, però; lasciai che il nastro si svolgesse. — Vedi? — dissi. — Quelli sono i genitori di Spock. Sarek è un vero vulcaniano e Amanda, la donna, è una vera donna umana. — Sorprendente — disse Hollus. — E gli esseri umani credono che simili incroci siano possibili? Scrollai le spalle. — Be’, è fantascienza. Divertimento. — Andai avanti rapidamente, fino al ricevimento diplomatico. Un robusto alieno dal muso animalesco si avvicinò a Sarek. “No, tu!” disse. “Tu come voti, Sarek di Vulcan?” — Quello è un tellarita — dissi. Poi ricordando, soggiunsi: — Si chiama Gav. — Assomiglia ai vostri maiali — notò Hollus. — Anche stavolta, è troppo terrestre. Andai velocemente avanti ancora un poco. — Questo è un andoriano — dissi. Lo schermo mostrava un umanoide maschio dalla pelle azzurra e dai capelli bianchi, con due grosse antenne segmentate, sporgenti dalla testa. — Come si chiama? — domandò Hollus, Si chiamava Shras, ma chissà perché mi imbarazzò il fatto di saperlo. — Non ricordo — risposi. Misi un’altra cassetta, l’edizione speciale di Guerre stellari. Andai rapidamente alla sequenza nella cantina. A Hollus piacquero Greedo, il tirapiedi insettiforme di Jabba che affronta Han Solo, e Hammerhead e alcuni altri; ma il Forhilnor rimase dell’idea che gli esseri umani avessero perso l’occasione d’inventare ritratti realistici di vita extraterrestre. Non gli diedi torto. — Tuttavia — disse Hollus — i vostri registi hanno fatto una cosa giusta. — Ossia? — Il ricevimento diplomatico; la scena nel bar. Tutti gli alieni mostrano lo stesso livello tecnologico. Corrugai la fronte. — Ho sempre pensato che fosse uno degli aspetti meno credibili — obiettai. — Voglio dire, l’universo ha qualcosa come dodici miliardi di anni… — Per l’esattezza, 13,93422 miliardi — disse Hollus — misurati ovviamente in anni terrestri. — Ah, bene. L’universo ha 13,9 miliardi di anni e la Terra solo quattro miliardi e mezzo. Ci saranno di sicuro pianeti molto più vecchi del nostro e altri molto più giovani. Mi aspetterei che alcune razze siano milioni se non miliardi di anni più progredite di noi e che altre siano almeno un po’ più primitive. — Una razza meno avanzata di voi anche solo di pochi decenni non avrebbe la radio né il volo spaziale e quindi sarebbe impossibile da individuare. — Vero. Tuttavia m’aspetto sempre un mucchio di razze molto più evolute della nostra… come, be’, come la vostra, per esempio. Gli occhi di Hollus si guardarono l’un l’altro… un’espressione di sorpresa? — Noi Forhilnor non siamo molto più avanti della vostra razza — disse l’alieno. — Forse un secolo al massimo; di sicuro non più di un secolo. Mi aspetto che nel giro di qualche decennio i vostri fisici facciano la scoperta che vi consentirà di usare la fusione per accelerare senza grosse spese le astronavi fin quasi alla velocità della luce. — Davvero? Magnifico! Ma… ma quanto è vecchia, Beta Hydri? Sarebbe una grossa coincidenza, se avesse la stessa età del sole della Terra. — Circa 2,6 miliardi di anni terrestri. — Poco più della metà di Sol. — Sol? — Chiamiamo così il nostro sole quando vogliamo distinguerlo da altre stelle — spiegai. — Ma se Beta Hydri è così giovane, sono sorpreso che sul vostro mondo esistano già i vertebrati, per non parlare della vita intelligente. Hollus rifletté. — Quando si è sviluppata per la prima volta la vita sulla Terra? — Di sicuro c’era vita 3,8 miliardi di anni fa… abbiamo fossili di quel periodo. E potrebbe esistere da 4 miliardi di anni. L’alieno parve incredulo. — I primi animali con colonna vertebrale comparvero solo mezzo miliardo di anni fa, giusto? Sono occorsi quindi circa 3,5 miliardi di anni per passare dall’origine della vita ai primi vertebrati? — Ballonzolò. — Sul mio mondo la vita ebbe origine quando il pianeta aveva 350 milioni di anni e i vertebrati comparvero solo 1,8 miliardi di anni più tardi. — Chissà perché sulla Terra è stato necessario tutto quel tempo. — Come ho detto, lo sviluppo della vita sui nostri due pianeti fu organizzato da Dio. Forse affinché emergessero in concomitanza varie forme di vita intelligente. — Ah — dissi, dubbioso. — Se anche non fosse così, c’è un’altra ragione perché tutte le razze in grado di viaggiare nello spazio abbiano raggiunto livelli di progresso paragonabili. Un ricordo mi stuzzicò la mente, una teoria che avevo visto spiegare in tv da Carl Sagan: l’equazione di Drake. Era composta di parecchi termini, compreso il rapporto di formazione delle stelle, la percentuale di stelle che potrebbero avere pianeti eccetera. Moltiplicando insieme tutti i termini, in teoria si poteva stimare il numero di civiltà attualmente esistenti nella Via Lattea. Non ricordo tutti i termini, ma ricordo quello finale… perché mi gelò, quando Sagan lo discusse. L’ultimo termine era la durata di una civiltà tecnologica: il numero di anni fra lo sviluppo della radio e l’estinzione della razza. L’uomo aveva iniziato a trasmettere in grande negli anni Venti; se la Guerra Fredda fosse diventata calda, la nostra durata come razza tecnologica sarebbe stata di trent’anni appena. — Ti riferisci alla durata di una civiltà? — dissi — Al periodo che trascorre prima che si distrugga da sola? — Questa è una possibilità, immagino — rispose Hollus. — Certo, la mia razza ha faticato a imparare come usare saggiamente l’energia nucleare. Ritengo che molti esseri umani soffrano di problemi mentali. Rimasi sorpreso dall’apparente cambiamento d’argomento. — Uhm, sì. Immagino che sia vero. — Come molti Forhilnor — disse Hollus. — È un altro motivo di preoccupazione: con l’avanzare della tecnologia, la capacità di distruggere l’intera razza si diffonde. Alla fine è nelle mani non solo dei governi, ma anche degli individui… alcuni dei quali sono squilibrati. Un pensiero sconcertante. Un nuovo termine nell’equazione di Drake: il numero di individui che sono fuori di testa. Il simulacro di Hollus si spostò più vicino. — Questa però non è la questione più importante — proseguì. — Ti ho detto che la mia razza ha preso contatto con un’altra razza tecnologica, i Wreed, prima di incontrare la vostra; in effetti li abbiamo incontrati circa sessant’anni fa, recandoci su Delta Pavonis e scoprendoli. Annuii. — Ti ho anche detto che la mia astronave, la Merelcas, ha visitato altri sei sistemi solari, oltre a quello dei Wreed, prima di giungere qui. Ma non ti ho detto che ognuno di quei sistemi ha ospitato, per un certo periodo, una razza intelligente: le stelle che chiamate Ipsilon Indi, Tau Ceti, Mu Cassiopeae A, Età Cassiopeae A, Sigma Draconis e Groombridge 1618 hanno avuto tutte, un tempo, vita intelligente autoctona. — Hanno avuto? —Esatto. — Cosa avete trovato? Macerie atomiche? — Mi vennero in mente bizzarre architetture aliene, contorte e fuse da esplosioni nucleari. —No. — E allora? Hollus allargò le braccia e ballonzolò. — Città abbandonate, alcune immensamente antiche… alcune così antiche da essere sepolte in profondità. — Abbandonate? — ripetei. — Vuoi dire che gli abitanti si erano trasferiti altrove? I globi oculari di Hollus si toccarono in segno affermativo. — Dove? — La domanda ancora ci tormenta. — Non sapete altro, su quelle razze? — Un mucchio. Si sono lasciati alle spalle molti manufatti e documenti; in alcuni casi, corpi sotterrati o fossilizzati. — E… — E al momento della loro fine erano tutte avanzate a livello praticamente uguale; nessuna aveva costruito macchinari a noi incomprensibili. Certo, la varietà di struttura era affascinante, anche se tutte le razze erano… qual è la frase che usano gli esseri umani?… “la vita come la conosciamo”. Tutte forme di vita con dna a base carbonio. — Sul serio? Anche voi e i Wreed siete basati sul dna? — Sì. — Affascinante. — Forse no — disse Hollus. — Crediamo che il dna sia l’unica molecola in grado di stimolare la vita; nessun’altra sostanza ha la stesse proprietà di autoreplicazione, di immagazzinamento dati e di compressibilità. Il dna può comprimersi in spazi piccolissimi e questa proprietà rende possibile la sua esistenza nei nuclei di cellule microscopiche, anche se, una volta estesa, ogni molecola di dna è più lunga di un metro. — Nel corso sull’evoluzione che tenevo un tempo avevamo discusso se qualcosa di diverso dal dna potesse ottenere gli stessi risultati; non abbiamo trovato un’alternativa nemmeno remotamente adatta. Il dna alieno usa le stesse quattro basi, adenina, timina, guanina e citosina? — Sono queste quattro? — domandò Hollus. Il proiettore generò quattro formule chimiche di un verde brillante, sospese a mezz’aria fra noi: C H N C H N O C H N O C H N O Le esaminai: non toccavo biochimica da qualche anno. — Uhm, sì. Sì, sono queste. — Allora, sì — disse Hollus. — Il dna usa queste quattro basi, in tutti i posti dove l’abbiamo trovato. — Ma in laboratorio abbiamo dimostrato che è possibile usare altre basi; abbiamo perfino realizzato un dna artificiale che usa sei basi anziché quattro. — Per riuscirci è occorso senza dubbio un intervento fuori del comune — disse Hollus. — Non lo so. Immagino di sì, comunque. — Riflettei sulla faccenda. — Sei altri pianeti — dissi, cercando di raffigurarmeli a mente. Pianeti alieni. Pianeti morti. — Sei altri pianeti — ripetei. — Tutti abbandonati. — Esatto. Cercai la parola giusta. — È… spaventoso. Hollus non obiettò. — In orbita intorno a Sigma Draconis II abbiamo trovato quella che pareva una flotta di astronavi. — Pensate che degli invasori abbiano spazzato la vita indigena? — No. Le astronavi erano state costruite senza dubbio dalla stessa razza che aveva edificato sul pianeta le città abbandonate. — Costruirono astronavi? — Sì. — E lasciarono il pianeta? — Così pare. — Senza usare le astronavi, che furono abbandonate lì? — Esattamente. — Pare… misterioso. — Lo è di sicuro. — E i fossili? Su quei pianeti sono avvenute estinzioni di massa coincidenti con le nostre? Hollus mosse i peduncoli oculari. — Difficile dirlo — rispose. — Se fosse possibile studiare i fossili senza dover fare prima decenni o secoli di ricerche, non avremmo rivelato la nostra presenza. Per quanto ne sappiamo, però, nessuno dei pianeti abbandonati ha avuto estinzioni di massa in epoche coincidenti con 440, 365, 225, 210 e 65 milioni di anni fa. — Alcune di quelle civiltà erano contemporanee. Hollus aveva buona conoscenza dell’inglese, ma di tanto in tanto trovava un impaccio. — Prego? — Alcune di quelle razze sono vissute nello stesso periodo delle altre? — No. La più vecchia si è estinta tre miliardi di anni fa, pare; la più recente, quella del terzo pianeta di Groombridge 1618, circa cinquemila anni fa, però… — Sì? — Però, come ho detto, tutte le razze parevano ugualmente progredite. Gli stili architettonici variavano ampiamente, è ovvio. Per farti un esempio, i nostri ingegneri hanno smantellato una delle navi in orbita intorno a Sigma Draconis II: varie soluzioni erano diverse dalle nostre, ma non molto migliori… forse arretrate di qualche decennio rispetto alle nostre. La stessa cosa vale per tutte le razze che abbandonarono il proprio pianeta: erano appena un po’ più progredite dei Wreed o dei Forhilnor… o dell’Homo sapiens, se è per questo. — E pensate che accada a tutte le razze? Che ciascuna raggiunga un punto in cui si limita ad abbandonare il pianeta d’origine? — Esatto — disse Hollus. — Altrimenti qualcosa… forse Dio stesso… viene a portarsele via. 5 Il dipartimento dei soci del ROM pubblicizzava la presenza di Hollus (“Sostenete il museo che richiama visitatori da tutto il pianeta… e oltre!”) e nella prima settimana dall’arrivo del Forhilnor il numero di visitatori crebbe notevolmente. Quando però fu chiaro che era improbabile che la sua navetta atterrasse di nuovo e che non ci sarebbe stato nessun alieno a percorrere il marciapiede, salire i gradini e girare nell’atrio, la folla si ridusse a livelli normali. Non rividi gli agenti del csis. Il primo ministro Chretien venne davvero al rom per incontrare Hollus: Christine Dorati, ovviamente, trasformò la visita in una vera e propria operazione fotografica. E parecchi giornalisti chiesero a Chrétien, per l’esattezza, di dare assicurazione che all’alieno sarebbe stato concesso di continuare il suo lavoro senza intralci… ossia ciò che, secondo il sondaggio di “Maclean”, il popolo canadese voleva. Il ministro diede la sua assicurazione, ma sospetto che gli operativi del csis fossero sempre lì in giro, in agguato giusto dietro l’angolo. Nel suo quarto giorno a Toronto, Hollus tornò con me nella sala di raccolta. Avevo aperto un cassetto metallico e gli mostravo una lastra di argillite con un euripteride magnificamente conservato. Spostammo l’esemplare su un banco di lavoro e Hollus adoperò il peduncolo oculare destro per guardare da una delle quattro grandi lenti d’ingrandimento su braccio metallico snodabile, circondate da un tubo al neon. Riflettei brevemente sull’aspetto fisico di quella situazione: un occhio simulato guardava l’immagine ingrandita e i dati erano in qualche modo trasferiti al vero Hollus in orbita sopra l’Ecuador. Lo so, lo so, probabilmente avrei dovuto lasciarlo in pace. Però, maledizione, quell’idea mi aveva tenuto sveglio la notte fin dalla prima volta in cui Hollus vi aveva accennato. — Come fate a sapere — gli domandai infine — che l’universo ha un creatore? Hollus curvò i peduncoli oculari per fissarmi. — L’universo è chiaramente progettato; se c’è un progetto, deve esserci per forza un progettista. Mossi i muscoli della fronte nel modo in cui solevo inarcare le sopracciglia. — A me pare casuale — replicai. — Voglio dire, se le stelle fossero disposte secondo schemi geometrici, sarebbe diverso. — C’è grande bellezza, nella casualità — disse Hollus. — Ma parlavo di un progetto più basilare. I parametri fondamentali dell’universo sono stati regolati con infinitesima precisione per favorire la vita. Immaginavo dove sarebbe andato a parare, ma replicai comunque: — In che modo? — Forse lui sapeva qualcosa che ignoravo, pensai… ed era proprio così. — La vostra scienza contempla quattro forze fondamentali; in realtà, sono cinque, ma non avete ancora scoperto la quinta. Le quattro forze a voi note sono la gravità, l’elettromagnetismo, il legame nucleare debole e il legame nucleare forte; la quinta è una forza di repulsione che opera su distanze estremamente grandi. I valori di queste forze variano enormemente, ma se fossero solo un poco diversi da quelli attuati, l’universo come lo conosciamo non esisterebbe e la vita non si sarebbe mai potuta formare. Prendiamo la forza di gravità: se fosse un po’ più grande, l’universo sarebbe collassato da tempo. Se fosse un po’ più debole, stelle e pianeti non si sarebbero mai agglomerati. — Un po’… — ripetei. — In questi due casi, sì. Vuoi un esempio migliore? Le stelle, è chiaro, devono mantenere un equilibrio tra la forza gravitazionale della propria massa, che cerca di farle collassare, e la forza elettromagnetica della propria emissione di luce e di calore. C’è solo uno stretto intervallo di valori nel quale queste forze si trovano in equilibrio sufficiente a permettere l’esistenza di una stella, A un’estremità ci sono le giganti azzurre e all’altra le nane rosse… né le une né le altre possono portare alla vita. Per fortuna quasi tutte le stelle rientrano nell’intervallo fra questi due tipi… e in particolare per una apparente coincidenza numerica nei valori delle costanti fondamentali nella natura. Se per esempio il valore della forza di gravità fosse diverso di una parte su… un attimo, faccio la conversione nel vostro sistema decimale… di una parte su 10 , la coincidenza numerica salterebbe e ogni stella dell’universo sarebbe o una gigante azzurra o una nana rossa; non esisterebbero soli gialli che brillino su pianeti simili alla Terra. — Sul serio? Solo una parte su dieci alla quarantesima? — Sì. Allo stesso modo, se il valore del legame nucleare forte, che tiene insieme i nuclei atomici anche se i protoni per la loro carica positiva cercano di respingersi a vicenda, fosse lievemente inferiore a quello corrente, gli atomi non si formerebbero mai, ostacolati dalla repulsione dei protoni. E se fosse lievemente superiore, esisterebbe solo l’atomo di idrogeno. In entrambi i casi avremmo un universo privo di stelle e di pianeti e di vita. — Quindi, secondo te, qualcuno ha stabilito quei valori? — Esatto. — Come fai a dire che quei valori non sono gli unici che le costanti possono assumere? — obiettai. — Forse sono quelli perché non potrebbero essere altri. L’alieno ballonzolò. — Interessante congettura — disse. — I nostri fisici infatti hanno dimostrato che in teoria altri valori sono possibili. E la probabilità che gli attuali valori siano sorti per caso è di uno su 6 seguito da tanti di quegli zeri che nemmeno incidendone uno su ogni neutrone e protone dell’intero universo si riuscirebbe a scriverli tutti. Avevo già udito variazioni su quel tema. Era tempo di calare il mio asso. — Forse tutti i possibili valori di quelle costanti esistono realmente — dissi — ma in universi differenti. Forse esiste un numero illimitato di universi paralleli, tutti privi di vita perché i loro parametri fisici non la permettono. In questo caso, non c’è niente di speciale nel fatto che ci troviamo in questo universo, poiché sarebbe l’unico di tutti gli universi possibili dove potremmo esistere. — Ah — disse Hollus. — Capisco… Incrociai le braccia, compiaciuto. — Capisco — proseguì l’alieno — l’origine del vostro equivoco. In passato, gli scienziati del mio mondo erano in maggioranza atei o agnostici. Sappiamo da tempo che forze apparentemente regolate con infinitesimale precisione governano il nostro universo; mi sono fatto l’idea che anche tu stesso ne sapessi già qualcosa. E la tua argomentazione… che forse esiste un numero infinito di universi con valori alternativi delle costanti fondamentali… era ciò che ha permesso a generazioni di scienziati forhilnor di accantonare l’idea di un creatore. Come dici tu, se esistono tutti i valori possibili, non c’è niente di speciale nell’esistenza di un universo governato da una particolare serie di valori che per caso rende possibile la vita. “Si dà il caso, però, che non esistono universi contemporanei a questo. Non possono esserci. I nostri fisici sono giunti a quello che i vostri presumibilmente ancora cercano: una teoria unificata generale, una teoria che abbraccia tutto. Nelle vostre trasmissioni televisive non sono riuscito a trovare molto sulla cosmologia, ma se tu sei convinto di ciò che hai appena detto, sospetto che i vostri cosmologi sono attualmente allo stadio in cui considerano il Big Bang il più probabile modello di origine dell’universo. È esatto?” — Sì — risposi. Hollus ballonzolò. — I fisici forhilnor condividevano la stessa convinzione, finché non fu scoperta la quinta forza fondamentale… scoperta collegata al successo nella produzione d’energia che permette alle nostre astronavi di sfiorare la velocità della luce, malgrado l’enorme aumento di massa previsto dalla teoria relativistica. Trasferì il peso del corpo da uno dei sei piedi all’altro e continuò: — Il modello Big Bang richiede un universo piatto, che non sia né aperto né chiuso, che duri essenzialmente un tempo infinito; tuttavia consente l’esistenza di universi paralleli. Per conciliare però la quinta forza era necessaria una modifica di quella teoria, in modo da mantenere la simmetria; da quella modifica derivò la coerente teoria unificata, una teoria quantica che abbraccia tutte le forze, gravità compresa. Questa teoria unificata ha tre clausole importanti. “Primo, l’universo non è piatto, ma anzi è chiuso: è iniziato davvero con un Big Bang e si espanderà per altri miliardi di anni… ma alla fine decadrà di nuovo a singolarità, in un grande collasso, un Big Crunch. “Secondo, l’attuale ciclo di creazione è stato preceduto da non più di otto oscillazioni Big Bang/Big Crunch: non siamo un universo di una serie d’universi infinitamente lunga, siamo uno dei pochi che siano mai esistiti.” — Sul serio? — dissi. Ero abituato a una cosmologia riguardante infiniti o valori pari esattamente a uno. Otto mi pareva un numero bizzarro e lo dissi. Hollus fletté le gambe all’articolazione superiore. — Mi hai presentato quel Chen, il vostro astronomo. Parla con lui; ti dirà che perfino il vostro modello di Big Bang inflazionistico, con il requisito di un universo piatto, consente un assai limitato numero di precedenti oscillazioni, ammesso che una di esse sia avvenuta. E riterrà del tutto ragionevole apprendere che l’attuale iterazione di realtà rientra in un minuscolo numero di universi mai esistiti. Rimase un attimo in silenzio, poi continuò: — La terza clausola della teoria unificata è questa: nessun universo parallelo esiste simultaneamente al nostro né ad alcuno dei precedenti o susseguenti, salvo universi virtualmente identici con le stesse costanti fisiche che si staccano brevemente dall’attuale e poi immediatamente si reintegrano in esso, giustificando così certi fenomeni quantici. “La matematica per dimostrare tutto questo è senz’altro astrusa, anche se i Wreed, ironicamente, sono giunti per intuito a un modello identico. Ma la teoria generale ha fatto numerose predizioni che in seguito sono state confermate sperimentalmente; ha sopportato ogni test al quale è stata sottoposta. E quando abbiamo capito di non poterci ritirare nell’idea che questo è uno di un vasto numero di universi, l’argomento di un progetto intelligente ha assunto un valore centrale nel pensiero forhilnor. Poiché il nostro universo è uno di un massimo di soli nove mai esistiti, il fatto che abbia parametri progettuali altamente improbabili indica che questi ultimi sono stati realmente scelti da un’intelligenza.” — Anche se le quattro… scusa, cinque… forze fondamentali hanno valori in apparenza altamente improbabili — obiettai — possono sempre essere considerate cinque diverse coincidenze; e, per quanto sembri inverosimile, cinque coincidenze potrebbero verificarsi casualmente in solo nove iterazioni. Hollus ballonzolò. — Sei davvero ostinato — disse. — Non c’è solo il fatto che le cinque forze hanno valori all’apparenza progettati: anche molti altri aspetti del modo in cui funziona l’universo sono chiaramente regolati nei minimi particolari. — Per esempio? — Tu e io siamo fatti di elementi pesanti: carbonio, ossigeno, azoto, potassio, ferro eccetera. Gli unici elementi che in pratica esistevano quando nacque l’universo sono idrogeno ed elio, nella proporzione all’incirca di tre a uno. Nelle fornaci nucleari delle stelle, l’idrogeno è fuso in elementi più pesanti, genera carbonio, ossigeno e così via per tutte le voci della tavola periodica. Gli elementi pesanti che compongono il nostro corpo sono stati creati nel nucleo di stelle morte da gran tempo. — Lo so. Carl Sagan diceva: “Siamo tutti materia stellare”. — Esattamente. Infatti gli scienziati del tuo e del mio mondo si riferiscono a noi come forme di vita basate sul carbonio. Ma il fatto che il carbonio sia prodotto dalle stelle dipende criticamente dagli stati di risonanza del suo nucleo. Per produrre carbonio, due nuclei di elio devono stare uniti finché non sono colpiti da un terzo nucleo identico: tre nuclei di elio danno sei neutroni e sei protoni, la ricetta del carbonio. Se il livello di risonanza del carbonio fosse però più basso solo del quattro per cento, il legame intermedio non si verificherebbe e non si produrrebbe carbonio, rendendo impossibile la chimica organica. La semplice produzione di carbonio e di altri elementi pesanti però non basta, ovviamente. Quegli elementi pesanti sono sulla Terra perché alcune stelle… qual è la parola? Quando una grossa stella esplode? — Supernova — dissi. — Sì. Gli elementi pesanti sono qui perché alcune stelle diventano supernovae e proiettano nello spazio interstellare i loro prodotti di fusione. — Sostieni quindi che la formazione delle supernovae è un evento sicuramente progettato da un dio? — Non è così semplice. Sai cosa accadrebbe alla Terra, se una stella diventasse supernova? — Se fosse abbastanza vicina, finiremmo arrosto, immagino. — Nel 1970 Dale Russell aveva attribuito all’esplosione di una supernova le estinzioni alla fine del cretaceo. — Infatti. Se dalle vostre parti ci fosse stata una supernova in un momento qualsiasi degli ultimi miliardi di anni, voi non sareste qui. Anzi, non saremmo qui neppure noi, perché i nostri rispettivi pianeti sono abbastanza vicini. — Perciò le supernovae non possono essere molto frequenti e… — Esatto. E neppure possono essere troppo rare. Sono proprio le onde d’urto causate dalle esplosioni di una supernova a provocare l’inizio della conglomerazione dei sistemi planetari dalle nubi di polvere intorno ad altre stelle. In altre parole, se non ci fossero mai state supernovae nella vicinanza del vostro sole, i dieci pianeti in orbita non si sarebbero mai formati. — Nove — rettificai. — Dieci — ripeté Hollus. — Continuate a cercare. — Mosse i peduncoli oculari. — Capisci il dilemma? Alcune stelle devono diventare supernovae perché ci siano i metalli pesanti necessari al formarsi della vita; ma se troppe stelle diventassero supernovae, spazzerebbero via ogni vita già iniziata. D’altra parte, se non ci fossero sufficienti supernovae, ci sarebbero pochissimi sistemi planetari. Proprio come per le costanti fisiche fondamentali e i livelli di risonanza del carbonio, il rapporto di formazione di supernovae pare scelto con precisione all’interno di una fascia molto stretta di possibili valori accettabili; ogni sostanziale deviazione significa un universo senza vita o addirittura senza pianeti. Mi sentivo mancare il terreno sotto i piedi, cercavo stabilità. Mi doleva la testa. — Anche questa potrebbe essere una coincidenza — dissi. — O si tratta di una serie incredibile di coincidenze — replicò Hollus — o di un progetto deliberato. E c’è dell’altro. Consideriamo l’acqua, per esempio. Ogni forma di vita di cui siamo a conoscenza si è evoluta nell’acqua e necessita di acqua per i processi biologici. Per quanto l’acqua sembri semplice dal punto di vista chimico… solo due atomi d’idrogeno legati a un atomo di ossigeno… in realtà è una sostanza enormemente insolita. Come sai, molte sostanze si contraggono nel raffreddarsi e si espandono nel riscaldarsi. Anche l’acqua si comporta a questo modo, finché non inizia a congelare. Allora ha un comportamento notevole: comincia a espandersi mentre si raffredda, cosicché quando congela davvero è in realtà meno densa che non allo stato liquido. Proprio per questo il ghiaccio galleggia anziché affondare. Siamo così abituati a vedere questo fenomeno che, si tratti di cubetti di ghiaccio in una bevanda o di lastre sugli stagni, non ci pensiamo. Altre sostanze però non si comportano allo stesso modo: l’anidride carbonica congelata, il ghiaccio secco, come dite voi, affonda nell’anidride carbonica liquida; un lingotto di piombo affonda nel piombo fuso. “Ma il ghiaccio d’acqua galleggia; e se non galleggiasse, la vita sarebbe impossibile. Se laghi e oceani congelassero dal fondo verso la superficie, anziché al contrario, le ecologie del fondo marino e lacustre esisterebbero solo nelle zone equatoriali. Anzi, una volta iniziato a ghiacciarsi, le masse d’acqua rimarrebbero per sempre allo stato solido. Sono le correnti libere sotto lo strato di ghiaccio a favorire il disgelo primaverile… ed è per questo che i ghiacciai, non avendo correnti al di sotto, esistono per millenni su terre asciutte confinanti con masse d’acqua.” Rimisi nel cassetto il fossile di Eurittero. — Ammetto che l’acqua sia una sostanza bizzarra, ma… Hollus accostò gli occhi. — Ma questa bizzarria d’espandersi prima di congelare non è la sua sola proprietà termica insolita. In effetti l’acqua ha sette diversi parametri termici, ciascuno dei quali è unico o quasi nel mondo della chimica e, indipendentemente da tutti gli altri, indispensabile all’esistenza della vita. Le probabilità che uno di essi abbia il valore atipico che in effetti possiede vanno moltiplicate per le probabilità che pure gli altri sei siano atipici. La possibilità che l’acqua abbia per caso le proprietà termiche che la rendono unica è quasi pari a zero. — Quasi — sottolineai, con voce che cominciava a suonare falsa alle mie stesse orecchie. Hollus trascurò l’obiezione. — Le proprietà termiche non sono le sole caratteristiche, che rendono unica l’acqua — proseguì. — Di tutte le sostanze, solo il selenio liquido ha tensione superficiale maggiore dell’acqua. Proprio la tensione superficiale consente all’acqua di penetrare nelle fessure delle rocce, dove si espande quando ghiaccia e frantuma le rocce stesse. Se l’acqua avesse tensione superficiale inferiore, il procedimento che dà origine al terriccio non si verificherebbe. Inoltre, se l’acqua avesse viscosità più alta, il sistema circolatorio non si sarebbe potuto sviluppare: il plasma sanguigno vostro e nostro è in essenza acqua marina, ma non esiste processo biochimico che possa alimentare il cuore costretto a pompare, per un apprezzabile periodo di tempo, un liquido decisamente più viscoso. Tacque per qualche secondo. — Potrei continuare — riprese — e parlare dei notevoli parametri accuratamente regolati che rendono possibile la vita, ma la realtà è semplice: se uno di essi, uno qualsiasi nella lunga catena, fosse diverso, non esisterebbe vita in questo universo. O siamo il più incredibile colpo di fortuna che si possa immaginare… molto, molto meno probabile di una tua vincita alla lotteria provinciale ogni settimana per un secolo… oppure l’universo e i suoi componenti sono stati progettati, a bella posta e con grande cura, per consentire il sorgere della vita. Sentii una fitta al petto; non ci badai. — Si tratta sempre di una prova indiretta per dimostrare l’esistenza di Dio — obiettai. — Tu rientri in una trascurabile minoranza, perfino per la tua stessa razza — replicò Hollus. — Secondo un servizio che ho visto alla cnn, su questo pianeta ci sono solo 220 milioni di atei… su sei miliardi di persone. Il tre per cento del totale. — La verità in problemi reali non è una questione democratica — dissi. — Molti non sono pensatori critici. Hollus parve deluso. — Tu però sei un pensatore critico istruito e ti ho spiegato perché Dio deve esistere… o quanto meno perché sia dovuto esistere in un certo periodo… in termini matematici che si avvicinano alla certezza tanto quanto potrebbe avvicinarvisi qualsiasi cosa nella scienza. Eppure continui a negare l’esistenza di Dio. Sentivo peggiorare il dolore. Sarebbe passato, naturalmente. — Sì — confermai. — Nego l’esistenza di Dio. 6 — Ciao, Thomas — iniziò il dottor Noguchi, quel fatidico giorno dello scorso ottobre, quando ero andato a sentire i risultati degli esami che mi aveva prescritto. Mi ha sempre chiamato Thomas, anziché Tom. Ci conosciamo da parecchio tempo, tanto che l’uso di nomignoli sarebbe stato giustificabile, ma a lui piace un briciolo di formalismo per mantenere una certa distanza… io sono il medico e tu sei il paziente. — Siediti, prego. Mi sedetti. Non sprecò tempo in preamboli. — Cancro ai polmoni, Thomas. Sentii aumentare i battiti del cuore e rimasi a bocca aperta. — Mi spiace — disse il dottor Noguchi. Milioni di pensieri mi vorticarono nella mente. Di sicuro si era sbagliato; aveva scambiato la mia pratica; cosa avrei detto a Susan? A un tratto avevo la bocca secca. — Sei sicuro? — Le colture del tuo escreato erano assolutamente diagnostiche. Non c’è dubbio che si tratti di cancro. — È operabile? — dissi infine. — Ancora non l’abbiamo stabilito. In caso negativo, proveremo a curarlo con radiazioni o chemioterapia. Mi portai la mano alla testa, mi toccai i capelli. — E… e funzionerà? Noguchi sorrise, rassicurante. — La cura può essere molto efficace. Valeva un “forse”… e io non volevo sentire dei “forse”. Volevo certezze. — C’è… c’è possibilità di un trapianto? — Il numero di polmoni disponibili ogni anno è limitato. Troppo pochi donatori. — Potrei andare negli usa — dissi, incerto. Lo si legge ogni momento, nel “Toronto Star”, da quando sono iniziati i tagli di Harris al sistema sanitario: canadesi che vanno negli Stati Uniti per le cure mediche. — Non fa differenza. C’è scarsità di polmoni da ogni parte. E poi, potrebbe non servire a niente; dobbiamo vedere se il cancro si è diffuso. Volevo chiedere: “Sto per morire?”, ma la domanda pareva eccessiva, troppo diretta. — Non essere troppo pessimista — proseguì Noguchi. — Lavori al museo, vero? — Già. — Quindi probabilmente hai un buon pacchetto assistenza medica. Sei coperto per i medicinali a pagamento? Annuii. — Bene. Ecco alcuni medicinali che ti saranno utili. Non sono a buon mercato, ma se sei coperto, siamo a posto. Comunque, come ho detto, dobbiamo vedere se il cancro si è diffuso. Ti presenterò a una oncologa, giù al St. Mike. Ti seguirà lei. Annuii, sentendo il mondo crollarmi intorno. Hollus e io eravamo tornati in ufficio. — L’oggetto della tua discussione — dissi — è un posto speciale nel cosmo per la razza umana e altre forme di vita. L’alieno simile a ragno si spostò su un lato della stanza. — Occupiamo realmente un posto speciale — disse. — Be’, non so come sia stato lo sviluppo della scienza su Beta Hydri III, ma qui sulla Terra ha seguito uno schema di ripetuta detronizzazione da una qualsiasi posizione speciale. La mia stessa civiltà pensava che il nostro mondo fosse al centro dell’universo, ma si sbagliava. Pensavamo pure d’essere stati creati da Dio a sua immagine, ma anche questo risultò sbagliato. Ogni volta che abbiamo creduto che in noi o nel nostro pianeta o nel nostro sole ci fosse qualcosa di speciale, la scienza ci ha dimostrato che eravamo in errore. — Ma le forme di vita come noi sono davvero speciali — disse il Forhilnor. — Per esempio, come massa siamo tutti nello stesso ordine di grandezza. Nessuna specie intelligente, comprese quelle che hanno abbandonato il proprio pianeta, ha massa corporea adulta media inferiore ai cinquanta chilogrammi o superiore ai 500. Siamo tutti più o meno sui due metri, come dimensione maggiore… anzi, la vita civilizzata non potrebbe esistere molto sotto il metro e mezzo di altezza. Tentai di nuovo di inarcare le sopracciglia. — Perché mai al mondo dovrebbe essere vero? — È vero dappertutto, non solo sul tuo mondo: infatti il più piccolo fuoco sostenibile è circa di cinquanta centimetri di diametro e per maneggiare un fuoco bisogna essere un po’ più grandi di esso. Senza il fuoco, ovviamente, non esiste metallurgia e quindi tecnologia sofisticata. — Una pausa, un sobbalzo. — Non capisci? Ci siamo tutti evoluti con una struttura fisica del formato adatto a usare il fuoco… e quel formato sta esattamente nella parte mediana logaritmica dell’universo. Nella sua massima estensione, l’universo avrà una magnitudo di una quarantina di ordini superiore alla nostra e il suo costituente più piccolo è di una quarantina di ordini più piccolo di noi. — Mi guardò e ballonzolò. — Siamo davvero al centro del creato, se solo si sa come guardare. Quando iniziai a lavorare al rom, l’intero fronte del secondo piano era dedicato alla paleontologia. L’ala nord, direttamente sopra i negozi di regali e la gastronomia, aveva sempre ospitato le esposizioni di paleontologia dei vertebrati, la Galleria Dinosauri, e l’ala sud aveva in origine ospitato la sala degli invertebrati; anzi, le parole museo di paleontologia sono ancora scolpite nella pietra lungo la parte superiore del muro. Ma la sala degli invertebrati era stata chiusa molti anni prima e nel 1999 quella sezione era stata riaperta al pubblico col nome di “Galleria Scoperte”, proprio il genere d’intrattenimento a fine educativo che piace alla stucchevole Christine Dorati: esposizioni interattive per ragazzini, dove in pratica non si apprende quasi niente. I manifesti pubblicitari per la nuova sala recitano: “Pensate se il museo fosse diretto da un bambino di otto anni”. Come disse John Lennon, è facile, se ci provi. Il nostro orgoglio nell’ambito dei vertebrati è lo scheletro di Parasaurolophus, dinosauro dei Tracodontidi o dal becco ad anatra, con la fantastica cresta lunga un metro. Ogni esemplare che si sia mai visto in qualsiasi parte del mondo è un calco della nostra ricostruzione. Anzi, perfino la Galleria Scoperte contiene un calco del nostro Parasaurolophus, disteso per terra, incastonato in falsa matrice. I ragazzi la sminuzzano tutto il giorno, usando martelli di legno e scalpelli, in genere seduti sul magnifico cranio. Proprio davanti alla sala dei vertebrati c’è una balconata interna che guarda sulla Rotonda, la quale ha un raffinato disegno d’esplosione stellare incastonato nel pavimento di marmo. Sul lato opposto c’è una seconda balconata, di fronte alla Galleria Scoperte. Fra le due, sopra le porte a vetri dell’ingresso principale, ci sono tre finestre di vetro dipinto. Mentre il museo era chiuso al pubblico, accompagnai Hollus nella sala dei vertebrati. Abbiamo la più bella collezione di adrosauri del mondo. Abbiamo anche un sensazionale Albertosaurus, un formidabile Chasmosaurus, due dinamiche ricostruzioni di Allosaurus, un magnifico Stegosaurus, oltre a un’esposizione di mammiferi del pleistocene, una parete coperta di calchi di resti di primati e di ominidi, una mostra di pozzi di pece La Brea, una raffigurazione standard dell’evoluzione del cavallo e un meraviglioso diorama subacqueo del tardo cretaceo, con plesiosauri, mosasauri e ammoniti. Accompagnai Hollus anche all’odiata Galleria Scoperte, dove un calco di T. Rex incombe sull’inerme Parasaurolophus ricostruito sul pavimento. Hollus pareva incantato da tutti i fossili. In aggiunta gli mostrai un mucchio di dipinti in dinosauri come sarebbero sembrati da vivi e mandai Abdus a procurarsi una copia di Jurassic Park in cassetta, in modo che Hollus potesse guardarsi il film. Trascorremmo anche un mucchio di tempo in compagnia del vecchio e scontroso Jonesy, a esaminare le collezioni di paleoinvertebrati: Jonesy aveva trilobiti fin dentro le tasche. I patti sono patti, decisi: all’inizio Hollus aveva detto che avrebbe diviso con noi i dati raccolti dalla sua razza. Era tempo di passare alla cassa. Gli domandai di parlarmi della storia evolutiva delle forme di vita del suo pianeta. Pensavo che mi avrebbe mandato giù un libro, invece Hollus si superò. Disse che gli occorreva spazio, per procedere correttamente, perciò aspettammo che il museo chiudesse. Nel mio ufficio, il simulacro dell’alieno tremolò e scomparve. Avevamo trovato una soluzione più semplice: spostavo da un posto all’altro il proiettore d’ologramma anziché accompagnare il simulacro per i corridoi del museo, anche perché quasi tutti… curatori, studenti, custodi, visitatori… trovavano una scusa per fermarci e chiacchierare con l’alieno. Presi l’ascensore riservato al personale e scesi al pianterreno, davanti all’ampia scalinata di pietra che girava intorno al totem dei Nisga fino al seminterrato. Proprio sotto alla Rotonda c’era quella che con grande fantasia avevamo chiamato Rotonda Inferiore. Quell’ampia sala aperta, dipinta color salsa di pomodoro, serviva da atrio per la Sala proiezioni del rom, situata sotto i negozi d’articoli da regalo del pianterreno. Avevo incaricato il personale di supporto di sistemare cinque telecamere su treppiede, per registrare ciò che Hollus mi avrebbe mostrato… sapevo che non gli piaceva che la gente guardasse da sopra le sue otto spalle, mentre lavorava, ma si era reso conto che, quando ci dava informazioni come pagamento, dovevamo farne una registrazione. Sistemai il proiettore d’ologramma nel centro della sala e battei un colpetto per evocare il genio forhilnor. Hollus ricomparve e per la prima volta ascoltai il suo linguaggio, mentre lui dava altre disposizioni al proiettore. Era simile a un canto, con Hollus che armonizzava con se stesso. All’improvviso l’atrio lasciò posto a un incredibile panorama alieno. Come il simulacro di Hollus, pareva proprio reale: era come se fossi stato teletrasportato per venti e passa anni luce su Beta Hydri III. — Questa è una simulazione, naturalmente — disse Hollus — ma la riteniamo accurata, anche se il colore degli animali è ipotizzato. Così appariva il mio pianeta settanta milioni di vostri anni fa, poco prima della più recente estinzione di massa. Sentivo nelle orecchie il rombo del sangue. Battei il piede e tastai il solido e rassicurante pavimento della Rotonda Inferiore, l’unica prova che mi trovassi ancora a Toronto. Il cielo era azzurro come quello della Terra, con nuvole simili a cumulonembi: evidentemente la fisica di un’atmosfera azoto-idrogeno con forte quantitativo di vapore acqueo era universale. Il panorama consisteva di alture ondulate e c’era un ampio stagno bordato di sabbia, situato all’incirca In un punto corrispondente alla base del totem Nisga. Il sole era dello stesso colore giallo chiaro del nostro e pareva più o meno della stessa grandezza. Mi ero documentato su Beta Hydri: la stella era 1,6 volte più grande della nostra e 2,7 volte più luminosa, quindi il pianeta dei Forhilnor orbitava a distanza maggiore dal sole, rispetto alla Terra. Le piante erano verdi: la clorofilla, un altro composto che secondo Hollus mostrava segni di progettazione intelligente, era il processo chimico migliore per il suo compito, non importa in quale pianeta ci si trovasse. Le cose che avevano la funzione di foglie erano perfettamente rotonde, sostenute da un gambo centrale, E al posto della corteccia dove c’era l’equivalente del legno, i tronchi erano rivestiti di un materiale semitrasparente, simile al cristallo che copriva i globi oculari di Hollus. Hollus era sempre visibile, in piedi accanto a me. Pochi degli animali che vedevo parevano basati sulla stessa struttura corporea del suo e in quei pochi gli otto arti erano indifferenziati: tutti usati per la locomozione, nessuno per la manipolazione. Le altre forme di vita per la maggior parte avevano cinque arti, non otto: presumibilmente si trattava dei pentapodi esotermici ai quali Hollus aveva accennato in precedenza. Alcuni pentapodi avevano zampe lunghissime che tenevano il corpo a grande altezza. Altri avevano zampe così tozze che il corpo sfiorava il terreno. Guardai, stupito, un pentapode usare le cinque zampe per stordire a calci un octopode e poi calare sulla vittima il proprio corpo, evidentemente munito di bocca nella parte inferiore. Non c’erano creature volanti, anche se vidi pentapodi (che chiamai “parasoli”) muniti di membrane distese fra i cinque arti. Si paracadutavano dagli alberi e parevano in grado di controllare la discesa grazie al movimento di arti specifici, ravvicinati o distesi, allo scopo di posarsi sul dorso di pentapodi e di octopodi, per ucciderli mediante aculei ventrali velenosi. Nessuno di quegli animali aveva peduncoli oculari come Hollus; mi domandai se quelle appendici non si fossero evolute più tardi, per consentire agli animali di scorgere se un “parasole” si preparava a lanciarsi su di essi. L’evoluzione, alla fin fine, è una corsa agli armamenti. — Incredibile — dissi. — Un ecosistema completamente alieno. Immagino che Hollus abbia sorriso, divertito. — La stessa impressione che ho avuto io quando sono giunto qui — disse il Forhilnor. — Anche se avevo visto altri ecosistemi, non c’è nulla di più sorprendente che incontrare esemplari di una diversa serie di forme di vita e vedere come interagiscono. Quello, ripeto, è il mio pianeta settanta milioni di vostri anni fa. Con la successiva estinzione di massa, tutti i pentapodi sono stati spazzati via. Osservai un pentapode di media grandezza assalire un octopode un po’ più piccolo. Il sangue era dell’identico colore del sangue terrestre e le grida della creatura moribonda, per quanto bitonali, provenienti alternativamente dalle due bocche, parevano altrettanto piene di sofferenza e di terrore. Il desiderio di non morire era un’altra costante universale, pareva. 7 Ricordo quel ritorno a casa, l’ottobre scorso, dopo la prima diagnosi del dottor Noguchi. Fermai l’auto nel vialetto. Susan era già a casa; le rare volte in cui andavo in macchina al lavoro, chi tornava a casa per primo accendeva la luce della veranda per indicare che il garage era già occupato. Naturalmente avevo preso 1 auto per andare nello studio del dottor Noguchi, tra la Finch e la Bayview. Scesi dall’auto. Il vento soffiava foglie secche sul vialetto e sul prato. Salii i gradini dell’ingresso ed entrai. Dallo stereo proveniva The Kiss di Faith Hill. Ero rientrato più tardi del solito. Susan era affaccendata in cucina, sentivo il rumore di pentole e padelle. Attraversai l’ingresso a palchetto e risalii la mezza rampa di scale del soggiorno; di solito mi fermavo nello studio per dare un’occhiata alla posta (se Susan rincasa per prima, mette la posta nella bassa scaffalatura appena dentro lo studio) ma quel giorno avevo altro a cui pensare. Susan uscì dalla cucina per darmi un bacio. Mi conosceva bene, però, dopo tanti anni. — Cosa c’è che non va? — disse subito. — Dov’è Ricky? — Dovevo dirlo anche a lui, ma sarebbe stato più semplice parlarne prima a Susan. — Dagli Nguyen. — Gli Nguyen abitavano due case più avanti e avevano un figlio, Bobby, della stessa età di Ricky. — Cosa c’è? Stringevo la ringhiera, ancora sconvolto dalla diagnosi. Con un gesto invitai Susan a sedersi con me sul divano. — Sue — dissi — oggi sono stato dal dottor Noguchi. Mi guardava negli occhi, cercava di leggervi un messaggio. — Perché? — La tosse. Ero andato da lui la settimana scorsa e mi ha fatto fare degli esami. Mi ha detto di tornare oggi per i risultati. — Mi avvicinai a lei, sul divano. — Non te ne avevo parlato, mi pareva roba di nessuna importanza. Susan aggrottò le sopracciglia, preoccupata. — Ebbene? Le presi la mano. Sentii che tremava. Inspirai a fondo, riempii d’aria i polmoni rovinati. — Ho un tumore. Ai polmoni. Susan sbarrò gli occhi. — Dio mio — disse, scossa. — Cosa… cosa facciamo? Scrollai le spalle. — Altri esami. La diagnosi si basa su materiale nel mio escreato, ma vogliono fare biopsie e altri esami per stabilire… per stabilire quanto è diffuso. — Come? — disse Susan, con voce tremante. — Come mi è venuto? — Alzai le spalle. — Noguchi pensa sia colpa di tutta la polvere minerale che ho inalato negli anni. — Oddio — disse Susan, tremando. — Oddio mio. Donald Chen aveva lavorato per dieci anni nel Planetario McLaughlin, prima che lo chiudessero; ma a differenza dei colleghi, aveva ancora l’impiego. Era stato trasferito al dipartimento programmi educativi, ma il rom non aveva attrezzature per l’astronomia e quindi Don aveva poco da fare… anche se ogni anno, in occasione delle Perseidi, la cbc mandava in onda il suo viso sorridente. Per tutto il personale, Chen era “il cadavere ambulante”. Aveva già un colorito spaventosamente pallido (rischio professionale, per un astronomo) e pareva solo questione di tempo che il rom gli desse il benservito. Tutto il personale del museo era incuriosito per la presenza di Hollus, ma Donald Chen aveva un interesse particolare nell’alieno. Anzi, era chiaramente stizzito per il fatto che l’alieno fosse venuto a cercare un paleontologo anziché un astronomo. Il vecchio ufficio di Chen si trovava sopra il planetario, mentre il nuovo, lì nel centro amministrativo, era poco più di una bara in verticale… ma lui s’inventava di frequente un pretesto per venire a trovare me e Hollus: mi ero abituato a sentirlo bussare alla porta. Stavolta Hollus andò ad aprire. Ormai era abbastanza abile con le porte e riusciva ad azionare la maniglia usando uno dei sei piedi per non girarsi e usare la mano. Su una sedia, appena fuori la porta, c’era Bruiser, il Colosso… nomignolo di Al Brewster, un marcantonio della sicurezza del rom, ora assegnato a tempo pieno al dipartimento di paleontologia a causa della visita di Hollus. In piedi vicino a Bruiser c’era Donald Chen. —Ni hao ma? — disse Hollus a Chen. (Avevo avuto la fortuna di partecipare al Progetto Dinosauro, un’operazione congiunta cino-canadese, vent’anni fa, e avevo imparato abbastanza bene il cinese mandarino, quindi non badai alla lingua che usavano.) — Hao — disse Chen. Con un cenno di saluto a Bruiser, entrò nel mio ufficio e chiuse la porta. Passò all’inglese e salato: — Ciao, A.V. — A.V.? — disse Hollus, guardando prima Chen e poi me. Tossii. — È, ah, un soprannome. Chen si rivolse a Hollus. — Tom guida la guerra contro l’attuale amministrazione del museo. Il “Toronto Star” l’ha battezzato l’Ammazza-vampiri. —Il potenziale Ammazza-vampiri — lo corressi. — La Dorati continua a fare quasi sempre a modo suo. — Chen aveva in mano un libro antico, scritto in cinese, a giudicare dagli ideogrammi sulla copertina dorata; parlavo la lingua, ma sapevo leggere solo gli ideogrammi più facili. — Cos’è? — domandai. — Storia cinese — rispose Chen. — Ho scocciato Kung per averlo. — Kung aveva la cattedra Louise Hawley Stone nel dipartimento civiltà mediorientali e asiatiche, un altro amalgama del dopo-Harris e dei suoi tagli. — Ecco perché volevo vedere Hollus. Il Forhilnor batté i globi oculari, pronto a rendersi utile. Chen posò sulla mia scrivania il pesante libro. — Nel 1998, un gruppo di astronomi dell’Istituto di fisica extraterrestre Max Planck, in Germania, ha annunciato la scoperta dei residui di una supernova… ciò che resta dopo l’esplosione di una stella gigante. — Conosco le supernovae — disse Hollus. — Ne parlavo di recente col dottor Jericho. — Bene — disse Chen. — Il residuo scoperto da quei tizi è molto vicino, forse 650 anni luce, nella costellazione Vela. Lo chiamano RX J0852.0-4622. — Notevole — commentò Hollus. Chen aveva scarso senso dell’umorismo. Proseguì: — La supernova che originò il residuo avrebbe dovuto comparire nel nostro cielo all’incirca nell’anno 1320. In teoria doveva essere più luminosa della luna e quindi visibile anche di giorno. — Esitò, per vedere se uno di noi metteva in dubbio l’affermazione. Restammo in silenzio e lui continuò: — Eppure non esiste nessun documento storico, di nessun genere, che la riguardi Non è mai stata trovata menzione dell’evento. Hollus mosse i peduncoli oculari. — Ha detto che si trova in Vela? È una costellazione dell’emisfero meridionale, sia nel vostro cielo sia nel mio. Il vostro pianeta è scarsamente popolato, nell’emisfero meridionale. — Vero — riconobbe Chen. — In realtà l’unica prova di questa supernova da noi trovata sulla Terra è un picco di nitrato nella neve dell’Antartide, che potrebbe esservi associato; picchi similari sono correlati ad altre supernovae. Vela però è visibile nel paese dei miei antenati! La si vede chiaramente dalla Cina meridionale. Ho pensato che, se esistevano documenti, erano documenti cinesi. — Mostrò il libro. — Qui però non c’è niente. Certo, il 1320 A.D. era nel periodo centrale della dinastia Yuan. — Ah — dissi solennemente. — La Yuan. Chen mi fissò come se fossi un filisteo, — La Yuan fu fondata da Kublai Khan a Pechino. I governi cinesi erano di norma generosi nel sostegno alle ricerche astronomiche, ma durante quel periodo le sovvenzioni erano state ridotte, sotto il dominio dei Mongoli. Più o meno come accade oggi nell’Ontario. — Senza amarezza, vero? — dissi. Chen scrollò le spalle. — Non ho trovato altro, per spiegare come il mio popolo non abbia lasciato documenti riguardanti la supernova. — Si rivolse a Hollus. — La supernova doveva essere visibile da Beta Hydri come da qui. Il suo popolo ha lasciato documenti sull’evento? — Controllerò — rispose Hollus. Il simulacro smise di muoversi, perfino il tronco smise di espandersi e di contrarsi. Aspettammo circa un minuto, poi il ragno gigante tornò in vita: Hollus aveva ripreso possesso del suo avatar. — No — disse. — Nessun documento riguardante una supernova di 650 anni fa? — Non in Vela. — Parlavo di anni terrestri, naturalmente. Hollus parve offeso dell’insinuazione che potesse essersi sbagliato. — Naturalmente — replicò. — La più recente supernova osservata a occhio nudo dai Forhilnor o dai Wreed si trovava nella Grande Nube di Magellano, circa quindici anni fa. Prima di quella, tutt’e due le razze ne videro una nella costellazione che chiamate Serpente, nei primi anni del vostro XVII secolo. Chen annuì. — La supernova di Keplero. — Guardò me. — Qui era visibile dal 1604. Era di sicuro più luminosa di Giove, ma non certo visibile durante il giorno. — Sporse le labbra, riflettendo. — È affascinante. La supernova di Keplero non si trovava certo nelle vicinanze della Terra o di Beta Hydri o di Delta Pavonis, eppure su tutti e tre i pianeti è stata vista e documentata. La supernova 1987 A, naturalmente, non era nemmeno in questa galassia, eppure tutt’e tre l’abbiamo documentata. Ma l’evento nella costellazione Vela intorno al 1320 era abbastanza vicino. Pensavo che qualcuno l’avesse visto. — Forse si è frapposta una nube di polvere — disse Hollus. — Non ci sono nubi di polvere da quelle parti, ora — replicò Chen — e ci sarebbe voluta una nube molto vicina alla stella esplosa oppure molto estesa, per oscurare l’evento alla Terra e a Beta Hydri e a Delta Pavonis. Qualcuno dovrebbe averla vista. — Un bel rompicapo — disse Hollus. Chen annuì. — Vero, eh? — Sarò lieto di fornirle tutta la documentazione raccolta dalla mia razza sulle supernovae — disse Hollus. — Forse getterà un po’ di luce su questa faccenda. Mi domandai se Hollus avesse fatto volutamente la battuta. — Sarebbe magnifico — disse Chen. — Farò mandare giù dalla nave madre del materiale — disse Hollus, agitando i peduncoli oculari. Quando avevo quattordici anni, il museo aveva lanciato una gara per bambini interessati ai dinosauri. Il vincitore avrebbe avuto un mucchio di premi connessi con la paleontologia. Se fosse stata una gara di banalità sui dinosauri o una prova di normali conoscenze sui dinosauri o se i partecipanti avessero dovuto riconoscere dei fossili, avrei vinto io di sicuro. Invece era una gara per il migliore pupazzo di dinosauro. Sapevo di quale dinosauro si trattava: il Parasaurohphus, l’emblema del rom. Tentai di costruirne uno, usando plastilina e polistirolo e perni di legno. Fu un disastro. Il cranio, con la sua lunga cresta, continuava a cadere. Non lo terminai mai. Un ciccione vinse la gara; ero presente alla cerimonia della consegna dei premi, uno dei quali era un modellino di Sauropode. Lui disse: “Bello! Un brontosauro!”. Rimasi disgustato: anche nel 1960 nessuno che sapesse qualcosa di dinosauri avrebbe chiamato brontosauro un Apatosaurus. Imparai però una lezione preziosa: non puoi scegliere il modo in cui ti metteranno alla prova. Donald Chen e Hollus erano affascinati dalle supernovae, ma io ero più interessato a ciò che avevo discusso con il Forhilnor nei giorni precedenti. Appena Don uscì, dissi: — Allora, Hollus, a quanto pare voi sapete un mucchio di cose sul dna. — Immagino sia vero — mi rispose. — Cosa… — Mi s’inceppò la voce. Deglutii e riprovai. — Cosa sapete sui problemi del dna, sugli errori nella sua replicazione? — Non è il mio campo, ovviamente — disse Hollus — ma il nostro medico di bordo, Lablok, è ragionevolmente esperto in questo campo. — E questo Lablok… — Deglutii. — Questo Lablok sa qualcosa del, ah, del cancro? — Sul nostro pianeta la cura del cancro è una disciplina specialistica — disse Hollus. — Lablok ne sa qualcosa, è ovvio, ma… — Potete curare il cancro? — Lo curiamo con radiazioni e con prodotti chimici. A volte sono efficaci, spesso no. — Parve piuttosto rattristato. — Come sulla Terra — sospirai. Rimasi in silenzio per un poco; mi ero augurato una risposta diversa, lo ammetto. Be’, pazienza. — A proposito di dna — ripresi — potrei avere un campione del tuo? Se non è faccenda troppo personale, beninteso. Mi piacerebbe studiarlo. Hollus distese il braccio. — Prego, serviti pure! Quasi ci restai secco. — Tu non sei realmente qui. Sei una semplice proiezione. Hollus abbassò il braccio e mosse in un’onda a S i peduncoli oculari. — Scusa il mio umorismo — disse. — Certo, se desideri dei campioni di dna, te li fornirò volentieri. Me li farò mandare giù dalla nave. — Grazie. — Posso dirti cosa troverai, però. Troverai che la mia esistenza è altrettanto improbabile della tua. Forme di vita così complesse non possono semplicemente essere sorte per caso. Trassi un respiro profondo. Non volevo discutere con l’alieno, però, maledizione, lui era uno scienziato. Doveva sapere come va il mondo. Girai sulla poltroncina per avere di fronte il computer posto su quello che, quando avevo iniziato a lavorare lì, era il tavolino di una macchina per scrivere. Avevo una di quelle ingegnose tastiere divise della Microsoft: il museo aveva dovuto fornirle a chiunque ne facesse domanda, dopo che il personale aveva iniziato a denunciare casi di sindrome del tunnel carpale. Il mio computer aveva un sistema Windows NT, ma passai sul dos e battei un comando. Iniziò un’applicazione che mostrò sul monitor una scacchiera. — Questa è una normale scacchiera da gioco — dissi. — Noi vi giochiamo due giochi di strategia: gli scacchi e la dama. Hollus portò a contatto i globi oculari. — Degli scacchi ho sentito parlare; se ho ben capito, ritenevate la maestria in quel gioco uno dei massimi successi intellettuali dell’umanità, finché un computer non è riuscito a battere i più abili giocatori. Voi umani tendete a rendere del tutto elusiva la definizione d’intelligenza. — Lo immagino — replicai. — Comunque, voglio parlare di qualcosa di più simile agli scacchi. — Premetti tan tasto. — Questa è una disposizione casuale di pezzi in gioco. — In circa un terzo delle 64 caselle spuntarono occupanti circolari. — Ora, guarda: ogni casella occupata è a contatto con altre otto caselle, giusto? Hollus accostò di nuovo i globi oculari. — Ora tieni presenti tre semplici regole: una data casella non subisce cambiamento, occupata o libera, se due caselle adiacenti sono occupate. Se una casella occupata ha adiacenti tre caselle occupate, rimane occupata. In tutti gli altri casi, la casella diventa vuota se non è già vuota; se è già vuota, rimane vuota. Chiaro? — Sì. —Bene. Ora, espandiamo la scacchiera. Invece di una matrice 8x8, ne usiamo una 400x300; su questo monitor, ogni casella è così rappresentata da una cella di due per due pixel. Indicheremo con celle bianche le caselle occupate e con celle nere le caselle libere. Premetti un tasto: la scacchiera parve allontanarsi e nello stesso tempo estendersi fino ai quattro angoli dello schermo. La griglia della scacchiera scomparve, a quella risoluzione, ma il disegno casuale di celle illuminate e non illuminate era evidente. — Ora — ripresi — applichiamo le nostre tre regole. — Premetti la barra spaziatrice e il disegno cambiò. — Di nuovo — dissi, ripetendo l’operazione, e il disegno cambiò. — Ancora una volta. — Un’altra nuova configurazione di puntini sullo schermo. Hollus guardò lo schermo e poi me. — Ebbene? — Ecco — dissi. Premetti un altro tasto e il procedimento iniziò a ripetersi in automatico: applicare le tre regole a ogni pezzo sulla scacchiera, mostrare la nuova configurazione, applicare di nuovo le regole, mostrare la configurazione modificata e così via. Occorsero solo alcuni secondi perché comparisse il primo glider. — Vedi quel gruppo di cinque celle? — dissi. — Lo chiamiamo glider e… ah, ce n’è un altro. — Lo indicai, toccando lo schermo. — E ancora un altro. Guarda come si muovono. Infatti parevano muoversi, rimanendo in gruppo, mentre passavano da una posizione all’altra. — Se fai girare questa simulazione abbastanza a lungo — dissi — vedrai ogni sorta di disegni realistici; infatti questo gioco si chiama Game of Life, Fu inventato nel 1970 da un matematico, John Conway. Usavo questo gioco quando insegnavo teoria dell’evoluzione all’università di Toronto. Conway era stupito di ciò che generavano quelle tre semplici regole. Dopo un numero sufficiente di ripetizioni, comparirà una cosa detta “glider gun”, una struttura che a intervalli regolari spara nuovi glider. E in realtà i glider gun possono essere creati da collisioni di tredici o più glider, perciò, in un certo senso, i glider si riproducono. Si ottengono anche degli eater che possono spezzare oggetti di passaggio; nel procedimento, l’eater rimane danneggiato, ma dopo alcuni giri si ripara. Il gioco dà movimento, riproduzione, nutrizione, crescita, guarigione delle ferite e altro, tutto grazie all’applicazione di quelle tre semplici regole a una selezione inizialmente casuale di pezzi. — Non capisco dove vuoi arrivare — disse Hollus. — A questo: la vita, in tutta la sua apparente complessità, può essere generata da regole semplicissime. — E queste regole che continui a ripetere cosa rappresentano esattamente? — Be’, le leggi della fisica, per esempio… — Nessuno mette in dubbio che un ordine apparente possa provenire dall’applicazione di regole semplici. Ma chi ha scritto le regole? Per l’universo che mi mostri, hai fatto un nome… — John Conway. — Sì. Bene, John Conway è il dio di quell’universo e tutta la sua simulazione dimostra solo che ogni universo necessita di un dio. Conway era il programmatore. Anche Dio era un programmatore; le leggi e le costanti fisiche da lui stabilite sono il codice sorgente del nostro universo. La presunta differenza fra il tuo signor Conway e il nostro Dio è che, come hai notato, Conway non sapeva che cosa il suo codice sorgente avrebbe prodotto finché non l’ha compilato ed eseguito e per questo si stupì dei risultati. Ammettiamo pure che le cose non siano andate esattamente come progettato… le estinzioni di massa sembrano indicarlo. Ciononostante, pare chiaro che Dio ha progettato deliberatamente l’universo. — Ci credi davvero? — domandai. — Sì — rispose Hollus, guardando altri glider danzare sullo schermo del mio computer. — Ci credo davvero. 8 Da ragazzo, sono stato iscritto per tre anni al club Sabato Mattina del Royal Ontario Museum. Era un’esperienza incredibile, per un ragazzino come me, affascinato da dinosauri e serpenti e pipistrelli e gladiatori e mummie. Ogni sabato, durante l’anno scolastico, andavamo al museo ed entravamo prima dell’apertura al pubblico. Ci radunavamo nella sala proiezioni del rom… era chiamata così, prima che chissà quale consulente superpagato decidesse di chiamarla Teatro rom. A quel tempo la sala era davvero brutta, tappezzata in nero; da allora è stata rammodernata. La mattinata iniziava con la signora Berlin che ci mostrava un filmato in 16 mm, di solito un corto del National Film Board canadese. E poi ci aspettava mezza giornata di attività nel museo, non solo nelle sale d’esposizione, ma anche dietro le quinte. Ero entusiasta di quei sabato mattina e avevo deciso che un giorno avrei lavorato lì nel rom. Un giorno, ricordo, assistevamo a una dimostrazione dell’artista responsabile di parecchie ricostruzioni di dinosauri del museo. Lui chiese al gruppo a quale specie di dinosauro appartenesse il dente acuminato e seghettato che ci mostrava. — Un Carnosauro — risposi subito. Lui rimase colpito. — Giusto — disse. Più tardi, un altro ragazzo mi sgridò: — Si dice carnivoro, non carnosauro. Carnosauro era, naturalmente, il termine corretto: il nome tecnico per un gruppo di dinosauri che comprende tirannosauri e simili. Gran parte dei ragazzi non lo sa; diavolo, gran parte degli adulti non lo sa! Io però lo sapevo. Avevo letto quel nome su una targa nella Galleria Dinosauri del rom. La sala originale, cioè. Anziché gli attuali diorami, la sala conteneva ricostruzioni, che si potevano guardare da tutti i lati; corde di velluto impedivano al pubblico di avvicinarsi troppo. E ogni esemplare aveva una lunga spiegazione battuta a macchina e incorniciata… occorrevano quattro-cinque minuti per leggerla tutta. Il pezzo centrale della vecchia galleria era un Cotythosaurus, un enorme tracodontide in posizione eretta. C’era qualcosa di meravigliosamente canadese, anche se a quel tempo non lo capivo, nel fatto che il dinosauro esposto al rom fosse un placido vegetariano anziché un famelico T. rex o un corazzato Triceratops, le più comuni ricostruzioni nella maggior parte dei musei degli Stati Uniti; infatti fu solo nel 1999 che il rom espose un calco di T. rex nella Galleria Scoperte, per i ragazzi. Quell’antica ricostruzione di Cotythosaurus però era sbagliata. Sappiamo adesso che gli adrosauri quasi sicuramente non potevano reggersi in piedi a quel modo; probabilmente trascorrevano gran parte della vita come quadrupedi. Ogni volta che andavo al museo, da ragazzo, mi facevo un punto d’onore di guardare quello scheletro e gli altri e di leggere le targhe e di battagliare col vocabolario e di imparare quanto più potevo. Abbiamo ancora quello scheletro, al rom, infilato al fianco del diorama dell’Alberta nel cretaceo, ma non c’è più nessun testo di spiegazione. Solo una piccola targa di plexiglas che in malafede sorvola sulla postura sbagliata e dice poco d’altro: CORYTHOSAURUS EXCAVATUS GILMORE Adrosauro tracodontide crestato (becco d’anatra), montato in postura ritta e attenta. Cretaceo superiore, formazione Oldman (circa 75 milioni di anni), Little Sandhill Creek, presso Steveville, Alberta. Ovviamente, la “nuova” Galleria Dinosauri era ormai vecchia di venticinque anni. Era stata aperta prima che Christine Dorati andasse al potere, ma la Dorati la considerava un modello di come dovevano essere le nostre esposizioni: non annoiare il pubblico, non sommergerlo di fatti. Lasciarlo semplicemente a bocca aperta. Christine Dorati aveva due figlie, ormai cresciute. Ma spesso mi domandavo se, quando loro erano piccole, lei avesse fatto una figuraccia in un museo. Forse aveva detto: “Oh, Mary, questo è un Tyrannosaurus Rex. È vissuto dieci milioni di anni fa”. E sua figlia è peggio ancora, un ragazzino sveglio com’ero stato io) l’aveva corretta, sfruttando i dati scritti sulla targa: “Quello non è un tirannosauro e non è vissuto dieci milioni di anni fa. È un Allosaurus ed è vissuto 150 milioni di anni fa”. Quale che fosse la ragione, però, Christine Dorati odiava le targhette informative. Rimpiangevo che non ci fossero i soldi per rifare la Galleria Dinosauri: l’avevo ereditata nelle condizioni attuali. Ma il denaro scarseggiava a quel tempo; la drastica chiusura del planetario non era l’unico taglio. Tuttavia continuavo a chiedermi quanti ragazzi ispirassimo, al giorno d’oggi. Chissà se… Il mio Ricky no di certo, sarebbe stato chiedere troppo. E poi Ricky era ancora allo stadio in cui si vuole diventare vigili del fuoco o agenti di polizia e non mostrava particolare interesse nelle scienze. Eppure, quando guardavo le decine di migliaia di bambini in età scolare che venivano in visita al museo ogni anno, mi domandavo chi di loro (ammesso che ce ne fosse qualcuno) sarebbe cresciuto per seguire le mie orme. Hollus e io eravamo in un vicolo cieco nell’interpretazione del Game of Life, perciò mi scusai e andai in bagno. Come sempre aprii i rubinetti di tutti e tre i lavandini, per fare un po’ di rumore di fondo; i gabinetti pubblici del ROM avevano rubinetti controllati da occhi elettronici, ma nei servizi del personale non dovevamo sottostare a simile indegnità. L’acqua corrente annegò il rumore che provocai quando mi chinai sulla tazza a vomitare: rigettavo anche l’anima circa una volta alla settimana, grazie alla chemioterapia. Rimasi qualche istante lì in ginocchio a riprendere le forze; poi mi alzai, tirai l’acqua e andai ai lavandini a sciacquarmi le mani e a chiudere i rubinetti. Tenevo in ufficio una boccetta di collutorio e l’avevo portata con me; cercai con i gargarismi di togliermi di bocca l’orrendo sapore. Poi, finalmente, tornai al dipartimento di paleobiologia; sorrisi a Bruiser come se non fosse accaduto niente d’insolito e rientrai in ufficio. Vidi con sorpresa che Hollus era occupato a leggere il giornale. Aveva preso dalla mia scrivania la copia del tabloid “Toronto Sun”, la teneva aperta fra le mani e leggeva movendo all’unisono i peduncoli oculari da sinistra a destra. Mi aspettavo che si accorgesse subito della mia presenza, ma forse il simulacro non era abbastanza sensibile. Mi schiarii la gola, gustando ancora un po’ di sapore amaro. — Bentornato — disse Hollus, guardando ora me. Chiuse il giornale e mi mostrò la prima pagina. Un grosso titolo occupava quasi tutto lo spazio: ucciso medico abortista. — Ho visto nei vostri media molti riferimenti all’aborto — disse Hollus — ma confesso di non capire esattamente di cosa si tratta; il termine è sbandierato, ma mai definito, nemmeno nell’articolo che chiaramente si riferisce a questo titolo. Andai a sedermi alla scrivania, inspirai a fondo, e raccolsi le idee, chiedendomi da dove iniziare. Quel mattino, venendo al lavoro, avevo letto l’articolo. — Ah, be’, a volte le donne restano gravide senza volerlo — dissi. — C’è un procedimento per eliminare il feto e porre fine alla gravidanza; si chiama aborto. È un procedimento piuttosto, ah, controverso; per questo spesso si svolge in cliniche particolari, anziché in un comune ospedale. I fondamentalisti religiosi disapprovano l’aborto, lo ritengono una forma di omicidio, e alcuni estremisti si sono messi a far saltare in aria le cliniche specializzate in aborti. L’altra settimana è stata fatta saltare una clinica a Buffalo, una città appena oltre la frontiera, nello stato di New York. E ieri ne è saltata in aria un’altra, a Etobicoke, un sobborgo di Toronto. Il medico proprietario della clinica si trovava nell’edificio ed è rimasto ucciso. Hollus mi fissò a lungo come non mai. — Quei… come li hai chiamati? Fondamentalisti? Quei fondamentalisti ritengono sbagliato uccidere anche un bambino non ancora nato? — Sì. Era difficile distinguere un tono, nelle parole di Hollus, che saltavano da una bocca all’altra; ma il tono della risposta, almeno a me, parve d’incredulità. — E dimostrano la loro disapprovazione uccidendo degli adulti? Annuii. — A quanto pare. Hollus rimase in silenzio per qualche istante. — Fra la mia gente — disse poi — abbiamo un concetto chiamato… — e dalle bocche gemelle emise due note discordanti. — Si riferisce alle incongruenze, a eventi o parole che trasmettono l’opposto del loro significato. — Abbiamo un concetto simile. Lo chiamiamo ironia. Hollus rivolse di nuovo gli occhi al giornale. — Evidentemente non tutti gli esseri umani lo capiscono. 9 Non ho mai fumato. Allora perché ho il cancro ai polmoni? In realtà, ho appreso, è abbastanza comune fra paleontologi, geologi e mineralogisti della mia generazione. Avevo ragione, in un certo modo, nell’attribuire la tosse all’ambiente di lavoro, pieno di polvere. Usiamo spesso utensili che sgretolano la roccia e producono un mucchio di polvere finissima che… Il cancro polmonare impiega un mucchio di tempo a svilupparsi, ma ho lavorato in laboratori di paleontologia per trent’anni. Oggi porto quasi sempre la mascherina; il livello di consapevolezza si è innalzato e quasi tutti, se fanno quel tipo di lavoro, si proteggono le vie respiratorie. Tuttavia nel corso degli anni ho inalato più della mia parte di polvere di roccia, per non parlare delle fibre di asbesto e dei filamenti di fibra di vetro nel fare i calchi. E ora pago. Alcuni nostri amici hanno detto che dovremmo sporgere denuncia, forse querelare il museo o il governo dell’Ontario (il mio ultimo datore di lavoro). Senza dubbio il mio posto di lavoro poteva essere reso più sicuro; senza dubbio avrei dovuto ricevere istruzioni più precise per la sicurezza personale; senza dubbio… Era una reazione naturale. Qualcuno doveva pagare per una simile ingiustizia. Tom Jericho: una brava persona, un buon marito, un buon padre, fa opere buone… forse meno di quante dovrebbe, ma qualcuna, ogni mese. Ed era sempre pronto a dare una mano ai vicini, quando traslocavano o ridipingevano la casa. E ora il buon vecchio Tom ha il cancro. Sì, qualcuno doveva pagare, pensavano. Ma l’ultima cosa che volevo fare era proprio perdere tempo in vertenze legali. Perciò, no, non avrei querelato nessuno. Tuttavia avevo il cancro al polmone; dovevo vedermela con quello. E non c’era ironia, lì. Parte delle argomentazioni di Hollus sulla prova dell’esistenza di Dio non mi erano nuove. Quella roba sulle costanti fondamentali era a volte citata come principio cosmologico antropico: l’avevo sfiorato, nel mio corso sull’evoluzione. Hollus aveva senz’altro ragione nel sostenere che l’universo, almeno da un punto di vista superficiale, pareva progettato per la vita. Come aveva detto sir Fred Hoyle nel 1981, “Una interpretazione dei fatti, basata sul buonsenso, suggerisce che un superintelletto si è trastullato con la fisica, nonché con la chimica e con la biologia, e che in natura non esistono forze cieche di cui valga la pena parlare. I numeri che si ricavano dai fatti mi paiono tanto schiaccianti da rendere questa conclusione quasi indisputabile.” Però c’è da dire che sir Fred si faceva paladino di un mucchio di idee davanti alle quali il resto della comunità scientifica era recalcitrante. Eppure, mentre continuavamo a discutere, Hollus sollevò l’argomento delle ciglia vibratili, cioè quelle estensioni filiformi delle cellule in grado di eseguire movimento ritmico: sono presenti in molti tipi di cellule umane e anche, diceva lui, di cellule forhilnor e wreed. Le persone convinte che non solo l’universo, ma anche la vita stessa, sono stati progettati con intelligenza, citano spesso le ciglia vibratili. I minuscoli motori che permettono il movimento di quelle fibre sono enormemente complessi e i sostenitori del progetto intelligente argomentano che una simile complessità non può essersi evoluta per gradi d’incremento. Come una trappola per topi, il cilium (termine latino di cui Hollus sbagliava regolarmente il plurale, dicendo ciliums anziché cilia) ha bisogno di tutte le sue parti per funzionare; se si elimina un qualsiasi elemento, diventa inutile robaccia… proprio come, senza la molla o la barretta di contrasto o la piattaforma o il martelletto o il gancio, la trappola per topi non serve a niente. Era davvero un rompicapo, spiegare come i cilia si siano evoluti mediante accumulo di cambiamenti graduali, ossia il sistema seguito dall’evoluzione. Bene, fra altri posti, i cilia si trovano nello strato di cellule che fodera i bronchi. Battono all’unisono e portano via muco dai polmoni… muco contenente particelle inalate accidentalmente, che vengono eliminate prima che si sviluppi il cancro. Se però i cilia, vengono a mancare, per esposizione ad asbesto, a fumo di tabacco o ad altre sostanze, i polmoni non possono più mantenersi puliti. L’unico altro meccanismo per staccare il catarro ed eliminarlo è la tosse… persistente, torturante. Questa tosse non è però altrettanto efficace: le sostanze cancerogene rimangono più a lungo nei polmoni e si formano tumori. La tosse persistente a volte danneggia la superficie della massa tumorale e aggiunge sangue al catarro; come nel mio caso, il sangue nel catarro è spesso il primo sintomo di tumore ai polmoni. Se Hollus e le persone che condividevano le sue convinzioni avevano ragione, i cilia erano stati progettati da un emerito ingegnere. Allora forse sarebbe da querelare proprio quel figlio di puttana. — La mia amica, all’università, ha avuto il rapporto preliminare sul tuo dna — dissi a Hollus, qualche giorno dopo avere ricevuto il campione richiesto; un Forhilnor diverso da Hollus aveva consegnato a Raghubir il campione e anche i dati sulle supernovae promessi a Donald Chen. — Sì? Prima o poi gli avrei domandato che cosa stabiliva, quale bocca avrebbe usato, quando doveva pronunciare una sola sillaba. — Non crede che sia d’origine extraterrestre. Hollus spostò il peso del corpo dall’uno all’altro di tutti e sei i piedi: aveva sempre i crampi, nel mio ufficio. — Si sbaglia, naturalmente. Confesso che non è il mio dna personale, Lablok ha prelevato il suo, ma anche lei è Forhilnor. — La mia amica ha individuato centinaia di geni che paiono gli stessi di quelli delle forme di vita terrestri. Il gene che crea l’emoglobina, per esempio. — Esiste solo un limitato numero di possibili composti chimici in grado di portare ossigeno nel flusso sanguigno. — Forse si aspettava qualcosa di più… be’, alieno. — Sono una creatura aliena quanto qualsiasi altra potreste incontrare — disse Hollus. — Ossia la differenza fra la struttura del vostro corpo e del mio è la maggiore che abbiamo trovato. Vi sono vincoli pratici d’ingegneria su quanto può essere bizzarra la vita, in fin dei conti, anche se — alzò la mano nel saluto dei vulcaniani — i vostri soggettisti cinematografici sembrano incapaci di avvicinarsi alla varietà possibile. — Lo penso anch’io. Hollus ballonzolò. — Il numero minimo di geni richiesto per la vita è circa 300. Questa quantità però è sufficiente solo per creature davvero primitive; quasi tutte le cellule eucariote hanno un gruppo centrale di circa tremila geni, che si trovano in ogni cosa, dalle forme di vita unicellulari ad animali complessi come noi; e sono gli stessi, o quasi gli stessi, in ogni pianeta da noi esaminato. Inoltre, esistono 4000 geni addizionali condivisi da tutte le forme di vita pluricellulari, che codificano proteine per l’adesione cellula a cellula, per la trasmissione di segnali fra le cellule eccetera. Oltre a questi, esistono altre migliaia di geni condivisi da tutti gli animali a sangue caldo. Naturalmente, se continua a cercare, la sua amica troverà nel dna forhilnor decine di migliaia di geni senza controparte nelle forme di vita terrestri, per quanto sia ovviamente più facile confrontare geni noti che trovarne di ignoti. In realtà ci sono solo poche soluzioni possibili ai problemi posti dalla vita e si ripresentano su un pianeta dopo l’altro. Scossi la testa. — Non mi sarei aspettato che la vita su Beta Hydri usasse lo stesso codice genetico della vita sulla Terra, altro che qualche gene identico! Voglio dire, già qui ci sono perfino alcune variazioni nel codice: dei 64 codoni, quattro hanno nel dna mitocondriale un significato diverso che nel dna nucleico. — Tutte le forme di vita da noi esaminate hanno essenzialmente lo stesso codice genetico. Restammo sorpresi anche noi, all’inizio. — Ma non ha senso! — obiettai. — Gli aminoacidi si presentano in due isomeri, levogiro e destrogiro, ma tutta la vita sulla Terra usa il tipo levogiro. Tanto per cominciare, le probabilità che due ecosistemi usino la stessa orientazione dovrebbero essere di una su due. E di una su quattro, che la usino tre ecosistemi… il vostro, il nostro e quello dei Wreed. — Già — disse Hollus. — Inoltre, anche considerando solo l’isomero levogiro, ci sono sempre più di cento aminoacidi diversi, ma la vita sulla Terra ne usa solo venti. Quante sono le probabilità che la vita su altri pianeti usi proprio gli stessi venti? — Maledettamente poche. Sorrisi: mi ero aspettato che Hollus desse una precisa risposta statistica. — Maledettamente poche davvero — dissi. — Ma la scelta non è casuale: Dio ha progettato in questo modo. Emisi un lungo sospiro, — Non riesco a convincermi. — Lo so — disse Hollus, come se disperasse per la mia ignoranza. — Senti — riprese dopo un poco — non sono un mistico. Credo in Dio perché per me ha senso scientifico crederci; in realtà sospetto che Dio esista in questo universo proprio a causa della scienza. Cominciavo ad avere mal di testa. — Come sarebbe a dire? — Il nostro è un universo chiuso, come ho già detto, e alla fine collasserà in un Big Crunch. Un evento simile si è verificato dopo miliardi di anni nell’universo che ha preceduto quest’ultimo… e con miliardi di anni a disposizione, chissà quali cose fenomenali la scienza potrebbe rendere possibili! Diamine, potrebbe perfino rendere possibile che un’intelligenza, o uno schema di dati che la rappresenti, sopravviva a un Big Crunch ed esista ancora nel successivo ciclo di creazione. Una simile entità potrebbe perfino possedere scienza sufficiente a permetterle di influenzare i parametri per il ciclo successivo, creando un universo dove quella stessa entità rinascerà già armata della conoscenza e della sapienza di miliardi di anni. Scossi la testa: mi ero aspettato qualcosa di meglio. — Anche se così fosse — dissi — non si risolverebbe il problema dell’esistenza di Dio. Ci si limita a spingere indietro ancora di un passo la creazione della vita. Com’è iniziata la vita nell’universo prima di questo? — Corrugai la fronte. — Se non lo puoi spiegare, non hai spiegato un bel niente. — Non credo che l’essere che è nostro Dio sia mai stato vivente, nel senso di entità biologica — disse Hollus. — Sospetto che questo universo sia il primo dove biologia ed evoluzione hanno avuto luogo. — Allora cos’è questa entità-Dio? — Non vedo prova che voi terrestri abbiate già realizzato l’intelligenza artificiale. La risposta mi parve un non sequitur, ma annuii. — Esatto, anche se un mucchio di gente vi lavora. — Noi abbiamo macchine con autocoscienza. La mia astronave, la Merelcas, è di questo tipo. Abbiamo scoperto che l’intelligenza è una caratteristica imprevista, compare spontaneamente in sistemi di ordine e complessità sufficienti. Penso che l’attuale Dio di questo universo fosse un’intelligenza non materiale sorta per fluttuazioni casuali in un precedente universo privo di biologia. Credo che quella entità, esistente in isolamento, cercasse di assicurarsi che l’universo successivo brulicasse di vita indipendente, in grado di riprodursi da sé. Pare improbabile che la biologia sia iniziata da sola in un qualsiasi universo generato casualmente; ma una circoscritta matrice spaziotemporale abbastanza complessa da diventare senziente potrebbe ragionevolmente sorgere per caso dopo solo alcuni miliardi di anni di fluttuazioni quantiche, soprattutto in universi dissimili da questo, dove le cinque forze fondamentali hanno valori relativi meno divergenti. — Tacque un istante. — L’ipotesi che uno scienziato abbia creato il nostro attuale universo spiegherebbe l’enigma filosofico di antica data, ossia perché questo universo è davvero comprensibile alla mente scientifica; perché astrazioni umane e forhilnor, come la matematica e l’induzione e l’estetica, siano applicabili alla natura della realtà. U nostro universo è scientificamente comprensibile perché fu creato da un’intelligenza enormemente sviluppata che usava gli utensili della scienza. L’idea che l’intelligenza potesse sorgere più facilmente della vita stessa era sconcertante… ma in realtà non avevamo una buona definizione del termine: ogni volta che un computer pareva riuscire a riprodurre l’intelligenza, dicevamo semplicemente che con quel termine intendevamo una cosa diversa. — Dio come scienziato — dissi, assaporando l’idea. — Be’, immagino che ogni tecnologia abbastanza progredita sia indistinguibile dalla magia. — Analisi stringata — disse Hollus. — Dovresti metterla per iscritto. — Non credo sia originale. Ma ciò che proponi è solo questo: una proposta. Non dimostri l’esistenza del tuo Dio. Hollus ballonzolò. — E quale tipo di prova ti convincerebbe? Riflettei alcuni secondi, poi scrollai le spalle. — Una pistola fumante — risposi. Hollus divaricò gli occhi alla massima distanza possibile. — Che cosa? — Il mio genere di narrativa preferito è l’indagine sugli omicidi e… — Sono stupito che all’uomo piaccia leggere di uccisioni — disse Hollus. — No, no, mi sono spiegato male. Non ci piace leggere di omicidi, ci piace leggere di giustizia… di criminali, non importa quanto intelligenti, e della dimostrazione della loro colpevolezza. E in un vero caso di omicidio, la migliore prova è trovare il colpevole con in mano la pistola fumante, l’arma del delitto. — Ah — disse Hollus. — Una pistola fumante è prova incontrovertibile. Ed è ciò che voglio: una prova incontrovertibile. — Non esiste prova incontrovertibile per il Big Bang. E neppure per l’evoluzione. Eppure accetti l’uno e l’altra. Perché pretendere un parametro più elevato, per la domanda se esiste un creatore? A questa obiezione non avevo nessuna buona risposta. — So solo che per convincermi occorrono prove schiaccianti — dissi. — Credo che tu le abbia già avute — replicò Hollus. Mi grattai la testa e sentii la pelle liscia dove un tempo avevo i capelli. Hollus aveva ragione: accettiamo davvero la teoria dell’evoluzione senza la minima prova. Certo, pare evidente che i cani discendono dai lupi. I nostri antenati li hanno addomesticati, eliminando con gli incroci la ferocia e aggiungendo la socievolezza, e a un certo punto hanno cambiato il Canis lupus pallipes dell’era glaciale nel Canis familiaris, il moderno cane nelle sue 300 razze diverse. Cani e lupi non si incrociano più o almeno l’incrocio genera prole sterile: lupi e cani sono due specie differenti. Se è andata proprio in questo modo… se gli esseri emani hanno mutato Akela in Vagabondo, creando una nuova specie… allora uno dei principi basilari dell’evoluzione è stato dimostrato: si possono creare nuove specie dalle vecchie. Però non possiamo dimostrare l’evoluzione del cane! E in tutte le migliaia d’anni di allevamento di cani, generando tante razze diverse, non siamo riusciti a creare una nuova specie di cane: un chihuahua può sempre accoppiarsi con una danese, un pit bull può montarsi una barboncina… e questi accoppiamenti generano prole fertile. Per quanto di razza diversa, appartengono sempre alla specie Canis familiaris. Inoltre, non abbiamo mai creato una nuova specie di gatto o di topo o di elefante, di granturco o di noce di cocco o di cactus. Nessuno, nemmeno il più fervido creazionista, mette in dubbio che la selezione naturale possa produrre cambiamenti all’interno di una certa specie; ma non può trasformare una specie in un’altra: infatti, non è mai stato osservato. Al rom, nella sala di paleontologia dei vertebrati, abbiamo un lungo diorama con scheletri di cavalli, dall’Hyracotherium dell’eocene al Mesohippus dell’oligocene, al Merychippus e al Pliohippus del pliocene, all’Equus shoshonensis del pleistocene, fino all’Equus caballus di oggi, rappresentato da un moderno quarter horse e da un pony Shetland. Oh, certo, pare proprio che l’evoluzione ci sia: il numero di dita si riduce dalle quattro anteriori e tre posteriori dell’Hyracotherium all’unico dito attuale a forma di zoccolo; i denti diventano sempre più lunghi, chiaro adattamento per masticare erba dura; gli animali (tranne i pony) diventano sempre più grandi. Passo tutte le volte davanti a quel diorama, fa parte dello sfondo della mia vita. Raramente ci penso, però, anche se spesso l’ho illustrato, quando accompagno nella sala visitatori importanti. Una specie origina la specie successiva, in un’infinita parata di mutazioni, di adattamenti a condizioni sempre diverse. Lo accetto senza difficoltà. Lo accetto perché la teoria di Darwin ha un senso. Allora perché non accetto anche la teoria di Hollus? “Affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie.” Era il mantra di Carl Sagan, nelle discussioni con i fanatici degli ufo. Be’, guarda un po’, Carl! Gli alieni sono qui: a Toronto, a Los Angeles, nel Burundi, nel Pakistan, in Cina. A questa prova non si può sfuggire. Sono qui. E il Dio di Hollus? E la prova per accettare un progettista intelligente? I Forhilnor e i Wreed avevano prove più concrete, pare, di quelle che avevo io per l’evoluzione, l’intelaiatura intellettuale sulla quale avevo costruito la mia vita, la mia carriera. Però… però… Affermazioni straordinarie. Dovevano di sicuro corrispondere a parametri più elevati. La prova dovrebbe essere monumentale, inconfutabile. Certamente. Certamente. 10 L’ottobre scorso, quando ero andato all’ospedale St. Michael per incontrare l’oncologa, Katarina Kohl, Susan mi aveva accompagnato. Fu un’esperienza terrificante, per tutt’e due. Per prima cosa la dottoressa Kohl eseguì una broncoscopia: mi infilò in bocca un tubicino con microtelecamera per esaminare le vie respiratorie di entrambi i polmoni, nella speranza di arrivare al tumore e prelevarne un campione. Visto che non era possibile, eseguì allora una biopsia: mi infilò nel petto un ago sottile, direttamente nel polmone, guidandosi con i raggi X. Anche se non sussistevano dubbi, in base alle cellule espettorate con la tosse, quel campione avrebbe comunque confermato la diagnosi di tumore. Tuttavia, se il tumore era circoscritto e se ne conosceva la posizione, era possibile rimuoverlo con un intervento chirurgico. Prima però di aprirmi il petto per l’intervento, era necessario un altro esame: una mediastinoscopia. La dottoressa Kohl mi praticò una breve incisione poco sopra lo sterno, penetrando fino alla trachea. Poi infilò nell’incisione un tubicino con telecamera e lo spinse lungo la parte esterna della trachea per ispezionare i noduli linfatici nei pressi di ciascun polmone. Prelevò altro materiale per gli esami. E alla fine ci disse che cosa aveva trovato. Restammo distrutti dalla notizia. Non riuscii a riprendere fiato e quando la dottoressa ci mostrò i risultati degli esami, malgrado fossi seduto mi sentii mancare. Il tumore aveva raggiunto i nodi linfatici; l’intervento chirurgico era inutile. La dottoressa Kohl ci diede qualche minuto per riprenderci. Aveva visto la stessa scena centinaia, migliaia di volte: cadaveri viventi che la fissavano, inorriditi, spaventati, desiderosi di sentirle dire che era solo uno scherzo, che era un errore, che le apparecchiature avevano funzionato male, che c’era ancora speranza. Ma la dottoressa Kohl non disse niente del genere. Una prenotazione era stata annullata; era possibile effettuare quello stesso giorno una tac. Non domandai perché colui che aveva l’appuntamento non l’avesse mantenuto. Forse nel frattempo era morto o era morta. Il reparto tumori era pieno di spettri. Susan e io aspettammo in silenzio. Susan cercò di leggere una vecchia rivista; io continuai a fissare il vuoto, con i pensieri che correvano all’impazzata, con la mente che vacillava. Sapevo cos’era una tac… tomografia assiale computerizzata. Ne avevo viste fare un mucchio. Di tanto in tanto, un ospedale di Toronto ci lascia analizzare un fossile interessante, se al momento l’apparecchiatura non è utilizzata. È un modo efficace di esaminare esemplari troppo fragili per essere rimossi dalla matrice che li racchiude; è anche un ottimo sistema per vedere le strutture interne. Abbiamo fatto magnifici lavori su crani di Lambeosaurus e su uova di Eucentrosaurus. Sapevo tutto, della procedura… ma non l’avevo mai sperimentata su di me. Avevo le mani sudate. Mi veniva da vomitare, anche se gli esami non mi avevano provocato nausea. Ero impaurito… non ero mai stato così impaurito in vita mia. L’unica volta in cui mi ero sentito così nervoso era stato mentre con Susan aspettavo di sapere se avremmo potuto adottare Ricky. Eravamo seduti accanto al telefono e ogni volta che l’apparecchio suonava, sentivamo un colpo al cuore. Ma in quel caso aspettavamo una buona notizia… La tac è indolore e un po’ di radiazioni ormai non potevano farmi danno. Mi distesi sul materassino e il tecnico mi spinse nel tunnel d’analisi, generando immagini che mostravano l’estensione del tumore ai polmoni. L’estensione reale… Ero sempre stato uno studente, portato a imparare… come Susan, d’altronde. Ma quel giorno fatti e cifre vennero in una confusione sconcertante, disgiunti, complessi, troppe cose da assorbire, troppe cose da credere. La dottoressa Kohl era distaccata… aveva tenuto lezioni simili già un migliaio di volte: una professoressa di ruolo, stufa, stanca. Per noi invece, per tutti quelli seduti nelle stesse poltroncine di plastica che Susan e io occupavamo, per tutti quelli che avevano lottato per capire, per rendersi conto… per noi era terrificante. Avevo un’emicrania da impazzire; una sete terribile, che l’acqua tiepida che lo specialista continuava a offrirmi non avrebbe mai diminuito; le mie mani… mani che avevano scalpellato con cura ossa d’embrione di dinosauro per staccarle dall’uovo, mani che avevano rimosso sovraccarichi di calcare su penne fossili, mani che erano state la mia fonte di vita, gli utensili del mio mestiere… tremavano come foglie nel vento. Il cancro polmonare, disse l’oncologa in tono neutro, come se discutesse le caratteristiche dell’ultima auto sportiva o del videoregistratore, è una delle più micidiali forme di cancro, perché di solito non è scoperto per tempo; e quando è scoperto, spesso ha estese metastasi nei linfonodi del tronco e del collo, nella membrana pleurica che riveste polmoni e petto, nel fegato, nelle ghiandole surrenali, nelle ossa. Volevo che si mantenesse nell’astratto, nel teorico. Solo qualche commento generale, semplice contesto. Ma no. No. Lei continuò; segnò il suo punto. Era tutto pertinente per me, per il mio futuro. Sì, il cancro polmonare spesso si diffonde estensivamente. Il mio aveva fatto proprio così. Le rivolsi la domanda che morivo dalla voglia di rivolgerle, la domanda la cui risposta mi atterriva, la domanda più importante che da quel momento definiva ogni cosa, nel mio universo. Quanto ancora? Quanto ancora? La dottoressa Kohl, finalmente un essere umano e non un robot, evitò per un momento d’incrociare il mio sguardo. U tempo medio di sopravvivenza dopo la diagnosi, disse, era di nove mesi senza cure. La chemioterapia poteva farmi guadagnare un po’ di tempo, ma il mio cancro polmonare era un adenocarcinoma… una parola nuova, una manciata di sillabe che avrei finito per conoscere bene come il mio nome, sillabe, davvero, che definivano ciò che ero e ciò che sarei divenuto meglio di quanto non avessero mai fatto “Thomas David Jericho”. Anche con le cure, solo uno su otto individui affetti di adenocarcinoma era ancora vivo cinque anni dopo la diagnosi; la maggior parte se ne andava… è questa, la frase che usò, “se ne andava”, come se uno si fosse recato al negozio d’angolo a comprare una pagnotta… la maggior parte se ne andava ancora più presto. Fu come un’esplosione che facesse crollare tutto ciò che Susan e io avevamo conosciuto. Quel giorno d’autunno l’orologio si era messo in moto. Il conteggio alla rovescia era iniziato. Avevo solo circa un anno di vita. 11 Ogni sera, dopo la chiusura al pubblico, Hollus e io scendevamo nella Rotonda Inferiore. Come ricompensa per ciò che gli avrei lasciato guardare, Hollus mi mostrava ricostruzioni di vari periodi del passato geologico di Beta Hydri III e io registravo tutto su videocassetta. Forse perché la mia vita si approssimava alla fine, dopo un poco ebbi una gran voglia di vedere altro. Hollus aveva parlato di sei pianeti all’apparenza abbandonati dai loro abitanti. Volevo vederli, vedere i più recenti manufatti di quei mondi alieni… le ultime cose che gli abitanti avevano costruito prima di scomparire. Ciò che Hollus mi mostrò era sorprendente. Per primo, Epsilon Indi I. Nel continente meridionale c’è una gigantesca piazza racchiusa da mura. Le mura sono di enormi blocchi di granito rozzamente squadrati, ciascuno di più di otto metri di lato. L’area racchiusa, quasi 500 metri di diametro, è piena di detriti: enormi blocchi irregolari di cemento frantumato. Anche se si potessero scalare le mura, il vasto campo di detriti sarebbe una imponente distesa desolata. Nessun animale, nessun veicolo potrebbe attraversarla se non con grande difficoltà; e niente potrebbe mai crescervi. Poi Tau Ceti II. Al centro di un arido panorama, gli abitanti da tempo scomparsi hanno costruito un disco di pietra nera fusa, con diametro superiore a 2000 metri, spesso più di cinque, a giudicare dal bordo. La superficie nera assorbe il calore del sole, diventa incredibilmente calda: ci si riempirebbe di vesciche, a percorrerla a piedi, e le suole delle scarpe si scioglierebbero. La superficie di Mu Cassiopeae AI non rivela segno di abitanti scomparsi: 2,4 milioni di anni d’erosione hanno sepolto ogni cosa. Hollus però mi mostrò un modello, ricavato mediante computer, di ciò che i sensori dell’astronave Merelcas avevano rinvenuto sotto gli strati sedimentari: una vasta pianura coperta di torreggianti guglie ritorte, di cuspidi e di altre forme frastagliate; e sotto di essa, una cripta o camera, per sempre celata alla vista. Un tempo quel pianeta aveva un grande satellite, molto più grosso di quanto non sia la Luna rispetto alla Terra, ora ridotto però a un magnifico sistema di anelli. Secondo Hollus, anche gli anelli contavano 2,4 milioni di anni: in altre parole, erano comparsi nello stesso periodo in cui gli abitanti erano scomparsi. Gli dissi di mostrarmi il resto del pianeta. C’erano arcipelaghi e isole disposte come perle in un filo; la costiera orientale del continente più vasto era assai simile a quella occidentale del secondo per grandezza: chiaro segno di movimenti tettonici. — Hanno fatto esplodere la loro luna — dissi, sorpreso d’avere avuto quell’intuizione. — Volevano porre fine alle forze di marea che facevano ribollire il nucleo del pianeta; volevano eliminare i movimenti tettonici. — Perché? — disse Hollus, incuriosito. — Per impedire che la loro cripta fosse inghiottita — risposi. La deriva continentale provoca il riciclaggio delle rocce della crosta, quelle vecchie sono spinte giù nel mantello e dal magma spinto fuori nelle fosse sottomarine si formano quelle nuove. — Noi abbiamo ipotizzato che la cripta fosse un deposito di scorie nucleari — disse Hollus. — Lo sprofondamento sarebbe stato il modo migliore per liberarsene. Annuii. Gli scenari di quel pianeta e di Tau Ceti II e di Epsilon Indi I ricordavano davvero proposte per discariche nucleari sulla Terra: paesaggi artificiali tali da suscitare presentimenti così brutti che nessuno vi avrebbe mai fatto scavi. — Avete trovato iscrizioni o messaggi riferiti a scorie nucleari? — domandai. I progetti per le discariche terrestri comportavano tutti descrizioni simboliche della natura dei pericolosi materiali immagazzinati, in modo che futuri abitanti della zona capissero che cosa si trovava sepolto nel terreno. L’iconografia proposta andava da facce umane che esprimessero nausea o disgusto per indicare la velenosità della zona, a diagrammi con numeri atomici per indicare con precisione gli elementi chimici sotterrati. — No — rispose Hollus. — Niente del genere. Nei siti più recenti, almeno… quelli che ti ho mostrato, relativi al periodo di poco precedente la scomparsa di quelle razze. — Be’, volevano che quei siti rimanessero indisturbati per milioni di anni, immagino… per tanto di quel tempo che eventuali intelligenze che in seguito li scoprissero, non fossero nemmeno della stessa specie di coloro che avevano seppellito le scorie sotto segnalazioni d’avvertimento. Una cosa è il tentativo di trasmettere l’idea di velenosità e di pericolo a membri della propria specie… noi all’avvelenamento associamo occhi chiusi, bocca storta e lingua sporgente… ma ben altra cosa è lo stesso tentativo, se si devono superare le frontiere della specie, soprattutto quando niente si sa della specie a venire. — Trascuri un particolare — disse Hollus. — Quasi tutte le scorie radioattive hanno una mezza vita inferiore ai centomila anni. Alla comparsa di una nuova specie intelligente, non esisterebbero in pratica pericoli d’avvelenamento. Corrugai la fronte. — Eppure hanno proprio l’aspetto di siti per il deposito di scorie nucleari, E poi, se i nativi del pianeta sono andati da un’altra parte, forse hanno ritenuto giusto seppellire i propri rifiuti prima della partenza. Hollus parve dubbioso. — Perché allora su Mu Cassiopeae avrebbero interrotto lo sprofondamento? Come ho detto, è il modo migliore di liberarsi delle scorie nucleari, perfino meglio del lancio nello spazio. Se l’astronave esplode, si può verificare la contaminazione nucleare di mezzo pianeta; ma se le scorie sono fatte sprofondare nel mantello, ci si libera di esse una volta per tutte. Questo è appunto il sistema adottato dalla mia specie. — Be’, forse hanno seppellito altro, sotto quelle segnalazioni d’avvertimento — dissi. — Qualcosa di così pericoloso che volevano assicurarsi che nessuno lo scoprisse mai, in modo da non attribuire a loro la colpa. Forse gli abitanti di Mu Cassiopeae temevano che se la cripta fosse sprofondata, le pareti si sarebbero fuse e ciò che vi avevano imprigionato… una bestia, forse… sarebbe fuggito, E poi, tutte quelle razze, anche dopo avere seppellito ciò di cui avevano paura, hanno lasciato il pianeta d’origine per mettere la maggiore distanza possibile tra se stessi e ciò che si lasciavano alle spalle. — Domenica vado in chiesa — aveva detto Susan, lo scorso ottobre, qualche giorno dopo il nostro primo appuntamento con la dottoressa Kohl. Eravamo in soggiorno, io sul divano e lei sulla poltrona. Annuii. — Di solito ci vai. — Lo so, ma… be’, con tutto quel che è successo… — Ce la farò — dissi. — Sei sicuro? Annuii di nuovo. — Vai in chiesa ogni domenica. Non c’è motivo di cambiare. La dottoressa Kohl ha detto che dovremmo vivere il più possibile come se tutto fosse normale. Non sapevo bene come avrei utilizzato il tempo, ma avevo un mucchio di cose da fare. Prima o poi avrei dovuto chiamare mio fratello Bill a Vancouver e spiegargli la situazione. Ma Vancouver è tre ore indietro rispetto a Toronto e Bill tornava a casa tardi. Se avessi telefonato a quell’ora, avrei trovato la sua seconda moglie Marilyn… e lei era una grande chiacchierona. Non mi sentivo di starla ad ascoltare. Bill e i suoi figli del primo matrimonio erano però la mia unica famiglia; i nostri genitori erano mancati un paio d’anni fa. Susan rifletteva: incrociò brevemente il mio sguardo, poi fissò il pavimento. — Potresti… potresti accompagnarmi, se ti va. Espirai rumorosamente. Era mettere il dito nella piaga. Susan era sempre andata in chiesa. Sapeva, quando mi aveva sposato, che non ne avevo l’abitudine. Passavo la domenica mattina navigando in rete e guardando This Week with Sam Donaldson and Cookie Roberts. Le avevo detto chiaramente, quando avevamo cominciato a uscire insieme, che mi sarei sentito a disagio in chiesa. Mi pareva un’ipocrisia troppo grossa, avevo detto: un insulto ai credenti veri. Ora, però, lei aveva la chiara impressione che le cose fossero cambiate. Forse si aspettava che volessi pregare, rappacificarmi col creatore. — Può darsi — risposi. Ma tutt’e due sapevamo che non sarebbe accaduto. Piove sempre sul bagnato. Il tumore, naturalmente, mi portava via un mucchio di tempo. E ora le visite di Hollus mi portavano via gran parte del tempo residuo. Ma avevo anche altre responsabilità. Avevo predisposto la mostra speciale al rom dei fossili del Burgess Shale; e anche se la cerimonia d’apertura si era tenuta mesi prima, avevo ancora un mucchio di lavoro amministrativo da terminare. Charles Walcott, dello Smithsonian Institute, aveva scoperto quei fossili nel 1909, nel passo di Burgess, tra le Montagne Rocciose della Columbia Britannica: vi effettuò scavi fino al 1917. Iniziando nel 1975 e continuando per i venti anni seguenti, Desmond Collins, dello stesso rom, aveva iniziato una serie, ancora in corso, estremamente fruttuosa di nuovi scavi nel passo di Burgess, portando alla luce altri campi di raccolta e mietendo migliaia di nuovi esemplari. Nel 1981 l’unesco aveva dichiarato il passo di Burgess l’86° sito Patrimonio del Mondo, al livello delle piramidi d’Egitto e del Gran Canyon. I fossili risalgono alla parte centrale del cambriano, 520 milioni di anni fa. Gli scisti del passo di Burgess, uno smottamento della piattaforma laurenziana che seppellì ogni creatura vivente sul fondo marino, hanno grana così fine da conservare impressioni perfino di corpi non mineralizzati. Documentano un’enorme varietà di forme di vita, inclusi molti tipi complessi che secondo alcuni paleontologi, compreso il nostro Jonesy, non rientrano in nessun gruppo moderno: comparvero, ebbero breve esistenza e morirono, come se la natura provasse ogni sorta di piani corporei diversi per vedere quali funzionavano meglio. Perché nel cambriano si era verificata quella esplosione di varietà? La vita esisteva già sulla Terra da forse 3,5 miliardi di anni; ma in tutto quel tempo aveva assunto forme molto semplici. Che cosa aveva provocato l’improvvisa comparsa di tanta complessità e di tanta varietà? Davidson e Cameron al CalTech e Peterson all’UCLA avevano argomentato che la ragione della semplicità, prima dell’esplosione del cambriano, era, be’, semplice: fino a quel momento, le cellule fertilizzate avevano un grave limite nel numero di volte in cui potevano dividersi; dieci divisioni, all’incirca, parevano il massimo. E dieci divisioni originano solo 1.024 cellule e producono creature molto piccole e molto semplici. All’inizio del cambriano, però, la barriera delle dieci divisioni era stata infranta dallo sviluppo di un nuovo tipo di cellula, visibile ancora in alcuni organismi viventi; queste nuove cellule potevano dividersi molte più volte ed erano usate per definire lo spazio morfologico, ossia il fondamentale piano corporeo, di ogni sorta di nuovi organismi. (Anche se al tempo di questo evento la Terra aveva quattro miliardi di anni, lo stesso importante passo avanti, infrangere il limite di dieci divisioni, si era verificato sul pianeta di Hollus quando quel mondo aveva solo due miliardi di anni; a quel punto anche lì la vita aveva smesso di fare capriole e aveva iniziato a evolversi sul serio.) Gli scisti del Burgess sulla Terra contengono il nostro antenato diretto Pikaia il primo animale con notocorda, dalla quale si è evoluta in seguito la colonna vertebrale. Eppure quasi tutti gli animali fossili degli scisti del Burgess sono invertebrati e perciò una mostra speciale di simili fossili probabilmente doveva essere organizzata dal paleontologo anziano degli invertebrati del ROM, Caleb Jones. Tuttavia Jonesy sarebbe andato in pensione nel giro di qualche mese (nessuno aveva ancora fatto notare, a me almeno, che il rom stava per perdere quasi contemporaneamente i due paleontologi anziani) e io ero quello che aveva rapporti personali con la gente dello Smithsonian Institute, dove erano finiti i fossili del Burgess prima che il Canada facesse una legge per proteggere le proprie antichità. Avevo anche collaborato alla serie di conferenze in concomitanza con la mostra; molte erano tenute dal nostro personale (compreso Jonesy), ma avevamo anche ottenuto che Stephen Jay Gould, il cui libro La vita meravigliosa riguarda appunto i fossili del Burgess Shale, venisse da Harvard a tenere una conferenza. La mostra si dimostrava una grossa fonte di denaro per il rom; simili mostre hanno sempre un mucchio di pubblicità gratuita dai media e così attirano folle di visitatori. Ero entusiasta della mostra, quando l’avevo proposta, e ancor più entusiasta quando avevo ottenuto l’approvazione e lo Smithsonian Institute aveva accettato di mettere insieme i suoi e i nostri fossili per una esposizione congiunta. Ma adesso… Adesso, col cancro… Adesso la mostra era solo una fonte d’irritazione, un fastidio. Ancora altra carne al fuoco. Ancora un altro batter cassa al mio tempo fin troppo limitato. Parlarne a Ricky fu l’esperienza più dura. Se fossi stato come mio padre, se mi fossi accontentato di una laurea di primo grado e di un normale lavoro d’ufficio, mi sarei trovato in una situazione ben diversa. Probabilmente avrei messo al mondo il primo figlio poco dopo i vent’anni… e così, all’età che ho adesso, quel figlio sarebbe stato sulla trentina e forse avrebbe avuto perfino figli suoi. Ma non ero mio padre. Avevo preso la laurea di primo grado nel 1968, a ventun anni. E la seconda laurea nel 1970, a ventiquattro. E la laurea definitiva a ventotto. E poi avevo fatto un corso di specializzazione a Berkeley e un altro all’università di Calgary. A quel punto avevo trentaquattro anni. E guadagnavo quattro soldi. E, per qualche motivo, non avevo nessun giro d’amicizie. E lavoravo fino a tardi nel museo, una notte dopo l’altra. E poi, prima di rendermene conto, ero arrivato ai quaranta, senza moglie e senza figli. Avevo conosciuto Susan Kowalski all’Hall House dell’università di Toronto, nel 1966. Facevamo parte tutt’e due del club teatrale. Io non recitavo… ma ero affascinato dall’illuminazione teatrale: credo sia questa una delle ragioni per cui mi piace la museologia. Susan aveva recitato in alcune opere teatrali, ma immagino, col senno di poi, che non avesse particolare talento. A me era sempre parsa favolosa, ma i migliori commenti che avesse mai ricevuto su “Varsity” erano un riconoscimento di “competente” nei panni della nutrice in Giulietta e Romeo e di “accettabile” in quelli di Giocasta nell’Edipo re. Per un periodo eravamo usciti insieme, ma poi mi ero trasferito negli Stati Uniti per specializzarmi… e lei aveva capito: dovevo continuare gli studi, il mio sogno dipendeva da essi. Avevo pensato a lei con simpatia, nel corso degli anni, ma non immaginavo che l’avrei rivista. Finii per tornare a Toronto e, con la mente sempre rivolta al passato e mai a sufficienza al futuro, alla fine decisi, ormai negli “anta”, d’avere bisogno di consigli finanziari per la futura pensione e scoprii che il commercialista da me scelto non era altri che Susan. Ora di cognome faceva De Santis, per un breve matrimonio fallito quindici anni prima. Ravvivammo la vecchia relazione e ci sposammo l’anno seguente. Anche se lei aveva quarantun anni e c’erano dei rischi, decidemmo di avere un figlio. Provammo per cinque anni. Susan rimase incinta una volta, in tutto quel tempo, ma ebbe un aborto. Alla fine decidemmo di adottare un figlio. Le pratiche richiesero un paio d’anni. Adesso però il nostro Richard Blaine Jericho aveva sei anni. Sarebbe stato ancora in famiglia, alla morte del padre. Avrebbe frequentato ancora le elementari. Susan lo mise a sedere sul divano e io mi inginocchiai accanto a lui. — Ehi, giovanotto! — dissi. Gli presi la mano. — Sì, papà. — Si dimenò un poco, non mi guardò negli occhi. Forse pensava d’averne combinata una. Rimasi in silenzio per qualche attimo. Avevo riflettuto molto su che cosa avrei detto, ma ora le parole che avevo preparato parevano del tutto inadeguate. — Come va, giovanotto? — dissi. — Bene. Lanciai un’occhiata a Susan. — Be’, a papà non va tanto bene. Ricky mi guardò. — A dire il vero — continuai — papà sta molto male. — Lasciai che comprendesse quelle parole. Non avevamo mai detto bugie a Ricky, su nessun argomento. Sapeva d’essere figlio adottivo. Gli avevamo sempre detto che Babbo Natale era solo una finzione. E quando aveva domandato da dove vengono bambini, gli avevamo detto anche quello. Adesso, però, rimpiansi che non avessimo seguito una via diversa… che fossimo stati sempre sinceri con lui. Ovviamente aveva capito abbastanza presto. Aveva visto che ero cambiato, che perdevo i capelli, che dimagrivo, forse aveva sentito che mi alzavo di notte per vomitare… Forse m’aveva anche sentito piangere, quando pensavo che lui non ci fosse. — Male, quanto? — domandò Ricky. — Molto. Mi guardò ancora. Mossi la testa in un cenno d’assenso per fargli capire che non scherzavo. — Perché? — chiese Ricky. Susan e io ci scambiammo un’occhiata. Era la stessa domanda che continuavo a farmi io. — Non so — risposi. — Qualcosa che hai mangiato? Scossi la testa. — Sei stato cattivo? Una domanda inattesa. Riflettei un momento. — No, non credo. Restammo tutti in silenzio per un poco. Alla fine Ricky disse piano: — Non stai per morire, vero, papà? Avevo avuto intenzione di dirgli la verità, senza abbellimenti. Di mettere le cose in chiaro. Ma, giunto il momento, fui obbligato a dargli più speranza di quanto non avesse dato a me la dottoressa Kohl. — Forse — dissi. Solo forse. — Ma… — protestò con una vocina. — Non voglio che muori. Gli strinsi la mano. — Neanche io voglio morire, però… però è come quando mamma e io ti facciamo pulire la tua stanza. A volte ci tocca fare cose che non vorremmo. — Farò il bravo — disse. — Farò sempre il bravo, se non muori. Mi piangeva il cuore. Ricky contrattava. Uno degli stadi. — Non ho davvero scelta, in questa faccenda — dissi. — Magari l’avessi! Batteva di continuo le palpebre, stava per piangere. — Ti voglio bene, papà. — Anch’io ti voglio bene. — Cosa… cosa faremo, mamma e io? — Non preoccuparti, giovanotto. Continuerete a stare qui. Non dovrete pensare ai soldi. L’assicurazione basta e avanza. Ricky mi guardò: non capiva, era chiaro. — Non morire, papà. Per favore, non morire. Lo strinsi a me e Susan ci abbracciò. 12 Per quanto, come vittima, il cancro mi atterrisse, come biologo mi affascinava. I proto-oncogeni, i normali geni con il potenziale di scatenare il cancro, esistono in tutti i mammiferi e uccelli. Anzi, ogni proto-oncogene finora identificato è presente negli uni e negli altri. Ora, gli Uccelli derivano dai Dinosauri, che derivano dai Tecodonti, che derivano dai primitivi Diapsidi, che derivano dai Captorinomorfi, i primi veri rettili. Intanto i Mammiferi si sono evoluti dai Terapsidi, che derivano dai Pelicosauri, che derivano dai primitivi Sinapsidi, che derivano anch’essi dai Captorinomorfi. Poiché i Captorinomorfi, l’antenato comune, risalgono al carbonifero superiore, quasi 300 milioni di anni fa, i geni in comune esistono da almeno altrettanto tempo (e infetti abbiamo trovato ossa fossili cancerose, che confermano come il grande C sia esistito almeno fin dal giurassico). Per un verso, non è sorprendente che quei geni siano in comune: i proto-oncogeni sono adibiti al controllo della suddivisione delle cellule e allo sviluppo degli organi; prima o poi scopriremo, credo, che la loro serie completa è comune a tutti i vertebrati e forse a tutti gli animali. Il potenziale del cancro, a quanto pare, è inserito nel tessuto stesso della vita. Hollus era incuriosito dalla cladistica, lo studio di come tratti distintivi condivisi implichino antenati comuni; sul suo pianeta, era quello il principale strumento per gli studi dell’evoluzione. Pareva appropriato, quindi, mostrargli il nostro adrosauro, un dado per antonomasia. Era martedì, il giorno più tranquillo del ROM, e mancava poco all’ora di chiusura. Hollus scomparve e mi diressi alla Galleria Dinosauri, tenendo in tasca il proiettore d’ologramma. La galleria consiste in due lunghe sale collegate a una estremità; l’ingresso e l’uscita si trovano fianco a fianco. Varcai l’uscita e mi diressi in fondo. Non c’era nessuno; vari annunci per altoparlante riguardanti l’imminente chiusura avevano fatto uscire i visitatori. In fondo a questo corridoio c’è la sala del nostro adrosauro, dipinta a strisce orizzontali rossicce e dorate, che rappresentano l’arenaria dei calanchi dell’Alberta. La sala contiene tre magnifiche montature a parete. Mi fermai davanti a quella di centro, un tracodonte a becco d’anitra che la targa definiva Kritosaurus, anche se da più di dieci anni sapevamo che probabilmente si trattava di un Gtyposaurus, forse il mio successore avrebbe trovato il tempo e i soldi per aggiornare le targhe della galleria. L’esemplare, raccolto da Parks durante la prima stagione sul campo, nel 1918, è grazioso, con le costole ancora nella matrice e i tendini lungo la coda ben ossificati. Hollus ricomparve e cominciai a parlare di come i corpi di adrosauro fossero virtualmente indistinguibili l’uno dall’altro e che solo la presenza o l’assenza della cresta e la forma della cresta rendessero possibile la distinzione fra i diversi generi. Proprio mentre sollevavo un polverone su questo argomento, un bambino entrò nella sala, dalla parte opposta a quella usata da me, sbucando dal diorama poco illuminato dei mari del cretaceo. Era di razza bianca, ma aveva pliche epicantiche, mascella cascante e sporgeva un poco la lingua; si limitò a fissare il Forhilnor. — Ciao — disse Hollus. Il bambino sorrise, evidentemente felice di sentir parlare l’alieno. — Ciao — rispose, lento e deciso. Una donna senza fiato girò l’angolo ed entrò nella sala dell’adrosauro. Lanciò un gridolino nel vedere Hollus, si precipitò dal bambino e lo prese per mano. — Eddie! — disse. — Ti ho cercato da tutte le parti. — Si rivolse a noi: — Mi spiace che vi abbia disturbato. — Non ci ha disturbato — disse Hollus. Dall’altoparlante provenne un annuncio: “Signore e signori, il museo è chiuso. Si pregano tutti i visitatori di raggiungere subito l’uscita principale…”. La donna tirò via Eddie, che continuò a girare la testa e a guardarci per tutta la Galleria Dinosauri. Hollus si rivolse a me: — Quel bambino era diverso da tutti quelli che ho visto. — Sindrome di Down — spiegai. — Ritarda lo sviluppo mentale e fisico. — Cosa la provoca? — La presenza di un cromosoma ventuno in più; tutti i cromosomi dovrebbero essere in coppia, ma a volte un terzo si unisce agli altri due. Hollus mosse i peduncoli oculari. — Abbiamo una sindrome analoga, ma quasi sempre è rilevata già nell’utero. Nel nostro caso, si forma una coppia di cromosomi senza telomero a un’estremità; i due capi si uniscono, rendendo il cromosoma due volte più lungo del normale. Il risultato è la perdita completa della capacità linguistica, molte difficoltà di percezione spaziale e morte precoce. — Esitò. — Eppure l’elasticità della vita mi stupisce sempre. È notevole che una cosa così importante come un cromosoma in più o due cromosomi uniti a formarne uno solo non impedisca all’organismo di funzionare. — Guardò ancora nella direzione in cui si era allontanato il bambino. — Quel bambino… Anche per lui la vita sarà più breve? — Probabilmente. La sindrome di Down ha quell’effetto. — È triste. Rimasi in silenzio per un poco. C’era una piccola nicchia su un lato della sala, nella quale un antiquato proiettore di diapositive mostrava come si formano e vengono portati alla luce i fossili di dinosauro. Avevo ovviamente ascoltato un milione di volte la colonna sonora. La proiezione dopo un poco terminò e poiché nessuno premette il grasso pulsante rosso per riavviarla, Hollus e io ci trovammo da soli nella galleria silenziosa, con l’unica compagnia di scheletri. — Hollus — mi decisi a dire. Il Forhilnor riportò su di me l’attenzione. — Sì? — Quanto… quanto pensi di trattenerti qui? Voglio dire, ancora per quanto tempo hai bisogno della mia collaborazione? — Chiedo scusa. Ho mancato di riguardo. Se ti porto via troppo tempo, dimmelo e andrò via. — No, no, non si tratta di questo. Sono molto contento della tua presenza, credimi. Però… — Sospirai. — Sì? — Devo dirti una cosa. — Sì? Trassi di nuovo un respiro profondo ed espirai lentamente. — Te ne parlo perché hai il diritto di sapere — dissi ed esitai di nuovo, chiedendomi come continuare. — Quando sei venuto nel museo, lo so, hai chiesto di parlare a un paleontologo, uno qualsiasi. Non hai scelto me in particolare. Anzi, saresti potuto andare in un altro museo: Phil Curie del Tyrrell o Mike Brett-Surman dello Smithsonian sarebbero stati felici che tu avessi bussato alla loro porta. Tacqui. Hollus continuò a guardarmi, paziente. — Scusami — ripresi. — Avrei dovuto dirtelo prima. — Inspirai di nuovo e trattenni il fiato il più possibile. — Hollus, sto per morire. L’alieno ripeté l’ultima parola come se non l’avesse mai sentita. — Morire? — Ho un tumore incurabile. Mi resta solo qualche mese di vita. Hollus rimase in silenzio per vari secondi. Poi dalla bocca sinistra emise: — Io… — e per un poco non aggiunse altro dalla destra. Alla fine disse: — È consentito esprimere rincrescimento in simili circostanze? Annuii. — Mi / spiace — dissero le due bocche. Di nuovo l’alieno rimase in silenzio per qualche secondo. Poi riprese: — Mia madre morì di cancro. Una malattia terribile. Non avevo certo niente da obiettare, su questo, — So che devi fare ancora un mucchio di ricerche. Se preferisci lavorare con un altro paleontologo, capisco benissimo. — No — disse Hollus. — No. Siamo una squadra. Sentii una stretta al cuore. — Grazie. Hollus mi guardò ancora un momento, poi indicò l’adrosauro, la ragione per cui eravamo lì. — Per favore, Tom — era la prima volta che mi chiamava per nome — continuiamo il nostro lavoro. 13 Ogni volta che incontravo una nuova forma di vita, cercavo di immaginarne gli antenati… deformazione professionale, immagino. La stessa cosa accadde quando Hollus finalmente mi presentò un Wreed; i Wreed sono schivi, ma chiesi di conoscerne uno, a parziale compenso dell’esame delle nostre collezioni. Ci sistemammo nella sala per conferenze al quinto piano del centro amministrativo; anche stavolta una serie di telecamere registrava l’evento. Misi sul lungo tavolo di mogano il proiettore d’ologramma, accanto al microfono dello speaker. Hollus parlò nel linguaggio musicale della sua razza e all’improvviso nella sala ci fu un secondo alieno. Gli esseri umani si sono evoluti dai pesci; le nostre braccia erano in origine le pinne pettorali (e le dita, le ossa di sostegno che davano a quelle pinne la rigidità) e le nostre gambe, le pinne pelviche. Anche i Wreed si erano evoluti quasi sicuramente da una forma di vita acquatica. Il Wreed davanti a me aveva due gambe, ma quattro braccia ugualmente intervallate intorno alla parte superiore di un tronco a forma di pera capovolta. Le quattro braccia risalivano forse non solo alle pinne pettorali, ma anche alle asimmetriche pinne dorsali e ventrali. Quelle antiche pinne pettorali forse avevano avuto quattro puntoni d’irrigidimento, perché la sinistra e la destra avevano quattro dita ciascuna (due centrali e due pollici mutuamente opponibili). La mano frontale, presumibilmente derivata dalla pinna ventrale, aveva nove dita. E la mano posteriore, che pensai derivasse dalla pinna dorsale, aveva sei grosse dita. Il Wreed non aveva testa e, per quanto potevo vedere, nemmeno occhi né naso. Presentava una lucente striscia nera intorno alla parte superiore del tronco; non riuscivo a immaginare a che cosa servisse. E aveva zone con complicate pieghe della pelle sui due lati delle braccia, anteriore e posteriore; forse erano orecchie. La pelle del Wreed era coperta dello stesso materiale che si è evoluto sulla Terra in varie specie di ragni e d’insetti, in tutti i mammiferi, in alcuni uccelli e perfino in alcuni rettili antichi: pelo. Circa un centimetro di folta pelliccia rosso-marrone copriva gran parte del tronco superiore e le braccia fino al gomito; il tronco inferiore, gli avambracci e le gambe, glabri, rivelavano una coriacea pelle azzurro-grigio. L’unico indumento del Wreed era un’ampia cintura che cingeva la stretta parte inferiore del tronco e che era sostenuta dai fianchi bitorzoluti. La cintura mi ricordò quella di Batman… era perfino dello stesso color giallo vivo, rivestita di quelle che presumevo fossero tasche. Al posto dell’emblema di pipistrello, la fibbia recava una girandola rosso vivo. — Thomas Jericho — disse Hollus — ti presento T’kna. — Salve — dissi. — Benvenuto sulla Terra. I Wreed, come gli esseri umani, usano un singolo orifizio per parlare e per mangiare: la bocca era posta in una depressione, sulla parte superiore del tronco. Per alcuni secondi T’kna emise suoni che parevano l’acciottolio di sassi in una lavatrice. Appena la bocca smise di muoversi, vi fu un breve silenzio; poi dalla cintura del Wreed provenne una profonda voce sintetica. Disse: — Un animato parla per un inanimato? Perplesso, guardai Hollus. — Animato per inanimato? Il Forhilnor congiunse i globi oculari. — Esprime sorpresa per il benvenuto sul pianeta. I Wreed non astraggono dalla razza al mondo. Prova invece a dargli il benvenuto a nome della razza umana. — Ah — dissi. Mi rivolsi al Wreed. — In qualità di essere umano, ti do il benvenuto. Altro acciottolio, poi la voce sintetizzata. — Se tu non fossi un essere umano, mi daresti ancora il benvenuto? — Mmm… — La risposta corretta è sì — suggerì Hollus. — Sì — risposi. Il Wreed parlò di nuovo nella sua lingua e il computer tradusse le parole. — Allora benvenuto sono e lieto di essere qui che è qui e qui che è là. Hollus ballonzolò. — È un riferimento all’interfaccia realtà virtuale. È felice d’essere qui, ma riconosce d’essere in realtà ancora a bordo della nave madre, naturalmente. — Naturalmente — ripetei. Avevo quasi paura di parlare di nuovo. — Hai… uhm… hai fatto buon viaggio fino sulla Terra? — In quale senso usi “buono”? — disse la voce sintetizzata. Guardai di nuovo Hollus. — Sa che usate il termine “buono” per indicare varie cose, con significati morali, piacevoli, costosi. — Costosi? — mi stupii. — “Buona porcellana”, “buona gioielleria” — disse Hollus. Quegli accidenti di alieni conoscevano la mia lingua meglio di me! Mi rivolsi di nuovo al Wreed: — Hai fatto un viaggio piacevole? — No — fu la risposta. Hollus intervenne di nuovo a spiegare: — I Wreed vivono solo circa trenta anni terrestri. Per questo preferiscono viaggiare in criostasi, una forma di animazione sospesa artificiale. — Allora il viaggio non è stato brutto, ma lui non era cosciente di ciò che accadeva, giusto? — Giusto — confermò Hollus. Cercai qualcosa da dire. Dopo tutto il tempo trascorso col mio amico forhilnor, mi ero abituato a conversare fluentemente con un alieno. — Ah, ti piace stare qui? Cosa pensi della Terra? — Molta acqua — rispose il Wreed. — Luna grossa, esteticamente piacevole. Aria troppo umida, però; spiacevolmente appiccicosa. Cominciavamo a capirci; almeno, io capivo lui… ma se in aprile trovava afosa l’aria di Toronto, chissà in agosto! — Ti interessi di fossili, come Hollus? Acciottolio di ghiaia, poi: — Tutto affascina. Esitai un momento, per decidere se fare davvero la domanda che mi era venuta in mente. “Perché no?” mi dissi. — Credi in Dio? — Tu credi nella sabbia? — rispose il Wreed. — Credi nell’elettromagnetismo? — Equivale a un sì — disse Hollus, desideroso di rendersi utile. — I Wreed spesso si esprimono per domande retoriche, ma non hanno il concetto del sarcasmo, perciò non offenderti. — È più importante se Dio crede in me — soggiunse T’kna. — Cosa vuol dire? — domandai. Cominciavo a sentire mal di testa. Anche il Wreed pareva trovare difficoltà: mosse la bocca, ma non emise suono. Alla fine si espresse nella sua lingua e il traduttore disse: — Dio osserva; fronti d’onda collassano. Il popolo eletto di Dio è quello la cui esistenza lui/lei/esso convalida con l’osservazione. Riuscii a capire anche senza l’aiuto di Hollus. Secondo la fisica quantistica, gli eventi non hanno realtà concreta finché non sono osservati da un’entità consapevole. Fin qui tutto bene… ma come è emersa la prima realtà concreta? Alcuni hanno usato le necessità della fisica quantistica come argomento a favore dell’esistenza di un osservatore consapevole che sia stato presente fin dall’inizio del tempo. — Ah — dissi. — Molti futuri possibili — riprese T’kna, agitando tutte le dita insieme, quasi a suggerire una profusione. — Tra quelli possibili, lui/lei/esso sceglie uno da osservare. Capii anche questo… e per me fu un duro colpo. Quando DeepBlue sconfisse a scacchi Garry Kasparov, ci riuscì esaminando tutte le possibili combinazioni che i pezzi potevano assumere non solo dopo la mossa seguente, ma anche dopo la successiva e così via. Se Dio esisteva, vedeva davvero tutte le possibili mosse seguenti di tutti i pezzi in gioco? Vedeva che forse avrei mosso un passo o avrei tossito o mi sarei grattato il culo o avrei detto qualcosa che avrebbe potuto rovinare per sempre le relazioni Wreed-Uomo? Vedeva in simultanea una bimba in Cina, che forse svoltava a destra o forse a sinistra o forse alzava la testa a guardare la luna? Vedeva un vecchio in Africa che forse avrebbe dato a un bambino un consiglio tale da cambiargli per sempre la vita o forse non gli avrebbe detto niente, lasciando che se la cavasse da solo? Sarebbe stato facile dimostrare che l’universo si suddivide davvero, almeno per breve tempo, mentre medita sui possibili percorsi multipli: singoli fotoni interagiscono con la versione di se stessi di universi alternativi nell’attraversare simultaneamente fessure multiple, generando schemi d’interferenza. Quell’azione di fotoni era forse il segno del pensiero di Dio, lo spettrale residuo della sua riflessione su tutti i possibili futuri? Dio vedeva davvero tutte le azioni concepibili di tutte le forme di vita consapevoli… sei miliardi di esseri umani, otto miliardi di Forhilnor (come mi aveva detto Hollus a un certo punto) e cinquantasette milioni di Wreed, più innumerevoli altri esseri pensanti in tutto l’universo… e calcolava il gioco, il vero Game of Life, il Gioco della Vita, in tutta la panoplia di possibili mosse per ciascun giocatore? — Quindi ipotizzi che Dio sceglie, momento per momento, quale realtà presente vuole osservare — dissi — e che, così facendo, ha costruito una storia concreta, istante per istante, inquadratura per inquadratura? — Così dev’essere — disse il traduttore. Guardai il bizzarro Wreed dalle molte dita e il tozzo Forhilnor simile a ragno, lì con me, una scimmia glabra (più di tanti altri, ora) e bipede. Mi domandai se Dio era contento del modo in cui procedeva la partita. — E ora — disse T’kna — reciprocità di domande. Era il suo turno. Giustissimo. — Prego — dissi. Le pieghe della pelle ai lati del braccio frontale si mossero; immaginai che quello “scrollare d’orecchie” fosse il modo dei Wreed per dire: “Prego?” — Procedi pure — precisai. — Fai la domanda. — La stessa, rovesciata — disse T’kna. — Vuole sapere… — cominciò Hollus. — Se credo in Dio? — completai. Mi aveva rilanciato la palla. Esitai, poi dissi: — Sono convinto che Dio, se esiste, sia del tutto indifferente a ciò che accade a ciascuno di noi. — Ti sbagli — disse T’kna. — Dovresti strutturare la tua vita intorno all’esistenza di Dio. — Uhm. E cosa comporterebbe esattamente? — Dedicare metà della vita da sveglio ai tentativi di comunicare con lui/lei/esso. Hollus piegò le quattro gambe più vicine a me e inclinò il tronco nella mia direzione. — Ecco perché i Wreed non si vedono di frequente — disse piano. — Ci sono esseri umani che dedicano alla preghiera una parte del loro tempo, ma non sono uno di loro. — Preghiera non è — replicò il traduttore. — Non desideriamo da Dio niente di materiale; vogliamo semplicemente parlare con lui/lei/esso. E tu dovresti fare la stessa cosa; solo uno sciocco non spenderebbe un mucchio di tempo nel tentativo di comunicare con un Dio la cui esistenza è stata dimostrata. Avevo già incontrato umani della chiesa evangelica (forse più di quanti non mi spettassero) perché spesso le mie conferenze sull’evoluzione suscitavano la loro collera. Quando ero più giovane, solevo discutere con loro, di tanto in tanto; ma negli ultimi tempi mi limitavo a sorridere cortesemente e ad allontanarmi. Hollus però rispose per me. — Tom ha il cancro — disse. Rimasi un po’ stizzito: m’aspettavo che tenesse per sé l’informazione, ma poi mi dissi che l’idea che le faccende mediche siano cosa privata forse era tipica solo degli esseri umani. — Cordoglio — disse T’kna. Si toccò la fibbia con la girandola rossa. — Un mucchio di gente devotamente religiosa è morta di morte orribile per il cancro e per altre malattie — replicai. — Come lo spieghi? Diamine, come spieghi l’esistenza stessa del cancro? Quale Dio creerebbe una simile malattia? — Può darsi che lui/lei/esso non l’abbia creata — disse T’kna. — Il cancro potrebbe essere sorto spontaneamente in uno o in multipli possibili periodi temporali. Il futuro però non si verifica uno per volta. Né esiste un numero infinito di possibilità fra le quali Dio può scegliere. Lo specifico sviluppo di realtà che comprendeva il cancro, presumibilmente indesiderabile, di sicuro conteneva anche qualche altra cosa molto desiderata. — Così lui doveva accettare l’uno e l’altro? — Plausibile — rispose T’kna. — Non mi pare poi un gran dio — dissi. — Gli esseri umani sono unici nel credere nell’onnipotenza e nell’onniscienza divine — replicò T’kna. — Il vero Dio non è una forma idealizzata; lui/lei/esso è reale e quindi, per definizione, imperfetto; solo un’astrazione può essere senza difetti. E poiché Dio è imperfetto, ci sarà sofferenza. Un concetto interessante, dovevo ammetterlo. Il Wreed emise altri acciottolii e, dopo un poco, il traduttore riprese: — I Forhilnor erano sorpresi che non avessimo una scienza cosmologica sofisticata. Sapevamo però della creazione e della distruzione di particelle virtuali nel vuoto. Come la fallacia di un Dio perfetto intralciava la nostra teologia, così la fallacia di un vuoto perfetto intralciava la nostra cosmologia, perché sostenere che il vuoto è nulla e che questo nulla è reale equivale a sostenere che esiste qualcosa che non è niente. Non esiste il vuoto perfetto; non esiste il Dio perfetto. La tua sofferenza non richiede maggiori spiegazioni dell’inevitabile imperfezione di Dio. — Ma l’imperfezione spiega soltanto perché la sofferenza inizia — obiettai. — Non appena il tuo Dio si è accorto che la sofferenza esiste, se avesse avuto il potere di fermarla, allora di sicuro, in quanto entità morale, avrebbe dovuto fermarla. — Se Dio è davvero consapevole della tua malattia e non ha fatto niente — replicò T’kna — allora altre preoccupazioni esigono che lui/lei/esso ne lasci proseguire il corso. Era troppo, per me. — Maledizione — sbottai. — Vomito sangue! Ho un bambino di sei anni spaventato a morte… un bambino che dovrà crescere senza padre. Ho una moglie che sarà vedova prima di questa estate. Quali altre preoccupazioni potrebbero superare queste? D Wreed parve agitato, fletté le gambe come per correre via… forse l’istintiva reazione a una minaccia. Anche se in realtà non era nella sala, è ovvio, era al sicuro a bordo dell’astronave madre. Dopo un momento si calmò. — Una risposta diretta desideri? Espirai, nel tentativo di calmarmi. Mi ero dimenticato delle telecamere e provai un certo imbarazzo. Non ero tagliato, immagino, per fare l’ambasciatore della Terra. Diedi un’occhiata a Hollus. Aveva smesso di agitare i peduncoli oculari: una reazione, avevo già notato, di sorpresa. Il mio scatto d’ira aveva sconvolto anche lui. — Chiedo scusa — dissi. Inspirai a fondo, poi emisi lentamente il fiato. — Sì — ripresi, con un lieve cenno — voglio una risposta onesta. Il Wreed ruotò di 180 gradi, in modo da darmi la schiena (fu in quella circostanza che vidi la mano posteriore). In seguito venni a sapere che se un Wreed ti rivolge la parte posteriore, sta per parlare con estrema franchezza. Sulla schiena la cintura gialla aveva una identica fibbia e il Wreed la toccò. — Questa simbolizza la mia religione — disse. — Una galassia di sangue, una galassia di vita. — Esitò. — Se Dio non ha creato direttamente il cancro, allora è ingiusto incolpare lui/lei/esso della sua esistenza. Se l’ha creato, allora l’ha creato perché è necessario. La tua morte può non avere alcuno scopo per te o per la tua famiglia. Ma ha uno scopo nel progetto del creatore; a prescindere dalla sofferenza che potrai patire, fai parte di tutto ciò che ha significato. — Non provo nessuna gratitudine — dissi. — Mi sento maledetto. Il Wreed ebbe una reazione sorprendente: si girò e protese la mano dalle nove dita. Mi sentii formicolare la pelle, quando ì campi di forza del suo avatar mi toccarono la mano. Le nove dita mi diedero una stretta gentile. — Poiché il tuo cancro è inevitabile — disse la voce sintetizzata — forse troveresti pace se credessi ciò che credo io anziché ciò che credi tu. Non seppi che cosa rispondere. — E ora — riprese T’kna — devo liberarmi: è tempo di nuovo che tenti di comunicare con Dio. Il Wreed ondeggiò e svanì. Io ondeggiai soltanto. 14 Una ricostruzione… A mezza città di distanza, sulle sponde del lago Ontario, in una stanza di motel d’infima categoria, Cooter Falsey, seduto in una sedia sdraio, si stringeva le ginocchia e piagnucolava. — Non doveva andare così continuava a ripetere, come se fosse un mantra, una preghiera. — Non doveva andare così. Falsey aveva ventisei anni; era magro, biondo, con capelli a spazzola e denti storti. J.D. Ewell si sedette sul letto, di fronte a Falsey. Aveva dieci anni più dell’altro, viso tirato e capelli neri, più lunghi. — Ascoltami — disse in tono gentile. Poi, con più forza: — Stammi a sentire! Falsey, occhi arrossati, alzò lo sguardo. — Ecco, così va meglio — disse Ewell. — È morto! — disse Falsey. — L’ha detto la radio: il medico è morto. Ewell si strinse nelle spalle. — Occhio per occhio. — Non volevo uccidere nessuno — disse Falsey. — Lo so. Ma quel medico faceva il lavoro del diavolo. Lo sai, Cooter. Dio ti perdonerà. Cooter Falsey parve riflettere su quelle parole. — Credi? — Ma certo — disse Ewell. — Pregheremo per il Suo perdono, tu e io. E Lui lo concederà, sai che lo concederà. — Che fine faremo, se ci sorprendono qui? — Nessuno ci sorprenderà, Cooter. Non preoccuparti. — Quando possiamo andare a casa? — chiese Falsey. — Non mi piace stare in un paese straniero. È stato già brutto venire a Buffalo, ma almeno era negli Stati Uniti, Se ci prendono, chissà cosa ci fanno, i canuck. Forse non ci faranno più tornare a casa. Ewell pensò di dire che almeno in Canada non c’era la pena di morte, ma cambiò idea. Disse invece: — Ancora non possiamo varcare la frontiera. Hai sentito il notiziario: hanno già immaginato che si tratta degli stessi che hanno fatto saltare la clinica a Buffalo. Meglio stare qui per un poco. — Voglio andare a casa — disse Falsey. — Fidati di me — disse Ewell. — Meglio restare ancora un poco. — Esitò, incerto se fosse il momento buono per affrontare l’argomento. — E poi dobbiamo fare ancora un lavoro, quassù. — Non voglio uccidere nessun altro. Non voglio… non posso farlo, J.D. Non posso. — Lo so — disse Ewell. Accarezzò il braccio di Falsey. — Lo so. Ma non devi farlo, te lo prometto. — Non lo sai — protestò Falsey. — Non puoi esserne sicuro. — Sì, posso — replicò Ewell. — Non devi preoccuparti, stavolta non dovrai uccidere nessuno… quello che cerchiamo è già morto. — Be’, è stata davvero una conversazione sconcertante — dissi a Hollus, quando il Wreed se ne fu andato. I peduncoli oculari dell’alieno si incresparono in una S. — Ora capisci perché mi piace parlare con te, Tom. Almeno posso capirti. — La voce di T’kna pareva tradotta da un computer. — Sì. I Wreed non parlano in modo lineare. Le loro parole sono intrecciate in un modo complesso che per noi è del tutto non intuitivo. Il computer deve attendere la fine della frase e poi tenta di decifrare il significato. Riflettei sulla spiegazione. — Qualcosa come le crittografie? Sai, quando scriviamo “lui egli stesso”, ma lo decifriamo come: la parola “lui” è accanto alle parole “egli stesso”; e ne ricaviamo: “lui non è in egli stesso”, ossia una metafora per indicare: “lui è fuori di sé, è in stato d’estrema eccitazione o agitazione”. — Non ho mai incontrato simili enigmi — disse Hollus. — Sì, mi pare che ci sia una vaga analogia, però con pensieri molto più complessi e con relazioni fra le parole molto più intricate. La sensibilità del contesto ha estrema importanza per i Wreed: le parole hanno significato assai diverso a seconda della posizione nella frase. Molti sinonimi sembrano avere un identico significato, ma solo uno di essi è quello corretto, in un dato contesto. Abbiamo impiegato anni per imparare a comunicare verbalmente con i Wreed. Solo alcuni dei miei ci riescono senza l’aiuto del computer e io non sono fra questi. A parte le mere strutture sintattiche, i Wreed sono diversi dagli esseri umani e dai Forhilnor. Fondamentalmente non hanno il nostro processo di pensiero. — Cosa c’è di diverso? — Hai notato le loro appendici digitali? — Le dita? Sì. Ne ho contate ventitré. — Le hai contate, sì — disse Hollus. — La stessa cosa che ho fatto anche io, la prima volta che incontrai un Wreed. Ma un Wreed non avrebbe dovuto contare: avrebbe semplicemente saputo che erano ventitré. — Be’, sono le sue dita! — No, no, no. Non avrebbe dovuto contare perché non può percepire alla prima occhiata quel livello di cardinalità. — Ballonzolò. — È divertente, ma forse ho studiato psicologia umana più di te… non che sia il mio campo, però… — Rimase di nuovo in silenzio per qualche istante. — Questo è un altro concetto che i Wreed non hanno: uno specialistico campo di tentativo. — Sei chiaro quanto T’kna — dissi, scotendo la testa. — Hai ragione, scusami. Riproviamo. Ho studiato psicologia umana, per quanto si possa studiare dalle trasmissioni radio e televisive. Hai contato ventitré dita su T’kna e senza dubbio è vero. Nella tua mente hai detto: uno, due, tre eccetera eccetera, fino a ventitré. E, se sei come me, probabilmente hai rifatto il conteggio, solo per essere sicuro di non avere sbagliato la prima volta. Annuii: avevo fatto proprio così. — Bene, se ti mostrassi un oggetto, per esempio un sasso, tu non dovresti contarlo. Ti limiteresti a percepire la sua cardinalità: sapresti che è uno. Lo stesso avviene con due oggetti. Vedi due sassi e in una sola occhiata, senza conteggiare, percepisci che sono due. Puoi farlo per tre, quattro o cinque oggetti, se rientri nella media degli esseri umani. Solo davanti a sei o più oggetti inizi realmente a contare. — Come lo sai? — Ho guardato un programma che ne parlava, su Discovery Channel. — D’accordo. Ma come fu originariamente determinato? — Con esperimenti per vedere con quanta rapidità gli esseri umani possono contare gli oggetti. Se ti mostrano da uno a cinque oggetti, per dire quanti sono impieghi all’incirca lo stesso tempo. Solo per sei o più impieghi un tempo superiore, che cresce col crescere del numero di oggetti. — Non lo sapevo — ammisi. — Chi vive, impara — disse Hollus. — Individui della mia specie possono usualmente percepire cardinalità fino a sei, un leggero miglioramento rispetto a voi. Ma i Wreed ci battono: un normale Wreed può percepire la cardinalità fino a quarantasei e alcuni fino a sessantanove. — Sul serio? E cosa accade quando il numero degli oggetti è superiore? Devono contarli tutti a partire da uno? — No, i Wreed non contano! Non sanno contare, letteralmente. O percepiscono la cardinalità o non la percepiscono. Hanno parole distinte per i numerali da uno a quarantasei e poi un’altra parola che significa semplicemente “molti”. — Ma non hai detto che alcuni percepiscono numeri più alti? — Sì, ma non possono precisarli; non hanno i vocaboli per farlo. I Wreed in grado di percepire cardinalità superiori hanno ovviamente un vantaggio nella competizione. Uno potrebbe proporre di scambiare cinquantadue animali domestici per sessantotto animali domestici e l’altro Wreed, meno dotato, sapendo solo che tutt’e due sono grandi quantità, non avrebbe modo di valutare l’equità dello scambio. I sacerdoti wreed hanno quasi sempre una capacità superiore al normale in questo. — Veri cardinali della chiesa — dissi. Hollus capì la battuta. Increspò i peduncoli oculari e commentò: — Proprio così. — Perché supponi che non abbiano mai sviluppato la capacità di contare? — Il nostro cervello ha solo le qualità ricevute dall’evoluzione. Per gli antenati della tua e della mia specie, c’erano effettivi vantaggi orientati alla sopravvivenza nel saper determinare quantità superiori a cinque o sei: se sette individui in collera ti bloccano la strada sulla sinistra e otto sulla destra, le tue probabilità, per quanto scarse, sono migliori se vai a sinistra. Se hai dieci membri della tribù, te compreso, e devi raccogliere frutta per il pranzo, cerca di tornare con dieci frutti, altrimenti ti farai un nemico. Anzi, portare solo nove frutti significherà rinunciare al tuo per tenere buoni gli altri, ossia un maggiore sforzo personale senza personale beneficio. “Ma i Wreed non formano mai gruppi permanenti più numerosi di una ventina di individui… quantità che percepiscono come gestalt. E se hai quarantanove nemici alla tua sinistra e cinquanta alla tua destra, la differenza è irrilevante: sei condannato sia da una parte sia dall’altra. In effetti, per usare una metafora degli esseri umani, si potrebbe dire che la natura ha distribuito ai Wreed una brutta mano… o in realtà quattro brutte mani. Voi avete dieci dita, che è un buon numero: porta alla matematica, poiché è pari e può essere diviso in metà, in quinti e in decimi; è anche la somma dei primi quattro numeri interi. Anche a noi Forhilnor è andata bene. Noi contiamo battendo a terra i piedi: ne abbiamo sei e anche sei è un numero pari e suggerisce metà, terzi e sesti. Ed è la somma dei primi tre numeri. Anche in questo caso, una base mentale per la matematica. “Ma i Wreed hanno ventitré dita. Ventitré è un numero primo, non suggerisce nessun divisore a parte se stesso ed è troppo grande per applicazioni nel mondo quotidiano. E non è la somma di nessuna sequenza continua di numeri interi. Ventuno e ventotto sono la somma dei primi sei e dei primi sette numeri; ventitré non ha un simile significato. Con l’arrangiamento di dita che hanno, non hanno mai sviluppato il contare né il tipo di matematica da noi utilizzato.” — Affascinante — dissi. — Davvero — ammise Hollus. — C’è di più: avrai di sicuro notato l’occhio di T’kna. Restai sorpreso. — A dire il vero, no. Mi pareva che non avesse occhi. — Ne ha esattamente uno, quella striscia nera e umida intorno alla parte superiore del tronco. Un grande occhio che percepisce un angolo completo, 360 gradi. Una struttura affascinante: la retina dei Wreed ha strati di fotoricettori che si alternano in una sequenza sfalsata di trasparenza e di opacità. Questi strati sono sovrapposti in una pila di più di un centimetro e forniscono nette immagini in tutte le lunghezze focali simultaneamente. — Gli occhi si sono evoluti una decina di volte, nella storia della Terra — dissi. — Insetti, cefalopodi, ostriche, vertebrati e molte altre specie hanno sviluppato occhi, indipendentemente l’una dall’altra. Ma non ho mai sentito parlare di una disposizione come quella. — Nemmeno noi, finché non abbiamo incontrato i Wreed. Ma la struttura dell’occhio ha anche un impatto sul loro modo di pensare. Per restare nell’ambito della matematica, considera il modello basilare per tutti i computer digitali, sia vostri sia nostri: il modello, secondo un documentario che ho visto sulla pbs, detto macchina di Turing. La macchina di Turing è semplicemente una striscia di nastro di carta di lunghezza infinita, diviso in quadrati, accoppiato con una testina stampa/cancella che può muoversi a sinistra, a destra o restare ferma e può stampare un simbolo in un quadrato o cancellare il simbolo che già si trova nello stesso quadrato. Programmando movimenti e azioni per la testina stampa/cancella, si può risolvere ogni problema calcolabile. Con un cenno invitai Hollus a proseguire. — L’occhio dei Wreed ha una visione panoramica circolare completa e non richiede messa a fuoco: tutti gli oggetti sono percepiti con uguale chiarezza nello stesso tempo. Voi umani e noi Forhilnor usiamo le parole concentrarsi e focalizzare per descrivere l’atto di fissare l’attenzione su qualcosa e quello di riflettere; ci si concentra su una questione, ci si focalizza su un problema. I Wreed non fanno né l’una né l’altra cosa: percepiscono il mondo in maniera olistica, perché sono fisiologicamente incapaci di concentrarsi su una sola cosa. Certo, possono stabilire priorità in senso intuitivo: il predatore vicino è più importante del filo d’erba lontano. Ma la macchina di Turing si basa su un tipo di pensiero estraneo a loro: la testina stampante è il punto dove tutta l’attenzione si concentra: il punto focale dell’operazione. I Wreed tuttavia hanno analoghi computer e sono esperti in fenomeni di conformazione empirica, oltre che nel capire quali fattori entrano nel produrli… ma non possono avanzare un modello matematico. Per metterla in un altro modo, possono predire senza spiegare: hanno logica intuitiva, non deduttiva. — Sorprendente — dissi. — Ho sempre pensato che la matematica sarebbe stata l’unica cosa che avremmo avuto in comune con ogni altra forma di vita intelligente. — Era anche la nostra ipotesi. I Wreed, è ovvio, sono stati svantaggiati dalla mancanza della matematica. Non hanno mai inventato la radio… ecco perché, malgrado tutti gli ascolti che il vostro Progetto seti ha dedicato a Delta Pavonis, non sono mai stati individuati. Quando la nostra prima astronave giunse su quel pianeta, restammo enormemente sorpresi nel trovarvi una civiltà tecnologica. — Be’, forse i Wreed non sono realmente intelligenti. — Lo sono. Hanno costruito bellissime città, pur disponendo solo dell’argilla che copre gran parte del pianeta. L’urbanistica è per loro un’arte; vedono l’intera metropoli come un’entità coesiva. In effetti, per molti versi sono più intelligenti di noi. Be’, forse è un’affermazione esagerata: diciamo che la loro forma di intelligenza è diversa. La cosa più prossima a un punto d’accordo è il nostro uso dell’estetica per valutare teorie scientifiche. Tu e io conveniamo che la teoria più elegante ha grandi probabilità di essere anche la più giusta: cerchiamo l’eleganza, nel modo in cui opera la natura. I Wreed condividono questo nostro atteggiamento, ma in loro è innata la comprensione di ciò che costituisce la bellezza; consente loro di percepire quale di parecchie teorie è quella corretta, senza farne l’esame matematico. Il loro senso della bellezza pare anche in qualche modo collegato al fatto che siano così bravi in questioni che ci rendono perplessi. — Per esempio? — L’etica e la morale. Non esiste il crimine, nella loro società; e i Wreed paiono in grado di risolvere con facilità i più fastidiosi dilemmi morali. — Ossia? Quali intuizioni hanno sulle questioni morali? — Be’, una delle più semplici è che l’onore non deve essere difeso. — Molti esseri umani sarebbero in disaccordo con questa idea. — Non quelli che sono in pace con se stessi, sospetto. Meditai su quelle parole, poi scrollai le spalle. Forse aveva ragione lui. — E poi? — Fammi un esempio di dilemma morale e cercherò di mostrarti come un Wreed lo risolverebbe. Mi grattai la testa. — Be’, d’accordo… d’accordo, senti questo. Di recente mio fratello Bill si è sposato per la seconda volta. Ora, sua moglie Marilyn è molto bella, credo… — I Wreed direbbero che non dovresti tentare di accoppiarti con la moglie di tuo fratello. Scoppiai a ridere. — Oh, lo so! Ma la questione era un’altra. Marilyn è bella, ma è anche, be’, formosa; troppo in carne, perfino. E non fa esercizi fisici. Ora, Bill continua a fare pressioni su Marilyn affinché vada in palestra. Marilyn vuole che lui la smetta di tormentarla, dice che dovrebbe accettarla così com’è. E Bill replica: “Be’, sai, se accettassi che tu non faccia esercizi fisici, allora tu dovresti accettare la mia voglia di cambiarti… poiché la voglia di cambiare la gente è parte fondamentale del mio carattere!”. Capito? Ovviamente Bill sostiene che i suoi commenti sono altruisti, mossi da genuina preoccupazione per la salute di Marilyn. — Esitai. Questa storia mi fa venire l’emicrania, ogni volta che ci penso. Fissai Hollus. — Allora, chi ha ragione? — Nessuno dei due — rispose subito Hollus. — Nessuno dei due? — ripetei, sorpreso. — Esatto. È un dilemma facile, dal punto di vista dei Wreed. Non avendo matematica, non trattano mai le questioni morali come un gioco dove uno deve vincere e un altro deve perdere. Dio, direbbero i Wreed, vuole che amiamo gli altri così come sono e inoltre che ci sforziamo di aiutarli a realizzare il loro potenziale… le due cose dovrebbero accadere insieme. In realtà una basilare convinzione dei Wreed è che il nostro fine individuale nella vita è aiutare altri a divenire grandi. Tuo fratello non dovrebbe esprimere dispiacere per il peso della moglie; ma finché lui non raggiunge quell’ideale di silenzio, sua moglie dovrebbe non tenere conto dei suoi commenti: imparare a non tenere conto delle cose è uno dei grandi sentieri che portano alla pace interiore, dicono i Wreed. Intanto, però, se sei in relazione amorosa e il tuo partner è diventato dipendente da te, hai l’obbligo di proteggere te stesso, portando cinture di sicurezza nei veicoli, mangiando bene, facendo esercizi fisici eccetera… questo è l’obbligo morale di Marilyn verso Bill. Corrugai la fronte. — Be’, immagino che sia sensato — dissi poi. Non mi veniva in mente però nessun modo di farlo capire a Bill o a Marilyn. — E nelle questioni controverse? Avrai letto della clinica per aborti fatta saltare in aria. — I Wreed direbbero che la violenza non è una soluzione. — Sono d’accordo, però ci sono moltissime persone non violente in tutt’e due le fazioni. — Quali sono, queste due fazioni? — Quella a favore della vita e quella a favore della scelta. La prima ritiene che ogni concepimento abbia diritto di compiersi. La seconda ritiene che ogni donna debba avere il diritto di controllare il proprio processo riproduttivo. Allora, chi è nel giusto? Hollus dondolò con insolita velocità i peduncoli oculari. — Anche in questo caso, nessuno dei due — disse. Esitò. — Mi auguro di non risultare offensivo… non è mai stato mio desiderio essere critico verso la tua razza. Ma mi sorprende vedere che avete sia saloni per tatuaggi sia cliniche per aborti. I primi, una faccenda commerciale dedicata a modifiche permanenti dell’aspetto, implicano che gli esseri umani possono predire ciò che vorranno nel futuro, anche a distanza di decenni. Le seconde, ambulatori per porre fine alle gravidanze, implicano che gli esseri umani spesso cambiano idea addirittura nel giro di alcuni mesi. — Be’, molte gravidanze non sono volute. La gente fa sesso perché è divertente e lo fa anche quando non desidera procreare. — Non avete metodi contraccettivi? Se non li avete, sono sicuro che Lablok potrebbe studiarne alcuni per voi. — No, no. Abbiamo molti metodi per il controllo delle nascite. — Efficaci? — Sì. — Dolorosi? — Dolorosi? No, certo. — I Wreed direbbero allora che l’aborto non dovrebbe essere una questione morale perché la semplice precauzione ovvierebbe alla necessità di discuterne, eccezion fatta per alcuni casi inusuali. Se si può facilmente scegliere di non restare incinta, allora questo è senz’altro il corretto esercizio della scelta. Se si può scansare un difficile problema morale, come stabilire il momento d’inizio della vita, perché non limitarsi a evitarlo? — Ci sono casi di stupro e di incesto. — Incesto? — Accoppiamento nell’ambito familiare. — Ah. Senza dubbio saranno eventi eccezionali. Forse la migliore lezione morale da noi appresa dalla frequentazione con i Wreed è che i principi generali non dovrebbero basarsi su casi eccezionali. Questa sola intuizione ha enormemente semplificato il nostro sistema legale. — E allora cosa fate nei casi eccezionali? Nel caso di uno stupro che dia origine a una gravidanza? — Naturalmente la donna non ha avuto la possibilità di esercitare preventivamente mediante contraccettivi il proprio diritto alla riproduzione; quindi dovrebbe avere il permesso di riacquisire il pieno controllo della propria biologia come desidera. In simili casi, l’aborto è un’ovvia scelta accettabile; in altri, il controllo delle nascite è la via preferibile. — C’è però chi ritiene immorale il controllo delle nascite. I globi oculari dell’alieno si guardarono brevemente l’un l’altro e ripresero la normali oscillazioni. — Pare proprio che voi umani facciate deviazioni solo per fabbricare questioni morali — disse Hollus. — Non c’è niente d’immorale, nella contraccezione. Questi però sono facili esempi del modo di pensare dei Wreed. Se andiamo in campi più complessi, le loro risposte purtroppo non hanno senso per noi; sembrano gergo incomprensibile… il nostro cervello non è attrezzato per apprezzare ciò che loro dicono. I dipartimenti di filosofia nell’equivalente forhilnor delle vostre università avevano scarsa considerazione, finché non abbiamo incontrato i Wreed; adesso sono occupatissimi nel tentativo di decifrare complessi pensieri wreed. Meditai su quelle parole. — E con menti portate all’etica e alla percezione dell’implicita bellezza, i Wreed hanno deciso che Dio esiste realmente? Hollus fletté le sei gambe, sia al ginocchio superiore sia al ginocchio inferiore. — Sì. Non sono un tipo troppo arrogante. Non insisto perché mi chiamino dottor Jericho e cerco di tenere per me le mie opinioni. Sono però convinto di avere una buona presa sulla realtà, un’accurata visione del mondo. E il mio mondo, anche prima che il cancro mi colpisse, non comprendeva un dio. Ora però avevo conosciuto non una, ma due forme di vita aliena, due diversi esseri provenienti da mondi più progrediti del mio. E tutt’e due queste forme di vita credevano che l’universo fosse stato creato, che mostrasse chiara prova di progetto intelligente. Perché ne ero così sorpreso? Perché avevo presunto che simili pensieri sarebbero stati, be’, alieni a creature progredite? Fin dai tempi antichi il segreto dei filosofi era sempre stato questo: noi sappiamo che Dio non esiste o almeno che, se esiste, è del tutto indifferente ai nostri affari individuali; ma non possiamo lasciare che la plebaglia lo sappia; è la paura di Dio, la minaccia del castigo divino e la promessa della ricompensa divina, ciò che tiene in riga quelli troppo sempliciotti per capire da soli le questioni morali. In una razza progredita, però, con cultura universale e desideri materiali appagati grazie al potere della tecnologia, di certo ognuno è filosofo, ognuno è informato dell’antica verità un tempo tenuta segreta, ognuno sa che Dio è soltanto una favola, soltanto un mito: allora possiamo lasciar cadere ogni pretesto, liberarci della religione. Naturalmente è possibile apprezzare le tradizioni religiose… i riti, i legami col passato… senza credere in Dio. In fin dei conti, come ha osservato un mio amico ebreo, gli unici ebrei sopravvissuti alla Seconda guerra mondiale o erano diventati atei o non si erano accorti del conflitto. Però, in realtà, ci sono milioni di ebrei che credono realmente in Dio; a dire il vero, il secolare giudaismo sionista era in fase decrescente, mentre sorgeva l’osservanza formale. E ci sono milioni di cristiani che credono nella santa trinità composta da (come ha detto spiritosamente una volta un mio amico cattolico) il Grande Vecchio, Junior e il Fantasma. E ci sono milioni di musulmani che ritengono il Corano la parola rivelata di Dio. A dire il vero, anche qui, all’alba del secolo che segue quello in cui abbiamo scoperto il dna e la fisica quantistica e la fissione nucleare, nel quale abbiamo inventato computer e astronavi e laser, il novantasei per cento della popolazione mondiale crede davvero in un essere supremo… e la percentuale cresce, non cala. Allora perché ero così sorpreso che Hollus credesse in Dio? Che un alieno di una cultura un paio di secoli più progredita della mia non si fosse tolto di dosso le ultime tracce del sovrannaturale? Anche se non avesse avuto una teoria unificata per giustificare le sue convinzioni, perché sarebbe dovuto essere tanto bizzarro da non essere ateo? Non mi ero mai chiesto se avevo ragione o torto, nell’affrontare creazionisti chiaramente illusi. Non avevo mai dubitato delle mie convinzioni, nel difendermi da fondamentalisti. Eppure ero qui, in contatto con creature di altre stelle, e il fatto che fossero venute sul mio pianeta, mentre io non potevo andare sul loro, proclamava con grande chiarezza chi di noi era intellettualmente superiore. E quegli alieni credevano in ciò in cui avevo smesso di credere fin dall’infanzia… Che l’universo tosse opera di un progettista intelligente. 15 — Sono due i motivi per cui un paziente potrebbe sottoporsi alla chemioterapia — disse a Susan e a me la dottoressa Katarina Kohl, poco dopo la diagnosi. — Il primo è la speranza di eliminare il cancro. — Guardò me, poi Susan, poi di nuovo me. — Ma vi dirò la verità. Tom, nel suo caso le probabilità sono molto scarse. Di rado il cancro al polmone viene sconfitto. — Allora niente chemioterapia — dissi subito. — Non voglio passare tra le sofferenze quel poco di vita che mi resta. La dottoressa Kohl sporse le labbra. — Indubbiamente la decisione spetta a lei — disse poi. Rivolse un cenno a Susan. — A tutti e due. Ci sono però degli equivoci, la chemioterapia può essere anche un palliativo: ecco è il secondo motivo da tenere presente. Mossi le labbra a formare la parola palliativo. La dottoressa Kohl annuì. — Probabilmente soffrirà parecchio nei prossimi mesi, Tom. La chemioterapia può ridurre la sofferenza riducendo la massa dei tumori. — Lei cosa farebbe al mio posto? — domandai. La dottoressa Kohl si strinse nelle spalle. — Se fossimo negli Stati Uniti… se lei non avesse assicurazione medica e dovesse pagare di tasca sua la chemioterapia, forse ne farebbe a meno e si rassegnerebbe a convivere con i dolori… anche se, in un caso e nell’altro, le prescriverei degli analgesici per resistere meglio. In genere, quando ho a che fare con carcinomi polmonari a grandi cellule, uso composti di platino… e sono medicinali molto costosi. Però dal momento che l’ohip pagherà l’intera cura, le suggerisco di prenderli. Useremo cis-platino in combinazione con etoposide di vinblastina o mitomicina-C. I composti di platino devono essere somministrati in ospedale, ma sono la scommessa migliore nei casi di cancro al polmone. — Effetti collaterali? — domandai. — Possibile nausea. Perdita parziale o totale dei capelli. —Voglio lavorare il più a lungo possibile. — La chemioterapia può aiutarla. Non le prolungherà la vita, ma può renderla più produttiva. Ricky adesso andava a scuola a tempo pieno e Susan aveva il suo impiego. Se avessi continuato a lavorare, anche per qualche mese, sarebbe stato meglio che rimanere a casa e avere bisogno di cure continue. — Non prenda subito una decisione — disse la dottoressa Kohl. — Ci rifletta. — Ci diede da leggere alcuni opuscoli. Hollus credeva in Dio. T’kna credeva in Dio. E io? — Forse mi lascio condizionare troppo dalla parola Dio — dissi a Hollus, una volta tornati nel mio ufficio. — Certo, se ipotizzi che nell’evoluzione sulla Terra abbia interferito una fonte esterna, non posso dire che ti sbagli. In fin dei conti tu stesso mi hai detto che c’erano alieni intelligenti in questa parte della galassia, tre miliardi di anni fa. — Sì, la razza di Eta Cassiopeae A III. — Quelli che fecero esplodere la loro luna, no? — No, quelli erano gli abitanti di Mu Cassiopeae A I, a 5,5 anni luce da Eta Cassiopeae. — Ah. Bene, gli esseri di Eta Cassiopeae, diciamo di Eta Terzo per semplificare, avevano una civiltà tecnologica già tre miliardi di anni fa, quando sul mio pianeta la vita era appena agli inizi. A quel tempo non avrebbero certamente avuto difficoltà a venire qui. — Sorvoli su un mucchio di tempo — disse Hollus. — Tu stesso hai detto che la vita qui esisteva almeno ottocento milioni, se non un miliardo, di anni prima di tre miliardi di anni fa. — Be’, sì, ma… — E ovviamente a quel tempo il nostro sole, Beta Hydri, non si era ancora formato; come ti ho già detto, conta solo 2,6 miliardi di anni, perciò nessun abitante di Eta Terzo potrebbe averlo visitato. — Forse allora non erano quelli di Eta Terzo, ma è possibile che esseri di un’altra stella siano venuti qui o sul vostro pianeta o su quello dei Wreed. Tutte le azioni che attribuisci a Dio possono essere opera di alieni progrediti. — La tua tesi presenta due problemi — disse educatamente Hollus. — Primo, anche se escludi la necessità di Dio negli eventi recenti… eventi degli ultimi miliardi di anni; eventi accaduti dopo la comparsa, in questo universo, di altri osservatori consapevoli… non hai fatto niente per escludere la necessità di un progettista che abbia stabilito i valori delle cinque costanti fondamentali, le proprietà termiche dell’acqua e così via. Quindi, ciò che fai è contrario al rasoio di Occam di cui hai parlato: accresci, non riduci, il numero di entità che hanno influenzato la tua esistenza: un inevitabile dio per creare l’universo ed eventuali entità minori che in seguito abbiano manipolato lo sviluppo della vita. Rimase in silenzio un istante. — Secondo — riprese — non devi dimenticare le estinzioni di massa evidentemente orchestrate per verificarsi simultaneamente nei nostri tre pianeti: la più antica avvenne 440 milioni di anni fa; la più recente, 65 milioni di anni fa. C’è un arco di 375 milioni di anni… eppure come abbiamo trovato, la durata di vita di una razza intelligente, misurata dal punto in cui ha inventato la radio, non supera a quanto pare un paio di centinaia d’anni: poi la razza si autodistrugge o scompare. — D’accordo — dissi. — Forse í parametri fondamentali sono stati davvero stirati per creare un universo in grado di dare origine alla vita. — Non si tratta di supposizione — dichiarò Hollus. — L’universo è stato chiaramente progettato per generare la vita. — E va bene. Ma se accettiamo questa premessa, di sicuro l’unico fine del creatore non può essere quello di creare la vita. Bisogna pensare che il tuo progettista putativo volesse non solo la vita, ma la vita intelligente! La vita non intelligente in realtà è niente di più che chimica complessa. Solo quando sviluppa l’intelligenza, la vita diventa davvero interessante. — Dichiarazione bizzarra, per uno che studia í dinosauri — osservò Hollus. — Non proprio. In fin dei conti í dinosauri scomparvero 65 milioni di anni fa. Solo grazie all’avvento della vita intelligente sappiamo che sono esistiti. Ma ti avvicini al punto che volevo sostenere. — Cercai una metafora appropriata. — Sai cucinare? — Cucinare? Vuoi dire ricavare cibo da materiali grezzi? — Sì. — No. — Be’, io cucino, o almeno cucinavo. Ci sono pietanze che non puoi fare col semplice sistema di mettere nella pentola tutti gli ingredienti insieme fin dall’inizio. Se vuoi cucinarle, devi intervenire durante la cottura. Hollus rifletté. — Ipotizzi allora che in nessun modo il creatore avrebbe potuto ottenere vita intelligente senza intervento diretto? Molti spiriti religiosi obbietterebbero a questo concetto, perché l’intervento occasionale implica un Dio che sia solitamente assente dall’universo. — Non voglio implicare niente — dissi. — Mi limito ad analizzare l’assunto insito nelle tue convinzioni. I dinosauri hanno dominato la Terra più a lungo dei mammiferi, eppure non hanno mai raggiunto neppure lontanamente l’intelligenza. Col tempo il loro cervello si è ingrandito un poco, certo, ma perfino il più intelligente dinosauro mai vissuto… — presi il cranio del troodonte di Phil Currie, ora su uno scaffale alle mie spalle — non era più intelligente del più stupido mammifero. In realtà era impossibile che i dinosauri diventassero più intelligenti. Nei rettili non esiste quella parte del cervello dei mammiferi dove risiede l’intelligenza. Mi hai detto che le creature dominanti sul tuo pianeta fino a 65 milioni di anni fa, quei pentapodi, erano animali stupidi e che una situazione analoga si è avuta su Delta Pavonis. — Sì. — E i tuoi antenati di quel tempo erano, come i miei e quelli dei Wreed, creature di piccole dimensioni che vivevano ai margini dell’ecosistema. — Giusto — confermò Hollus. — Però quegli antenati avevano un cervello in grado di sviluppare l’intelligenza. I nostri antenati erano crepuscolari, si mettevano in attività al tramonto. Così svilupparono occhi grandi e complessa corteccia visiva. E ovviamente la capacità cerebrale per analizzare le immagini risultanti. — Vuoi dire che l’infrastruttura per l’intelligenza può solo sorgere in quegli animali che si trovano, per usare le tue parole, ai margini di un ecosistema? Animali costretti a nutrirsi di notte? — Forse. Se è così, allora l’intelligenza può solo realizzarsi se gli stupidi animali dominanti sono spazzati via. — Può darsi — disse Hollus. — Ma… oh, capisco. Secondo te, le condizioni che potrebbero far nascere la vita e perfino far iniziare l’intelligenza potrebbero essere codificate nel progetto stesso dell’universo, ma è impossibile far emergere l’intelligenza, farla sviluppare e fiorire, senza intervento diretto. Con mia stessa sorpresa, risposi: — Sì, è questa la mia ipotesi. — Che spiega le estinzioni di 65 milioni di anni fa. Ma quelle precedenti? — Chi lo sa? Forse erano indispensabili anch’esse per spostare l’ecosistema verso il conclusivo sviluppo dell’intelligenza. Sulla Terra, le estinzioni alla fine del permiano hanno contribuito a sgombrare il campo per rettili simili ai mammiferi, gli antenati dei mammiferi. La loro abilità di regolare la temperatura corporea era forse irrilevante, nel clima temperato esistente fino alla glaciazione che causò quelle estinzioni. Durante un evento glaciale, però, anche una primitiva capacità regolatrice della temperatura corporea sarebbe stata un grande vantaggio… e sospetto che la vera qualità del sangue caldo, che si evolse da quella capacità, è un altro requisito per l’intelligenza. Perciò l’estinzione del permiano fu un modo per accrescere notevolmente la percentuale di creature endotermiche, garantendo che non fossero spazzate via ed eliminate dal pool genetico. — Ma come potrebbe il creatore forzare un’era glaciale? — domandò Hollus. — Be, se presumiamo che alla fine del cretaceo abbia scagliato un asteroide su ciascuno dei nostri pianeti, al termine del permiano avrebbe anche potuto frantumare in orbita un paio di asteroidi per formare anelli intorno a ciascun pianeta. Un anello del genere, inclinato nel modo giusto, potrebbe ombreggiare notevolmente il pianeta e abbassare la sua temperatura quanto basta a provocare una massiccia glaciazione. Oppure il creatore potrebbe avere generato una nube di polvere che avviluppasse tutta questa parte della galassia, mettendo in ombra simultaneamente tutti i pianeti, il vostro, il nostro e quello dei Wreed. — E le altre estinzioni di massa? — domandò Hollus. — Altri aggiustamenti lungo la strada. Quella del triassico, per esempio, diede ai dinosauri, o alla loro controparte, il dominio del pianeta. Senza dinosauri a dominare l’ecosistema, i mammiferi o gli octopodi endotermici su Beta Hydri III e i vivipari come T’kna su Delta Pavonis II, non sarebbero mai stati costretti a condurre l’esistenza crepuscolare che favorì lo sviluppo di un cervello più grande. Occorre cervello, per sbarcare il lunario, quando non si è la specie dominante. Faceva una certa impressione, ascoltare quell’enorme ragno nella parte dell’avvocato del diavolo. — Ma l’unica prova diretta — disse infatti Hollus — che il creatore abbia manipolato l’evoluzione dopo l’inizio della vita è la coincidenza delle date delle estinzioni di massa su Beta Hydri III, Delta Pavonis II e Sol III. Certo, forse il creatore ha manipolato in modo analogo la vita nei sei pianeti abbandonati, ma di questo non siamo riusciti a trovare prova inequivocabile. — Be’, forse in questo universo il caso può favorire davvero lo sviluppo dell’intelligenza. Esiste anche la probabilità che gli asteroidi cadano sui pianeti ogni dieci milioni di anni più o meno. Ma non ci sarà mai l’esistenza contemporanea di varie specie intelligenti, a meno di mandare all’aria la tabella di marcia… e non una volta sola, ma parecchie volte. Per tornare alla metafora culinaria, certo, forse un’insalata potrebbe comparire per caso… che so, il vento ammassa sufficienti verdure. E forse una bistecca può comparire spontaneamente… un fulmine colpisce una mucca nel modo giusto. E potrebbe spuntare anche il vino… fermentazione di grappoli accumulati in uno stesso posto. Ma è impossibile che tutto ciò avvenga nello stesso tempo… un bicchiere di vino, un’insalata e una bistecca… senza svariati interventi. La stessa cosa potrebbe essere vera nel caso della comparsa simultanea di svariate forme di vita intelligente. — Questo però fa sorgere la domanda: perché Dio vuole l’esistenza contemporanea di svariate intelligenze? Mi grattai il mento. — Buona domanda! — Buona sul serio — disse Hollus. Riflettemmo per un poco, ma nessuno di noi due aveva una valida risposta. Erano quasi le cinque del pomeriggio. — Hollus? — dissi. — Sì? — Posso chiederti un favore? L’alieno smise di muovere i peduncoli oculari. — Quale? — Vorrei che venissi con me a casa mia. Cioè, lasciami portare a casa il proiettore d’ologramma e farti comparire lì. — A quale scopo? — È… è ciò che fanno gli esseri umani. Invitiamo a pranzo gli amici. Conosceresti la mia famiglia. — Amici… — disse Hollus. All’improvviso mi sentii un idiota. Ero una creatura primitiva, al suo confronto; anche se la psicologia gli permetteva di provare affetto per altri, di certo Hollus non provava niente di speciale nei miei confronti. Ero solo un mezzo per raggiungere un fine. — Scusami — dissi. — Non volevo disturbare. — Nessun disturbo — replicò Hollus. — Sono lieto che tu provi per me il sentimento che provo io per te. — Agitò i peduncoli oculari. — Mi piacerebbe moltissimo conoscere la tua famiglia e vedere la tua casa. Notai con sorpresa d’avere gli occhi umidi. — Grazie — dissi. — Grazie davvero. — Esitai. — Posso farli venire qui, se preferisci. Non dobbiamo per forza andare a casa mia. — No, mi piacerebbe venire da te. La tua famiglia significa tua moglie Susan, giusto? — Ormai mi aveva sentito parlare con lei al telefono varie volte. — E mio figlio Ricky. — Girai verso Hollus la piccola fotografia in cornice sulla scrivania. L’alieno puntò i peduncoli oculari sulla foto. — Il suo aspetto non è simile al tuo. — Figlio adottivo — spiegai, con una scrollata di spalle. — Non è il mio figlio naturale. — Ah. Mi piacerebbe conoscerli tutt’e due. Stasera è troppo presto? Sorrisi: Ricky avrebbe fatto salti di gioia. — Stasera va benissimo — risposi. 16 Cooter Falsey aggrottò le sopracciglia, confuso. — Cosa significa che ciò che cerchiamo è già morto? Ewell era ancora seduto sul bordo del letto. — Qui hanno un museo e in mostra ci sono fossili speciali. Quei fossili sono una falsità, dice il reverendo Millet. Un’empietà. E li mostreranno a quel grosso ragno alieno. — Ebbene? — disse Falsey. — Questo pianeta è un testamento all’opera di Dio. E quei fossili o sono fasulli o sono l’opera del demonio. Creature con cinque occhi! Creature con punte che sporgono da tutte le parti! Non si è mai visto niente di simile. E gli scienziati dicono agli alieni che quelle creature sono reali! — Tutti i fossili sono falsi — disse Falsey. — Creati da Dio per mettere alla prova la fede dei deboli. — Tu e io lo sappiamo. Ed è già brutto che a scuola gli atei parlino di fossili ai nostri figli; ma ora li mostrano agli alieni, li convincono che crediamo alla menzogna dell’evoluzione. Inducono gli alieni a credere che noi umani non crediamo in Dio. Dobbiamo rendere chiaro che quegli scienziati senza Dio non parlano per la maggioranza delle persone. — Così… — disse Falsey, invitando Ewell a continuare. — Così, il reverendo Millet vuole che distruggiamo quei fossili. Li chiama i Falsi del Burgess Shale. Sono qui in mostra e poi dovrebbero tornare giù a Washington, ma non accadrà. Stiamo per porre fine una volta per tutte ai Falsi del Burgess Shale, così quegli alieni sapranno che non ci frega niente di quella roba. — Non voglio che qualcuno resti ferito — disse Falsey. — Nessuno rimarrà ferito. — E l’alieno? Uno di loro passa un mucchio di tempo nel museo, no? Saremo in un mare di guai, se dovesse restare ferito. — Non leggi i giornali? Nel museo non c’è il vero alieno, c’è solo una proiezione. — E la gente? I visitatori saranno male guidati, a guardare tutti quei fossili, ma non sono malvagi come i medici abortisti. — Non preoccuparti — disse Ewell. — Agiremo domenica sera, dopo la chiusura del museo. Chiamai Susan e Ricky e annunciai che avremmo avuto a cena un ospite molto speciale; Susan, con tre ore di preavviso, poteva fare miracoli. Lavorai per un poco al mio diario, poi lasciai il museo. Avevo cominciato a portare il cappello floscio e occhiali da sole per non farmi riconoscere nel breve tragitto a piedi dall’ingresso del personale alla stazione della metropolitana; i fanatici di ufo si radunavano ancora soprattutto davanti all’ingresso principale del rom, a una certa distanza. Fino a quel momento nessuno di loro mi aveva intercettato; comunque quella sera parevano andati tutti a casa. Scesi nella stazione e salii sul treno. Alla stazione di Dundas salì un giovanotto dalla barba rada e bionda. A giudicare dall’età, forse era studente alla Ryerson, il campus universitario a nord di Dundas. Indossava una felpa verde con la scritta: C’è UN ALIENO AL ROM E UN MOSTRO A QUEEN’S PARK Sorrisi; gli edifici del parlamento provinciale erano ovviamente al Queen’s Park. A quanto pareva, tutti in quei giorni sparavano al premier Harris. Giunto finalmente a casa, riunii in soggiorno mia moglie e mio figlio. Aprii la valigetta e posai sul tavolino da caffè il dodecaedro, il proiettore d’ologramma. Poi mi sedetti sul divano. Ricky venne a sistemarsi accanto a me. Susan si appollaiò sul bracciolo della poltroncina. Guardai l’orologio del vcr: le 7.59; Hollus si sarebbe presentato alle otto in punto. Ricky già si agitava nervosamente. Quando entrava in funzione, il proiettore emetteva un bip bitonale, ma per ora era silenzioso. Le otto. Le otto e un minuto. Le otto e due minuti. L’orologio del videoregistratore era esatto: avevamo un Sony che riceveva il segnale orario via cavo. Allungai la mano sul tavolino e spostai leggermente il dodecaedro, come se la posizione potesse fare differenza. Le otto e tre. E quattro. — Be’ — disse Susan, a nessuno in particolare. — Dovrei preparare l’insalata. Ricky e io continuammo ad aspettare. Alle otto e dieci Ricky disse: — Che fregatura. — Mi spiace, giovanotto — dissi. — Ci sarà stato un imprevisto. — Non riuscivo a credere che Hollus mi avesse fatto il bidone. Si può perdonare un mucchio di cose: una figuraccia davanti al proprio figlio non è una di quelle. — Posso guardare la tv finché non è ora di cena? — disse Ricky. In genere Ricky poteva guardare un’ora di tv per sera e l’aveva già guardata. Ma non potevo deluderlo di nuovo. — Certo — risposi. Ricky si alzò. Sospirai. Hollus aveva detto che eravamo amici. Ah, bene. Mi alzai, presi il proiettore, lo soppesai, lo rimisi nella valigetta e… Un rumore, dalla porta sul retro. Chiusi la valigetta e andai a vedere. La porta di servizio si apriva su una veranda che mio cognato Tad e io avevamo costruito cinque estati prima. Aprii gli scuri verticali della porta a vetri scorrevole e… Hollus era fermo sulla veranda. Tolsi la sbarra di sicurezza alla base della porta a vetri e aprii. — Hollus! — dissi. Susan comparve dietro di me, a vedere che cosa combinavo. Mi girai: era a bocca aperta, anche se aveva visto abbastanza spesso in tv Hollus e altri Forhilnor. — Entra — dissi a Hollus. — Entra. Hollus si destreggiò per varcare la porta, anche se lo spazio era poco. Si era cambiato per cena: ora indossava un indumento color vinaccia, con un fermaglio ricavato da una lucida sezione di geoide. — Perché non sei comparso dentro, anziché proiettarti qui fuori? — domandai. Hollus mosse i peduncoli oculari. Aveva un aspetto lievemente diverso, forse solo per effetto della luce alogena di una lampada a stelo: ero abituato a vederlo sotto i pannelli al neon del museo. — Mi hai invitato a casa tua — disse. — Sì, ma… All’improvviso sentii sul braccio la sua mano. Avevo già avuto occasione di toccarlo, avevo sentito il formicolio dei campi di forza che componevano la sua proiezione. Stavolta era diverso: carne solida, calda. — E così sono venuto — disse Hollus. — Ma… mi spiace, sono stato qui fuori un quarto d’ora, cercando un modo per farti sapere d’essere giunto. Ho sentito parlare di campanelli, ma non sono riuscito a trovare il pulsante. — Non ce ne sono, alla porta sul retro — dissi. Spalancai gli occhi. — Sei qui di persona! In carne e ossa. — Sì. — Ma… — Scrutai alle sue spalle. C’era la sagoma di un grosso qualcosa, nel cortile: nell’oscurità che si addensava non riuscivo a distinguere bene. — Studio il vostro pianeta da un anno — disse Hollus. — Senza dubbio avete immaginato che abbiamo il modo di scendere sulla terra senza attirare indebita attenzione. Mi hai invitato a cena, no? Come potrei gustare il tuo cibo, senza essere presente? Ero stupito, elettrizzato. Mi girai a guardare Susan e mi resi conto di non avere ancora fatto le presentazioni. — Hollus, ho il piacere di presentarti mia moglie, Susan Jericho. — Sal /ve — disse il Forhilnor. Per qualche istante Susan rimase senza parole, stupita. Poi disse: — Salve. — La ringrazio d’avermi permesso di visitare la sua casa — disse Hollus. Susan sorrise, poi lanciò nella mia direzione uno sguardo carico di significato. — Se fossi stata avvertita un po’ prima, avrei messo tutto in ordine. — È bellissima anche così — disse Hollus. Mosse i peduncoli oculari, esaminando la stanza. — È evidente che la scelta di ogni pezzo d’arredamento ha richiesto grande cura, in modo che ogni cosa si integri alle altre. — Susan non poteva soffrire i ragni, ma era chiaramente affascinata dall’alieno. Nella vivida luce della lampada a stelo, notai piccole borchie, simili a diamantini, inserite nella pelle a bolla alle giunture degli arti e alle tre articolazioni delle dita. Una fila di borchie correva lungo i peduncoli oculari. — Sono gioielli? — domandai. — Se avessi saputo che eri interessato a cose del genere, ti avrei mostrato la collezione di gemme del rom. Abbiamo diamanti, rubini e opali favolosi. — Prego? — disse Hollus. Poi capì e di nuovo increspò i peduncoli oculari. — No, no, i cristalli sono impianti per l’interfaccia di realtà virtuale. Permettono al simulacro di riprodurre esattamente i miei movimenti. — Ah — dissi. Mi girai a chiamare Ricky, che risalì di corsa la scala del seminterrato; si diresse in stanza da pranzo, convinto che l’avessi chiamato perché la cena era pronta. Poi vide me e Susan e Hollus. Spalancò gli occhi e venne a mettersi accanto a me. Col braccio gli circondai le spalle. — Hollus — dissi — ti presento mio figlio Rick. — Sal /ve — disse Hollus. Ricky, a occhi sgranati, fissò l’alieno. — Grande! — disse. Non avevo previsto che Hollus venisse a cena in carne e ossa. Il tavolo da pranzo era rettangolare, con sezione centrale mobile; di legno scuro, coperto da una tovaglia bianca. In realtà non c’era molto spazio per il Forhilnor. Con l’aiuto di Susan spostai la credenza per fare un po’ più di posto. Non avevo mai visto Hollus seduto, mi resi conto; il suo avatar non aveva bisogno di sedersi, naturalmente, ma forse il vero Hollus si sarebbe sentito più a suo agio se avesse avuto un supporto. — Cosa posso fare per farti stare comodo? — domandai. Hollus si guardò intorno. Notò in soggiorno lo sgabello imbottito posto di fronte alla poltrona. — Potrei usare quello? — disse. — Lo sgabello piccolo. — Ma certo. Hollus andò in soggiorno. Con un bambino di sei anni in casa, non c’erano soprammobili e fu un bene. Hollus urtò il tavolino da caffè e il divano; i nostri mobili non erano abbastanza larghi per una creatura delle sue dimensioni. L’alieno portò in stanza da pranzo lo sgabello, lo sistemò accanto al tavolo, poi vi salì con i piedi, in modo che il tronco arrotondato si trovasse direttamente sopra. Allora vi abbassò il tronco. — Ecco — disse, in tono soddisfatto. Susan pareva molto a disagio. — Sono davvero dispiaciuta, Hollus. Non pensavo che venisse realmente di persona. Non so proprio se ho preparato cose che lei possa mangiare. — Cos’ha preparato? — Un’insalata… lattuga, pomodori ciliegina, sedano a cubetti, fettine di carota, olio e aceto. — Posso mangiarla. — E costolette d’agnello. — Cotte? Susan sorrise. — Sì. — Posso mangiare anche quelle, se mi dà un litro d’acqua a temperatura ambiente per accompagnarle. — Certo — disse Susan. — Ci penso io — intervenni. Andai in cucina e riempii dal rubinetto una brocca. — Ho anche preparato frappé al latte per Tom e Ricky — disse Susan. — Sarebbe la secrezione mammaria bovina? — domandò Hollus. — Sì. — Se non è da maleducati, ne farò a meno. Sorrisi. Ci sedemmo a tavola. Susan portò la terrina d’insalata e me la passò. Usai le apposite posate per trasferirne una porzione nel mio piatto e in quello di Ricky e poi di Hollus. — Ho portato le mie posate — disse il Forhilnor. — Mi auguro che non sia ritenuta scortesia. — Nient’affatto — dissi. Anche dopo vari viaggi in Cina, sono sempre uno di quelli che nei ristoranti cinesi chiedono forchetta e coltello. Dalle pieghe dell’indumento Hollus estrasse due aggeggi che parevano dei cavatappi. — Dite la preghiera di ringraziamento? Rimasi sorpreso. — In genere, no. — L’ho visto in televisione. — Alcune famiglie la recitano — dissi. Quelle, pensai, che hanno motivo per ringraziare. Hollus usò uno dei suoi cavatappi per infilzare delle foglie di lattuga e se le portò all’orifizio sulla parte superiore del corpo. L’avevo già visto fare i movimenti di chi mangia, ma non l’avevo mai visto mangiare realmente. Il pasto era un procedimento rumoroso: la sua dentatura si muoveva con scatti secchi. Immaginai che, quando si presentava in simulacro, solo gli orifizi vocali fossero collegati a microfoni: forse per quello non avevo mai sentito quei rumori. — L’insalata va bene? — domandai. Mentre rispondeva, Hollus continuò a trasferirla nell’orifizio; pensai che i Forhilnor non rischiassero mai di morire soffocati durante i pasti. — Molto buona, grazie — rispose Hollus. Intervenne Ricky. — Perché parli così? — domandò. Imitò Hollus, parlando alternativamente dalla parte sinistra e dalla parte destra della bocca. — Molto / buona / grazie. — Ricky! — lo sgridò Susan, imbarazzata per il comportamento scortese di nostro figlio. Hollus però parve non farci caso. — Una delle cose che gli esseri umani e il mio popolo hanno in comune — spiegò — è il cervello diviso in due emisferi. Anche noi abbiamo, come voi, un emisfero sinistro e uno destro. Riteniamo che la consapevolezza sia il risultato dell’interazione dei due emisferi; credo che pure gli esseri umani abbiano una teoria simile. Se i due emisferi sono stati disgiunti per danneggiamenti, tanto da funzionare indipendentemente l’uno dall’altro, intere frasi escono da un singolo orifizio orale, ma esprimono pensieri molto meno complessi. — Oh — disse Ricky, tornando all’insalata. — Affascinante — commentai. Coordinare il linguaggio fra due metà di cervello in parte autonome era di sicuro difficile. — Se avessimo due bocche, forse anche noi alterneremmo parole o sillabe. — Voi sembrate dipendere meno di noi Forhilnor dall’integrazione sinistra-destra — disse Hollus. — In caso di rescissione del corpus callosum, gli esseri umani riescono ancora a camminare. — Sì, mi pare di sì. — Noi non possiamo farlo — disse Hollus. — Ciascuna metà del cervello controlla tre gambe, nella corrispondente parte del corpo. Le nostre gambe devono funzionare tutte insieme, altrimenti cadiamo, e… — Mio papà morirà presto — disse Ricky, fissando l’insalata nel piatto. Sentii il cuore sobbalzare, Susan parve sconvolta. Hollus posò gli utensili per mangiare. — Sì, me l’ha detto. Mi spiace moltissimo. — Puoi aiutarlo? — disse Ricky, guardando ora l’alieno. — Mi spiace — rispose Hollus. — Non posso farci niente. — Ma vieni dallo spazio — ribatté Ricky. Hollus smise di muovere i peduncoli oculari. — Sì, è vero. — Allora dovresti sapere un mucchio di cose. — So alcune cose — disse Hollus. — Ma non so come curare il cancro. Anche mia madre ne è morta. Ricky guardò con grande interesse l’alieno. Pareva intenzionato a rivolgergli qualche parola di conforto, ma non sapeva cosa dire, era chiaro. Susan si alzò e portò dalla cucina le costolette d’agnello in salsa di menta. Continuammo a mangiare in silenzio. Capii che si era presentata un’occasione probabilmente irripetibile. Hollus era lì con me, in carne e ossa. Dopo cena, gli chiesi di scendere nel mio studio. L’alieno ebbe una certa difficoltà con la mezza rampa di scale, ma se la cavò. Andai al classificatore a due cassetti ed estrassi un fascio di fogli. — È normale che una persona scriva un documento per indicare come ciò che possiede dovrà essere distribuito dopo la sua morte — dissi. — Ovviamente lascio quasi tutto a Susan e a Ricky, ma faccio anche alcune donazioni a certi enti: la Canadian Cancer Society, il rom, un paio d’altri. Alcune cose andranno anche a mio fratello, ai suoi figli e a qualche altro parente. Ho… ho pensato di modificare il testamento per lasciare qualcosa a te, Hollus, ma… be’, pareva inutile. Cioè, probabilmente non sarai più qui, dopo la mia morte e, be’, di solito non sei realmente qui, in ogni caso. Ma stasera… — Stasera — convenne Hollus — sono realmente io. — Probabilmente è più semplice se mi limito a darti ora questi fogli… il dattiloscritto del mio libro, Dinosauri canadesi. Ormai le gente scrive libri utilizzando il computer, ma questo è stato battuto su una macchina per scrivere manuale. Non ha grande valore e i dati sono ormai molto sorpassati, ma è il mio piccolo contributo alla letteratura popolare sui dinosauri e, be’, mi piacerebbe che lo avessi tu… da paleontologo a collega. — Mi strinsi nelle spalle. — Un mio ricordo. L’alieno prese i fogli. Mosse avanti e indietro i peduncoli oculari. — La tua famiglia non vorrà questo manoscritto? — Hanno copie del libro. Hollus aprì un lembo dell’indumento e mise in mostra una grossa tasca di plastica: le pagine del manoscritto ci stavano comodamente. — Grazie — disse. Seguì un momento di silenzio. Alla fine dissi: — No, Hollus… grazie a te, per tutto. — Protesi la mano e gli strinsi il braccio. 17 Più tardi, quella sera, dopo che Hollus era tornato all’astronave, mi sedetti in soggiorno. Avevo preso due pillole di analgesico e, prima di coricarmi, aspettavo che facessero effetto… a volte la nausea rende difficile tenere nello stomaco le pillole. Forse, pensai, il Forhilnor aveva ragione. Forse non c’era nessuna pistola fumante che avrei accettato come prova. Ha detto che era tutto lì, davanti ai miei occhi. Nessuno è così cieco come chi non vuol vedere. A parte il Ventinovesimo Rotolo, questo è uno dei miei brani preferiti di scrittura religiosa. Ma io non ero cieco, maledizione! Avevo l’occhio critico, l’occhio di uno scettico, l’occhio di uno scienziato. Ero sbalordito che la vita su pianeti assortiti usasse lo stesso codice genetico. Fred Hoyle aveva ipotizzato che sulla Terra (e su altri pianeti, presumibilmente) fosse avvenuta una semina di vita batterica dallo spazio; se tutti i pianeti visitati da Hollus fossero stati seminati dalla stessa fonte, il codice genetico ovviamente sarebbe stato identico. Anche ammesso che la teoria di Hoyle non sia vera (e in realtà non è una teoria molto soddisfacente, perché si limita a rinviare l’origine della vita in qualche altro luogo che non possiamo facilmente esaminare) forse c’erano buone ragioni perché solo quei venti aminoacidi fossero adatti alla vita. Come Hollus e io avevamo già discusso, il dna ha quattro lettere nel suo alfabeto: A, E, G e T, per adenina, citosina, guanina e timina, le basi che formano i pioli della sua scala elicoidale. D’accordo… un alfabeto di quattro lettere. Ma quanto sono lunghe le parole, nel linguaggio genetico? Bene, lo scopo di quel linguaggio è di specificare sequenze di aminoacidi, i blocchi di costruzione delle proteine, e, come ho detto, la vita usa venti aminoacidi. Ovviamente, con parole lunghe una sola lettera non si può identificare univocamente ciascuno di quei venti: un alfabeto di quattro lettere fornisce solo quattro diverse parole di una sola lettera. Né sarebbe fattibile con parole di due lettere: quattro caratteri comportano solo sedici possibili parole di due lettere. Se però si usano parole di tre lettere, ah, allora si ha l’imbarazzo dell’abbondanza, un vocabolario biochimico stile William F. Buckley di ben 64 parole. Mettiamone da parte venti per indicare ciascun aminoacido e altre due per la punteggiatura… il segno d’inizio descrizione e il segno di fine descrizione. Quindi, delle 64 possibili parole, solo ventidue sono necessarie perché il dna faccia il suo lavoro. Se un dio ha progettato il codice genetico, avrà di sicuro notato i vocaboli in eccesso e si sarà domandato che cosa farne. Secondo me, un simile essere avrebbe considerato due possibilità. La prima è quella di lasciare indefinite le quarantadue sequenze restanti, come nelle lingue vere ci sono sequenze di lettere che non formano parole valide. In questo modo, se in una stringa di dna spuntava una di queste sequenze, si sarebbe saputo che c’era stato un errore nella copiatura… un refuso genetico che cambiava per esempio in codice genetico a-t-a in un a-t-c privo di senso. Sarebbe stato un chiaro, utile segnale che qualcosa non era andato per il verso giusto. La seconda è quella di accettare che gli errori di copiatura siano destinati a verificarsi, ma ridurne il peso, aggiungendo sinonimi al linguaggio genetico. Anziché avere una sola parola per ogni aminoacido, si potevano avere tre parole che significavano la stessa cosa. In questo modo si sarebbero utilizzate sessanta delle parole possibili; poi si potevano avere due parole per indicare l’inizio e altre due per indicare la fine, completando così il dizionario dna. Raggruppando secondo logica i sinonimi, si potevano limitare gli errori di trascrizione: se a-g-a, a-g-c- e a-g-g- significavano tutti la stessa cosa ed era possibile leggere con chiarezza solo le prime due lettere, anche senza conoscere la terza lettera c’era sempre buona probabilità d’indovinare il significato della parola. In realtà il dna usa davvero sinonimi. Se ci fossero tre sinonimi per specificare ogni aminoacido, si potrebbe guardare il codice e dire, ehi, qualcuno ha riflettuto bene su questo problema. Ma due aminoacidi, leucina e serina, sono specificati ciascuno da sei sinonimi e altri sono specificati da quattro, tre, due o perfino da un solo sinonimo: il povero triptofano è precisato solo dalla parola t-g-g. Intanto il codice a-a-g può significare o l’aminoacido metionina (e non ci sono altre parole genetiche per indicarlo) oppure, a seconda del contesto, può essere il segno di “inizio trascrizione” (che non ha altri sinonimi). Perché mai un progettista intelligente farebbe un simile guazzabuglio? Perché richiedere sensibilità al contesto per determinare il significato, quando esistono abbastanza parole per evitarlo? E le variazioni del codice genetico? Come avevo detto a Hollus, il codice usato dal dna mitocondriale differisce leggermente da quello usato dal dna nucleico. Bene, nel 1982 Lynn Marguis ha ipotizzato che i mitocondri, organelli cellulari responsabili della produzione di energia, siano sorti come separate forme batteriche, vivendo in simbiosi con gli antenati delle nostre cellule, e che a un certo punto quelle forme separate siano state cooptate nelle nostre cellule e divenute parte di esse. Forse… oddio, era trascorso un mucchio di tempo da quando mi ero occupato seriamente di biochimica… forse i codici genetici mitocondriali e nucleici erano stati davvero identici in origine, però all’inizio della simbiosi l’evoluzione aveva favorito mutazioni che permettessero cambiamenti nel codice genetico mitocondriale; con due serie di dna nella stessa cellula, forse quei cambiamenti servivano a distinguere le due forme e impedire che si mescolassero accidentalmente. Di questo a Hollus non avevo parlato, ma c’erano anche alcune differenze secondarie nel codice genetico impiegato dai protozoi ciliati… se ricordo bene, tre codoni hanno diverso significato per loro. Alcuni però dicono (andavo a ruota libera, lo sapevo) che pure quei cilia, quegli organelli irriducibilmente complessi la cui morte mi aveva provocato il cancro al polmone, erano sorti come organismi separati. Forse quei protozoi ciliati con un codice genetico variante discendevano da alcuni cilici che nel passato erano stati in simbiosi con altre cellule e avevano sviluppato varianti del codice genetico per le stesse ragioni di sicurezza dei mitocondri, diversamente dai cilia che ancor oggi sono presenti in noi, e poi avevano spezzato la simbiosi ed erano tornati alla vita solitaria. Era una possibilità, comunque. Quando ero ragazzino a Scarborough, la recinzione posteriore della nostra casa era in comune con quella di una certa signora Lansbury. Lei era molto religiosa (una bigotta, avrebbe detto mio padre) e cercava sempre di convincere i miei genitori a lasciare che mi portasse in chiesa la domenica. Non ci andai mai, ovviamente, ma ricordo la sua espressione preferita: le vie del Signore sono misteriose. Forse è così. Trovavo però difficile credere che le sue vie fossero pasticciate, fortuite. Eppure… cos’aveva detto Hollus del linguaggio wreed? Anche quello si basa sulla sensibilità al contesto e sull’insolito uso di sinonimi. Forse, a un livello chomskyano, non ero proprio adatto a vedere l’eleganza del codice genetico. Forse T’kna e i suoi simili lo trovavano perfettamente razionale, elegantissimo. All’improvviso la notizia saltò fuori. Non avevo detto a nessuno che la missione della Merelcas era, almeno in parte, la ricerca di Dio. Ed ero sicuro che i gorilla nel Burundi non avevano aperto bocca sull’argomento. A un tratto, però, tutti sapevano. All’ingresso della stazione North York Centre c’era una fila di distributori di giornali. Il titolo del “Toronto Star” diceva: gli alieni hanno la prova dell’esistenza di dio. Il titolo del “Globe and Mail” proclamava: dio è un fatto scientifico, dicono gli et. Il “National Post” dichiarava: l’universo ha avuto un creatore. E il “Toronto Sun” metteva solo due parole a tutta pagina: dio esiste! Di solito prendevo il “Sun”, per una lettura poco impegnativa nel tragitto per andare al lavoro, ma nessun giornale batte, per l’ampia trattazione di una notizia, il “Mop and Pail”; inserii le monete e presi una copia. E mi bloccai lì, nella frizzante aria d’aprile, a leggere tutto l’articolo. Una donna indù a Bruxelles aveva rivolto a Salbanda, il portavoce forhilnor che teneva i contatti quotidiani con i media, una semplice e diretta domanda: credeva in qualche dio? E lui aveva risposto… esaurientemente. E cosmologi in tutto il pianeta, compresi Stephen Hawking e Alan Guth, erano stati subito intervistati per scoprire se ciò che aveva detto il Forhilnor aveva senso. I capi religiosi si destreggiavano per raggiungere una posizione vantaggiosa. Il Vaticano (che nei dibattiti scientifici aveva una lunga storia di puntate sul cavallo sbagliato) si riservava i commenti e diceva solo che il papa avrebbe presto affrontato la questione. Il Wilayat alFaqih in Iran condannava pubblicamente le parole dell’alieno. Pat Robertson chiedeva maggiori contributi per aiutare la sua organizzazione a studiare la risposta dell’alieno. Il presidente della United Church of Canada abbracciò le rivelazioni, dicendo che scienza e fede erano realmente conciliabili. Un leader indù (il cui nome, notai, era scritto in due modi diversi nello stesso articolo) sosteneva che le dichiarazioni dell’alieno erano perfettamente compatibili con la religione induista. Nel frattempo Caleb Jones, quello del rom, sottolineava, a nome del csicop, che nelle parole del Forhilnor non occorreva leggere niente di mistico o di sovrannaturale. Quando giunsi al rom, al solito capannello di fanatici ufo si erano aggiunti diversi gruppi religiosi: alcuni portavano l’abito talare, altri reggevano candele, altri salmodiavano, altri erano inginocchiati in preghiera. C’erano anche diversi agenti di polizia per garantire che il personale del museo, me compreso ma non solo, entrassero senza contrattempi; all’apertura, avrebbero esteso ai visitatori lo stesso trattamento. Manifestini composti con stampante laser svolazzavano sul marciapiede; uno attirò la mia attenzione: vi era raffigurato Hollus, o un altro Forhilnor, con i peduncoli oculari ingranditi in modo da sembrare le corna del diavolo. Entrai nel museo e mi recai in ufficio. Poco dopo comparve Hollus. — Pensavo a quelli che hanno fatto saltare in aria la clinica per aborti. Hai detto che erano fondamentalisti religiosi. — Be’, sì, pare ipotesi attendibile. Ancora non li hanno presi. — Niente pistola fumante — disse Hollus. Sorrisi. — Proprio così. — Ma se sono, come sospetti, dei religiosi, perché è importante? — Far saltare in aria una clinica per aborti è un tentativo di protestare per una presunta offesa morale. — E,,,? — Be’, sulla Terra il concetto di Dio è inestricabilmente legato alla morale. Hollus rimase in silenzio. — A dire il vero — continuai — tre delle nostre principali religioni hanno gli stessi Dieci Comandamenti, in teoria ricevuti da Dio. Susan una volta disse, come battuta, che conoscevo solo un brano delle scritture, cioè il Ventinovesimo Rotolo del Legislatore: Attento all’animale Uomo, perché è la pedina del diavolo. Unico fra i primati di Dio, uccide per divertimento o per lussuria o per avidità. Sì, ucciderà suo fratello per possedere la terra di suo fratello. Non lasciare che si riproduca in grande numero, perché renderà un deserto la sua patria e la tua. Sfuggilo. Ricaccialo nel suo covo nella giungla, perché è araldo di morte. È ciò che Cornelius legge a Taylor verso la fine del Pianeta delle scimmie. Parole forti; e io, come il dottor Zaius, ho sempre cercato di vivere secondo il loro dettame. Ma Susan non ha del tutto ragione. Quando frequentavo l’università di Toronto (tanti anni fa, purtroppo) assistevo di tanto in tanto alle lezioni di Northrop Frye, il grande insegnante d’inglese; m’infiltravo anche nelle lezioni di Marshall McLuhan e di Robertson Davies, gli altri due membri del triumvirato letterario dell’università, acclamato in tutto il mondo. Frye sosteneva che non si può apprezzare la letteratura inglese se non si conosce la Bibbia. Forse aveva ragione; una volta ero arrivato circa a metà del Vecchio Testamento, saltando le parti colorate secondo il codice “parole di Gesù”, in una versione della Bibbia di re Giacomo acquistata nella libreria del campus. In pratica però Susan aveva ragione. Non conoscevo bene la Bibbia e non conoscevo affatto il Corano e altri libri sacri. — E quali sono i Dieci Comandamenti? — domandò Hollus. — Uh, be’, non ammazzare. Non desiderare la donna d’altri. Non… uhm, qualcosa a proposito di… — Capisco — disse Hollus. — Da quanto però abbiamo determinato, il creatore non ha mai comunicato direttamente con nessuno. Anzi, i Wreed, che come sai passano metà della vita a cercare attivamente un contatto col creatore, ammettono di non esserci mai riusciti. Non so come simili comandamenti potrebbero essere stati trasmessi a una qualsiasi forma di vita. — Be’, se ricordo bene il film. Dio li scrisse con un dito di fuoco su tavole di pietra. — Esiste un filmato di questo evento? Non sarebbe la tua pistola ancora fumante? — Il film è una recita, una storia. Si suppone che i Dieci Comandamenti siano stati dati all’uomo decine di secoli fa, ma il film ha una cinquantina d’anni. — Oh. — Tuttavia molti credono di essere davvero in contatto diretto o indiretto con Dio… che ascolta le preghiere. — Comportamento maniacale — disse Hollus. Tenne fermi i peduncoli oculari. — Scusami — disse poi. — So che stai per morire. Sei stato indotto a pregare? — No. Però mia moglie Susan prega. — Le sue preghiere non hanno avuto risposta. — No — mormorai. — Nessuna risposta. — Come conciliano, gli uomini, l’atto della preghiera e la realtà che gran parte delle preghiere non ha risposta? Mi strinsi nelle spalle. — Diciamo cose come: “Tutto accade per una ragione”. — Ah, la filosofia dei Wreed — disse Hollus. — Mio figlio mi ha chiesto se mi ero comportato male… se per questo mi è venuto il cancro. — E tu hai fatto davvero qualcosa di male? — Be’, non ho mai fumato, ma avrei potuto seguire una dieta più salutare, immagino. — Hai fatto azioni moralmente sbagliate? I Dieci Comandamenti di cui parlavi… li hai infranti? — In tutta sincerità, non li so neppure tutti e dieci. Ma non ho mai fatto niente di grave, credo. Non ho mai ucciso. Non ho mai ingannato mia moglie. Non ho mai rubato niente… da adulto, almeno. Non ho mai… — Mi ricordai di Gordon Small e di eventi accaduti trent’anni prima. — Inoltre non credo che un Dio premuroso punirebbe chiunque, a prescindere dalla gravità del peccato, con ciò che devo sopportare. — Un Dio premuroso — ripeté Hollus. — Ho anche udito la frase “un Dio amorevole” e “un Dio pietoso”. — Mi fissò. — Penso che voi umani applichiate troppi aggettivi al creatore. — Ma siete voi quelli che credono che Dio abbia uno scopo per noi. — Penso che il creatore abbia forse un motivo preciso per volere un universo dove ci sia la vita e, come dici tu, per volere che molteplici intelligenze emergano nello stesso tempo. Pare indubbio, però, che il creatore non abbia interesse in singoli individui. — Ed è questa l’opinione comune fra il tuo popolo? — Sì. — Allora qual è la fonte della morale forhilnor? Come distinguete il giusto dallo sbagliato? Hollus esitò, o per cercare la risposta o per decidere se era il caso di rispondere. Alla fine disse: — La mia specie ha un passato violento, non dissimile dal vostro. Siamo capaci di atti di grande ferocia… e non abbiamo bisogno di armi, per uccidere con facilità un altro individuo della nostra specie. Le cose giuste da fare sono quelle che tengono a bada la nostra violenza; le cose sbagliate, quelle che la fanno emergere. La nostra specie non combatte una guerra da tre generazioni; poiché abbiamo la capacità di distruggere il nostro mondo, è un bene. — Chissà se la violenza è innata in tutte le specie intelligenti — dissi. — La lotta per il predominio è ciò che spinge l’evoluzione. È stato detto che nessun erbivoro svilupperà mai l’intelligenza, perché non occorre astuzia per arrivare di soppiatto alle spalle di una foglia. — Davvero una bizzarra dinamica — disse Hollus. — La violenza è richiesta per l’intelligenza, l’intelligenza fa sorgere l’abilità di distruggere la propria specie e solo mediante l’intelligenza si può sconfiggere la violenza che origina quell’intelligenza. — Un Comma 22 — dissi. — Un circolo vizioso. Forse abbiamo creato l’idea di un Dio premuroso e la morale per favorire l’autoconservazione. Forse ogni specie che non ha una morale, che non sopprime i propri impulsi violenti nel desiderio di compiacere un dio, è destinata ad autodistruggersi non appena ha la tecnologia per farlo. — Pensiero interessante — disse Hollus. — La convinzione che Dio esiste offre un vantaggio nella lotta per sopravvivere. Sarebbe una scelta dell’evoluzione, allora. — La tua specie pensa ancora al rischio di autodistruzione? — domandai. Hollus ballonzolò, ma credo fosse un gesto di diniego, non di affermazione. — Abbiamo un governo planetario unificato e molta tolleranza per la diversità — disse. — Abbiamo eliminato la fame e l’indigenza. Non ci sono più molti motivi per conflitti fratricidi. — Vorrei poter dire la stessa cosa di noi — sospirai. — Questo pianeta è stato tanto fortunato da dare sviluppo alla vita e sarebbe una vergogna che la vita si estinguesse per la nostra stupidità. — La vita non è sorta qui — disse Hollus. — Cosa? — Ero confuso. — Non credo che nel passato della Terra ci sia stato un evento biogenerativo. Non credo che la vita sia iniziata qui. — Vuoi dire che è giunta fin qui dalle profondità dello spazio? La panspermia cosmica ipotizzata da Hoyle? — Può darsi. Ma ritengo più verosimile che la vita abbia avuto un inizio relativamente locale, su Sol IV. — Su Marte? — Si. — E come sarebbe giunta qui? — Meteoriti. Corrugai la fronte. — Be’, nel corso degli anni abbiamo trovato un paio di meteoriti marziani che secondo alcuni contenevano tracce fossili. Ma la teoria è stata ampiamente screditata. — Ne sarebbe bastato uno. — Immagino di sì. Ma perché pensi che la vita non sia nata qui? — La vita su questo pianeta è comparsa quattro miliardi di anni fa. In un tempo così remoto nella storia del vostro sistema solare, però, la Terra subiva ancora impatti a livello estinzione, poiché era colpita con frequenza da comete e da grossi asteroidi. È molto improbabile che in quel periodo si mantenessero condizioni adatte alla vita. — Marte non è più vecchio della Terra e di certo subiva lo stesso tipo di bombardamento. — Oh, senza dubbio! — disse Hollus. — Nel suo passato Marte ha avuto acqua corrente… e la sua superficie oggi mostra risultati d’erosione davvero impressionanti… però non ha mai avuto oceani estesi e profondi come quelli terrestri. Se un asteroide colpisce il terreno, il calore dell’impatto può alzare la temperatura per mesi. Se però colpisce l’acqua, che in fin dei conti ricopre la maggior parte della superficie terrestre ora come miliardi di anni fa, il calore sarebbe trattenuto e alzerebbe la temperatura del pianeta per decine o centinaia di anni. Marte avrebbe avuto un ambiente stabile per lo sviluppo della vita forse addirittura mezzo miliardo di anni prima della Terra. — E allora una parte di quella vita si sarebbe trasferita sulla Terra per mezzo di meteoriti? — Esatto. Circa un trentaseiesimo di tutto il materiale che si stacca da Marte per impatti meteorici è raccolto prima o poi dalla Terra e molte forme microbiche sopravvivono al congelamento. Così si spiega perché le rocce terrestri più antiche recano traccia di vita pienamente sviluppata, anche se l’ambiente era troppo mutevole per consentire che essa si sviluppasse in loco. — Accidenti! — esclamai, ben consapevole che la mia reazione non era adeguata. — Un meteorite contenente vita potrebbe essere giunto davvero fin qui. In fin dei conti, ogni forma di vita terrestre ha un unico antenato comune. Hollus parve sorpreso. — Tutta la vita del pianeta ha un antenato comune? — Naturalmente. — Come lo sai? — Compariamo il materiale genetico di differenti forme di vita e, giudicando di quanto diverge, possiamo dire quanto tempo fa hanno avuto un antenato comune. Per esempio, hai visto il Vecchio George, lo scimpanzé impagliato esposto nel diorama della foresta pluviale Budongo? — Sì. — Dal punto di vista genetico, l’uomo differisce dallo scimpanzé solo dell’1,4 per cento. — Perdonami se lo dico, ma non mi pare giusto impagliare ed esporre un parente così stretto. — Non lo facciamo più. Quella ricostruzione ha più di ottanta anni. — Decisi di non parlare dell’aborigeno australiano impagliato che un tempo era in mostra nell’American Museum of Natural History. — In realtà è proprio grazie agli studi genetici che il concetto di diritti delle scimmie ha ottenuto credibilità. — E questi studi mostrano che ogni forma di vita di questo pianeta ha un antenato comune? — Certo. — Incredibile. Su Beta Hydri e su Delta Pavonis crediamo che ci siano stati multipli eventi biogeneratori. La vita sul mio pianeta, per esempio, si sviluppò almeno sei volte in un periodo iniziale di 300 milioni di anni. — Esitò, — Qual è il più alto livello gerarchico nel vostro sistema di classificazione biologica? — Regno — dissi. — Ne riconosciamo cinque: Ammalia, Plantae, Fungi, Monera e Protista. — Animalia sono gli animali? E Plantae le piante? — Sì. — Tutti gli animali formano un gruppo? E tutte le piante? — Sì. — Interessante. Sul mio pianeta abbiamo un livello più alto, che consta dei sei… be’, “domini” potrebbe essere una traduzione appropriata… dei sei domini derivanti dai sei distinti eventi creativi; in ciascuno di essi esistono forme distinte di animali e di piante. Per esempio, i nostri pentapodi e i nostri octopodi non hanno in realtà alcuna parentela: studi cladistici hanno dimostrato che non hanno un antenato comune. — Davvero? Eppure dovreste essere in grado di usare le tecniche del dna che ho descritto per determinare relazioni evolutive fra i membri dello stesso dominio. — Nel corso degli eoni i domini si sono mischiati — disse Hollus. — Il genoma della mia specie contiene materiale di tutti e sei i domini. — Com’è possibile? Parlando di Spock, tu stesso hai definito assurda l’idea che individui di specie diverse, anche nell’ambito dello stesso dominio, generino prole. — Riteniamo che i virus, nel corso dei millenni, abbiano giocato un ruolo notevole nel trasmettere materiale genetico al di là delle frontiere dei domini. Riflettei su quelle parole. Era stato ipotizzato sulla Terra che materiale non necessario trasferito da virus nelle forme di vita era responsabile di gran parte del dna spazzatura… il 90% del genoma umano che non entra nella codificazione per la sintesi proteica. E ovviamente oggi i genetisti trasferivano di proposito geni di mucca nelle patate eccetera. — Tutti i sei domini sono basati sul dna? — domandai. — Come ho già detto, ogni forma di vita da noi scoperta si basa sul dna — rispose Hollus. — Per tutta la nostra storia il dna ha ibridato i domini e quindi non abbiamo avuto molto successo nello studio comparativo da te proposto. Animali con una chiara parentela molto stretta, basata sul complesso della forma corporea, possono avere significative intrusioni recenti di dna di un altro dominio, cosa che renderebbe assai ingannevole la percentuale di deviazione fra le due specie. — Interessante — dissi. Mi venne un pensiero, troppo folle per esprimerlo a voce. Se, come diceva Hollus, il dna era universalmente usato in tutte le forme di vita e se il codice genetico era ovunque il medesimo e se le forme di vita anche di domini diversi potevano incorporare il dna l’una dell’altra, allora perché forme di vita di pianeti diversi non potevano fare la stessa cosa? Forse, in fin dei conti, Spock non era poi così improbabile. 18 J.D. Ewell e Cooter Falsey andarono al ROM per un sopralluogo. — Nove dollari per entrare! — esclamò Falsey, quando furono al banco d’ammissione, dall’altra parte della Rotonda, e lessero il cartello. — Dollari canadesi — disse Ewell. — Uno e cinquanta, da noi. — Prese dal portafogli due banconote color viola sgargiante, i dieci dollari canadesi, il resto del biglietto da 50 dollari americani con cui aveva pagato la cena, la sera prima, all’Aragosta Rossa. Diede le due banconote alla donna di mezz’età seduta al banco ed ebbe in cambio una moneta bimetallica e due tesserini rettangolari di plastica con la scritta rom con una piccola corona sopra la O. Ewell fissò i tesserini. — Vanno appuntati alla camicia — disse la donna, cortese. — Dimostrano che avete pagato. — Ah, certo — disse Ewell. Ne passò uno a Falsey e si appuntò l’altro. La donna diede loro un lucido opuscolo. — È una piantina delle varie sale — spiegò. — Là c’è il guardaroba. — Indicò sulla destra. — Grazie mille — disse Ewell. Si mossero. Un tipo dalla pelle scura, con turbante marrone, la giacca blu degli agenti della sicurezza, camicia bianca e cravatta rossa, era fermo in cima ai quattro ampi scalini che portavano alla Rotonda, — Dove sono i Falsi del Burgess Shale? — gli domandò Ewell. L’agente della sicurezza sorrise, come se Ewell avesse detto una battuta. — Da quella parte. L’ingresso è accanto al guardaroba. Ewell annuì e raggiunse Falsey, che intanto aveva proseguito. Più avanti c’erano due grandi scalinate, una a sinistra e una a destra. Salivano per tre piani e quella di sinistra continuava in basso nel seminterrato. Ciascuna girava intorno a un enorme totem di legno scuro. Falsey si era fermato davanti a un totem e lo fissava, dal basso in alto. Il totem arrivava fino al soffitto ed era sormontato da un’aquila intagliata. Il legno non era dipinto e presentava una lunga fessura verticale. — Non lo guardi? — disse Falsey. Ewell diede un’occhiata al totem: simbolismo pagano di un popolo pagano. — Andiamo — disse. I due tornarono indietro e attraversarono la Rotonda. Accanto al guardaroba c’era una porta a vetri, aperta, con in alto un cartiglio di pietra intagliata: Sala Esposizioni Garfield Weston; ai lati del nome Weston c’erano due covoni di grano. Ancora più in alto, uno striscione di stoffa blu scuro proclamava in lettere bianche: TESORI DEL BURGESS SHALE FOSSILI DELL’ESPLOSIONE DEL CAMBRIANO Ai lati della porta c’erano marchi e nomi di sponsor, le ditte che avevano reso possibile la mostra, compresi la Bank of Montreal, la Abitibi-Price, la Bell Canada e il “Toronto Sun”. Falsey ed Ewell entrarono nella sala. Un murale, riproduzione di un presunto antico fondale oceanico con ogni sorta di bizzarre creature marine, dominava una parete. Bacheche erano disposte lungo le altre pareti e il divisorio centrale. — Guarda — indicò Ewell. Falsey annuì. Le bacheche sporgevano dalle pareti e sotto ognuna c’era dello spazio. Era facile sistemare lì sotto gli esplosivi, che però probabilmente sarebbero stati visibili, se non dagli adulti, certo dai bambini più piccoli. Molte persone, forse un centinaio, giravano per la sala, guardavano i fossili o ascoltavano i video che parlavano della loro scoperta. Ewell tolse dalla tasca posteriore dei calzoni un taccuino e iniziò a prendere appunti. Percorse la sala e contò le bacheche: ventisei. Intanto Falsey rilevò senza dare nell’occhio la posizione delle tre telecamere della sicurezza, due fisse e una mobile, che descriveva un arco. Sarebbero state un problema; non insormontabile, però. Ewell non badò ai fossili, ma il giovane Falsey se ne interessò. Esaminò una bacheca dopo l’altra. Contenevano lastre di scisto grigio, tenute in posizione da piccoli puntelli di plexiglas. Una bella complicazione: le lastre di scisto, cadendo, potevano andare in pezzi, ma avevano notevole robustezza. Se l’esplosione non era progettata bene, le bacheche sarebbero rimaste danneggiate, ma le rocce con i bizzarri fossili potevano anche restare intatte. — Mamma — disse un bambino — quelli cosa sono? Falsey guardò gli oggetti indicati. In fondo alla sala c’erano due grossi modelli: uno, di una creatura con numerose zampe sottili come stecchi e con tentacoli ondeggianti sulla schiena. L’altro, di una creatura su gambe tubolari, con una foresta di punte in tutto il corpo. La madre del bambino, una graziosa donna non ancora trentenne, scrutò la targa e diede spiegazioni al figlio. — Be’, tesoro, non erano del tutto sicuri dell’aspetto fisico di quella creatura, perché è molto bizzarra. In origine non sapevano nemmeno quale fosse la parte superiore, così l’hanno riprodotta in due modi diversi. Il bambino parve soddisfatto della risposta, ma Falsey dovette trattenersi per non intervenire. Quel fossile, pensò, era una chiara menzogna, un test di fede. Che non avesse il giusto aspetto in qualsiasi modo lo si mettesse, era la prova che in realtà quella creatura non era mai vissuta. E lui soffriva, nel vedere una giovane mente messa fuori strada da tutte quelle frodi. Falsey ed Ewell trascorsero un’ora nella sala, studiandone la disposizione. Falsey tracciò schizzi del contenuto di ogni bacheca, tanto da sapere esattamente come vi erano esposti i fossili. Ewell prese nota dei sistemi di allarme: erano evidenti, se si sapeva che cosa cercare. Al termine, uscirono dal museo. Fuori c’era un numeroso gruppo di manifestanti, molti dei quali sfoggiavano distintivi con il tradizionale alieno grigio dalla grossa testa e dagli occhi neri; erano già lì anche quando Falsey e Ewell erano entrati: fanatici degli ufo e fanatici religiosi, in attesa di scorgere per un attimo l’alieno o la sua astronave. Falsey comprò da un ambulante un sacchetto di popcorn. Ne mangiò un poco e gettò il resto, un chicco alla volta, ai numerosi colombi che zampettavano sul marciapiede. — Bene, che ne pensi? — disse Ewell. Falsey scosse la testa. — Nessun posto dove nascondere le bombe. E ammesso di nasconderle, nessuna garanzia che le lastre di roccia restino danneggiate dalle esplosioni. Ewell annuì con riluttanza, come se lo costringessero a giungere alla stessa conclusione. — Allora occorre un’azione diretta — disse. — Temo di sì — ammise Falsey. Si girò verso l’imponente facciata di pietra del museo, con gli ampi scalini che portavano alla porta a vetri dell’ingresso e al trittico di vetrate istoriate che la sormontava. — Peccato non avere visto l’alieno — continuò Falsey. Ewell annuì, altrettanto deluso. — Gli alieni crederanno anche in Dio, ma non hanno ancora conosciuto Cristo. Immagina se potessimo presentarli noi al Salvatore… — Sarebbe splendido — disse Falsey, a occhi sgranati. — Assolutamente splendido. Ewell estrasse la piantina della città. — Bene, se prendiamo la metropolitana per quattro fermate verso sud, ci troviamo nelle vicinanze dello studio dove registrano The Red Green Show. — Batté il dito su un riquadro rosso con la scritta centro trasmissione cbc. Falsey sorrise, come se per il momento avesse bandito ogni pensiero di maggior gloria. Tutt’e due erano patiti di The Red Green Show e con sorpresa avevano scoperto che era prodotto lì in Canada. Quella sera c’era una registrazione aperta al pubblico. — Andiamo — disse. Raggiunsero l’ingresso della metropolitana e scesero sotto la via. Sì, lo ammetto. La morte imminente ha un lato buono: ti fa diventare introspettivo. Come disse Samuel Johnson: “Quando uno sa che fra un paio di settimane verrà impiccato, raggiunge una meravigliosa concentrazione mentale”. Sapevo perché contrastavo con tanta forza l’idea di un progetto intelligente, perché quasi tutti gli evoluzionisti lo contrastavano. Per più di un secolo avevamo combattuto contro i creazionisti, contro gli sciocchi convinti che la Terra fosse stata fatta nel 4004 a.C. in sei giorni di 24 ore; che i fossili, se pure avevano una qualche validità, erano i residui del diluvio universale; che un ingannevole Dio aveva creato l’universo con la luce delle stelle già en route verso di noi, dandoci l’illusione di grande distanza e di grande antichità. Era opinione popolare che Thomas Henry Huxley aveva massacrato il vescovo “Sam l’untuoso” Wilberforce nel grande dibattito sulla evoluzione. E Clarence Darrow, così mi hanno insegnato, aveva seppellito William Jennings Bryan durante il processo Scopes. La battaglia però era soltanto iniziata, con loro. Continuavano a spuntarne altri, che vomitavano spazzatura sotto la maschera della cosiddetta scienza della creazione, che estromettevano dalle aule scolastiche la teoria evolutiva perfino al giorno d’oggi, perfino all’inizio del ventunesimo secolo, che cercavano d’imporre nella corrente principale un’interpretazione letterale, fondamentalista, della Bibbia. Avevamo combattuto la battaglia buona, Stephen Jay Gould, Richard Dawkins e perfino io, in misura minore: non avevo l’abilità oratoria degli altri due, ma avevo affrontato in dibattito la mia parte di creazionisti al Royal Ontario Museum e all’università di Toronto. E vent’anni fa, Chris McGowan, dello stesso rom, aveva scritto un libro di prim’ordine, intitolato In the Beginning: A Scientist Shows Why the Creationists Are Wrong. Ricordo però che un mio amico, insegnante di filosofia, metteva in evidenza quanto fosse arrogante quel sottotitolo: un solo uomo avrebbe dimostrato perché tutti i creazionisti del mondo erano in errore. Forse però ci si potrebbe perdonare la mentalità da assediati. Sondaggi fatti negli Stati Uniti mostravano che perfino oggi meno di un quarto degli abitanti crede nell’evoluzione. Ammettere che c’era stata un’intelligenza guida, in un punto del passato, avrebbe aperto le cateratte. Avevamo lottato così a lungo e così duramente (e alcuni di noi avevano subito anche la prigione per amore della causa) che riconoscere anche solo per un momento la possibilità di un progettista intelligente sarebbe equivalso ad alzare bandiera bianca. I media, ne eravamo sicuri, avrebbero avuto una giornata campale e l’ignoranza avrebbe regnato suprema. Col senno di poi, forse avremmo dovuto avere maggiore apertura mentale, considerare altre possibilità, senza sorvolare prontamente i punti deboli della teoria darwiniana; ma il costo era sempre parso troppo alto. I Forhilnor non erano creazionisti, ovviamente… non più di qualsiasi scienziato che accettasse il Big Bang, con il suo definito punto di creazione (una cosa che Einstein aveva trovato così contraria al buon senso da fare quello che considerava “l’errore più madornale” della sua vita, inventare le equazioni sulla relatività per evitare che l’universo avesse avuto un inizio). E ora le cateratte erano aperte davvero! Ora ognuno, dovunque, parlava della creazione, del Big Bang, dei precedenti cicli di esistenza, della falsificazione delle costanti fondamentali, di progetto intelligente. E si ammucchiavano le accuse contro evoluzionisti, biochimici, cosmologi, paleontologi: si sosteneva che noi sapessimo (o almeno sospettassimo) che forse era tutto vero e che avessimo nascosto deliberatamente la verità, respingendo studi su questi argomenti presentati alle riviste scientifiche e ridicolizzando chi aveva pubblicato simili idee sulla stampa popolare, bastonando chiunque sostenesse il principio cosmologico antropico, al pari degli illusi fondamentalisti creazionisti. Naturalmente al rom giunse un diluvio di telefonate con la richiesta di intervistarmi… circa una ogni tre minuti, secondo i tabulati del centralino. Avevo detto a Dana, la segretaria del dipartimento, di non disturbarmi, a meno che a chiamare non fosse il Dalai Lama o il papa. Scherzavo, è ovvio, ma rappresentanti dell’uno e dell’altro telefonarono al rom nel giro di 24 ore dalle rivelazioni di Salbanda a Bruxelles. Per quanto volessi tuffarmi pubblicamente nella mischia, non potevo. Non avevo tempo da sprecare. Chino sulla scrivania, cercavo di mettere ordine nei documenti. Una richiesta dell’AMNH per una copia della mia relazione sul Nanshiungosaurus; una proposta di finanziamento per il dipartimento di paleobiologia, da approvare prima della fine della settimana; una lettera di uno studente che voleva diventare paleontologo e chiedeva consigli per la carriera; moduli d’assunzione per Dana; un invito a tenere una conferenza a Berlino; bozze della mia introduzione per il manuale di Danilova e Tamasaki; due articoli manoscritti per il “jvp”, che avevo accettato di giudicare; un modulo per richiedere che la maledetta illuminazione per il Camptosaurus nella Sala Dinosauri fosse aggiustata; una copia del mio libro, inviata per l’autografo; sette, no, otto lettere su altri argomenti, in attesa di risposta; il mio modulo per i rimborsi spese del quadrimestre precedente, da compilare; la bolletta delle interurbane del dipartimento, con le chiamate ancora da addebitare evidenziate in giallo. Era troppo. Mi sedetti, accesi il computer, premetti l’icona della posta. Settantatré messaggi nuovi. Cristo, non avevo neppure il tempo di cominciare la lettura. Proprio allora Dana sporse la testa nel mio ufficio. — Tom, mi serve l’approvazione per quei piani di ferie, davvero! — Lo so — risposi. — La preparerò. — Prima che puoi, per favore. — Ho detto che la preparo! — sbottai, brusco. Rimase sorpresa: non credo di essermi mai rivolto a lei in quel tono. Sparì nel corridoio, prima che potessi chiederle scusa. Forse avrei dovuto solo annullare o delegare tutti i miei compiti amministrativi, ma se mi fossi dimesso da capo del dipartimento, di sicuro il mio successore avrebbe preteso di fare da guida a Hollus. E poi non potevo lasciare tutto in disordine; dovevo mettere a posto le cose, completare tutto ciò che potevo, prima di… Prima di… Sospirai, lasciai perdere il computer e guardai di nuovo la pila di carte sulla scrivania. Non c’era tempo, maledizione! Non c’era tempo, tutto qui. 19 Moti impiegati non hanno idea di quanto guadagnino i loro capi, ma io sapevo al centesimo quanto Christine Dorati portava a casa. La legge nell’Ontario prevede che sia reso pubblico ogni stipendio per servizi civili superiore a centomila dollari canadesi all’anno; il rom aveva solo quattro dipendenti di quella categoria. Christine l’anno scorso aveva guadagnato 179.952 dollari, più altri 18.168 in indennità tassabili… e aveva un ufficio che rifletteva quello stato sociale. Malgrado le mie lamentele sul modo in cui Christine conduceva il museo, capivo che era necessario per lei un ufficio del genere. Doveva intrattenervi potenziali donatori, oltre che grossi parrucconi governativi in grado di aumentare o diminuire, per un semplice capriccio, il nostro bilancio. Ero seduto in ufficio ad aspettare che le pillole analgesiche si decidessero a restarmi nello stomaco, quando avevo ricevuto la telefonata: Christine voleva vedermi. Fare due passi era u n buon modo per combattere la nausea, perciò andai nel suo ufficio. — Ciao, Christine — dissi, quando Indira mi introdusse nello studio. — Volevi vedermi? Christine in quel momento guardava qualcosa su Internet; alzò la mano per dirmi di pazientare ancora un momento. Magnifici arazzi erano appesi alle pareti. Dietro la scrivania c’era un’armatura; da quando la nostra Armour Court (che avevo sempre ritenuto una mostra piuttosto di successo) era stata annullata per fare posto a una delle tipiche “mostre omogeneizzate” di Christine, avevamo tante armature da non sapere che farcene. Nello studio c’era anche un piccione viaggiatore impagliato (il Centro biologico per la biodiversità e la conservazione… il ripostiglio buono per tutto, formato unendo i vecchi dipartimenti di ittiologia, erpetologia, mammalogia e ornitologia… ne aveva una ventina). C’era anche un gruppo di cristalli di quarzo, grande come un forno a microonde, ricuperato dalla vecchia sala di geologia; un magnifico Budda di giada grosso quasi quanto un pallone da basket; un canopo egiziano; e naturalmente un cranio di dinosauro… un calco in fibra di vetro di Lambeosaurus. La cresta a coltello sulla testa a becco d’anatra, a un capo della stanza, si armonizzava con l’ascia bipenne impugnata dall’armatura all’altro capo. Christine cliccò il mouse, minimizzò la finestra del browser e finalmente mi rivolse l’attenzione. Con la mano aperta mi indicò una delle tre poltroncine girevoli poste di fronte alla scrivania. Mi accomodai in quella di mezzo, con una certa trepidazione: Christine seguiva la politica di non offrire mai una sedia, se l’incontro era destinato a terminare presto. — Ciao, Tom — disse. Con espressione sollecita, soggiunse: — Come ti senti? Mi strinsi nelle spalle, non c’era molto da dire. — Bene come ci si può aspettare, immagino. — Soffri molto? — Il dolore va e viene. Prendo delle pillole che mi aiutano a sopportarlo. — Bene. — Restò qualche attimo in silenzio: cosa insolita, per Christine, che pareva sempre avere fretta. Poi disse: — Suzanne come l’ha presa? Tiene duro? Non la corressi, sul nome di mia moglie. — Se la cava. Una volta alla settimana partecipa alle riunioni di un gruppo di sostegno, che si tengono alla biblioteca pubblica di Richmond Hill. — Sono sicura che le sono di conforto. Rimasi in silenzio. — E Richie? Come sta? Due storpiature di seguito: era troppo. — Ricky — la corressi. — Ah, scusa. Come sta? Alzai le spalle. — Spaventato. Ma è un bambino coraggioso. Christine mi rivolse un gesto, quasi a dire che era solo sensato, visto che ero il padre di Ricky. Chinai la testa a ringraziare per l’implicito complimento. Lei rimase ancora un istante in silenzio, poi: — Ho parlato con Petroff, su al Personale. Dice che sei coperto per intero. Potresti metterti in convalescenza a tempo indeterminato e ricevere l’85% dello stipendio. Sorpreso, riflettei con cura su come rispondere. — Non credo che sia compito tuo parlane con chicchessia della mia situazione assicurativa — replicai. Christine alzò le mani, palme in fuori. — Oh, non ho parlato di te in particolare; ho solo fatto il caso di un dipendente con una malattia termi… con una grave malattia. — Aveva iniziato a dire “terminale”, ovviamente, ma non ce l’aveva fatta. Poi sorrise.—E sei coperto. Non devi lavorare più. — Lo so. Ma voglio lavorare! — Non preferiresti passare il tempo insieme con Suzanne e Rich… e Ricky? — Susan ha un lavoro e Ricky va alla prima elementare. Scuola a tempo: pieno. — Tuttavia, Tom, credo… Non è ora che affronti la realtà? Non sei più in grado di lavorare al cento per cento. Non è ora che ti prendi un po’ di ferie? Sentivo dolore, come sempre, e bastava questo a rendere più difficile l’autocontrollo. — Non voglio mettermi in ferie. Voglio lavorare. Maledizione, Christine, il mio oncologo dice che venire ogni giorno al lavoro mi fa bene! Christine scosse la testa, come rattristata perché non riuscivo a vedere l’intero quadro. — Tom, devo pensare a ciò che è meglio per il museo. — Trasse un respiro profondo. — Conosci di sicuro Lillian Kong. — Certo. — Bene, sai che ha lasciato il posto di curatore della sezione fossili vertebrati al Canadian Museum of Nature, per… — Per protesta contro i tagli governativi delle spese a favore dei musei. Sì, lo sapevo. È andata all’università dell’Indiana. — Esatto. Però ho sentito dire che neppure lì si trova bene. Posso farle una proposta interessante e chiamarla qui al ROM, se mi sbrigo. So che il Museum of the Rockies la vuole, perciò non sarà a disposizione ancora per molto e… Lasciò morire la frase, cedendo a me il compito di concludere la sua linea di pensiero. Incrociai le braccia e rimasi in silenzio. Christine parve delusa che toccasse a lei dirlo. — E, be’, Tom, tu stai per lasciarci. Mi tornò un mente la vecchia battuta: i vecchi curatori non muoiono mai, diventano parte delle collezioni. — Posso ancora fare del lavoro utile — dissi. — Le probabilità che fra un anno riesca a trovare una persona qualificata come la Kong sono molto scarse. Lillian Kong era una paleontologa davvero brava; aveva fatto alcuni sorprendenti lavori sui Ceratopsiani e aveva ricevuto enormi quantità di riconoscimenti dalla stampa, compresa una copertina su “Newsweek” e su “Maclean” per il contributo alla controversia dinosauriuccelli. Come Christine, però, era per le attività semplicistiche: sotto la sua direzione, le esposizioni del Canadian Museum of Nature erano diventate di una banalità nauseante e non molto informative. Senza dubbio sarebbe stata un’alleata di Christine nel progetto di rendere il rom un’“attrazione” e senz’altro avrebbe collaborato a premere su Hollus per esibizioni pubbliche, cosa che mi ero sempre rifiutato di fare. — Christine, non farmi andare via. — Oh, non sarebbe necessario. Potresti stare qui a fare ricerche. Te lo dobbiamo. — Ma dovrei abbandonare la direzione del dipartimento. — Be’, il Museum of the Rockies offre alla Kong un posto davvero prestigioso; non riuscirei ad allettarla con qualcosa di meno del… del… — Del mio posto — terminai per lei. — E non puoi permetterti di pagare due stipendi. — Potresti metterti in aspettativa per motivi di salute, ma continuare a venire per darle le dritte. — Se hai parlato con Petroff, sai che non posso. L’assicurazione non mi paga, se non dichiaro di stare troppo male per lavorare. Sì, hanno messo in chiaro che non discuteranno, in caso di malattie terminali. Se dirò di stare troppo male, accetteranno la mia parola. Non posso però venire in ufficio e prendere ugualmente l’indennità. — Una studiosa del calibro di Lillian sarebbe un gran colpo per il museo. — Non è la tua unica possibilità per sostituirmi — obiettai. — Quando dovrò andarmene, potrai promuovere Darlene o… o fare un’offerta a Ralph Chapman; convincerlo a trasferire qui il suo laboratorio di morfometria applicata. Questo sarebbe un vero colpo. Christine allargò le braccia. Era più forte di lei. — Mi spiace, Tom. Mi spiace davvero. Incrociai sul petto le braccia. — Non ha niente a che fare con la ricerca del paleontologo migliore. Riguarda il nostro disaccordo sul modo in cui mandi avanti il museo. Christine si mostrò ferita, un’ottima recita: — Tom, mi rendi un cattivo servizio. — Ne dubito — replicai. — E poi… cosa farà Hollus? — Be’, sono sicura che continuerà le sue ricerche. — Finora abbiamo lavorato insieme. Si fida di me. — Lavorerà altrettanto bene con Lillian. — No, invece. Siamo… — Mi sentii sciocco, a dirlo. — Siamo una squadra. — Lui ha solo bisogno della guida di un paleontologo competente e, be’, perdonami, Tom, ma di sicuro ti rendi conto che dovrà essere una persona che sia disponibile negli anni a venire, una persona che possa documentare tutto ciò che ha appreso dall’alieno. — Tengo un diario meticoloso. Scrivo tutto. — Ciononostante, per amore del museo… Sentivo crescere la rabbia… e l’impudenza. — Potrei andare in un qualsiasi museo o università che abbia una decente collezione di fossili e Hollus verrebbe con me. Potrei ottenere un’offerta da qualsiasi istituto e, con un alieno al seguito, nessuno darebbe peso alla mia salute. — Tom, cerca di essere ragionevole. Non devo essere ragionevole, pensai; nessuno che affronti la mia esperienza deve essere ragionevole. — Niente da fare — dissi. — Se me ne vado, viene via anche Hollus. Christine finse di esaminare la grana di legno della scrivania, seguendola col dito. — Chissà cosa direbbe Hollus, se gli facessi sapere che lo usi a questo modo. Sporsi il mento. — Chissà come reagirebbe, se gli facessi sapere come mi tratti. Restammo in silenzio per un poco. Alla fine dissi: — Se non c’è altro, tomo al lavoro. — Con uno sforzo riuscii a non calcare troppo l’ultima parola. Christine restò immobile; mi alzai e uscii, tormentato dalle fitte; me badai bene a non farlo vedere. 20 Entrai come una furia nel mio ufficio. In mia assenza, Hollus aveva guardato i calchi endocraniali; spronato dai miei commenti, adesso esplorava l’ascesa dell’intelligenza nei mammiferi dopo il limite K/T. Non sapevo mai se leggevo con accuratezza il suo linguaggio del corpo, ma lui pareva non avere difficoltà a leggere il mio. — Sembri sconvolto — disse. — La dottoressa Dorati… la direttrice del museo, la ricordi? — Ormai l’aveva incontrata diverse volte, oltre che in occasione della visita del primo ministro. — Vuole costringermi a mettermi in permesso malattia. Mi vuole sbattere fuori. — Perché? — Sono il potenziale Ammazza-vampiri, ricordi? Un suo avversario nella politica gestionale del museo. Lei ha portato il rom in una direzione alla quale si sono opposti alcuni di noi curatori. E ora ha visto l’occasione di sostituirmi con una persona che condivide le sue idee. — Il permesso malattia… di sicuro riguarda le tue condizioni di salute. — Non ha altro modo per sbattermi fuori. — Qual è la natura della vostra disputa? — Credo che il museo debba essere un luogo di studio e che debba fornire il maggior numero di informazioni possibili su ciò che espone. Lei crede che il museo debba essere un’attrazione turistica, senza intimidire i profani, con fatti, cifre e parole difficili. — E questa faccenda è importante? Rimasi sorpreso dalla domanda. Mi era parsa importante, quando avevo iniziato a combattere Christine, tre anni prima. L’avevo anche definita, in un’intervista al “Toronto Star” sul casino al ROM, “la battaglia della mia vita”. Era successo però prima che il dottor Noguchi mi mostrasse la macchia scura nei miei polmoni passati a raggi X, prima che iniziassi a sentire il dolore, prima che facessi la chemioterapia, prima che… — Non so — risposi in tutta onestà. — Mi spiace che tu sia in difficoltà — disse Hollus. Mi mordicchiai il labbro. Non avevo diritto di parlarne, però… — Ho detto alla dottoressa Dorati che te ne saresti andato, se lei mi avesse sbattuto fuori. Hollus rimase in silenzio per alcuni momenti. Su Beta Hydri III era stato anche lui una sorta di accademico; senza dubbio capiva quale prestigio la sua presenza conferisse al rom. Forse però gli avevo fatto un grave affronto, rendendolo una pedina in un gioco politico. Lui poteva di sicuro vedere più avanti di me, di sicuro sapeva che forse quel gioco sarebbe diventato sporco. Mi ero spinto troppo oltre; me ne rendevo conto. Eppure… chi mi poteva biasimare? Christine avrebbe vinto in ogni caso. Fin troppo presto. Hollus indicò il telefono sulla scrivania. — Ti ho già visto usare quell’apparecchio per comunicare con altri in questo edificio — disse. — Il telefono? Sì. — Puoi collegarti con la dottoressa Dorati? — Uhm, sì, però… — Chiamala. Esitai per un attimo, poi presi il microfono e composi le tre cifre dell’interno di Christine. — Dorati — disse la voce di Christine. Porsi a Hollus la cornetta. — Non posso usarlo — disse lui. Era ovvio: aveva due bocche separate. Premetti il tasto del viva voce e con un cenno gli indicai di parlare. — Dottoressa Dorati, parla Hollus deten stak Jaton — disse l’alieno. Per la prima volta sentivo il suo nome completo. — Le sono grato per l’ospitalità e il permesso di fare ricerche qui, ma le telefono per informarla che Thomas Jericho è parte integrante del mio lavoro; se lui lascerà questo museo, lo seguirò dovunque vada. Seguì un silenzio di vari secondi. — Capisco — disse poi la voce di Christine. — Chiudi il collegamento — mi disse Hollus. Premetti il pulsante. Sentii il cuore saltare qualche colpo; non sapevo se Hollus avesse fatto la cosa giusta. Ero però profondamente commosso per il suo sostegno. — Grazie — dissi. Il Forhilnor fletté le ginocchia superiori e inferiori. — La dottoressa Dorati era tutta a sinistra. — Tutta a sinistra? — Scusa. Volevo dire che ha fatto la cosa sbagliata, secondo me. Intervenire era il minimo che potessi fare. — Anch’io pensavo che fosse sbagliato. Ma… be’, pensavo che fosse sbagliato anche raccontarle che tu saresti andato via con me, se mi avesse cacciato. Restai in silenzio per un poco. Alla fine Hollus disse: — In troppi casi è difficile stabilire cos’è giusto o cos’è sbagliato. Al tuo posto, probabilmente mi sarei comportato come te. — Ballonzolò. — A volte rimpiango di non avere l’intuizione dei Wreed in queste faccende. — Ne hai già parlato. Perché i Wreed se la cavano meglio di noi nelle questioni relative alla morale? Hollus spostò da piede a piede il peso del corpo. — I Wreed non hanno il fardello del raziocinio… del tipo di logica che tu e io adottiamo. La matematica forse li confonde, ma le questioni filosofiche, il significato della vita, l’etica e la morale confondono noi! Abbiamo a livello intuitivo il senso del giusto e dello sbagliato, ma ogni teoria morale che elaboriamo fallisce. Mi hai mostrato quei film di Star Trek… Era vero: Hollus era rimasto incuriosito da quegli episodi, al punto da voler guardare anche i primi tre classici film di Star Trek. — Sì — dissi. — In uno di essi, quell’impossibile ibrido moriva. — In Vira di Khan — confermai. — Sì. Il concetto di base era che “il bisogno di molti pesa di più del bisogno di pochi o di uno solo”. Noi Forhilnor abbiamo sentimenti simili. È un tentativo di applicare la matematica, in cui siamo bravi, all’etica… in cui non siamo bravi. Simili tentativi però non riescono mai. Nel film in cui l’ibrido rinasceva… — In cerca di Spock — dissi. Hollus congiunse i bulbi oculari. — In quel film, apprendiamo che la prima formulazione era difettosa e in realtà “il bisogno di uno solo pesa di più del bisogno di molti”. Intuitivamente pare giusto che il tipo coi capelli finti e agli altri fossero disposti a sacrificare la propria vita per salvare un compagno non imparentato con loro, anche se il fatto sfidava la logica matematica. Eppure ciò accade ogni volta: molte società umane e tutte quelle forhilnor sono democratiche; sostengono il principio che ciascun individuo ha l’identico valore. Anzi, ho visto la grande frase escogitata dai vostri vicini più a sud: “Riteniamo evidente di per sé questa verità, che tutti gli uomini sono stati creati uguali”. Eppure il popolo che scrisse queste parole possedeva schiavi e non si accorgeva dell’ironia, per usare una parola che mi hai insegnato tu, di quel fatto. — Vero. — Molti scienziati umani e forhilnor hanno tentato di ridurre l’altruismo a imperativi genetici, ipotizzando che il grado di sacrificio che siamo disposti a fare per un altro è proporzionale alla quantità di materiale genetico che condividiamo. Tu o io, dicono questi scienziati, non ci lasceremmo morire per salvare un parente o un figlio, ma riterremmo uno scambio equo quello in cui la nostra vita salvasse due parenti o figli, poiché fra di loro hanno in totale la stessa quantità di nostri geni. E sacrificheremmo senz’altro noi stessi per salvare tre parenti o figli, poiché quella quantità rappresenta una maggiore concentrazione di nostro materiale genetico rispetto a quella del nostro corpo. — Io morirei per salvare Ricky — dissi. Hollus indicò la foto sulla mia scrivania, rivolta con la parte posteriore verso di lui. — Eppure, se ho capito ciò che hai detto, Ricky non è tuo figlio naturale. — Esatto. I suoi genitori naturali non l’hanno voluto. — Cosa che confonde su due livelli: che i genitori ripudino la propria prole in buona salute e che i non genitori adottino un figlio altrui. E poi ci sono molte brave persone che, contro ogni logica genetica, hanno deciso di non avere figli. Semplicemente non esiste una formula che descriva con successo la portata delle scelte forhilnor o umane nell’ambito dell’altruismo e del sacrificio; due cose che non si possono ridurre a matematica. Riflettei su quelle parole: certo, l’intervento di Hollus in mio favore contro Christine era altruistico, ma non aveva proprio niente a che vedere col favorire parentele genetiche. — Penso di sì — dissi. — Però — proseguì Hollus — i nostri amici Wreed, non avendo mai sviluppato la matematica tradizionale, non sono mai tormentati da simili faccende. — Be’, io ne sono certamente tormentato. Nel corso degli anni, spesso mi sono rigirato nel letto nel tentativo di risolvere dilemmi morali. — Mi venne in mente la vecchia storiella dell’agnostico insonne e dislessico: stava sveglio la notte a domandarsi se un Dog esiste. — Voglio dire, da dove proviene la morale? Sappiamo che è sbagliato rubare… — Esitai. — Lo sappiamo, vero? I Forhilnor hanno un tabù sul furto? — Sì, ma non è innato. I bambini forhilnor prendono ciò che riescono a prendere. — Lo stesso vale per i bambini umani. Crescendo, ci rendiamo conto che rubare è sbagliato e tuttavia… perché sentiamo che è sbagliato? Se accresce il successo riproduttivo, non dovrebbe essere stato favorito dall’evoluzione? Se è per questo, riteniamo che l’infedeltà sia sbagliata, ma accrescerei il mio successo riproduttivo, se ingravidassi varie femmine. Se il furto è vantaggioso per chi lo realizza e l’adulterio è una buona strategia, almeno per i maschi, per una maggiore presenza nel pool genetico, perché sentiamo che sono sbagliati? L’unica morale prodotta dall’evoluzione non dovrebbe essere quella di Clinton… dispiacersi d’essersi fatto sorprendere? Hollus agitò i peduncoli oculari più rapidamente del solito. — Non ho una risposta. Lottiamo per trovare soluzioni alle domande morali, ma restiamo sempre sconfitti. Eminenti pensatori, umani e forhilnor, si sono chiesti qual è il significato della vita e come si fa a sapere che un comportamento è moralmente sbagliato. Malgrado secoli di tentativi, però, non c’è stato alcun progresso. Le domande sono fuori della nostra portata, come: “Quanto fa due più due?” è fuori della portata di un Wreed. Scossi la testa, incredulo. — Trovo ancora incredibile che i Wreed non riescano a capire che due oggetti più due oggetti facciano quattro oggetti. Hollus si sporse verso di me, flettendo il ginocchio inferiore di tre gambe. — E loro trovano incredibile che noi non riusciamo a vedere le verità basilari delle questioni morali. La nostra mente spezza i problemi in parti elaborabili. Se ci chiediamo come mai un pianeta si mantiene in orbita intorno al suo sole, possiamo porci numerose domande più semplici… come mai un sasso resta per terra, perché il sole è al centro del sistema solare… e risolvendo queste ultime, possiamo rispondere fiduciosamente anche alla domanda più complessa. Tuttavia i problemi di etica e di morale e il significato della vita non sono riducibili ad altri meno complessi, come i cilia nelle cellule: non ci sono componenti trattabili a sé. — Vuoi dire che essere uno scienziato, un ragionatore, come… be’, come te o come me… sia fondamentalmente incompatibile con la soluzione di questioni morali e spirituali? — Alcuni hanno successo in entrambe… ma di solito ci riescono mediante divisione in compartimenti. La scienza è responsabile di certe questioni; la religione, di altre. Coloro però che cercano una singola, totale visione del mondo trovano ben poche soluzioni. Una mente è portata per l’una o per l’altra, non per tutt’e due. Ricordai la scommessa di Pascal: meglio puntare sull’esistenza di Dio, anche se non esiste, che rischiare la dannazione eterna, se ci si sbaglia. Pascal, ovviamente, era un matematico; aveva una mente logica, razionale; una mente umana. Il vecchio Blaise non aveva avuto scelta, sul tipo di cervello che aveva; gli era stato lasciato in eredità dall’evoluzione, come il mio a me. Se però avesse avuto scelta? Se io avessi potuto scambiare un po’ di perplessità in questioni reali per la certezza in questioni di etica, avrei fatto così? Cosa ancora più importante: conoscendo la precisa relazione filogenetica fra tutte le varie branche nel sottobosco evolutivo o conoscendo il significato della vita? Hollus se ne andò, per quel giorno, e mi lasciò da solo con i miei libri e i fossili e il lavoro ancora da finire. Mi ritrovai a pensare alle cose che volevo fare un’ultima volta, prima di morire. A quello stadio avevo un grande desiderio, capii, di ripetere esperienze piacevoli, anziché averne di nuove. Alcune delle cose che volevo rifare erano ovvie: amore con mia moglie, abbracci a mio figlio, una visita a Bill. C’erano anche quelle meno ovvie… cose che erano uniche, per me. Volevo andare di nuovo all’Ottagono di Thornhill, il mio locale preferito per le bistecche, dove avevo fatto a Susan la proposta di matrimonio. Sì, anche con la nausea provocata dalla chemioterapia, volevo andarci ancora una volta. E volevo rivedere Casablanca. Volevo vedere i Blue Jays vincere ancora una volta il campionato nazionale… ma le probabilità che ci riuscissi erano minime. Volevo tornare a Drumheller e girare tra le fantastiche colonne naturali di roccia, bere tra i calanchi del Nebraska al tramonto, con ululati di coyote in lontananza e frammenti di fossili sparsi tutt’intorno. Volevo visitare il mio vecchio quartiere, a Scarborough. Volevo camminare nelle vie della mia infanzia, guardare la vecchia casa dei miei genitori o fermarmi nel cortile della scuola pubblica William Lyon Mackenzie King e lasciarmi travolgere dai ricordi di amici di decine d’anni fa. Volevo dare una spolverata al vecchio impianto da radioamatore e ascoltare, solo ascoltare, le voci nella notte, da tutto il mondo. Ma, più di tutto, volevo tornare con Ricky e Susan nel nostro cottage sul lago Otter e sedermi sul pontile, a sera, sul tardi, quando zanzare e mosche erano sparite, e guardare la luna levarsi, il riflesso della sua faccia butterata sull’acqua calma, e ascoltare l’ossessionante richiamo di una strolaga e il rumore dei pesci che saltano fuori dell’acqua, distendermi in poltrona, mani dietro la testa, e mandare un sospiro di soddisfazione e non sentire nessun dolore. 21 Finora Susan non aveva fatto parola delle dichiarazioni, ampiamente pubblicizzate, di Salbanda sul fatto che l’universo aveva avuto un creatore: un creatore che, a quanto pareva, almeno in cinque occasioni era direttamente intervenuto nello sviluppo della vita intelligente. Alla fine però affrontammo l’argomento. In un modo che non avevo previsto. Avevo accontentato mia moglie, assecondando la sua fede, accettando perfino il matrimonio in chiesa. Dentro di me, però, ero convinto d’essere io l’illuminato, d’essere nel giusto, d’essere quello che sapeva come andavano realmente le cose. Susan e io ci eravamo seduti fuori, sulla veranda. Era una sera d’aprile insolitamente calda. Susan stava per portare Ricky alla lezione di nuoto; a volte andavo io, a volte andavamo insieme, ma quella sera io avevo altri programmi. Ricky era salito in camera sua a cambiarsi. — Hollus ti aveva detto d’essere alla ricerca di Dio? — attaccò Susan, a occhi bassi, fissando la tazza di caffè. Risposi con un cenno d’assenso. — E non mi hai detto niente? — Be’, credevo… — Lasciai morire la frase. — No — ripresi. — Non ti ho detto niente. — Mi sarebbe piaciuto parlarne con lui. — Scusa. — Perciò i Forhilnor sono religiosi — disse Susan, ricapitolando tutto, almeno per quanto la riguardava. — Hollus e i suoi colleghi — precisai — credono che l’universo sia stato progettato in maniera intelligente. Ma non adorano Dio. — Non pregano? — No. Be’, i Wreed passano metà della giornata in meditazione, nel tentativo di comunicare telepaticamente con Dio, ma… — A me pare preghiera. — Dicono di non volere niente da Dio. Susan rimase un momento in silenzio. Raramente parlavamo di religione e per un buon Motivo. — La preghiera — obiettò — non è fatta di richieste; non è come andare dal Babbo Natale dei grandi magazzini. Mi strinsi nelle spalle. Non ne sapevo abbastanza, immagino, sull’argomento. — I Forhilnor credono nell’anima? Nella vita dopo la morte? Rimasi sorpreso: non ci avevo mai pensato. — Onestamente, non lo so. — Dovresti chiedere a Hollus. Risposi con un cenno: forse avrei dovuto chiederglielo. — Sai che io credo nell’anima — disse semplicemente Susan. — Lo so. Arrivò solo a questo punto, però. Non mi chiese di andare di nuovo con lei in chiesa; me l’aveva chiesto una volta, tempo fa. Ma non avrebbe insistito. Se assistere alle funzioni nella chiesa di St. George l’aiutava a sopportare la situazione, per me andava più che bene. Ma ciascuno di noi doveva vedersela a modo suo. Ricky varcò la porta scorrevole e uscì sulla veranda. — Ehi, giovanotto — dissi — vieni a dare un bacio a papà. Si avvicinò e mi baciò sulla guancia. Poi mi diede dei colpetti sul viso. — Così stai meglio — disse. Credo che volesse tirarmi su di morale: gli aveva sempre dato fastidio, la barba lunga. Gli sorrisi. Susan si alzò e venne anche lei a darmi un bacio. E tutt’e due, mia moglie e mio figlio, se ne andarono. Ricky e Susan erano andati al Douglas Snow Aquatic Centre, quattro isolati da casa nostra, e così ero da solo. Rientrai e accesi la videocamera (una debolezza, un regalo di Natale che ci eravamo fatti alcuni anni prima) sistemata su un treppiede nel mio studio. La misi in funzione e mi sedetti alla scrivania. “Ciao, Ricky” dissi. Sorrisi con aria di scusa. “Chiederò a tua madre di mostrarti questa cassetta solo fra dieci anni, perciò adesso ne hai sedici, credo. Sono sicuro che nessuno ti chiama più ‘Ricky’. Forse sei diventato ‘Rick’ o forse hai deciso che ‘Richard’ va meglio. Così… così ti chiamerò ‘figliolo’.” Esitai. “Sono sicuro che hai visto un mucchio di mie fotografie; tua mamma ha sempre avuto la mania delle istantanee. Forse avrai anche dei ricordi di me… me lo auguro davvero. Rammento anch’io episodi di quando avevo sei-sette anni… forse un paio d’ore in totale.” Esitai di nuovo. Se davvero mi ricordava, speravo che mi ricordasse com’ero prima del tumore, quando avevo ancora i capelli, quando non ero così magro. Avrei dovuto registrare quella cassetta appena m’avevano diagnosticato il tumore, prima di sottopormi alla chemioterapia. “Perciò sono in svantaggio nei tuoi riguardi” ripresi. “Tu sai che aspetto ho, mentre io mi chiedo come sei… quale giovanotto sei diventato.” Sorrisi. “A sei anni eri un po’ piccolino per la tua età, ma dieci anni possono cambiare moltissimo una persona. Alla tua età di adesso, sedici anni, mi ero fatto crescere la barba. Nella mia scuola solo un altro la portava; era, immagino, un atto di ribellione giovanile.” Cambiai posizione nella poltroncina. “A ogni modo” continuai “sono sicuro che sei un bravo ragazzo: so che tua madre non ti avrebbe fatto crescere male. Mi dispiace di non essere stato lì per te. Ti avrei insegnato a farti il nodo alla cravatta, a raderti, a lanciare un pallone, a bere un bicchiere di vino. Non so quali interessi hai adesso. Sport? Recite scolastiche? In ogni caso, lo sai, sarei stato fra il pubblico tutte le volte che ne avessi avuto la possibilità.” Rimasi un attimo in silenzio. “Immagino che avrai già progettato cosa fare nella vita. Qualsiasi cosa avrai deciso, sono sicuro che troverai felicità e successo. Dovrebbe esserci denaro a sufficienza per frequentare l’università finché ne avrai voglia. Fai ciò che ti rende più felice, naturalmente, ma io ho apprezzato moltissimo le ricompense di una vita accademica; forse non andrà bene per te, ma se la prendi in considerazione, te la raccomando. Ho viaggiato per il mondo, guadagno abbastanza bene e ho una grande flessibilità di orario di lavoro. Te lo dico nel caso ti chiedessi se tuo papà era contento del suo lavoro; sì, ero contento, moltissimo. Questa è la cosa più importante. Posso darti un solo consiglio, sul lavoro: non pensare a quanti soldi guadagnerai. Scegli un lavoro che ti piace: si vive una volta sola.” Esitai di nuovo. “In realtà non ho grandi consigli da darti.” Sorrisi. “Diavolo, alla tua età l’ultima cosa che volevo erano i consigli di mio padre!” Mi strinsi nelle spalle. “Però ti dico una cosa: per favore, non prendere il vizio del fumo. Credimi, figliolo, niente vale il rischio di passare ciò che ho passato io. Non fumavo, sono sicuro che mamma te lo ha detto, ma è col fumo che la maggior parte della gente si ammala di cancro. Per favore, ti prego, non correre questo rischio.” Lanciai un’occhiata all’orologio a parete: restava ancora un mucchio di tempo… sulla cassetta, almeno. “Probabilmente sei curioso sui miei rapporti con Hollus, il Forhilnor” ripresi. Scrollai le spalle. “In tutta franchezza, sono curioso anch’io. Se hai un vivido ricordo di un episodio della tua fanciullezza, immagino riguardi di sicuro la sera in cui l’alieno è venuto a cena da noi. Sapevi che era il vero Hollus, non una proiezione? Tu, io e tua madre siamo stati i primi esseri umani a incontrare un Forhilnor in carne e ossa. Oltre a questa cassetta, ti lascio anche una copia del diario dove ho riportato tutte le mie esperienze con Hollus. Forse un giorno tu o un altro scriverete un libro su questa storia. Naturalmente ci saranno vuoti da riempire… sono sicuro che sono in corso eventi importanti di cui non so niente… ma i miei appunti dovrebbero costituire un buon punto di partenza. “Comunque, sui miei rapporti con Hollus, tutto ciò che so è questo: mi è simpatico e penso di essergli simpatico. Secondo un detto popolare, una vita non esaminata non merita d’essere vissuta; il tumore mi ha indotto a esaminare la mia vita, ma penso che avere conosciuto Hollus sia stato ciò che mi ha spinto a esaminare che cosa significa essere uomo.” Mi strinsi nelle spalle, quasi a significare che ciò che stavo per dire era quella sorta di cosa di cui di solito la gente non parla. “E immagino che il significato sia questo: essere uomo è essere fragile. Restiamo facilmente feriti, non solo dal punto di vista fisico, ma anche da quello emotivo. Perciò, mentre procedi nella vita, figliolo, cerca di non ferire gli altri.” Scrollai di nuovo le spalle. “Ecco: questo è il consiglio che ho per te.” Ce n’era quasi d’avanzo, lo sapevo: impossibile compensare dieci anni persi, usando qualche luogo comune. Ricky era già l’uomo che sarebbe diventato… senza il mio aiuto. “Un’ultima cosa voglio che tu sappia” dissi. “Non dubitare di questo nemmeno per un istante, Richard Blaine Jericho. Un tempo hai avuto un padre e lui ti voleva bene. Ricordalo sempre.” Mi alzai, spensi la videocamera, e rimasi lì nello studio, il mio rifugio. 22 L’idea mi era venuta mentre dormivo, senza dubbio causata dalla registrazione per Ricky: una versione di me che vivesse dopo la morte del corpo. Ero così entusiasta che mi alzai e scesi in soggiorno a dare ripetuti colpetti al dodecaedro» nella speranza di evocare Hollus. L’alieno però non comparve; mi toccò aspettare che si presentasse nel mio ufficio, il giorno dopo. — Hollus — dissi, non appena l’immagine si stabilizzò — credo di sapere cosa hanno sepolto in quelle aree con segnali di pericolo, sui pianeti abbandonati. Hollus mi fissò. — Non sono scorie nucleari. Come avevi detto, non ci sono segnali che possano far pensare a scorie nucleari e non occorre preoccuparsi di radioattività su periodi superiori ai milioni di anni. No, hanno seppellito qualcosa che volevano preservare per sempre, non qualcosa di cui volevano liberarsi. Per questo i nativi di Mu Cassiopeae arrivarono al punto di eliminare la tettonica del loro mondo, facendo esplodere la luna… volevano essere sicuri che ciò che avevano messo nella loro cripta sotterranea non sarebbe stato mai risucchiato nel magma. — Può darsi — disse Hollus. — Ma cosa volevano preservare con tanta cura, cercando di spaventare tutti perché non lo riportassero alla luce? — Se stessi — risposi. — Una sorta di rifugio antinucleare? Scandagli sismici indicano che la cripta su Mu Cassiopeae ha volume sufficiente a ospitare solo un ridotto numero di individui. — No, no. Là dentro ci sono tutti! Milioni, miliardi; tutta la popolazione, non importa quanto numerosa. Penso che abbiano passato allo scanner i cervelli e si siano trasferiti tutti in un mondo virtuale… e l’hardware che genera quel mondo, le macchine che non volevano che nessuno toccasse, è sepolto in quelle aree spaventose. — Scanner… — disse la bocca sinistra di Hollus e: — Scanner… ripeté pensierosamente la destra. — Abbiamo trovato però solo tre pianeti con aree create apposta per spaventare i curiosi — disse poi l’alieno. — Gli altri pianeti… Eta Cassiopeae A III, Sigma Draconis II e Groombridge 1618 III… erano stati semplicemente abbandonati. — Forse in quei pianeti l’hardware è stato lanciato nello spazio. Oppure quelle razze hanno deciso che il modo migliore per non farsi scoprire era quello di non fare niente. Anche un avvertimento può attirare i curiosi. Forse hanno deciso di nascondere l’hardware e non lasciare indicazioni di dove si trovi. — Ma per quale motivo avrebbero fatto una cosa del genere? — disse Hollus. — Perché rinunciare all’esistenza fisica? Per me era una domanda sciocca. — Quanti anni hai? — In anni terrestri? Quarantasette. Rimasi sorpreso. Per chissà quale motivo avevo pensato che Hollus fosse più vecchio di me. — E quanto vivrai? — Forse per altri ottant’anni, se un incidente non mi uccide prima. — Perciò la durata di vita normale dei Forbii nor è di centotrenta anni? — Per le femmine, sì. I maschi vivono circa dieci anni in più. — Allora… uh… sei femmina? — Sì. Ero stupefatto, — Non lo sapevo. La tua voce… è piuttosto bassa. — Come la voce di tutti i Forhilnor, maschi e femmine. — Uh…, posso continuare a riferirmi a te al maschile, se non ti secca? — Ci ho fatto l’abitudine. Continua pure. — Comunque, vivrai circa centotrenta anni. Io ne ho cinquantaquattro; senza l’adenocarcinoma, vivrei un’altra ventina d’anni, forse trenta o quaranta. Hollus mosse i peduncoli oculari. — Tutto qui. E poi, anche se non avessi il tumore, sarei in costante declino psicofisico. — Esitai. — I Forhilnor invecchiano bene? — Un nostro poeta una volta disse: — “È tutto lune in declino”, una metafora che equivale alla vostra espressione “È tutto in discesa”… dal momento in cui si nasce. Anche i Forhilnor, col tempo, si deteriorano nel corpo e nella mente. — Be’, se poteste assumere un’esistenza virtuale… se poteste vivere in un computer… fin dalla giovinezza, potreste continuare per sempre, senza alcun deterioramento. — L’immortalità è sempre stata un sogno del mio popolo — ammise Hollus. — Anche del mio. In effetti, molti predicatori usano la promessa di vita eterna, per quanto in un altro regno, come principale incentivo al buon comportamento. Anche se abbiamo esteso di molto la durata di vita, grazie ai miglioramenti sanitari, siamo tutt’altro che vicini all’immortalità. — Proprio come noi — disse Hollus. — E come i Wreed. Ma noi e loro nutriamo speranze di rendere possibile la vita eterna. — Credevamo d’avere fatto una grande conquista, alcuni anni fa, quando scoprimmo come ridare al dna le sequenze terminali. — I cromosomi hanno alle estremità piccoli pezzetti protettivi, simili ai cilindretti di plastica in punta ai lacci da scarpe; ogni volta che un cromosoma si divide, le punte, dette telomeri, rimangono più corte. Dopo un certo numero di divisioni, si esauriscono e il cromosoma non può più suddividersi. — L’abbiamo scoperto anche noi, quasi cento anni fa — disse Hollus. — Ma anche se la sostituzione dei telomeri può far sì che in laboratorio le singole cellule continuino a dividersi, in un organismo integrato la cosa non funziona. Se un organismo raggiunge una massa critica di cellule, la suddivisione o si ferma dopo un dato numero di ripetizioni, proprio come se i telomeri si fossero accorciati, oppure diventa riproduzione incontrollata e si formano i tumori. — Abbassò i peduncoli oculari. — Come già sai, ho perduto mia madre per un tumore al vostirrarl, un organo che per noi ha le stesse funzioni del midollo osseo per voi. — Leucemia — dissi piano. — Chiamiamo leucemia il cancro del midollo. Hollis rimase in silenzio per un poco. Sì, mi dissi, capivo quanto fosse interessante. Trasferirsi in un mondo virtuale. Disgiunti dalla forma fisica. Vivere senza tumori, senza sofferenze. Se mi avessero offerto la possibilità, l’avrei accettata? Non avrei perso neanche un minuto! — Senza dubbio è un grande incentivo, rinunciare all’esistenza fisica — dissi. — Vivere per sempre nel fiore della giovinezza. — Guardai Hollus: si reggeva solo su cinque gambe, pareva far riposare la sesta. — In questo caso, forse il tuo popolo non ha niente da temere. Presumibilmente abbastanza presto la tua razza svilupperà la stessa abilità… pare che ogni razza la sviluppi. E allora, se vorrà, il tuo popolo trascenderà in una nuova forma di esistenza. Hollus non replicò per alcuni secondi. — Non saprei — disse poi — se aspettarlo con ansia. — Di sicuro è una grande tentazione, se varie razze hanno scelto, una dopo l’altra, quella strada. — Lo penso anch’io — disse Hollus. — Il mio popolo ha fatto grandi progressi nella tecnologia della scansione cerebrale… per noi un po’ più difficile di quanto non sarà per voi, visto che il nostro cervello è situato al centro del corpo e che l’integrazione delle due metà porrà senza dubbio alcuni problemi. Tuttavia nel giro di qualche decennio riusciremo a scaricare una coscienza combinata forhilnor. Questo spiega il fenomeno che ho osservato in quei video di fantascienza: perché le razze aliene che si incontrano in carne e ossa sono sempre all’incirca allo stesso livello tecnologico. C’è, pare, una stretta finestra fra il momento in cui una razza raggiunge il volo interstellare e quello in cui smette d’avere esistenza corporea. Così si spiega come mai la ricerca di esseri intelligenti mediante radiotelescopi solitamente fallisce; anche in questo caso c’è solo un breve lasso di tempo fra lo sviluppo della radio e il suo abbandono. — Tuttavia avete stabilito che nessuna delle razze di cui siete a conoscenza, a parte le nostre tre, è esistita nello stesso periodo delle altre — dissi. — Le nostre razze potrebbero essere la prima possibilità che la galassia abbia mai avuto per… una federazione planetaria. — Pensiero interessante — disse Hollus. — Credi che sia questo, il motivo dell’intervento di Dio sui nostri tre pianeti? Portarci insieme alla tecnologia avanzata, in modo da rendere possibile una sorta di alleanza? — Può darsi — ammisi, — Ma non so cosa si potrebbe realizzare, in questo modo. Potrebbe essere un bene per le nostre razze, certo, ma quale vantaggio sarebbe per il creatore? Hollus posò a terra il sesto piede. — Ottima domanda — disse poi. Più tardi, quella sera, dopo avere messo a dormire Ricky, al quale avevo letto qualche pagina di un libro. Susan e io ci sedemmo sul divano in soggiorno. Col braccio le avevo circondato le spalle e lei mi aveva appoggiato sul petto la testa. — Hai pensato al futuro? — le domandai. Sollevai un poco il braccio. — Non mi riferisco al futuro immediato. — Ero sicuro che lei ci avesse pensato anche troppo. — Parlo del futuro remoto… migliaia o anche milioni di anni. Non la vedevo in viso. Mi augurai che sorridesse, — Non sarò lì a vedere. Rimasi in silenzio per un attimo; non sapevo se toccare davvero quell’argomento. — Se però ci fosse un modo… un modo di vivere in eterno… Susan era acuta: uno dei motivi per cui l’avevo sposata. — Hollus ti ha offerto l’immortalità? Scossi la testa. — No. Nemmeno lui ha idea di come fare. La sua razza però ha trovato prove di altre razze che forse hanno scoperto l’immortalità… in un certo senso. Susan cambiò leggermente posizione. — Davvero? — Pare che siano… be’, abbiamo usato la parola “trascendere”. Pare che siano trascese in un altro piano d esistenza, che si siano trasferite in un computer. — Non la definirei immortalità. Tanto varrebbe essere un cadavere conservato in formaldeide. — Presumiamo che quegli esseri continuino a esistere nel computer, che agiscano e reagiscano e interagiscano. In realtà forse non sarebbero nemmeno in grado di dire che non hanno più esistenza corporea; l’esperienza sensoriale sarebbe paragonabile a quella cui erano abituati o addirittura migliore. Susan parve incredula. — E dici che intere razze l’hanno fatto? — Sì, è la mia teoria. — E pensi che la coscienza individuale continui per sempre nei computer? — È possibile. — Ciò significa… ciò significa che non dovresti morire? — Be’, il mio corpo morirebbe, certo, e non avrei continuità con la versione riversata, una volta fatta la scansione. Ma la versione riversata ricorderebbe d’essere stata me e continuerebbe dopo la mia morte. Per ciò che la riguarda… o per quelli che con essa interagiscono… sarebbe me. Quindi, sì, se avessimo a disposizione la tecnologia necessaria, non dovrei morire in senso reale. Presumo che una delle grandi ragioni per cui delle persone si riversino in un computer sia quella di superare le limitazioni imposte dalla vecchiaia o dalle malattie. — Questa possibilità non esiste ancora? Non hai avuto davvero questa offerta? — Il cuore le batteva forte, potevo sentirlo. — No — risposi. — Né i Forhilnor né i Wreed sanno come fare… e poi abbiamo solo ipotizzato che sia questo ciò che è realmente avvenuto alle altre razze. A quanto pare, ogni specie intelligente o si autodistrugge poco dopo la scoperta delle armi nucleari oppure sopravvive forse un centinaio d’anni e poi decide di trascendere. Susan alzò le spalle. — Se fosse possibile… se fosse una possibilità che ti è stata offerta ora… la mia risposta sarebbe forse diversa. Sai che… — Lasciò morire la frase, ma sapevo che cosa era stata sul punto di dire: che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non perdermi. Le strinsi la mano. — Però — riprese Susan — se non fosse per questo, se non fosse per ciò che affrontiamo, direi no. Non riesco a immaginare che una simile situazione mi piacerebbe. — Vivresti per sempre — dissi. — No, esisterei per sempre! È diverso. — Naturalmente ogni aspetto della vita potrebbe essere simulato. — Se non è reale, non è la stessa cosa. — Non riusciresti a distinguerlo dal reale. — Forse no. Ma saprei che non è reale. Ecco la differenza. Scrollai le spalle, — Ricky pare divertirsi a giocare il baseball del Nintendo quanto si diverte con quello vero… anzi, gioca più spesso la versione al computer; non credo che la sua generazione avrà le nostre stesse difficoltà ad accettare questa ipotesi. — Esitai. — Un’esistenza virtuale ha il suoi lati affascinanti. Non si invecchia. Non si muore. — Mi piace crescere e cambiare — replicò Susan. Corrugò la fronte — Sì, certo, a volte rimpiango di non avere più il fisico da diciottenne, ma in genere sono contenta. — Pare che una civiltà dopo l’altra abbia fatto questa scelta. Susan corrugò la fronte. — Quelle razze o si sono riversate nei computer o si sono autodistrutte? — Pare proprio così. Secondo Hollus, il suo popolo ha affrontato lo stesso tipo di crisi nucleare che affrontiamo noi adesso. — Forse allora decidono di non avere altra scelta che scambiare la realtà con una simulazione. Se scoppiasse una guerra fra usa e Cina, per esempio, probabilmente moriremmo tutti e la razza umana finirebbe. Ma se fosse solo una simulazione e le cose andassero male, si potrebbe far ripartire tutto da capo e continuare a esistere. Forse l’esistenza virtuale è l’unica speranza a lungo termine per le razze violente. Era senz’altro un pensiero interessante. Forse è impossibile dominare il desiderio di distruggersi l’un l’altro. Forse è inevitabile che una nazione o un gruppo terroristico o anche un semplice folle faccia saltare in aria tutto quanto- Come Hollus aveva detto, la capacità di distruggere la vita su grande scala diventa più economica e più a portata di mano, col passare del tempo. Se non c’è modo di rimettere il genio nella bottiglia (bombe atomiche, armi biologiche o qualche altro folle sistema di distruzione di massa) allora forse le razze trascendono non appena possono, perché è Punico comportamento sicuro. — Chissà cosa sceglierà l’Uomo, giunto il momento — dissi. — Fra un centinaio d’anni avremo forse la tecnologia necessaria. — Inutile dirlo teatralmente: in tempi così lunghi, Susan e io eravamo nella stessa barca. — Tu e io non vivremo a sufficienza per vederlo, ma Ricky potrebbe farcela. Mi domando che cosa sceglieranno di fare. Susan rimase in silenzio per qualche secondo. Poi cominciò a scuotere lentamente la testa. — Mi piacerebbe che mio figlio vivesse in eterno, ma… ma mi auguro che lui e tutti gli altri scelgano l’esistenza normale. Ci pensai… pensai al dolore di ginocchia scorticate e di cuori infranti e di ossa rotte; ai rischi cui era soggetta la carne; a ciò che passavo io in quel momento. Non credevo che esistesse un modo di capovolgere la decisione. Se si copiasse in un computer ciò che si è, presumibilmente non si potrebbe tornare indietro. Se la versione biologica continuasse a vivere, avrebbe un’esistenza separata dal momento della scansione. Non ci sarebbe modo di reintegrare più avanti le due versioni; sarebbe come costringere due gemelli identici a coabitare lo stesso corpo. In nessuno dei sei pianeti esplorati da Hollus c’erano forme di vita intelligente. Forse tutte le razze eliminavano la versione biologica di se stesse, una volta creata la versione elettronica. Forse prevenire ogni possibilità di distruzione terroristica del mondo virtuale era in realtà l’unico comportamento ragionevole. Ovviamente, sulla Terra almeno, c’era chi non avrebbe mai accettato di essere scaricato in un computer… gli Amish, i luddisti, tanti altri. Ma sarebbe stato possibile farne di nascosto la scansione, trasferirli in un mondo virtuale indistinguibile da quello che avrebbero abbandonato, anziché lasciare in giro creature in carne e ossa i cui discendenti avrebbero potuto distruggere vandalicamente i computer. Mi domandai se qualcuna delle razze trascese avesse rimpianto la decisione. Susan e io andammo a letto. Lei dopo un poco si addormentò, ma io rimasi sveglio, a fissare il soffitto e a invidiare i Wreed. Poco dopo la diagnosi, avevo percorso a piedi qualche isolato e dal rom ero andato in Bloor Street, nella libreria principale della Chapters, e avevo comprato On Death and Dying di Elisabeth Kíìbler-Ross. L’autrice delinea i cinque stadi per venire a patti con la morte: negazione e isolamento, rabbia, trattativa, depressione, accettazione; per ciò che mi riguardava, ero ormai ben dentro il quinto stadio, anche se certi giorni mi sentivo impantanato nel quarto. Quasi tutti passavano per quei cinque stadi, nella stessa sequenza. C’era da stupirsi, allora, se esistevano analoghi stadi attraversati da intere specie? Caccia e raccolta di frutta. Agricoltura o zootecnia. Metallurgia. Città. Monoteismo. Un’età di scoperte. Un’età della ragione. Energia atomica. Viaggio spaziale. Rivoluzione dell’informazione. Un breve interesse per i viaggi interstellari. E poi… E poi qualcosa d’altro. Da darwiniano, ho trascorso innumerevoli ore a spiegare alla gente comune che l’evoluzione non ha una meta, che la vita è una spinta in continua diramazione, una serie di mutevoli adattamenti. Ora però pareva che ci fosse davvero una meta, un risultato finale. La fine della biologia. La fine della sofferenza. La fine della morte. A livello viscerale (metafora appropriata, che si appella alle viscere e alla biologia e all’umanità) mi opponevo all’idea di rinunciare all’esistenza corporea. La realtà virtuale non era altro che suonare la chitarra senza chitarra, moltiplicato per mille. La mia vita aveva senso proprio perché era reale. Oh, certo, potevo usare un congegno di realtà virtuale per lanciarmi in scavi simulati e trovare fossili simulati, perfino esemplari che avrebbero fatto fare grandi passi avanti (come, ah, non so, diciamo una sequenza che mostrasse in un migliaio di tappe graduali il cambiamento di una specie in un’altra…). Sarebbe stato una vita insignificante, senza scopo; come nel Game of Life, sarei stato solo un glider sparato dal cannone. Niente brivido della scoperta… i fossili sarebbero stati lì semplicemente perché volevo che fossero lì. E non avrebbero dato alcun contributo alla reale conoscenza dell’evoluzione. Non so mai in anticipo che cosa troverò in uno scavo… nessuno lo sa. Ma qualsiasi cosa trovo, deve adattarsi al vasto mosaico di fatti scoperti da Buckland e Cuvier e Mantell e Dolio e von Huene e Cope e Marsh e gli Sternberg e Lambe e Park e Andrews e Colbert e i Russell padre e figlio e l’altro Russell e Ostrom e Jensen e Bakker e Corner e Weishampel e Dodson e Dong e Zheng e Sereno e Chatterjee e Currie e Brett-Surman e tutti gli altri, pionieri e miei contemporanei. Era reale: era parte dell’universo condiviso. Ora però trascorrevo qui quasi tutto il mio tempo, in compagnia di una simulazione analoga alla realtà virtuale. Sì, da qualche parte c’era il vero Hollus in carne e ossa e sì, l’avevo perfino incontrato. Ma quasi tutte le mie interazioni erano con un’immagine generata dal computer, un cyberspettro. Sarebbe stato facile essere risucchiati in un mondo artificiale. Sì, sarebbe stato senz’altro possibile. Abbracciai mia moglie, assaporando la realtà. 23 Non avevo dormito bene, quella notte, e neppure la notte precedente: cominciavo a sentire la stanchezza, immagino. Avevo tentato di accettare con stoicismo la mia situazione, di fare l’indifferente. Quel giorno però… Era l’ora dorata, quella fra l’inizio del lavoro e l’apertura del museo al pubblico, fra le 9 e le 10 di mattina. Esaminavo con Hollus i fossili dell’esposizione speciale Burgess Shale: Opabinia e Sanctacarìs e Wiwaxia e Anomalocaris e Hallucigenia, forme di vita così bizzarre da sfidare una facile classificazione. E i fossili mi richiamarono alla mente il libro di Stephen Jay Gould sulla fauna del Burgess, La vita meravigliosa. E quel libro mi richiamò alla mente il film al quale Gould alludeva, il classico di Jimmy Stewart, il favorito nel periodo natalizio. E quello mi spinse a pensare quanto valore attribuissi alla mia vita… la mia reale, effettiva esistenza in carne e ossa. — Hollus — dissi, incerto, a voce bassa. I peduncoli oculari dell’alieno esaminavano il gruppo di cinque occhi dell’Opabinia così diversa da qualsiasi altra forma di vita nel passato della Terra. Hollus li ruotò per guardarmi. — Hollus — dissi — so che la vostra razza è molto più progredita della nostra. Restò immobile. — Di sicuro sapete cose che noi ignoriamo. — Vero. — Io… Hai conosciuto mia moglie Susan. Hai conosciuto Ricky. Hollus congiunse i globi oculari. — Hai una bella famiglia. — Non… non voglio lasciarli, Hollus. Non voglio che Ricky cresca senza padre. Non voglio che Susan resti sola. — È una sfortuna — convenne il Forhilnor. — Deve esserci qualcosa che potete fare… qualcosa per salvarmi. — Mi spiace, Tom. Mi spiace davvero. Come ho detto a tuo figlio, non c’è niente. — Va bene, va bene, so come funziona. Vi hanno ordinato di non interferire, giusto? Avete la proibizione di introdurre cambiamenti. Lo capisco, però… — Non abbiamo nessuna direttiva del genere, davvero. Ti aiuterei, se potessi. — Ma di sicuro avete scoperto come curare il cancro! Con tutte le vostre conoscenze sul dna e sul funzionamento della vita… sapete senza dubbio come curare un male semplice come il cancro. — Il cancro affligge anche il mio popolo. Te l’ho già detto. — E i Wreed? I Wreed lo sapranno! — Anche loro ne sono colpiti. Il cancro è… come dire… un fatto di vita. — Per favore. Per favore. — Non posso fare niente. — Devi! — Mi accorsi del tono stridulo della mia voce: non mi piaceva, ma non riuscivo a fermarmi. — Devi fare qualcosa! — Mi spiace, mi spiace davvero. A un tratto mi ritrovai a gridare, la mia voce echeggiò contro le bacheche di vetro dell’esposizione. — Maledizione, Hollus. Io ti aiuterei, se potessi. Perché non vuoi aiutarmi? Hollus rimase in silenzio. — Ho una moglie. Ho un figlio. — Lo so. — Allora aiutami, maledizione! Aiutami! Non voglio morire! — Neanche io voglio che tu muoia. Sei mio amico. — Tu non sei amico mio! — gridai. — Se fossi amico mio, mi aiuteresti. Mi aspettai che svanisse, che spegnesse l’ologramma, che mi lasciasse da solo con gli antichi resti dell’esplosione cambriana. Invece rimase con me; aspettò con calma che mi passasse la crisi nervosa e che smettessi di piangere. Hollus era andato via verso le 4.20 del pomeriggio, ma io mi fermai fino a tardi a lavorare in ufficio. Mi vergognavo di me e della mia disgustosa scenata. La fine era in arrivo, lo sapevo da mesi. Perché non potevo mostrare più coraggio? Perché non potevo affrontarla con più dignità? Era tempo di sistemare tutto. Lo sapevo. Da trent’anni non rivolgevo più la parola a Gordon Small. Da ragazzi eravamo amici, abitavamo nella stessa via a Scarborough, ma all’università avevamo litigato. Gordon si era messo in testa che gli avevo fatto un torto orribile; io mi ero messo in testa che lui mi aveva fatto un torto orribile. Per una decina d’anni, dopo la nostra grande lite, avevo pensato a lui almeno una volta al mese. Ero ancora furibondo per ciò che mi aveva fatto e la notte, a letto, passavo in rassegna tutti i modi per fargliela pagare. Nella mia vita, naturalmente, c’erano diverse altre questioni in sospeso… relazioni di ogni genere che avrei dovuto concludere o accomodare. Alcune non le avrei mai risolte, lo sapevo. Per esempio, c’era Nicole, la ragazza alla quale avevo tirato il bidone la sera del nostro ballo studentesco. Non ero mai riuscito a dirle il motivo… mio padre si era ubriacato e aveva buttato mia madre giù dalle scale e io avevo trascorso con lei quella notte, al pronto soccorso di Scarborough. Come avrei potuto dire una cosa del genere a Nicole? Col senno di poi, certo, avrei potuto dirle che mia madre era caduta dalle scale e che avevo dovuto portarla in ospedale, ma Nicole era la mia ragazza, forse avrebbe voluto fare visita a mia madre, e allora le avevo mentito, avevo trovato la scusa di un guasto alla macchina, e poi ero rimasto impigliato in quella bugia, non ero mai riuscito a spiegarle che cos’era accaduto realmente. Poi c’era Bjorn Amundsen, che all’università mi aveva chiesto in prestito cento dollari e non me li aveva mai restituiti. Sapevo che era povero; sapevo che non riceveva aiuti dai genitori, al contrario di me; sapevo che non aveva ottenuto una borsa di studio. Aveva bisogno più di me di quei cento dollari, anzi, avrebbe continuato ad averne sempre bisogno e non sarebbe mai riuscito a restituirli. Una volta, stupidamente, avevo fatto un commento sui rischi che con lui si correvano. E lui aveva preso a evitarmi, piuttosto che ammettere di non poter pagare il debito. Ho sempre pensato che l’amicizia non ha prezzo, ma in quel caso l’aveva: cento miserabili dollari. Mi sarebbe piaciuto chiedere scusa a Bjorn, ma non sapevo che fine avesse fatto. E c’era Paul Kurusu, uno studente giapponese al quale una volta, al liceo, in un accesso d’ira, avevo rivolto un insulto razzista. Mi aveva guardato, ferito: aveva ricevuto altre volte simili insulti, ma non da chi considerava un amico. Avevo sempre voluto dirgli quanto fossi dispiaciuto, ma come si fa a parlarne trent’anni dopo? Con Gordon Small però dovevo fare pace. Non potevo… non potevo scendere nella fossa senza risolvere quella faccenda. Gordon si era trasferito a Boston nei primi anni Ottanta. Chiamai il servizio abbonati. C’erano tre Gordon Small nell’elenco, ma solo uno aveva il secondo nome che iniziava per P… Philip, appunto, ricordai. Mi segnai il numero, chiesi la linea esterna, composi il mio codice per le interurbane e poi il numero di Gordon. Una giovane voce femminile rispose: — Pronto? — Potrei parlare con Gordon Small per favore? — Un momento — disse la voce. Poi chiamò: — Nonno! Nonno, pensai. Gordon era già nonno, a 54 anni. E lo chiamavo dopo tutto quel tempo. Stavo per mettere giù la cornetta, quando mi giunse un: “Pronto?”. Due sillabe in tutto, ma riconobbi subito la voce. E fui sommerso da un diluvio di ricordi. — Gord — dissi — sono Tom Jericho. Seguì un istante di silenzio, per la sorpresa; poi un gelido: — Ah! Almeno Gordon non aveva sbattuto giù la cornetta. Forse pensava che fosse morto qualcuno… un amico comune, una persona che avesse per tutt’e due tanta importanza da indurmi a lasciar perdere i nostri dissapori per informarlo sul funerale, uno del nostro vecchio gruppo, del nostro vecchio quartiere. Gordon però non disse altro, solo “Ah!”. E attese che parlassi. Ora lui si trovava negli Stati Uniti e io conoscevo bene i media americani: comparso un alieno negli Stati Uniti (il Forhilnor che si aggirava per il palazzo di giustizia a San Francisco o l’altro che visitava l’ospedale psichiatrico di Charleston) non si sarebbe parlato di quelli fuori degli usa; se Gordon sapeva di Hollus e di me, non lo lasciò capire. Mi ero preparato le parole, ma il suo tono, la sua freddezza, la sua ostilità, mi bloccarono la lingua. Alla fine dissi d’un fiato: — Sono spiacente. Poteva interpretarlo in molti modi: spiacente per il disturbo, spiacente per avere interrotto ciò che faceva in quel momento, spiacente per la morte di un vecchio amico… oppure per ciò che volevo significare io: spiacente per l’accaduto, per il cuneo che avevamo inserito fra noi in tutti quegli anni. Ma Gordon non mi facilitò il compito. — Per che cosa? — disse. Sospirai, forse rumorosamente. — Gordon, eravamo amici. — Finché non mi hai tradito, sì. Ecco come sarebbe andata, allora. Niente reciprocità, niente sensazione che ciascuno avesse fatto torto all’altro. Tutta colpa mia, solo mia. Mi sentii ribollire; per un momento avrei voluto inveire, dirgli come mi ero sentito per ciò che lui aveva fatto, dirgli quanto avevo pianto, pianto davvero, di rabbia e di frustrazione e di sofferenza, dopo che la nostra amicizia si era disintegrata. Chiusi gli occhi un istante per calmarmi. Avevo telefonato per chiudere quella storia, non per riattizzare una vecchia lite. Sentii una fitta al petto, come sempre quando ero sotto tensione. — Sono spiacente — ripetei. — Ho patito, Gordon. Anno dopo anno. Non avrei mai dovuto fare ciò che ho fatto allora. — Su questo non ci piove, maledizione. Non potevo però prendermi tutta la colpa, avevo ancora un certo orgoglio. — Mi auguravo che fosse possibile scusarci l’uno con l’altro. Gordon scantonò subito. — Perché telefoni? Dopo tutti questi anni? Non volevo dirgli la verità: “Be’, Gord, il fatto è che fra breve sarò morto…” No. Non potevo dirglielo così bruscamente. — Volevo sistemare alcune vecchie faccende. —È un po’tardi. No, pensai, sarà tardi l’anno prossimo; ma finché siamo vivi, non è mai troppo tardi. — Era tua nipote, quella che ha risposto? — domandai. — Sì. — Ho un figlio di sei anni. Si chiama Ricky, Richard Blaine Jericho. — Lasciai che il nome restasse sospeso in aria. Anche Gordon era un grande appassionato di Casablanca; forse quel nome l’avrebbe ammorbidito, pensai. Se gli avevo strappato un sorriso, però, non potevo vederlo per telefono. Lui rimase in silenzio, così domandai: — Tu come te la passi, Gord? — Bene. Sposato da trentadue anni, due figli e tre nipotini. — Aspettai un invito, un semplice: “E tu?”, che però non venne. — Bene, volevo dirti solo questo. Che sono spiacente e rimpiango che sia andata in quel modo. — Era troppo aggiungere: “Vorrei che fossimo ancora amici”, perciò non lo dissi. Invece dissi: — Mi auguro che il resto della tua vita sia magnifico, Gord. — Grazie — disse. E poi, dopo una pausa che pareva interminabile: — Anche per te. Mi si sarebbe rotta la voce, se fossi rimasto ancora al telefono. — Grazie — dissi. E poi: — Addio. — Addio, Tom. E la linea divenne muta. 24 La nostra casa in Ellerslie aveva quasi cinquant’anni. Vi avevamo apportato migliorie, l’impianto centrale d’aria condizionata, un secondo bagno, la veranda che Tad e io avevamo costruito alcune estati prima. Una buona casa, piena di ricordi. In quel momento però c’ero solo io, in casa… ed era insolito. Avevo l’impressione di non essere mai da solo. Hollus era con me per un mucchio di tempo sul lavoro e quando non c’era lui, c’erano sempre gli altri paleontologi o gli studenti. E Susan, tranne quando andava in chiesa, non mi lasciava più a casa da solo. Non so se per sfruttare al massimo il poco tempo che ci restava o per timore che fossi peggiorato al punto da non resistere senza di lei neanche un paio d’ore. Mi accadeva raramente d’essere a casa da solo, senza Susan o Ricky. Non sapevo che cosa fare. Guardare la tv, ma… Quanto tempo avevo sprecato a guardare la tv, santo cielo? Un paio d’ore ogni sera… 700 ore all’anno. Per quarant’anni. La mia famiglia aveva comprato il primo televisore, in bianco e nero, nel 1960. 28.000 ore, pari a… Mio Dio. Tre anni interi. Fra tre anni, Ricky ne avrebbe avuti nove. Avrei dato qualsiasi cosa per vederlo. Avrei dato qualsiasi cosa per riavere quei tre anni buttati via. No, niente tv. Potevo leggere un libro. Rimpiangevo sempre di non poter dedicare più tempo alla lettura per diletto. Oh, passavo un’ora e mezzo ogni giorno in metropolitana a sfogliare monografie scientifiche e bozze di notiziari riguardanti il lavoro, per tenermi aggiornato; ma era passato molto tempo da quando avevo aperto un romanzo. Per Natale avevo ricevuto Vedova per un anno di John Irving e A Witness to Life di Terence M. Green. Potevo iniziare uno dei due quella sera. Ma chissà se sarei riuscito a terminarlo. Già così avevo un mucchio di roba da sistemare. Di solito quando Susan era fuori ordinavo una pizza, da Dante’s, al quale un giornale locale aveva attribuito un premio per la pizza più pesante… una Dante’s con fettine di salame così piccante che ti restava nell’alito per almeno due giorni. A Susan non piaceva la pizza di Dante’s (riempiva troppo, bruciava troppo) perciò, se c’era lei, ordinavamo pizze meno fantasiose al locale che per Toronto è una istituzione, il Pizza Pizza. La chemioterapia però mi aveva tolto gran parte dell’appetito; quella sera non potevo affrontare la pizza di nessuno. Avrei potuto guardare un film porno; ne avevamo alcune cassette, comprate per scherzo qualche anno prima e guardate di rado. Ma no, la chemioterapia aveva ucciso in me anche quel desiderio, spiace dirlo. Mi sedetti sul divano e fissai la mensola del caminetto, con la fila di piccole fotografie incorniciate: Susan e io il giorno delle nozze; Susan con Ricky in braccio, poco dopo l’adozione; io nei calanchi dell’Alberta, col piccone in pugno; la foto in bianco e nero riportata nel mio unico libro, Dinosauri canadesi; i miei genitori, circa quarant’anni fa; il padre di Susan, corrucciato come al solito; tutt’e tre… Susan, Ricky e io… nella foto usata un anno per gli auguri di Natale. La mia famiglia. La mia vita. Mi appoggiai alla spalliera. Il rivestimento del divano era logoro; avevamo comprato quel mobile dopo sposati. Sarebbe dovuto durare un po’ di più… Ero completamente solo. Forse non avrei mai avuto un’altra occasione. Ma non potevo. Non potevo. Per tutta la vita ero stato un razionalista, un umanista laico, uno scienziato. Dicono che Carl Sagan sia rimasto ateo fino all’ultimo. Anche sul letto di morte, non si convertì, non ammise la possibilità che ci fosse mai stato un Dio personale, bene o male interessato al fatto che lui vivesse o morisse. Eppure… eppure avevo letto il suo romanzo, Contact. Avevo visto anche il film, se per questo, ma il film annacquava il messaggio del romanzo. Il libro non era ambiguo: diceva che l’universo era stato progettato, ordinato. Concludeva con le parole: “C’è una intelligenza che precede l’universo”. Sagan forse non credeva al Dio della Bibbia, ma concedeva almeno la possibilità che ci fosse un creatore. O no? Carl non era obbligato a credere ciò che aveva scritto nel suo unico romanzo, non più di quanto George Lucas fosse obbligato a credere nella Forza. Anche Stephen Jay Gould aveva lottato contro il cancro, un mesotelioma addominale che gli era stato diagnosticato nel luglio del 1982. Aveva avuto fortuna, aveva vinto. Gould, come Richard Dawkins, aveva una concezione della natura puramente darwiniana… anche se i due non erano d’accordo sugli esatti particolari. Gould però non disse mai se la religione l’aveva aiutato a superare la malattia. Tuttavia, una volta guarito, aveva scritto un nuovo libro, Rocks of Ages: Science and Religion in the Fullness of Life, nel quale sosteneva che lo scientifico e lo spirituale sono due campi separati, due “magisteri senza punti di sovrapposizione”… un tipico pezzo di gergo gouldiano. Chiaramente, però, questioni più grandi lo avevano preoccupato durante il suo scontro con il grande C. Adesso era il mio turno. Sagan era rimasto risoluto fino alla fine, pareva. Gould forse aveva ondeggiato, ma alla fine era tornato il vecchio se stesso, il perfetto razionalista. E io? Sagan non aveva dovuto combattere con visite di un alieno la cui grandiosa teoria unificata indicava l’esistenza di un creatore. Gould non aveva conosciuto le progredite forme di vita di Beta Hydri o di Delta Pavonis, che credevano in Dio. Io sì, invece. Parecchi anni prima avevo letto un libro intitolato The Search of God at Harvard. Ero stato incuriosito dal titolo più che dal contenuto, che raccontava le esperienze di Ari Goldman, un giornalista del “New York Times” che per un anno aveva frequentato la scuola di teologia di Harvard. Se io avessi voluto cercare fossili dell’esplosione cambriana, sarei andato al parco nazionale di Yoho; se avessi voluto cercare gusci d’uova di dinosauro, sarei andato nel Montana o in Mongolia. Quasi tutte le cose richiedono che tu vada da esse, ma Dio. Dio, se è onnipresente… dovrebbe essere una cosa che puoi cercare ovunque: a Harvard, nel Royal Ontario Museum, in una Pizza Hut nel Kenya. In effetti mi pareva che, se Hollus aveva ragione, chiunque doveva riuscire in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento, a scostare un lembo di tendaggio e a mettere così in mostra il macchinario di Dio. “Non badare a quell’uomo dietro il sipario…” E io non vi avevo badato. L’avevo trascurato completamente. Ora, però, in quel preciso momento, ero solo. Oppure… Cristo, non avevo mai avuto di simili pensieri! Ero più debole di Sagan? Più debole di Gould? Li avevo conosciuti tutti e due, negli anni; Carl aveva tenuto conferenze all’università di Toronto; e avevamo invitato Stephen al rom ogni volta che pubblicava un nuovo libro; fra qualche settimana sarebbe venuto di nuovo a parlare in concomitanza con l’esposizione Burgess Shale. Ero rimasto sorpreso nel vedere quanto era alto Carl, ma Stephen era proprio l’ometto tondo che avevano dipinto come uno dei Simpson. Fisicamente nessuno dei due pareva più forte di me… di come ero di solito io. Ora, però, forse ero davvero più debole di loro. Maledizione, non volevo morire! I vecchi paleontologi non muoiono mai, dice la storiella. Ma di sicuro sono pietrificati dalla morte. Mi alzai dal divano. Sul tappeto del soggiorno non c’erano tanti ostacoli: Ricky migliorava, nel rimettere a posto i giocattoli. Non dovrebbe avere importanza dove lo fai. Guardai dalla finestra del soggiorno. Ellerslie Street era una magnifica vecchia via in quella che, quand’ero ragazzo, si chiamava Wiliowdale; era fiancheggiata da alberi annosi. Un passante avrebbe dovuto fare uno sforzo per vedere in casa. Tuttavia… Andai a chiudere le tende. La stanza divenne più buia. Accesi una delle lampade a stelo. Diedi un’occhiata all’orologio luminoso del videoregistratore: avevo temilo, prima che Susan e Ricky tornassero a casa. Volevo proprio farlo? Non c’era posto per un creatore, nel programma di studi che avevo insegnato all’università di Toronto. Il rom era uno dei musei più eclettici del mondo, eppure, per quanto il mosaico del soffitto ne proclamasse la missione, “Affinché tutti possano conoscere il Suo operato”, non aveva una sala specifica dedicata a Dio. No, certo, avrebbero detto i fondatori del rom. Il creatore è in ogni luogo. In ogni luogo. Anche qui. Sospirai, esalando l’ultimo brandello di resistenza. E mi inginocchiai sul tappeto, accanto al caminetto, sotto lo sguardo cieco e indifferente delle fotografie della mia famiglia. Cominciai a pregare. — Dio — dissi. La parola echeggiò debolmente nel focolare di mattoni. Ripetei quella parola. — Dio? — Una domanda, stavolta, un invito a rispondere. Non ci fu risposta, ovviamente. Perché a Dio doveva importare che morissi di cancro? In quello stesso momento, milioni di persone in tutto il mondo combattevano questa o quella forma dell’eterno nemico. Di sicuro i bambini nei padiglioni per leucemici avrebbero attirato prima la sua attenzione. Tuttavia riprovai, pronunciai per la terza volta la parola che avevo adoperato solo come bestemmia. — Dio? Non ci fu segno e in realtà mai ci sarebbe stato. Non è questa, la base della fede? — Dio, se Hollus ha ragione… se i Wreed e i Forhilnor hanno ragione e tu hai progettato l’universo pezzo per pezzo, costante fondamentale per costante fondamentale… allora non potevi evitare il cancro? Quale bene può fare a chicchessia? Le vie del Signore sono misteriose. La signora Lansbury lo diceva sempre. Tutto accade per uno scopo. Stronzate. Stupidaggini insensate. Mi sentii annodare lo stomaco. Il cancro non si manifestava per uno scopo. Dilaniava le persone; se un dio aveva creato la vita, allora era un operaio scadente che sfornava prodotti difettosi, autodistruttivi. — Dio, vorrei… vorrei che tu avessi deciso di fare le cose in maniera diversa. Era il massimo cui potevo giungere. Susan aveva detto che la preghiera non è per chiedere… e non riuscivo a chiedere pietà, a chiedere di non morire, a chiedere di vedere mio figlio che si laureava, a chiedere di diventare vecchio insieme con mia moglie. Proprio allora la porta si aprì. Mi ero perduto nei pensieri, evidentemente, altrimenti avrei sentito Susan far tintinnare le chiavi, mentre apriva. Mi accorsi di diventare rosso. — Trovato! — esclamai, come se parlassi fra me e me, fingendo di raccogliere un oggetto smarrito. Mi alzai e sorrisi, imbarazzato, alla mia incantevole moglie e al mio bellissimo figliolo. Ma non avevo trovato un bel niente. 25 Nel 1997, Stephen Pinker venne al rom per promuovere il suo nuovo libro, How the Mind Works. Ascoltai la sua affascinante conferenza. Fra le altre cose, Pinker sottolineò che gli esseri umani, anche attraverso frontiere culturali, usano nel linguaggio consistenti metafore. Le discussioni sono sempre battaglie. Lui ha vinto; io ho perduto; lui mi ha sconfitto; lei ha attaccato punto su punto; lui mi ha costretto a difendere la posizione; ho dovuto battere in ritirata. Le faccende di cuore si ispirano a pazienti o malattie. Hanno una relazione nauseante; lui l’ha fatta finita; lei si è guastata con lui; la cosa gli ha spezzato il cuore. Le idee sono cibo. Cibo per la mente; qualcosa da masticare; il suo suggerimento mi lasciò in bocca un sapore cattivo; non potevo digerire l’idea; un’ironia squisita; l’idea mi ha tenuto in vita. La virtù si ispira al “su”, presumibilmente in relazione alla nostra postura eretta. Lui è un cittadino da portare in palma di mano; non mi abbasso a farlo; non sprofonderei così in basso; cercai di salire al suo livello. Eppure fu solo dopo avere incontrato Hollus che capii quanto fosse unico questo modo di pensare dell’uomo. Hollus aveva imparato bene l’inglese e spesso adoperava metafore umane. Ma di tanto in tanto nei suoi discorsi scorgevo per un attimo quello che presumevo fosse il vero modo di pensare forhilnor. Per Hollus l’amore era astronomico… due individui giungevano a conoscersi così bene che i loro movimenti potevano essere previsti con assoluta precisione. “Amore nascente” significava che gli affetti sarebbero stati lì l’indomani, con la stessa certezza con cui il sole sarebbe sorto. “Una nuova costellazione” era un nuovo amore fra vecchi amici… il vedere un disegno fra le stelle che c’era sempre stato, ma che fino a quel momento nessuno aveva notato. E la morale si basava sull’integrazione di pensiero: “quel pensiero si alterna bene” era riferito a un concetto che provoca un significativo passaggio da una bocca all’altra. Un pensiero immorale era quello che proveniva da un solo lato: “Era tutto a sinistra con quell’idea.” Un’idea “da mezzo cervello” non era per Hollus un’idea stupida, era un’idea malefica. E per quanto i Forhilnor parlassero come noi di “ripensamenti”, usavano la parola per significare che l’altra metà del cervello finalmente contribuiva, riportava l’individuo a una posizione morale. Come Hollus aveva spiegato la sera in cui venne a cena da me, i Forhilnor alternavano sillabe o parole fra le due bocche perché il loro cervello, come il nostro, era diviso in due lobi e la coscienza proveniva, ancora più che nel nostro caso, dall’interazione fra quei due lobi. Gli esseri umani spesso parlano di un pazzo come di uno che ha perduto il cervello… assimilando il cervello alla presa sulla realtà. I Forhilnor non usavano quella metafora, ma usavano la nostra sullo sforzo per “tenerlo insieme”, anche se nel loro caso ci si riferiva direttamente all’integrazione delle due metà del cervello; i Forhilnor in buona salute come Hollus sovrapponevano in parte le sillabe del proprio nome… “lus” iniziava dalla bocca destra prima che “Hol” fosse uscito completamente dalla bocca sinistra… per comunicare agli astanti che le due metà del proprio cervello erano sicuramente integrate. Inoltre Hollus mi aveva detto che la fotografia ad alta velocità mostrava che i loro peduncoli oculari in realtà non si muovevano come immagini speculari l’uno dell’altro. Anzi, uno assumeva sempre la guida e l’altro seguiva con una frazione di secondo di ritardo. Il peduncolo guida (e la metà del cervello che comandava) variavano da momento a momento; lo studio di quale lobo iniziava una certa azione era al centro della psicologia forhilnor. Poiché Susan mi aveva messo in mente la domanda, avevo chiesto davvero a Hollus se credeva nelle anime. Molti Forhilnor moderni, Hollus compreso, non vi credevano, ma i miti forhilnor sulla vita dopo la morte derivavano dalla loro personalità cerebralmente suddivisa. In passato, molte religioni forhilnor sostenevano che ogni individuo possedesse non una, ma due anime, una per ogni metà del corpo. Il loro concetto di vita dopo la morte consisteva in due possibili destinazioni, un paradiso (anche se non era luogo di beatitudine come quello giudaico-cristiano… “anche in paradiso, la pioggia deve cadere” era un luogo comune forhilnor) e un inferno (anche se non era luogo di tortura e di patimento, perché il loro dio non era mai stato vendicativo). I Forhilnor non si basavano sugli estremi: avere così tanti arti forse li portava a vedere le cose come più equilibrate (non ho mai visto Hollus più stupito di quando, reggendomi su una gamba, controllai se avevo qualcosa appiccicato alla suola della scarpa: era sorpreso che non mi fossi ribaltato). Comunque, le due anime forhilnor potevano andare una in paradiso e l’altra all’inferno; o una lontano e l’altra più lontano (i regni dopo la morte non erano “sopra” e “sotto”… anche questo un concetto umano di estremi contrapposti). Se tutt’e due le anime andavano nello stesso posto, anche all’inferno, la vita dopo la morte era migliore che non nella suddivisione, perché in questo caso sarebbe andata perduta la personalità della forma fisica dell’individuo. Un Forhilnor dall’anima divisa era realmente morto: non c’era più traccia di ciò che era stato. Perciò Hollus era in parte confuso dalla mia paura di morire. — Voi umani credete di avere una singola anima integrata — disse il Forhilnor. Eravamo nella sala delle collezioni, a esaminare dei rettili del Sudafrica simili a mammiferi. — Allora che cosa temete? Secondo la vostra mitologia, anche da morti mantenete l’identità. Di sicuro non ti preoccupi di finire all’inferno, vero? Non sei un uomo malvagio. — Non credo nell’anima e nella vita dopo la morte. — Ah, bene. Sono sorpreso che in questo tardo stadio di sviluppo della tua specie, così tanti umani colleghino ancora il concetto di divinità all’idea di avere un’anima immortale: l’uno non richiede di sicuro l’altra. Non l’avevo mai pensata in quel modo. Forse il dio di Hollus era la detronizzazione finale stile copernicano: sì, un creatore esiste, ma le sue creature non hanno anima. — Eppure — dissi — anche se credessi nella vita dopo la morte descritta dalla religione di mia moglie, non sono sicuro d’essere abbastanza buono da andare in paradiso. L’asticella potrebbe essere posta troppo in alto per me. — L’asticella? — Una metafora, un riferimento al salto in alto, un nostro sport. Più in alto è posta l’asticella da superare col salto, più difficile è l’impresa. — Ah. Una nostra metafora paragonabile a questa riguarda passaggi sempre più stretti. Tuttavia non puoi non sapere che la paura di morire è irrazionale: la morte giunge per tutti. Per lui era un fatto clinico: non era quello a cui rimaneva solo qualche mese di vita. — Lo so — replicai, forse un po’ troppo bruscamente. Inspirai a fondo per ritrovare la calma: Hollus era davvero mio amico, non c’era motivo di trattarlo male. — Non ho una vera e propria paura della morte — mentii. — Non voglio che giunga così presto, ecco. — Esitai. — Sono sorpreso che voi non l’abbiate sconfitta. — Non gettavo l’esca, davvero. — Altro modo di pensare umano — disse Hollus. — La morte come avversario da sconfiggere. Avrei dovuto fargli vedere Il settimo sigillo… oppure Bill and Tad’s Bogus Journey. — A parte tutto — dissi — mi sarei aspettato che foste riusciti a prolungare la vita. — L’abbiamo prolungata. La durata media, prima della scoperta degli antibiotici, era la metà di quella attuale; prima della scoperta dei medicinali per disintasare le arterie, era solo tre quarti di quella attuale. — Sì, però… — Cercai il modo migliore per esprimere il mio punto. — Poco tempo fa ho visto alla ctv l’intervista a un medico. Sosteneva che il primo essere umano in grado di vivere per sempre probabilmente era già nato. Presumiamo di poter sconfiggere… scusa, evitare… la morte e riteniamo che in teoria non sia impossibile vivere per sempre. — Non sono sicuro che mi piacerebbe vivere in un mondo in cui l’unica certezza sono le tasse — disse Hollus, increspando i peduncoli oculari. — E poi i miei figli sono la mia immortalità. Rimasi sorpreso. — Hai dei figli? — domandai. Perché non mi era mai venuto in mente di chiederglielo? — Sì. Un maschio e una femmina. — Poi, con un comportamento sorprendentemente umano, soggiunse: — Vuoi vedere le foto? Annuii. Il proiettore ronzò piano e a un tratto nella sala ci furono altri due Forhilnor, in formato naturale, ma immobili. — Lui è Kassold — disse Hollus, indicando quello a sinistra. — E lei è Pealdon. — Sono già adulti? — domandai. Pealdon e Kassold parevano della stessa grandezza di Hollus. — Sì. Pealdon è una… come dite, voi? Una che lavora nel teatro e dice agli attori quale interpretazione è permessa. — Regista — suggerii. — Una regista, sì. Volevo vedere i vostri film anche per migliorare il mio giudizio sul cinema umano a paragone delle opere forhilnor. E Kassold è… uno psichiatra, immagino. Cura i disordini mentali forhilnor. — Sarai sicuramente orgoglioso di loro. Hollus ballonzolò. — Quanto, non ne hai idea — disse. A metà pomeriggio Hollus era scomparso; lui… no, lei! Per l’amor del cielo, era una madre!… aveva detto di dover fare un’altra ricerca. Ne approfittai per frugare nella pila di carte sulla mia scrivania e per riflettere un poco su quel che avevo fatto il giorno precedente. Alan Dershowitz, uno dei miei columnist preferiti, una volta disse: “Proprio mentre prego, dubito maggiormente di Dio; e mentre guardo le stelle, ritrovo tutta la fede”. Chissà sell proiettore emise il segnale bitonale. Ne fui sorpreso: non m’aspettavo di rivedere Hollus per quel giorno, invece eccola lì a manifestarsi col solito tremolio… e pareva più eccitata di quanto non l’avessi mai vista: peduncoli in rapido ondeggiamento e tronco sussultante come se una mano invisibile lo sbatacchiasse. — L’ultima stella da noi visitata prima di venire qui — disse Hollus, non appena l’immagine si stabilizzò — era Groombridge 1618, distante circa sedici anni luce dalla Terra. Il suo secondo pianeta aveva un tempo una civiltà, come gli altri pianeti da noi visitati. Gli abitanti però erano scomparsi. Sorrisi. — Bentornata. — Cosa? Sì, sì. Grazie. Ora li abbiamo trovati. Abbiamo trovato gli abitanti scomparsi. — Proprio ora? E come? — Ogni volta che scoprivamo un pianeta in apparenza abbandonato, facevamo una scansione dell’intera volta celeste. L’assunto è semplice: se gli abitanti hanno abbandonato il loro pianeta, forse hanno usato astronavi. E le astronavi avrebbero preso il percorso più breve fra il pianeta e la destinazione, perciò lo scarico di fusione… assumendo che la nave abbia motore a fusione… potrebbe essere puntato verso il pianeta patrio. Abbiamo controllato nella direzione di ogni stella classe F, G e K nel raggio di settanta anni luce di Groombridge, cercando una firma di fusione artificiale parzialmente sovrapposta sullo spettro di quelle stesse stelle. — E avete trovato qualcosa? — Non abbiamo mai trovato niente. Fino a ieri. Avevamo conservato la scansione nei nostri computer, naturalmente. Ho ricuperato la scansione e ho scritto un programma per una ricerca più ampia, un controllo di ogni stella di ogni tipo, nel raggio di cinquecento anni luce… cioè, anni luce forhilnor, pari a circa 720 terrestri. E il programma l’ha trovato: uno scarico di fusione in linea diretta fra Groombridge e la stella Alpha Orionis. Ossia la stella più luminosa nella costellazione di Orione, che è… — Betelgeuse? — dissi. —- Ti riferisci a Betelgeuse? Ma è una supergigante rossa, no? — L’avevo vista moltissime volte, nel cielo invernale: era la spalla sinistra di Orione, la mia costellazione preferita… mi pare che il nome sia arabo e significhi appunto “la spalla del cacciatore”. — Betelgeuse, sì — confermò Hollus. — Nessuno si stabilirebbe intorno a una stella così. Non può avere pianeti abitabili. — Proprio ciò che pensavamo noi. Betelgeuse è la maggiore stella visibile nel cielo notturno di ciascuno dei nostri tre pianeti; se fosse al posto del sole, col bordo esterno arriverebbe ben oltre l’orbita di Marte. È anche molto più fredda del sole e di Delta Pavonís e di Beta Hydri. Per questo emette luce rossa, ovviamente. — Quanto dista Betelgeuse? — domandai. — Dal sole, 429 anni luce terrestri… e più o meno lo stesso da Groombridge 1618. — Un bel viaggio! — Solo la metà dell’uno per cento del diametro della nostra galassia. — Tuttavia non riesco a immaginare perché vi abbiano mandato un’astronave. — Nemmeno noi. Betelgeuse ha ottime probabilità di diventare supernova; non è affatto adatta per una colonia. — Allora perché andarci? — Non lo sappiamo. Naturalmente è possibile che l’astronave abbia un’altra destinazione al di là di Betelgeuse o che progetti di usare quella stella per rifornirsi di carburante: sarebbe più facile raccogliere idrogeno dalla rarefatta atmosfera esterna di una supergigante rossa a bassa densità. Oppure l’astronave potrebbe usare Betelgeuse come una fionda gravitazionale, per ricevere spinta e deviare verso un’altra destinazione. — Avete trovato prove che la popolazione di Groombridge abbia lanciato altre astronavi? — No. Ma se hanno cambiato rotta anche di poco, in modo che lo scarico non punti al pianeta di partenza, forse non riusciremmo a scoprirle. — Quanto tempo fa è stata lanciata quell’arca? E quanto tempo manca perché arrivi a Betelgeuse? — Valutare le distanze interstellari è molto difficile, soprattutto senza una lunga linea di base per misurare la parallasse. L’arca è in viaggio da almeno 5.000 anni… a quanto pare, loro non hanno mai sviluppato motori che raggiungono quasi la velocità della luce, come i nostri… e ha certamente percorso più dei cinque sesti della distanza da Betelgeuse. — Rimase in silenzio per qualche istante, ballonzolando come quando era eccitata. — Capisci, Tom? Forse la tua ipotesi si è verificata negli altri cinque pianeti da noi visitati; forse i loro abitanti si sono scaricati davvero nei computer. Ma i nativi di Groombridge non hanno fatto così. Hanno costruito un’arca; potremmo ancora raggiungerli. Ciò significa che abbiamo un’altra razza da conoscere. 26 Il rom aveva chiuso al pubblico alle 6.00. Hollus e io giravamo di nuovo da soli nella sala dell’esposizione Burgess Shale. — Ho notato — disse l’alieno — che molti dei fossili in mostra sono calchi. — Be’, questi sono veri — dissi, indicando gli scisti intorno a noi. — In pratica, o facciamo scambi con altri musei, cedendo calchi dei nostri esemplari in cambio di calchi dei loro, oppure ci limitiamo a comprarli. — Indicai un punto più avanti. — Il T. rex che abbiamo nella Galleria Scoperte è un calco. D’altro canto, il Parasaurolophus è il nostro esemplare più richiesto; abbiamo appena terminato di farne il calco per un museo di Helsinki. — Sono affascinato da quei fossili — disse Hollus. — Noi non facciamo calchi, ma scansioni olografiche ad alta risoluzione dei pezzi più interessanti. Chissà se mi sarebbe permesso fare la scansione di questi fossili. — Gli esemplari del Burgess Shale? — Sì, per favore. Il procedimento non è invasivo. Non ci sarebbe alcun danno. Mi grattai il punto dove una volta avevo la basetta sinistra. — Penso che non dovrebbero esserci difficoltà, però… — Per una volta ero io, il furbo uomo d’affari. — Di solito scambiamo o vendiamo i calchi dei nostri fossili. Cosa potreste darci in cambio? Hollus rifletté un istante. — Ti offro una raccolta di scansioni della controparte dell’esplosione cambriana su Beta Hydri. Trattare è il terzo dei cinque stadi di Elisabeth Kubler-Ross. Quella sorta di trattativa è in genere futile, ma almeno mi ha insegnato a non cedere facilmente. — Voglio anche la raccolta di scansioni dell’esplosione cambriana di Delta Pavonis. — Vidi Hollus muovere i peduncoli oculari nel modo che, avevo scoperto, preludeva a una obiezione, ma insistetti. — In fin dei conti, dividerete con i Wreed tutti i dati, perciò è giusto che pure loro contribuiscano al pagamento. E mi occorreranno due copie delle scansioni, poiché devo darne una allo Smithsonian. Hollus rifletté un momento, poi, con un’increspatura di peduncoli oculari, disse: — Affare fatto. — La scansione come sarà realizzata? — Parecchi di noi dovranno venire qui fisicamente, portando le attrezzature. — Davvero? Magnifico! — Sorrisi. — Sarà bello rivederti… in carne e ossa, cioè. Quanto tempo richiederà il procedimento? Hollus diede un’occhiata circolare alle bacheche, come per calcolare la portata del lavoro. — Uno dei vostri giorni, direi. Le scansioni a quel livello di risoluzione portano via molto tempo. Corrugai la fronte. — In ogni caso, bisogna farle nell’orario di chiusura del museo. È troppo rischioso avervi qui in carne e ossa, mentre il museo è aperto al pubblico. E se occorre tutto quel tempo, dovremo iniziare domenica sera e continuare per tutto il lunedì, il nostro giorno di riposo, — L’ultimo colpo di Mike Harris in fatto di tagli alle spese ci aveva costretto a tenere aperto solo sei giorni a settimana. — Non c’è ragione d’aspettare, immagino. Che ne dici di iniziare già questa domenica sera? — Ossia? — Fra due giorni. — Sì, dovrebbe andare bene — disse Hollus. Per me fare la doccia è sempre stato un sistema per ripulirmi alla svelta… ancora più alla svelta, adesso che non avevo capelli da risciacquare. Per Susan però la doccia era un vero piacere. Doveva sbrigarsi nei giorni feriali, ma la domenica mattina ci metteva almeno mezz’ora a gustarsi la sensazione dell’acqua tiepida sulla pelle. Mentre lei faceva la doccia, me ne restai disteso a letto, a fissare i rosoni di stucco che decoravano il soffitto della nostra camera e a riflettere. Per capire la faccenda. Uno dei miei film preferiti è…e l’uomo creò Satana, la versione originale, con Spencer Tracy, Frederic March e Gene Kelly nei ruoli di Clarence Darrow, di William Jennings Bryan e di H.L. Mencken. Il film ha avuto un paio di remake per la tv, ma non capirò mai perché rifacciano i film già buoni! Non sarebbe meglio rifare quelli brutti e correggerne gli errori? Mi piacerebbe vedere una versione decente di Dune o di Detective coi tacchi a spillo… o di La minaccia fantasma, se per questo. Invece hanno rifatto…e l’uomo creò Satana, prima con Jason Robards, Kirk Douglas e il buon vecchio Darren McGavin, lo stesso Carl Koichak di The Night Stalker… a dire il vero, pensandoci, Mencken e Koichak sono fin troppo simili, vampiri a parte. Ma divago di nuovo. Cristo, vorrei potermi concentrare meglio. Vorrei che i dolori mi lasciassero. Vorrei… maledizione, quanto lo vorrei… essere sicuro che ciò che penso è coerente, ragionevole, il mio vero pensiero, non solo il risultato dei dolori o degli analgesici che mi confondono i processi mentali. Quando vidi per la prima volta…e l’uomo creò Satana, risi, compiaciuto, per il modo in cui Spencer Tracy demoliva Frederic March, riducendo il fondamentalista a un idiota che straparlava sul banco dei testimoni. Beccati questa, pensai. Beccati questa. Insegnavo evoluzione all’università di Toronto. L’ho già detto, vero? Quando Darwin propose la sua teoria, gli scienziati pensarono che i fossili l’avrebbero cancellata: avremmo visto una progressione graduale di forma in forma, con lente mutazioni che si accumulavano nel tempo finché non emergeva una specie nuova. I fossili però non mostrano niente del genere! Sì, ci sono forme di transizione: l’Ichthyostega, che pare una via di mezzo fra pesci e anfibi; il Caudipteryx, un misto di dinosauro e di uccello; addirittura l’Australopithecus, la quintessenza dell’uomo-scimmia. Cambiamenti graduali? Accumulo di minuscole mutazioni? No. Gli squali sono squali da quasi quattrocento milioni di anni; le tartarughe non sono cambiate per due milioni di anni; i serpenti strisciano da ottanta milioni di anni. In realtà i fossili mancano soprattutto di sequenze graduali, di miglioramenti incrementali; l’unica sequenza di vertebrati veramente buona riguarda il cavallo, motivo per cui quasi ogni museo mostra l’evoluzione equina come noi qui al rom. Stephen Jay Gould e Niles Eldredge risposero proponendo la teoria degli equilibri puntiformi… punti-E, come diciamo noi addetti ai lavori. Le specie sono stabili per lunghi periodi e poi a un tratto, quando le condizioni ambientali cambiano, si evolvono rapidamente in forme nuove. Il novanta per cento di me voleva credere a Stephen e a Niles, ma il dieci per cento lo riteneva un trucco semantico, un gioco di parole come i “magisteri non parzialmente sovrapposti” della religione e della scienza, sorvolando una questione spinosa, in questo caso che i fossili non mostrano ciò che Darwin aveva predetto, con linguaggio pomposo… come se dare un nome stravagante al problema equivalesse a risolverlo. (Non che Gould sia stato il primo a fare una cosa del genere: l’espressione di Herbert Spencer per indicare il motore evolutivo, “sopravvivenza del più adatto”, non era altro che una definizione ricorrente, perché l’adattabilità era definita come ciò che accresce le probabilità di sopravvivenza.) Stabilità ambientale a lungo termine? In febbraio Toronto ha spesso temperature di -6° e la neve arriva a mezza gamba. L’aria è così secca da far squamare la pelle e screpolare le labbra. Senza un ingombrante maglione e un parka imbottito, una sciarpa e un berretto di lana, si rischia di morire assiderati. Sei mesi dopo, in agosto, temperature intorno ai 32° sono comuni e non è eccezionale superare i 38°. L’aria è così umida che si suda anche a stare fermi; il sole è così luminoso che perfino qualche minuto senza occhiali scuri e cappello mi procura un micidiale mal di testa e la radio spesso incita gli anziani e i sofferenti di cuore a stare in casa. La teoria degli equilibri puntiformi dice che l’ambiente rimane stabile per estesi periodi di tempo. In gran parte del mondo, l’ambiente non è stabile nemmeno per qualche mese! Tenni duro, però; tratti tenemmo duro… tutti noi che insegnavamo evoluzione. Inserivamo i punti-E nel nostro piano di lezioni e scuotevamo la testa, con condiscendenza, quando ingenui studenti facevamo domande sugli anelli mancanti. Non era la prima volta che ci congratulavamo con noi stessi. Gli evoluzionisti incrociarono con arroganza le braccia sul petto già nel 1953, quando Harold Urey e Stanley Miller crearono aminoacidi mediante una scarica elettrica nel brodo primordiale, ossia quella che allora credevano potesse essere la prima atmosfera della Terra. Eravamo a metà strada dal creare la vita in provetta, pensavamo: il trionfo finale della teoria evoluzionistica, la prova che tutto era iniziato da semplici processi naturali. Fulminando il brodo nel modo corretto, potevano comparire organismi complessi in grado di autoreplicarsi. A parte il fatto che non si erano mai replicati. Ancora non sappiamo come passare da aminoacidi ad autoreplicazione. E guardiamo la cellula al microscopio elettronico e vediamo cose che Darwin non si sarebbe mai sognato, meccanismi come i cilia che risultano così incredibilmente complessi di per sé che è quasi impossibile capire come potrebbero essersi evoluti nel sistema “un passo alla volta” concesso dall’evoluzione, meccanismi che sembrano creati già completi, con tutte le loro complicate parti mobili. Be’, però ignorammo anche la discussione biochimica, e con pari compiacimento. Una volta, ricordo, il vecchio Jonesy mi passò un articolo tratto da Skeptical Inquirer, nel quale Martin Gardner cercava di fare a pezzi Michael Behe, il professore della Lehig University che scrisse Darwin’s Black Box: The Biochemical Challenge to Evolution, un forte caso a sostegno del progetto intelligente. Il nome Behe, sprecò tempo Gardner a spiegare, rima con “tee-hee”, un risolino sciocco, uno scherzo, niente da prendere sul serio. Solo perché in quel momento non riuscivamo a scorgere la sequenza di passi che avevano portato alla formazione dei cilia… o la sequenza in cascata che fa coagulare il sangue, o la complessità dell’occhio umano, o il sistema ad atp del metabolismo cellulare… non voleva dire che simili sequenze non si fossero verificate. E ovviamente continuammo a sostenere che l’universo doveva brulicare di vita… che non c’era niente di notevole nella Terra, (che anzi in realtà era mediocre) che pianeti come questo erano comuni come il terriccio che gli aveva dato il nome. Poi, però, nel 1988, fu scoperto il primo pianeta extrasolare, intorno alla stella HD 114762. naturalmente a quel tempo non pensammo che fosse un pianeta, pensammo piuttosto a una stella nana bruna. In fin dei conti era nove volte più pesante di Giove e si manteneva in un’orbita più vicina di quella di Mercurio intorno al nostro sole. Ma nel 1995 fu scoperto un altro pianeta extrasolare, grande la metà di Giove, anch’esso in orbita intorno al suo sole, la stella 51 Pegasi, a minore distanza di Mercurio. E poi ne furono scoperti altri, tutti in sistemi solari tutt’altro che simili al nostro. Nel nostro sistema solare, i giganti gassosi… Giove, Saturno, Urano e Nettuno… orbitano molto lontano dalla stella centrale e i pianeti più interni sono piccoli e rocciosi. Più che un normale sistema planetario, il nostro cominciava a sembrare uno scherzo di natura. Eppure la disposizione di corpi celesti nel nostro sistema pareva cruciale per sviluppare e mantenere la vita. Senza gli effetti gravitazionali della nostra grande Luna… quasi un pianeta gemello, formatosi in precedenza, quando un asteroide cozzò contro il nostro pianeta ancora allo stato fuso…, la Terra sfarfallerebbe in maniera instabile e la nostra atmosfera sarebbe tanto densa da schiacciarci, come quella di Venere. E senza Giove, a pattugliare il confine fra il sistema solare interno e quello esterno, spazzando con la propria immensa gravità comete e asteroidi, il nostro pianeta sarebbe stato colpito con frequenza molto maggiore da simili corpi celesti. Un impatto pare abbia cancellato la vita dalla Terra, 65 milioni di anni fa; non avremmo potuto sopportare un bombardamento più frequente. Certo, il sistema solare di Hollus somigliava al nostro, al pari di quello dei Wreed. Nondimeno sistemi solari come il nostro erano l’eccezione, non la regola. E le cellule non sono semplici, sono enormemente complesse. E i fossili, per quanto affascinanti e frustranti, mostrano che l’evoluzione procede a salti, non per accumulo di mutazioni graduali. Per tutta la vita ero stato un evoluzionista neo-darwiniano, senza scendere a compromessi. Certamente non voglio ritrattare sul letto di morte. Eppure… eppure, forse, come crede Hollus, c’è qualcosa di più, nell’enigma della vita. So che l’evoluzione si verifica; è un fatto. Ho visto í fossili, ho visto gli studi del dna secondo i quali noi e gli scimpanzé abbiamo in comune il 98,6% del materiale genetico e quindi abbiamo avuto di sicuro un antenato comune recente. Un procedere a salti… Forse… a salti quantici. Le leggi fisiche di Newton sono in gran parte giuste; possono essere usate per predire attendibilmente ogni sorta di cose. Non le abbiamo scartate; anzi nel ventesimo secolo, le abbiamo incluse in una nuova fisica, più comprensiva, la fisica della relatività e della meccanica quantistica. L’evoluzione è un concetto del diciannovesimo secolo, descritta nel 1859 da Darwin, in un libro intitolato L’origine delle specie. Più apprendiamo, però, più la selezione naturale ci pare inadeguata di per sé come meccanismo per la creazione di nuove specie; perfino i nostri migliori tentativi di selezione artificiale guidata dall’intelligenza non sono all’altezza del compito, a quanto pare: tutti i cani appartengono sempre alla specie Canis familiarìs. E ora siamo all’inizio del ventunesimo secolo. Di sicuro non è irragionevole pensare che le idee di Darwin, come in precedenza quelle di Newton, saranno incluse in un insieme più vasto, in una visione più ampia. Maledizione! Dio lo maledica. Odio il dolore, quando giunge così all’improvviso… come una pugnalata che mi trafigge. Allungai la mano sul comodino. Dove sono le pillole? Dove sono? 27 Rhonda Weir, bassa, tozza, brizzolata, era un’agente della polizia di Toronto. Fu chiamata al telefono, alle 13.11 di domenica. — Agente Weir — rispose. — Salve — disse una rauca voce maschile, con tono abbastanza scocciato, — Mi auguro di parlare alla persona giusta, finalmente. Mi hanno passato parecchie volte da uno all’altro. — Cosa posso fare per lei? — disse Rhonda. — Mi chiamo Constantin Kalipedes — disse la voce. —Nei fine settimana sono il direttore del Lakeshore Inn a Etobicoke. Una mia inserviente ha trovato un’arma, in una stanza. — Che tipo di arma? — Una pistola. E ha trovato anche un astuccio vuoto, del tipo che si usa per portare quelle… come le chiamate?… armi d’assalto? — Il cliente ha lasciato la stanza? — I clienti. Sono due. No. Hanno una prenotazione fino a giovedì mattina. — Come si chiamano? — Uno si chiama J.D. Ewell; l’altro, C. Falsey. Hanno targhe dell’Arkansas. — Ha preso i numeri? — Li hanno scritti loro stessi sulla scheda di registrazione. — Lesse la serie di numeri e lettere. — L’inserviente ha terminato le pulizie nella stanza? — No, le ho detto di sospendere, appena ha trovato la pistola. — Bravo — disse Rhonda. — Qual è il suo indirizzo? Il direttore d’albergo glielo comunicò. — Sarò lì fra… — guardò l’ora, calcolò rapidamente: non c’era di sicuro molto traffico, la domenica pomeriggio. — Fra venti minuti. Se Ewell o Falsey ritornano, cerchi di trattenerli, ma senza correre rischi, capito? — Sì. — Arrivo subito. Il Lakeshore Inn si trovava, per l’appunto, sul Lakeshore Boulevard. Rhonda Weir e il suo collega, Hank Li, fermarono l’automobile, priva di contrassegni, di fronte all’ingresso. Controllarono le targhe delle auto in sosta, Hank verso sinistra, Rhonda verso destra. Sei erano targhe americane; due del Michigan, due di New York, una del Minnesota e una dell’Illinois. Nessuna dell’Arkansas. Piovigginava, ma senza dubbio il tempo sarebbe peggiorato. Nell’aria c’era l’aspro odore di ozono. Constantin Kalipedes era un greco, anziano e panciuto, con un’ombra di barba grigia. Accompagnò Rhonda e Hank lungo una fila di camere singole, fino a un uscio spalancato. Nella stanza c’era la donna indù che faceva l’inserviente e che li accompagnò alla stanza 118. Kalipedes estrasse la chiave e Rhonda aprì di persona la porta; girò il pomo utilizzando la chiave per non cancellare eventuali impronte digitali. La stanza era piuttosto malandata, con due stampe in cornice, un po’ sghembe, e carta da parati blu elettrico che cadeva a pezzi. C’erano due letti doppi, uno dei quali aveva accanto quella sorta di bombola d’ossigeno per chi ha difficoltà a respirare bene nel sonno. I letti erano in disordine; l’inserviente aveva scoperto l’arma prima di rifarli. — Dov’è la pistola? — chiese Rhonda. La ragazza indù entrò nella stanza e puntò il dito. La pistola era sul pavimento, accanto a una valigia. — Ho dovuto spostare la valigia per attaccare l’aspirapolvere— spiegò. — Non era chiusa bene e la pistola è caduta fuori. Dietro c’era quell’astuccio di legno. — Lo indicò. — Una Glock 9 mm — disse Hank, alla prima occhiata, Rhonda guardò l’astuccio. Aveva un rivestimento interno sagomato, in gommapiuma nera, delle dimensioni giuste per una carabina Intertec Tec-9, un’arma pericolosa, in pratica una mitraglietta, lunga un braccio. La rivoltella era illegale in Canada, ma più preoccupante era il fatto che Falsey ed Ewell l’avessero lasciata lì e scelto la Tec-9, un’arma vietata ora anche negli Stati Uniti a causa del caricatore a trentadue colpi. Rhonda, mani sui fianchi, scrutò lentamente la stanza. Due posacenere, vi si poteva fumare. Spinotti per modem, ma nessun segno di computer portatile. Rhonda passò al bagno: due rasoi a mano e una bomboletta di schiuma da barba. Due spazzolini da denti, uno dei quali molto consumato. Tornò nella stanza e su uno dei due comodini notò una Bibbia rilegata in nero. — Validi motivi? — disse al collega. — Direi di sì — rispose Hank. Kalipedes li guardò senza capire. — Cosa significa? — Significa — spiegò Rhonda — che ci sono sufficienti indizi per ipotizzare che un crimine è stato o sta per essere commesso; questo ci consente di perquisire la stanza senza chiedere prima il mandato. Può restare a guardare… anzi, ci farebbe un piacere. — Più d’una volta il dipartimento era stato citato in tribunale da gente che lamentava la sparizione di oggetti di valore durante una perquisizione. Kalipedes annuì e si rivolse all’inserviente. — Torna al lavoro — disse. La ragazza si affrettò a uscire. Rhonda estrasse un fazzoletto e, tenendolo fra due dita, se ne servì per aprire il cassetto di un comodino. Trovò un’altra Bibbia, rilegata in rosso: una tipica Gideon, quelle che si trovano nelle camere d’albergo. Andò all’altro comodino. Prese di tasca la penna e sollevò la copertina della Bibbia nera. Non era una Gideon: nella parte interna della copertina c’era una scritta, “C. Faisey”, in inchiostro rosso. Rhonda lanciò un’occhiata all’astuccio della mitraglietta. — Il nostro amico della Bibbia dovrebbe rileggere la parte sulle spade da convertire in vomeri, penso — disse. Hank borbottò una risposta e usò la propria penna per scostare le carte sulla toeletta. — Guarda qua — disse dopo un momento. Rhonda si avvicinò. Hank aveva trovato una piantina di Toronto, aperta. Badando a toccare solo i bordi, la girò e indicò il riquadro che sarebbe stato la copertina se la piantina fosse stata ripiegata. Aveva l’adesivo col prezzo della Barnes and Noble, una catena di librerie americana, senza filiali in Canada. Presumibilmente Falsey ed Ewell si erano portati la piantina dall’Arkansas. Hank tornò a sfogliarla con cautela. Era a colori, con ogni sorta di simboli e di segni. Rhonda impiegò qualche istante a notare il semplice cerchio tracciato a biro intorno all’incrocio fra la Kipling e la Horner, a meno di due chilometri dal punto dove si trovavano al momento. — Signor Kalipedes — chiamò, con un gesto perché si avvicinasse. Gli mostrò la piantina. — Siamo nel suo quartiere. Sa dirmi cosa c’è all’incrocio fra la Kipling e la Horner? Il greco si grattò il mento. — Un Mac’s Milk, un Mr. Submarine, una lavanderia a secco. Ah, sì… c’è anche quella clinica saltata in aria qualche giorno fa. Rhonda e Hank si guardarono. — Ne è sicuro? — disse Rhonda. — Ma certo — rispose Kalipedes. — Cristo — imprecò Hank, rendendosi conto della portata della scoperta. — Oh, Cristo. Esaminarono subito la piantina, alla ricerca di altri segni. Ne trovarono tre. Un cerchio a matita intorno a un edificio segnato da un rettangolo rosso, in Bloor Street. Rhonda non aveva bisogno di chiedere che cosa fosse, era scritto in corsivo sulla piantina: Royal Ont. Museum. Segnati con un cerchio erano pure lo SkyDome, lo stadio dove giocavano i Blue Jays, e il centro trasmissioni della cbc, alcuni isolati a nord dello SkyDome. — Attrazioni per turisti — disse Rhonda. — Però si sono portati un’arma semiautomatica — notò Hank. — I Jays giocano oggi? — Già. Contro i Milwaukee. — Alla cbc è previsto qualcosa? — Di domenica? Fanno una diretta dall’atrio, al mattino; di pomeriggio, non so. — Guardò la piantina. — E poi forse sono andati in qualche altro posto, non in quelli segnati. Hanno lasciato qui la piantina. — Tuttavia… Hank non aveva bisogno di sentire il seguito. — Già — confermò. — Il rom, per esempio… c’è quell’alieno in visita — disse Rhonda. — Non è lì in carne e ossa. È solo un’immagine trasmessa dalla nave madre. Rhonda sbuffò, per far capire che lo sapeva. Prese il cellulare. — Faccio mandare una squadra alla cbc e allo SkyDome — disse — e un paio di agenti che aspettino qui, nel caso che Falsey ed Ewell ritornino. Susan mi diede un passaggio fino alla stazione Downsview, verso le tre e mezzo del pomeriggio; il cielo coperto, livido, minacciava tempesta. Ricky passava il resto della giornata dagli Nguyen… mio figlio cominciava ad apprezzare davvero il cibo vietnamita. Di domenica i treni della metropolitana erano lenti e poco frequenti: avrei guadagnato tempo, per andare in centro, partendo da Downsview, all’estremità nord della linea Spadina, anziché da North York Centre. Salutai con un bacio mia moglie… e lei prolungò il bacio. Le sorrisi. E lei mi sorrise. Poi presi il sacchetto di carta, con i panini che Susan mi aveva preparato, e scesi nella stazione, usando la lunga scala mobile che portava nel cuore del mondo sotterraneo. Rhonda Weir e Hank Li avevano ottenuto da Kalipedes la descrizione di Falsey ed Ewell. Il greco non sapeva distinguerli per nome, ma uno era sui venticinque anni, biondo, magro, sul metro e settanta, con capelli a spazzola; l’altro era sui trentacinque, un metro e ottanta, viso appuntito, capelli castani. Tutt’e due parlavano con la cadenza degli stati del sud. E ovviamente uno dei due forse aveva con sé una mitraglietta Tec-9, magari nascosta sotto il soprabito. Anche se di domenica il museo era affollato (il posto preferito dai padri divorziati per trascorrere con i figli la giornata) c’erano buone probabilità che Rhonda e Hank riuscissero a individuarli. I due agenti lasciarono la macchina nel piccolo parcheggio della Biblioteca di Legge Bora Laskin, sul lato sud del planetario, e raggiunsero a piedi il rom, entrando dalla porta principale; si avvicinarono a Raghubir Singh. Rhonda mostrò rapidamente il distintivo e descrisse i due che cercavano. — Sono già stati qui — disse Raghubir. — Alcuni giorni fa. Due americani con la cadenza del sud. Li ricordo perché uno dei due chiese dov’erano i Falsi del Burgess Shale. L’ho raccontato a mia moglie e lei ci ha riso molto. Rhonda sospirò. — Be’, allora è poco probabile che ritornino. Però è la nostra unica pista. Daremo un’occhiata in giro, se per lei va bene. — Certo — disse Raghubir. Avvertì per radio le altre guardie della sicurezza, in modo che si unissero alle ricerche. Rhonda estrasse il cellulare. — Weir — disse. — Gli indiziati sono stati al rom la settimana scorsa; comunque diamo un’occhiata, nel caso che ci siano tornati. Però concentrerei le forze allo SkyDome e alla cbc. Giunsi al museo verso le quattro e mezzo, entrai dall’ingresso riservato al personale e mi diressi all’esposizione Burgess Shale, solo per dare un’ultima occhiata e assicurarmi che tutto fosse in ordine prima dell’arrivo di Hollus e dei suoi. Rhonda Weir e Hank Li si ritrovarono nella Rotonda alle 4.45. — Niente fortuna — disse Rhonda. — E tu? Hank scosse la testa. — Mi ero dimenticato quant’è grande questo posto. Anche se fossero tornati, potrebbero trovarsi da qualsiasi parte. — Nessuno dei miei li ha visti — disse Raghubir. — Un mucchio di visitatori porta il soprabito anche nel museo. Avevamo un guardaroba gratuito, prima dei tagli. — Si strinse nelle spalle. — Alla gente non piace pagare. Rhonda guardò l’orologio. — È quasi l’ora di chiusura. — Nei fine settimana l’ingresso per le scolaresche è chiuso — disse Raghubir. Indicò la fila di porte a vetri sotto le vetrate istoriate. — Dovranno uscire dalla porta principale. Rhonda corrugò la fronte. — Probabilmente non sono nemmeno qui. Comunque, aspettiamo fuori e controlliamo se escono. Hank annuì e i due agenti si diressero al vestibolo e alle porte a vetri. Pareva che stesse per piovere. Rhonda usò di nuovo il cellulare. — Aggiornamenti? — domandò. La voce di un sergente: — Di sicuro non sono al centro della cbc. — Punto sullo SkyDome — disse Rhonda. — Anche noi. — Veniamo lì. — Staccò la comunicazione. Hank guardò il cielo scuro. — Speriamo d’arrivare in tempo per veder chiudere il tetto dello stadio. J.D. Ewell e Cooter Falsey erano appoggiati alla parete color salsa di pomodoro, nella Rotonda Inferiore; Falsey portava un berretto dei Toronto Blue Jays comprato il giorno prima, quando erano andati allo SkyDome a vedere la partita. Una voce registrata, con cadenza giamaicana, provenne dagli altoparlanti: “Signore e signori, il museo è chiuso. Tutti i visitatori sono pregati di raggiungere l’ingresso principale. Grazie per la visita e arrivederci. Signore e signori, il museo è chiuso. Tutti…”. Falsey rivolse a Ewell un rapido sogghigno. La sala proiezioni del rom aveva quattro doppie porte d’accesso, che spesso non venivano chiuse a chiave. Visitatori curiosi a volte sporgevano la testa, ma se non c’erano programmi in corso, vedevano solo un grande locale in penombra. Ewell e Falsey aspettarono che la Rotonda Inferiore fosse vuota, poi scesero i nove scalini e raggiunsero la sala proiezioni. Rimasero fermi per qualche istante, per abituare gli occhi alla scarsa luce. La sala non aveva finestre, ma c’era ugualmente un po’ di luce: il bagliore rossastro del segnale uscita, la luce che filtrava sotto le porte, un grosso orologio analogico illuminato, sulla parete, sopra la porta, i led rossi dei rivelatori di fumo e il chiarore di un quadro di comando o chissà cosa, che usciva dalle cinque finestrelle del gabbiotto di proiezione posto sopra l’ingresso. In precedenza, quello stesso giorno, Falsey ed Ewell erano rimasti seduti a guardare un film che pareva interminabile, su una piccola canoa di legno intagliato, con a bordo un indigeno canadese, in viaggio lungo vari corsi d’acqua. Non avevano prestato molta attenzione al film. Invece avevano esaminato la struttura della sala: la presenza di un palco di fronte allo schermo, il numero di file di poltroncine, la posizione dei passaggi e quella delle scalette che portavano al palco. Ora percorsero rapidamente nel buio il passaggio di sinistra, in lieve pendenza; trovarono la scaletta del palco, salirono i gradini, scivolarono dietro il grande schermo appeso al soffitto e furono dietro le quinte. Lì c’era più luce. Proveniva da uno stanzino da bagno: qualcuno aveva lasciato la luce accesa e la porta socchiusa. Dietro lo schermo c’erano diverse sedie spaiate e la solita confusione di attrezzi per l’illuminazione, sostegni per microfono, funi grosse come anaconda penzolanti dal soffitto e polvere in quantità. Ewell si tolse la giacca, che era servita a tenere nascosta la mitraglietta. Stanco di portarsi dietro l’arma, la posò per terra e sì accomodò in una sedia. Anche Falsey prese una sedia, intrecciò le dita sulla nuca, distese le gambe e si dispose ad aspettare pazientemente. 28 Erano le dieci di sera e il traffico, lì in centro, si era ridotto quasi a niente. La navetta dì Hollus calò in silenzio dal cielo e atterrò non davanti al planetario, come la prima volta, ma dietro il museo, lungo la Passeggiata del Filosofo, un tratto erboso che serpeggiava dal Varsity Stadium verso l’Hart House. Forse qualcuno aveva osservato l’atterraggio del veicolo spaziale, ma almeno la navetta non era in piena vista dalla via. Christine Dorati aveva insistito per essere presente all’arrivo degli alieni. Avevamo discusso sul modo migliore per risolvere il problema sicurezza e avevamo concluso che la cosa più sensata era semplicemente starsene zitti: se avessimo chiesto il sostegno della polizia o dell’esercito, avremmo solo attirato la folla. Ormai solo un gruppetto di svitati bazzicava intorno al museo, ma a quell’ora della notte non si vedeva mai nessuno: era di dominio pubblico che Hollus e io facevamo orario d’ufficio. Da quando Christine aveva tentato di sbattermi fuori, fra noi c’era una certa tensione; immaginavo però che, guardandomi, lei sapesse che in ogni caso la faccenda si sarebbe risolta presto. Continuavo a evitare gli specchi, ma vedevo le reazioni di chi aveva a che fare con me: i commenti forzati e insinceri sul mio aspetto, le strette di mano rapide e leggere per timore di rompermi qualche osso, l’involontario scuotere della testa di gente che, non avendomi visto da settimane, notava il mio stato attuale. Christine l’avrebbe avuta vinta fin troppo presto. Fermi nel vicolo fra il rom e il planetario, osservammo la navetta atterrare; la Passeggiata del Filosofo non era la sorta di luogo dove fosse piacevole aggirarsi di notte. Hollus, un secondo Forhilnor e due Wreed emersero rapidamente dalla navetta nera a forma di cuneo. Hollus portava lo stesso indumento blu sfoggiato il giorno del nostro primo incontro; l’altro Forhilnor vestiva in nero e oro. I quattro alieni portavano parti di un’apparecchiatura che pareva assai complessa. Li salutai e li accompagnai in fretta nel vicolo e poi nel museo, entrando dall’ingresso del personale. Quell’ingresso era a livello della strada, ossia al pianterreno del museo (l’ingresso pubblico principale, con tutti quegli scalini esterni, portava in realtà al primo piano). Lì era di servizio una guardia, che leggeva una rivista invece di tenere d’occhio le immagini in bianco e nero delle telecamere della sicurezza. — Meglio staccare gli allarmi — disse Christine alla guardia. — Se dobbiamo stare qui tutta la notte, sono sicura che gireremo in varie parti dell’edificio. — La guardia annuì e premette alcuni pulsanti sul quadro di comando. Ci avviammo nel museo, per la maggior parte buio. I Wreed, oltre alle cinture gialle porta-utensili che avevo già visto, portavano delle bizzarre imbracature che passavano fra le quattro braccia. — Cos’è quella roba? — domandai a Hollus. — Un generatore di campo di repulsione. Li aiuta nei movimenti: la gravità terrestre è più elevata di quella del loro pianeta. Prendemmo l’ascensore per il primo piano… occorsero due viaggi per trasportare tutti, poiché ci stava solo un Forhilnor per volta. Andai col primo gruppo; Hollus, che mi aveva visto usare gli ascensori varie volte, venne col secondo (far capire ai Wreed che i piani potevano essere rappresentati da un numero, disse, avrebbe richiesto troppe spiegazioni). I due Wreed rimasero particolarmente impressionati dai due enormi totem di cedro rosso. Salirono fino al terzo piano, sulle scale che giravano intorno ai totem, e tornarono al primo. Allora guidai tutti dall’altra parte della Rotonda, alla sala Garfield Weston. Mentre procedevamo, Hollus muoveva le due bocche a folle velocità, parlando nella sua lingua. Probabilmente faceva le veci del cicerone e spiegava all’altro Forhilnor e ai Wreed. Ero incuriosito sul secondo Forhilnor, il cui nome, mi dissero, era Barbulkan. Era più grosso di Hollus e aveva un arto scolorito. I chiavistelli erano alla base della doppia porta a vetri. Mi chinai con un grugnito, mi servii della chiave in dotazione e spinsi i battenti finché non scattarono i fermi che li tenevano aperti. Entrai e accesi le luci. Gli altri mi seguirono nella sala. I due Wreed confabularono sottovoce. Dopo alcuni istanti parvero giungere a un accordo. Naturalmente non dovevano girarsi per parlare a una persona alle loro spalle, ma uno dei due si rivolgeva chiaramente a Hollus: emise rumore d’acciottolio che, l’attimo dopo, fu tradotto nella musicale lingua dei Forhilnor. Hollus si accostò a me. — Sono pronti a sistemare l’apparecchiatura per la prima bacheca. Andai avanti e usai un’altra chiave sulla prima bacheca, sbloccando il coperchio di vetro e ribaltandolo. Il cardine si bloccò al punto di massima apertura. Non c’era nessuna possibilità che la lastra di vetro ricadesse, mentre la gente lavorava… forse in passato i musei non avevano sempre preso appropriate precauzioni per salvaguardare i propri impiegati, ma adesso le prendevano. Lo scanner consisteva in un grosso supporto metallico dal quale sporgeva una decina di complessi bracci snodabili che terminavano con una sfera trasparente, grande come un pallone da softball. Un Wreed era impegnato a mettere in posizione i bracci… alcuni sopra la bacheca, altri sotto, la maggior parte ai lati… mentre l’altro Wreed faceva numerose regolazioni su un pannello di comando pieno di spie luminose, agganciato al sostegno. Pareva poco contento dei risultati e continuava a manipolare i comandi. — È un lavoro delicato — disse Hollus. — Scandire a questa risoluzione richiede vibrazioni ridotte al minimo. Mi auguro che i treni della metropolitana non ci causino difficoltà. — Fra breve smetteranno di circolare per la notte — disse Christine. — Dalla sala proiezioni del rom si sentono passare, ma non mi sono mai accorta che facciano vibrare il resto del museo. — Probabilmente andrà tutto bene — disse Hollus. — Ma dovremmo anche evitare l’uso dell’ascensore, durante le scansioni. L’altro Forhilnor disse qualcosa; Hollus si rivolse a Christine e a me, con un: — Vogliate scusarci. — I due Forhilnor andarono dall’altra parte della sala e aiutarono a spostare un altro pezzo di macchinario. Hollus non avrebbe manovrato lo scanner, era chiaro, ma veniva utile per il resto. — Straordinari — disse Christine, guardando gli alieni che si muovevano per la sala. Non me la sentivo di chiacchierare con lei, ma in fin dei conti era il mio superiore. — Davvero — dissi, senza troppa convinzione. — Non credevo all’esistenza di alieni, sai — riprese Christine. — Oh, so benissimo ciò che sostenete voi biologi… la Terra non ha niente di speciale, dovrebbe esserci vita dappertutto e via di questo passo. Eppure, nel mio intimo, ho sempre pensato che eravamo soli nell’universo. Decisi di non discutere sul fatto che il nostro pianeta avesse o no qualcosa di speciale. — Sono felice che siano qui — dissi. — Sono felice che siano venuti a farci visita. Christine sbadigliò… un vero spettacolo, con la sua bocca da cavallo, anche se lei cercò di nasconderla col dorso della mano. Si era fatto tardi ed eravamo solo all’inizio. — Scusa — disse, al termine dello sbadiglio. — Vorrei che ci fosse un modo per indurre Hollus a fare qualche programma pubblico, qui. Potremmo… In quel momento Hollus ci raggiunse di nuovo. — Sono pronti per la prima scansione — disse. — L’apparecchiatura funzionerà in automatico e sarebbe meglio se uscissimo dalla sala per evitare vibrazioni. Tornammo tutti nella Rotonda, — Quanto ci vorrà per la scansione? — domandai. — Circa quarantatré minuti per la prima bacheca — rispose Hollus. — Be’, è inutile stare qui in giro — disse Christine. — Perché non diamo un’occhiata ai manufatti dell’Estremo Oriente? — Anche quelle sale erano al pianterreno, a poca distanza da lì. Hollus si rivolse agli altri alieni, presumibilmente per avere il loro consenso. — Buona idea — disse poi. Lasciai che Christine ci precedesse; era il suo museo, in fin dei conti. Attraversammo in diagonale la Rotonda, ripassando davanti ai totem, ed entrammo nelle sale T.T. Tsui di Arte Cinese (prendevano il nome dall’uomo d’affari di Hong Kong che con la sua donazione le aveva rese possibili); il rom aveva la più bella collezione di manufatti cinesi del mondo occidentale. Percorremmo le sale con le bacheche piene di ceramiche, bronzi e giade ed entrammo nella zona della Tomba Cinese. Per decenni la tomba era rimasta all’esterno, esposta alle intemperie di Toronto, ma adesso era all’interno, al pianterreno delle gallerie a terrazza del rom. La parete esterna, di vetro, guardava su una Bloor Street sdrucciolevole e bagnata; era fronteggiata da un Pizza Hut e da un McDonald’s sul lato opposto della via. Sul tetto a lucernario in lieve pendenza batteva la pioggia. Le componenti della tomba… due arcate gigantesche, due cammelli di pietra, due colossali figure umane e l’enorme cupola tumulo… non erano cintate da corde di velluto. L’altro Forhilnor, Barbulkan, allungò la mano a toccare le sculture dell’architrave più vicino. Immaginai che se si lavorava soprattutto in telepresenza, toccare con mano le cose dava un brivido particolare. — Questi pezzi di tomba — disse Christine, ferma accanto a uno dei cammelli di pietra — furono acquistati dal museo nel 1919 e 1920 da George Crofts, un inglese che commerciava in pellicce e oggetti d’arte, di stanza a Tianjin. In teoria provenivano dalla necropoli di Fengtaizhuang, nella provincia di Hebei, e si dice appartenessero al famoso generale Zu Dashou, della dinastia Ming, morto nel 1656. Gli alieni mormorarono tra loro. Erano chiaramente affascinati. Forse non costruivano monumenti ai loro defunti. — A quel tempo la società cinese si basava sul concetto che l’universo è un luogo altamente ordinato — proseguì Christine. — La tomba e le figure della tomba riflettono l’idea di un cosmo strutturato e… Sulle prime pensai che fosse un tuono. Non era un tuono. Un rumore lacerò l’aria nella zona della tomba ed echeggiò contro le pareti di pietra. Un rumore che avevo sentito solo in tv e al cinema. Una rapida serie di colpi d’arma da fuoco. Come tanti stupidi, ci lanciammo di corsa verso l’origine del rumore. I Forhilnor furono i più svelti e i Wreed rimasero indietro. Attraversammo di corsa le sale T.T. Tsui e sbucammo nella Rotonda semibuia. Il rumore proveniva dalla sala Garfield Weston… dalla mostra Burgess Shale. Non riuscivo a immaginare contro chi si sparasse: a parte la guardia della sicurezza all’ingresso del personale, eravamo gli unici nell’edificio. Christine aveva un telefono cellulare e già componeva il numero della polizia. Un’altra raffica squarciò l’aria e lì, più vicino, riuscii a distinguere un altro rumore, più familiare: roccia che si frantumava. All’improvviso capii che cosa succedeva. Qualcuno sparava agli inestimabili fossili del Burgess Shale, vecchi mezzo miliardo di anni. Le raffiche cessarono proprio mentre i Wreed giungevano nella Rotonda. Avevamo fatto rumore: Christine parlava nel cellulare, i nostri passi avevano sollevato echi nelle sale, e i Wreed, confusi e disorientati (forse non avevano mai inventato armi a proiettile) parlavano animatamente, malgrado i miei tentativi di farli tacere. Per quanto in parte assordati dal rumore delle loro stesse armi, evidentemente quelli che sparavano ai fossili avevano udito i rumori da noi prodotti. Prima uno, poi un altro, emersero dalla sala d’esposizione. Il primo, coperto di schegge di legno e di roccia, impugnava un’arma semiautomatica… una mitraglietta, forse. La puntò contro di noi. Il gesto bastò se non altro a farci fare l’unica cosa sensata: restare immobili. Lanciai a Christine un’occhiata interrogativa, chiedendole senza parole se era riuscita a contattare la polizia. Lei annuì e inclinò il cellulare quanto bastava a mostrare che era ancora collegato. Grazie a Dio il centralinista aveva avuto il buon senso di restare zitto, non appena Christine aveva smesso di parlare. — Dio santo — disse l’uomo con la mitraglietta. Si girò a mezzo verso il compagno più giovane, coi capelli a spazzola. — Dio santo, li vedi, quelli? — Aveva la cadenza degli stati del Sud. — Alieni — disse quello dai capelli a spazzola, come se pesasse la parola; anche lui parlava con la stessa cadenza. Poi, un attimo dopo, come se avesse deciso che la parola andava bene, ripeté con più forza: — Alieni! Mossi un passo avanti. — Sono proiezioni, ovviamente — dissi. — In realtà non sono qui. Forhilnor e Wreed potevano anche avere modi differenti dagli umani, ma almeno non furono tanto sciocchi da contraddirmi. — Chi siete? — domandò l’uomo armato. — Cosa ci fate, qui? — Thomas Jericho, direttore del dipartimento paleobiologia qui al… — alzai un poco il tono, con la speranza che il centralinista ascoltasse, nel caso che Christine non avesse ancora indicato dove ci trovavamo — Royal Ontario Museum. — Naturalmente a quel punto la guardia di sicurezza doveva avere capito che era successo qualcosa e presumibilmente aveva anche chiamato la polizia. — Nessuno dovrebbe essere qui a quest’ora di notte — disse quello dai capelli a spazzola. — Dovevamo fare alcune fotografie. Volevamo farle mentre il museo era vuoto. Forse venti metri ci separavano da quei due. Potevano essercene altri, nella sala d’esposizione, ma non se ne vedeva segno. — Posso chiedere che cosa ci fate qui voi? — disse Christine. — Tu chi sei? — replicò l’uomo armato. — Dottoressa Christine Dorati, responsabile del museo. Cosa ci fate? I due si scambiarono un’occhiata. Quello con i capelli a spazzola si strinse nelle spalle. — Distruggiamo quei fossili bugiardi — disse. Guardò gli alieni. — Voi alieni siete venuti sulla Terra, ma ascoltate la gente sbagliata. Questi scienziati — sputò quasi la parola — vi raccontano menzogne, con quei fossili e tutto il resto. Il nostro mondo ha seimila anni, il Signore lo creò in soli sei giorni e noi siamo il suo popolo eletto. — Mio Dio — dissi, invocando l’entità in cui loro credevano e io no. Guardai Christine. — Creazionisti. L’uomo armato cominciava a spazientirsi. — Basta così — disse. Puntò contro Christine la mitraglietta. — Butta il cellulare. Christine lo lasciò cadere a terra; il cellulare urtò il pavimento e si ruppe, saltò via il microfono. — Siamo venuti a fare un lavoro — disse l’uomo armato. — Ora vi stendete tutti a terra e io termino il lavoro. Cooter, tienili sotto tiro. — Tornò nella sala d’esposizione. L’altro infilò la mano nella tasca della giacca ed estrasse una pistola. La puntò contro di noi. — L’avete sentito — disse. — Stendetevi a terra. Christine si distese. Hollus e l’altro Forhilnor si acquattarono in un modo che non avevo mai visto prima, abbassando il tronco fino a toccare il pavimento. I due Wreed rimasero dov’erano, o perplessi o forse fisiologicamente incapaci di distendersi. Nemmeno io mi distesi. Ero atterrito… su questo non c’erano dubbi. Sentivo il cuore battermi forte e il sudore imperlarmi la fronte. Quei fossili erano inestimabili, maledizione… fra i più importanti del mondo. Ed ero stato io a radunarli in un unico posto per esporli al pubblico. Mossi un passo avanti— Per favore — dissi. Un’altra serie di colpi dalla sala. Mi pareva che i proiettili colpissero me. Vedevo gli scisti andare a pezzi, i resti di Opabima e di Wiwaxia e di Anomalocaris e di Canadia, sopravvissuti 500 milioni di anni, esplodere in nuvole di polvere. — No — dissi, con genuina supplica nel tono. — Non fatelo! — Indietro! — disse il tipo dai capelli a spazzola. — Resta al tuo posto. Inspirai. Non volevo morire… ma sarei morto comunque. Stanotte o fra qualche mese, sarebbe accaduto in ogni caso. Avanzai di un altro passo. — Se credete alla Bibbia, allora credete anche ai Dieci Comandamenti. E uno di essi… — sarei stato più convincente, lo so, se avessi precisato quale — dice: “Non ammazzare”. — Mossi ancora un paio di passi verso di lui. — Forse vuoi distruggere quei fossili, ma non credo che uccideresti me. — Ti uccido — disse l’uomo. Altre raffiche, con il contrappunto di vetri rotti e di roccia in frantumi. Avevo l’impressione che il petto mi esplodesse. — No — dissi — non mi ucciderai. Dio non te lo perdonerebbe. L’uomo spinse la pistola nella mia direzione; distava da me forse quindici metri. — Ho già ucciso — disse. Pareva una confessione e nel tono c’era un’angoscia genuina. — Alla clinica; quel dottore. Altri colpi, una serie di echi. Oddio, pensai, l’esplosione della clinica per aborti… Deglutii con forza. — Quello è stato un incidente — dissi tirando a indovinare. — Non puoi spararmi a sangue freddo. — Ti sparo — disse l’uomo che l’altro aveva chiamato Cooter. — Quant’è vero il Signore, ti sparo. Sta’ indietro! Se solo Hollus non fosse stata lì in carne e ossa! Se fosse stata presente in proiezione olografica, avrebbe potuto maneggiare oggetti solidi senza doversi preoccupare d’essere colpita dai proiettili. Ma era fin troppo reale, fin troppo vulnerabile… al pari degli altri extraterrestri. All’improvviso mi accorsi del rumore di sirene in avvicinamento, appena percettibile lì dentro il museo. Evidentemente anche Cooter lo sentì. Girò la testa e lanciò un richiamo al suo compagno: — La polizia! L’altro emerse dalla sala d’esposizione temporanea. Chissà quanti fossili era riuscito a distruggere. Inclinò la testa e tese l’orecchio. Sulle prime non udì le sirene: senza dubbio era ancora assordato dal rumore degli spari. Dopo un attimo tuttavia annuì e con la mitraglietta ci segnalò di muoverci. Christine si rialzò; i due Forhilnor si staccarono dal pavimento. — Ora usciamo — disse l’uomo. — Tenete le mani in alto. Alzai le mani; Christine mi imitò. Hollus e l’altro Forhilnor si scambiarono un’occhiata, poi alzarono anche loro le mani. I Wreed li imitarono un attimo dopo: tutt’e quattro le braccia in alto, ventitré dita allargate. Il secondo uomo, più alto e più vecchio di Cooter, ci spinse nella Rotonda semi buia. Da lì avevamo una chiara visuale del vestibolo con le porte a vetri. Cinque agenti in uniforme della Emergency Task Force risalivano la scala esterna. Due brandivano grosse pistole, uno aveva un megafono. — Siamo della polizia — gridò quest’ultimo: un suono distorto dai due strati di vetro. — L’edificio è circondato. Uscite a mani in alto. L’uomo con la mitraglietta ci indicò di andare avanti, I quattro alieni erano alla retroguardia, formavano una barriera fra noi umani dentro e la polizia fuori. Rimpiansi allora di non avere detto a Hollus di lasciare la navetta nella Passeggiata del Filosofo. Se i poliziotti l’avessero vista, forse avrebbero capito che gli alieni non erano la proiezione olografica di cui parlavano i giornali, ma creature in carne e ossa. Nel caso nostro, qualche furbone avrebbe potuto avere l’idea di centrare i due uomini armati, sparando attraverso le proiezioni degli alieni che li coprivano. Uscimmo dalla Rotonda, salimmo i quattro scalini del pianerottolo di marmo fra i due pozzi delle scale, ciascuno con il totem al centro, e poi… E poi tutto andò a catafascio. Dal pozzo delle scale alla nostra destra giunse dal pianterreno, senza far rumore, un agente nell’uniforme della squadra d’emergenza, con giubbotto antiproiettile e fucile d’assalto. I poliziotti avevano astutamente sistemato un gruppo all’esterno dell’ingresso principale e intanto avevano fatto entrare una squadra dall’ingresso del personale nel vicolo fra il rom e il planetario. — J.D.! — gridò Cooter, scorgendo il poliziotto, — Guarda! J.D. ruotò la mitraglietta e aprì il fuoco. Il poliziotto fu spinto all’indietro sugli ampi scalini e il suo giubbotto fu messo alla prova: si lacerò in vari punti, lasciando uscire bianchi pezzi d’imbottitura. Mentre J.D. era distratto, gli agenti all’ingresso avevano aperto in qualche modo una porta… quella all’estrema sinistra rispetto a loro, quella prevista per consentire l’accesso alle sedie a rotelle; forse la guardia della sicurezza del ROM aveva dato loro la chiave. Due agenti, al sicuro dietro scudi antisommossa, erano adesso nel vestibolo. La porta interna non aveva lucchetto, non ce n’era bisogno. Un agente allungò la mano e toccò il pulsante rosso che azionava la porta per i visitatori disabili. La porta si aprì lentamente. Gli agenti erano messi in rilievo dalla luce dei lampioni e dai lampeggianti dei loro veicoli in strada. — Fermi dove siete! — gridò J.D. dall’altra parte della Rotonda, che separava dai poliziotti il nostro eterogeneo gruppetto. — Abbiamo degli ostaggi. L’agente col megafono era ormai entrato, ma continuava a usare l’apparecchio. — Sappiamo che gli alieni non sono reali — disse e le sue parole echeggiarono nella cupola buia della Rotonda. — Alzate le mani e venite fuori. J.D. agitò verso di me la mitraglietta. — Digli chi sei. Con i miei polmoni era difficile gridare… portai le mani a coppa intorno alla bocca e cercai di fare del mio meglio. — Sono Thomas Jericho — gridai. — Un direttore del museo. — Indicai Christine. — Lei è Christine Dorati, responsabile del rom. J.D. intervenne: — O ce ne andiamo tranquillamente o questi due muoiono. I due agenti si acquattarono dietro gli scudi antisommossa. Si consultarono per qualche istante, poi si sentì di nuovo il megafono: — Cosa volete? Perfino io capii che l’agente voleva guadagnare tempo. Cooter guardò prima la scala sud, che portava ai piani superiori, e poi la scala nord, che portava anche a quelli inferiori. Avrà pensato di avere scorto un movimento… forse era stato un topo: un grande e vecchio edificio come il museo ne ha in quantità. Cooter sparò un colpo giù verso la scala nord. Il proiettile colpì i gradini di pietra, schegge taglienti volarono per aria e… Una di esse colpì Barbulkan, il secondo Forhilnor… La bocca sinistra di Barbulkan emise una sorta di “Ooof e la destra un “Hup!” Un garofano di sangue rosso vivo fiorì su una delle gambe e un lembo di pelle penzolò dal punto colpito dalla scheggia di pietra… Cooter disse: — Sant’Iddio! J.D. si girò ed esclamò: — Oh, Gesù! A quanto pare, capirono tutto nello stesso momento. Gli alieni non erano proiezioni; non erano ologrammi. Erano veri. E all’improvviso i due si resero conto di avere i più preziosi ostaggi nella storia del mondo. J.D. arretrò, spostandosi dietro il gruppo; si era accorto di non tenere sotto tiro i quattro alieni. — Siete tutti reali? — disse. Gli alieni rimasero in silenzio. Sentii il cuore battermi forte. J.D. puntò la mitraglietta contro la gamba sinistra di un Wreed. — Una scarica ti farà saltare la gamba — disse. Lasciò un attimo di tempo perché la minaccia facesse effetto. — Te lo chiedo di nuovo. Siete tutti reali? Rispose Hollus. — Sono reali. Siamo tutti reali. J.D. sorrise, soddisfatto. Gridò ai poliziotti: — Gli alieni non sono proiezioni. Sono reali. Così abbiamo sei ostaggi! Voglio che vi ritiriate tutti. Al primo segno di trucchi, uccido un ostaggio… e non sarà un uomo. — Non vorrai diventare un assassino! — gridò il poliziotto col megafono. — Non commetterò nessun omicidio — replicò J.D. — L’omicidio è l’uccisione di un altro essere umano. Non troverete nessun capo di imputazione contro di me. Ora ritiratevi tutti, altrimenti gli alieni crepano. — Un ostaggio vale quanto sei — disse il poliziotto. — Lasciane uscire cinque e discutiamo. J.D. e Cooter si guardarono. Sei ostaggi erano davvero un gruppo ingombrante; avrebbero controllato meglio la situazione, se non avessero dovuto preoccuparsi di tutti e sei. D’altro canto, averne sei disposti in cerchio, con loro due al centro, sarebbe stata una protezione contro i cecchini che potevano sparare da una qualsiasi parte. — Niente da fare — gridò J.D. — Voi sbirri… siete come la swat, giusto? Perciò siete venuti qui in un furgone o camioncino. Voglio che vi ritiriate, lontano dal museo, lasciando il furgone col motore acceso e le chiavi nel cruscotto. Andremo all’aeroporto, con tanti alieni quanti riterremo opportuno. Vogliamo che ci sia un aereo ad aspettarci, per andare… — esitò — be’, per andare dove decidiamo di andare. — Non possiamo farlo — disse al megafono il poliziotto. J.D. scrollò le spalle. — Ucciderò un ostaggio fra sessanta secondi, se siete ancora lì. — Si girò verso quello dai capelli a spazzola. — Cooter? Cooter annuì, guardò l’orologio e iniziò a contare. — Sessanta. Cinquantanove. Cinquantotto. Il poliziotto col megafono si girò e parlò a qualcuno alle sue spalle. Lo vidi indicare, forse la direzione in cui gli agenti dovevano ritirarsi a piedi. Hollus aveva smesso di muovere i peduncoli oculari e li teneva immobili, distanziati al massimo. L’avevo già vista comportarsi in quel modo, quando udiva qualcosa che la interessava. Qualsiasi cosa fosse, io non l’avevo ancora udita. — Cinquantadue. Cinquantuno. Cinquanta. I poliziotti già uscivano dal vestibolo, ma facevano un gran fracasso. Quello col megafono continuò a parlare. — D’accordo — disse. — D’accordo. Ci ritiriamo. — La voce, amplificata, echeggiava nella Rotonda. — Ci allontaniamo. Mi pareva che non fossero necessarie tante parole, ma… Poi udii il rumore che aveva incuriosito Hollus: un debole rombo. L’ascensore, alla nostra sinistra, scendeva: qualcuno, dal piano inferiore, l’aveva chiamato. Il poliziotto si sforzava di coprire quel rumore. — Quarantuno. Quaranta. Trentanove. Era un suicidio, pensai, per chiunque fosse nella cabina; J.D, avrebbe sparato non appena le porte di metallo avessero iniziato ad aprirsi. — Trentuno. Trenta. Ventinove. — Ce ne andiamo — gridò il poliziotto. — Andiamo via. Ora l’ascensore risaliva. Sopra la porta c’era una fila di spie luminose… 1,2,3… che indicavano a quale piano si trovava al momento la cabina. Rischiai un’occhiata. La 1 si era appena spenta e un istante dopo si accese la 2. Astuto! O l’occupante dell’ascensore sapeva dell’esistenza delle balconate del secondo piano prospicienti la Rotonda oppure era stato informato dalla stessa guardia di sicurezza che aveva fatto entrare la polizia. — Diciotto. Diciassette. Sedici. Quando la 2 si accese, collaborai a soffocare il rumore della porta che si apriva e tossii forte: se c’era una cosa che mi riusciva bene, in quei giorni, era proprio tossire. La 2 era rimasta accesa; ormai la porta si doveva essere già aperta, ma J.D. e Cooter non avevano sentito niente. C’era da presumere che uno o più poliziotti armati fossero usciti nel secondo piano, quello che ospitava le sale dei dinosauri e delle scoperte. — Tredici. Dodici. Undici. — Va bene — gridò l’agente dell’ETF. — Va bene. Ce ne andiamo. Da quella distanza non potevo stabilire se era in contatto visivo con gli agenti nella balconata semibuia. Noi eravamo ancora accanto all’ascensore e non osai guardare in alto, per non rivelare la presenza di gente al piano superiore. — Nove. Otto. Sette. I poliziotti uscirono dal vestibolo, nel buio della notte. Li guardai scomparire giù per gli scalini verso il marciapiede. — Sei. Cinque. Quattro. Le luci rosse sul tetto delle autopattuglie, che avevano spazzato la Rotonda, iniziarono a ritirarsi; una serie di luci, presumo del furgone dell’ETF, continuò a girare. — Tre. Due. Uno. Guardai Christine. Annuì quasi impercettibilmente: anche lei sapeva che cosa c’era in atto. — Zero! — disse Cooter. — Bene — disse J.D. — Usciamo. Avevo speso gran parte degli ultimi sette mesi a preoccuparmi su come sarebbe stata la mia morte… ma non avevo pensato che avrei visto qualcun altro morire prima di me. Sentivo il cuore battermi come i martelli pneumatici che usiamo per spezzare gli strati sterili. J.D., immaginai, aveva solo pochi secondi di vita. Ci dispose a semicerchio, come se fossimo uno scudo biologico per lui e per Cooter. — Muovetevi — disse e fui sicuro, pur avendolo alle spalle, che agitava a destra e a manca la mitraglietta, pronto a sparare ad arco, se occorreva. Iniziai ad avanzare; Cooter, i Forhilnor e i Wreed mi seguirono. Uscimmo dalla sporgenza che riparava la zona vicino all’ascensore, scendemmo i quattro scalini che portavano nella Rotonda vera e propria e iniziammo ad attraversare l’ampio pavimento di marmo verso l’ingresso. Giuro d’avere sentito prima lo schizzo sulla testa calva e solo dopo lo sparo assordante dall’alto. Mi girai. Era difficile capire bene che cosa vedevo; l’unica luce della Rotonda proveniva dalla sala Garfield Weston e dalla via e dalla vetrata sovrastante. La testa di J.D. era spaccata come un melone e il sangue era schizzato dappertutto, compresi me e gli alieni. Il cadavere si mosse in avanti, verso di me, e la mitraglietta cadde rumorosamente a terra. Un secondo sparo risuonò quasi contemporaneamente al primo, ma non era sincronizzato bene; forse nella balconata semibuia i due agenti (pareva che ce ne fossero almeno due) non erano riusciti a scambiarsi il segnale. Cooter mosse la testa appena in tempo e si gettò a tuffo per ricuperare la mitraglietta di J.D. Un Wreed si frapponeva: Cooter lo sbatté via. L’alieno, disteso per terra, agitava braccia e gambe e impediva ai cecchini una buona visuale di Cooter. Ero sconvolto. Sentivo il sangue di J.D. gocciolarmi nel collo. A un tratto il Wreed ancora in piedi volò in aria. Portava un congegno che gli permetteva di camminare comodamente nella gravità terrestre, lo sapevo, ma non pensavo che fosse tanto potente da farlo volare. L’altro Forhilnor diede un calcio alla mitraglietta, mandandola verso il centro della Rotonda. Cooter strisciò sul pavimento per raggiungerla. Il Wreed caduto si rialzava. Intanto il Wreed in volo si era sollevato a tre metri da terra. Cooter riuscì a prendere la mitraglietta e rotolò sul fianco, sparando verso la balconata buia. Premette varie volte il grilletto, schizzando un arco di piombo. I proiettili colpirono bassorilievi di pietra vecchi di novant’anni e schizzarono su di noi una pioggia di schegge. Anche l’altro Wreed si alzò in aria. Cercai di mettermi dietro uno dei segmenti di parete senza supporto che delineavano parzialmente gli spigoli della Rotonda. Hollus si mosse con grande rapidità… ma nell’altra direzione; in breve, con mio stupore, raggiunse il più alto dei due totem. Fletté le sei gambe, superò con un balzo la distanza dalla scala e si aggrappò con vari arti al totem. E poi iniziò a sgattaiolare a grande velocità su per il totem. In breve fu fuori vista, forse era arrivata fino al terzo piano. Fui contento che si fosse messa in salvo, a quanto pareva. — Buoni, voi! — gridò Cooter, puntando la mitraglietta su Christine, il secondo Forhilnor e me. Aveva nella voce un tono di panico. — Buoni. Non muovetevi. Ora c’erano poliziotti di nuovo nel vestibolo, poliziotti nella balconata, due Wreed in volo per la Rotonda come angeli impazziti, un Forhilnor contro il mio fianco, Christine contro l’altro e il cadavere di J.D. che riempiva di sangue tutto il pavimento di marmo della Rotonda, rendendolo scivoloso. — Arrenditi — disse Christine a Cooter. — Non vedi che sei circondato? — Chiudi il becco! — gridò Cooter. Era chiaro che, senza J.D., non sapeva più che cosa fare. E poi, con sorpresa, udii il ben noto hip bitonale. Il proiettore d’ologramma, che come sempre tenevo in tasca, stava per entrare in funzione. Cooter era arretrato sotto la sporgenza della balconata; non vedeva più i cecchini, ma nemmeno i cecchini vedevano lui. Comparve l’immagine di Hollus, indistinguibile dal vero Forhilnor. Cooter si girò; era in pieno panico e non si accorse che l’alieno scomparso era all’improvviso tornato. — Cooter — disse il simulacro di Hollus, avanzando con decisione. — Mi chiamo Hollus. — Immediatamente Cooter puntò su di lui la mitraglietta, ma il Forhilnor continuò ad avvicinarsi. Iniziammo tutti a ritirarci. I poliziotti nel vestibolo erano perplessi: Hollus si era interposto fra loro e Cooter. — Ancora non hai sparato a nessuno — riprese Hollus. — Hai visto che cosa è accaduto al tuo compagno. Non lasciare che accada anche a te. Mossi le mani in gesti che mi augurai fossero visibili nella scarsa luce: volevo che gli altri si aprissero a ventaglio in modo che nessuno di noi si trovasse sulla linea che univa Cooter e Hollus. — Dammi quell’arma — disse Hollus. Adesso era a quattro metri da Cooter. — Buttala via e di qui usciremo tutti vivi. — Indietro! — gridò Cooter. Hollus continuò ad avvicinarsi. — Dammi quell’arma — ripeté. Cooter scosse violentemente la testa. — Volevamo solo mostrare a voi alieni che questi scienziati vi raccontano bugie. — Questo lo capisco — disse Hollus, movendo un altro passo. — E ti ascolterò volentieri. Dammi solo quell’arma. — So che credete in Dio — disse Cooter. — Ma non siete stati ancora salvati. — Ascolterò tutto ciò che vorrai dire — disse Hollus avvicinandosi lentamente — solo dopo che avrai lasciato quell’arma. — Manda via i poliziotti. — Non se ne andranno. — Ancora più vicino. — Fermo o sparo — disse Cooter. — Non vuoi sparare a nessuno — disse Hollus, senza fermarsi. — Men che meno a un credente come me. — Giuro che ti uccido. — Non mi ucciderai — disse Hollus, ancora più vicino. — Indietro! Ti ho avvertito! I sei piedi si mossero in avanti. — Dio mi perdoni — disse Cooter e… …e premette il grilletto. Proiettili eruttarono dalla mitraglietta… Penetrarono nel simulacro di Hollus… E i campi di forza che costituivano il corpo simulato li rallentarono, ritardandone sempre più il movimento, finché i proiettili non emersero dall’altra parte. Continuarono la corsa per un altro paio di metri, in traiettorie paraboliche che li mandarono a tintinnare sul pavimento di marmo. Il simulacro avanzò e afferrò per la canna la mitraglietta, di sicuro ormai così rovente che una creatura in carne e ossa non avrebbe potuto toccarla. La vera Hollus, presumibilmente al terzo piano, ritrasse di scatto le braccia e anche il suo simulacro, giù nella Rotonda, le ritrasse di scatto. E Cooter, sorpreso che quella creatura appena riempita di proiettili non fosse morta, lasciò la presa. L’avatar girò su se stesso e si ritrasse rapidamente. La polizia si precipitò nel vestibolo e… Ormai non era necessario. Del tutto superfluo. Un poliziotto sparò una raffica. Cooter barcollò all’indietro, con aria sorpresa. Urtò un segmento di parete e si accasciò nel buio: una scia di sangue, simile al segno di un artiglio, lo seguì fino a terra. La sua testa ciondolò di lato. E lui andò a incontrare il suo creatore. 29 La polizia interrogò per ore Christine e me, ma lasciò che i quattro alieni tornassero subito alla loro nave madre, in modo che Barbulkan fosse curato. Alla fine tornai a casa in taxi (trenta dollari mancia compresa) e restai sveglio per altre due ore a raccontare a Susan ciò che era accaduto. — Oddio — continuò a ripetere Susan. — Oddio, potevano ucciderti. — Hollus mi ha salvato. Ci ha salvati tutti. — Se rivedo quel grosso ragno, lo abbraccio fino a soffocarlo — disse Susan, con un sorriso. Sorrisi anch’io e le diedi un bacio. Ma a quel punto ero sfinito, completamente distrutto. Avevo la vista confusa e mi sentivo girare la testa. — Mi spiace, tesoro, ma devo dormire un poco — dissi. Susan annuì, mi baciò di nuovo e andammo a letto. Dormii fino alle dieci di lunedì mattina. La sparatoria era avvenuta troppo tardi per comparire nei giornali del mattino, ma Susan mi disse che “Breakfast Television” e “Canada A.M,” avevano aperto con quella notizia. Non era andata in ufficio per essermi vicino quando mi sarei svegliato. Quando mi alzai, Ricky era già andato a scuola. Finalmente a mezzogiorno riuscii ad andare al rom. Per fortuna, poiché era proprio lunedì, il museo era chiuso al pubblico ed era stato possibile ripulire tutto; quando vi entrai, pulivano ancora la Rotonda. Nel frattempo Jonesy e tutti i suoi aiutanti erano nella sala Garfield Weston a ricuperare il possibile degli scisti in frantumi. Alcuni paleontologi dello Smithsonian avevano preso l’aereo per venire a dare una mano; sarebbero giunti prima di sera. Andai in ufficio, mi lasciai cadere sulla poltrona, mi massaggiai le tempie nel tentativo di farmi passare l’emicrania con cui mi ero svegliato. Mi ero appena seduto, quando il proiettore d’ologramma trillò e comparve il simulacro di Hollus. Mi alzai, con la testa che pulsava. — Stai bene? — domandai, preoccupato. La Forhilnor ballonzolò. — Sono spossata. Non ho dormito bene, malgrado la medicina che mi ha prescritto il medico della nave. Annuii, comprensivo. — Anch’io ho dormito male. Ho continuato a sentire l’eco di spari. — Corrugai la fronte e mi sedetti. — Dicono che ci sarà un’inchiesta. La polizia poteva risparmiarsi di uccidere Cooter. Hollus mosse i peduncoli oculari in un modo che non avevo mai visto prima. — Provo per lui simpatia limitata — disse, — Ha ferito Barbulkan e ha cercato di uccidermi. — Esitò. — Quanto sono seri i danni ai fossili del Burgess Shale? Scossi lentamente la testa. — Tutto il contenuto delle prime cinque bacheche è andato distrutto — dissi. — Compresa quella che passavate allo scanner. — Sentivo la nausea, a pensare a quella perdita: non solo erano alcuni dei più importanti fossili del mondo, ma riguardavano alcune delle più affascinanti creature, fra le meglio conservate, quasi extraterrestri all’aspetto. Danneggiarle era stata una barbarie, un sacrilegio. — Naturalmente i fossili erano assicurati — ripresi. — Perciò giungerà un mucchio di denaro, al rom e allo Smithsonian; ma quegli esemplari sono insostituibili. — In un certo senso è una fortuna — disse Hollus. — Probabilmente hanno iniziato a sparare contro la bacheca in scansione proprio perché il coperchio era aperto. La scansione era in parte eseguita, così almeno alcuni esemplari possono essere ricuperati. Ve ne farò fare una ricostruzione. — Grazie — dissi. Le ricostruzioni però, per quanto realistiche e accurate, non sarebbero mai state gli originali. — È una perdita terribile — riprese Hollus. — Non ho mai visto fossili di quella qualità in nessun altro pianeta. Erano davvero… Si interruppe a metà della frase e il simulacro rimase immobile, come se la vera Hollus, a bordo della nave in orbita geosincrona, fosse stata distratta da qualcosa accaduto lassù. — Hollus? — dissi. Forse un collega le aveva rivolto una domanda, pensai. — Solo un momento — disse il simulacro, di nuovo attivo. Udii alcune frasi musicali nella lingua forhilnor, rivolte da Hollus a un’altra persona e poi vidi che il simulacro si disattivava di nuovo. Sospirai, impaziente. Era peggio di “Attendere, prego”: avevi in più il simulacro a occupare quasi tutto l’ufficio. Presi dalla scrivania una rivista (l’ultimo numero di “New Scientist”: la copia del dipartimento aveva iniziato il giro e da me sarebbe passata giù per tutta la scala gerarchica). Avevo appena girato la prima pagina, quando il simulacro di Hollus tornò attivo. — Notizia terribile — disse, una parola per bocca, tono stranamente attenuato. — Non… Mio Dio, è terribile. Lasciai perdere la rivista. — Cosa? Hollus agitò avanti e indietro i peduncoli oculari. — La nostra nave madre non è impacciata dalla diffusione di luce dell’atmosfera del tuo pianeta; anche durante il giorno, i sensori della Merelcas vedono con chiarezza le stelle. E una di quelle stelle… Mi sporsi. — Sì? — Una di quelle stelle ha iniziato la conversione in… qual è la parola? Per indicare l’esplosione di una stella? — Supernova? — Sì. — Fantastico! — Ricordai l’entusiasmo nel planetario, nel 1987, quando Ian Shelton dell’università di Toronto aveva scoperto la supernova nella Grande Nube di Magellano. — Meraviglioso. — Tutt’altro che meraviglioso! — replicò Hollus. — La stella che ha iniziato a esplodere è Alpha Orionis. — Betelgeuse? Ha iniziato la trasformazione in supernova? — Esatto. — Sei sicura? — Non ci sono dubbi — confermò Hollus, con voce scossa. — Ha già una lucentezza un milione di volte più grande del normale e continua a crescere. — Oddio — dissi. — Devo… devo telefonare a Donald Chen. Saprà come renderlo pubblico. C’è un ufficio centrale per telegrammi astronomici o qualcosa del genere… — Presi il telefono e composi l’interno di Chen. Donald rispose al terzo squillo: ancora un altro e sarebbe scattata la segreteria telefonica. — Don, sono Tom Jericho. Hollus mi ha rivelato che Betelgeuse sta per diventare supernova. Qualche istante di silenzio. — Betelgeuse è… era… una prima candidata a supernova — disse Chan. — Nessuno però sapeva con esattezza quando sarebbe accaduto. — Una pausa, poi, con ansia, come se avesse appena capito la notizia: — Hollus ha detto proprio Betelgeuse? Alpha Orionis? — Sì. — Sicuro? Assolutamente sicuro? — Sì, nessun dubbio. — Maledizione — disse Chen, ma non mi parve che si rivolgesse davvero a me. — Maledizione. — Cosa c’è? Dal tono, parve teso. — Ho studiato quei dati sulle supernovae inviati da Hollus, in particolare l’emissione di raggi gamma. Per l’ultima supernova, quella del 1987, avevamo dati pidocchiosi; si verificò prima che avessimo satelliti d’osservazione dedicati ai raggi gamma… Compton è stato lanciato solo nel 1991. Gli unici dati sui raggi gamma della Supernova 1987A provenivano dal satellite Solar Maximum Mission, che non era progettato per osservazioni extragalattiche. — E allora? — E allora l’emissione di raggi gamma di una supernova è molto maggiore di quanto non pensassimo; i dati di Hollus lo provano. — Cosa significa? — Lanciai un’occhiata a Hollus, che ballonzolava con grande rapidità; non l’avevo mai vista così sconvolta. Chen emise un lungo sospiro. — Significa che la nostra atmosfera resterà ionizzata. Significa che lo strato di ozono si esaurirà. — Esitò. — Significa che moriremo tutti. Ricky Jericho si trovava alcuni chilometri a nord del rom, nel parco giochi della Churchill Public School. Era a metà dell’intervallo di novanta minuti per il pranzo; alcuni suoi compagni andavano a casa, ma Ricky mangiava a scuola, in una sala dove permettevano ai bambini di guardare Gli antenati sulla CFTO. Dopo avere terminato il panino di mortadella e la mela, era uscito sul cortile a prato. Varie maestre giravano fra gli alunni, ponendo fine a litigi, coccolando chi si era spellato il ginocchio, facendo le altre cose che le maestre fanno di solito. Ricky guardò il cielo. Su in alto c’era un puntino molto luminoso. Scese dal castello di tubi metallici e andò a cercare la maestra. — Signorina Cohan — disse, tirandola per la gonna. — Cos’è quello? La maestra si schermò gli occhi e guardò. — Solo un aereo, Ricky. Ricky Jericho non era un bambino che contraddicesse alla leggera la maestra. — No, non è un aereo — disse. — Non si muove. Mi sentivo turbinare la testa e attorcigliare le viscere. Spuntava un nuovo giorno, non solo su Toronto, ma sull’intera Via Lattea. In realtà, perfino osservatori in remote galassie avrebbero sicuramente visto l’aumento di luminosità, trascorso il tempo sufficiente perché la luce li raggiungesse. Superava ogni immaginazione. Betelgeuse diventava davvero supernova. Inserii il vivavoce e lasciai che Don e Hollus conversassero, limitandomi a intervenire di tanto in tanto, con domande piene di preoccupazione. A quanto capii, succedeva questo: in ogni stella attiva, idrogeno ed elio sottostanno a fusione, producendo elementi più pesanti. Se però la stella è abbastanza grande, quando la fusione a catena arriva al ferro, l’energia inizia a essere assorbita, anziché rilasciata, e provoca la formazione di un nucleo ferroso. La stella diventa troppo densa per sostenersi: la spinta esplosiva esterna della fusione interna non contrasta più l’enorme attrazione della propria gravità. Il nucleo collassa in materia degenere: i nuclei atomici si schiantano l’uno sull’altro, formando una sfera del diametro di soli venti chilometri, ma con massa molte volte maggiore di quella del sole. E quando idrogeno ed elio, confluendo dagli strati esterni, colpiscono all’improvviso questa nuova e dura superficie, si fondono all’istante. L’onda d’urto della collisione si propaga all’esterno, soffia via l’atmosfera gassosa della stella e rilascia un torrente di disturbi radio, luce, calore, raggi X, raggi cosmici e neutrini… una micidiale grandine che si riversa in tutte le direzioni, uno sferico guscio di morte e di distruzione che continua a espandersi, più luminoso di tutte le altre stelle della galassia messe insieme: una supernova. E pareva che proprio questo accadesse ora a Betelgeuse. Il suo diametro si espandeva rapidamente; in pochi giorni avrebbe superato il diametro dell’intero sistema solare. Per un poco la Terra sarebbe stata protetta: la nostra atmosfera avrebbe impedito che l’iniziale bombardamento giungesse sul terreno. Ma non avrebbe potuto assorbirlo tutto. Solo una piccola parte. Nel mio ufficio avevo sintonizzato la radio su cftr, una stazione di sole notizie. Mentre le stazioni radiotelevisive della Terra trasmettevano i primi resoconti, alcuni si rifugiarono nelle grotte e nei pozzi minerari. Non avrebbe fatto differenza. Stava per giungere la fine del mondo… con un boato, non con un gemito. I Forhilnor e i Wreed al momento in visita sulla Terra, forse con alcuni passeggeri umani, si sarebbero potuti salvare, almeno per un certo tempo; potevano spostare la loro astronave in modo da tenere fra sé e Betelgeuse la massa del pianeta, che avrebbe funzionato come uno scudo di roccia e di ferro del diametro di tredicimila chilometri. Ma non avevano modo di battere in velocità il guscio di morte in espansione; la Merelcas avrebbe dovuto accelerare per un anno intero solo per avvicinarsi alla velocità della luce. Anche se l’astronave fosse riuscita a scamparla, però, i pianeti natali dei Forhilnor e dei Wreed non ce l’avrebbero fatta; presto avrebbero dovuto affrontare lo stesso bombardamento, lo stesso flagello. Gli asteroidi, 65 milioni di anni fa, avevano colpito Sol III e Beta Hydri III e Delta Pavonis II… ma quelli erano buffetti al confronto, semplici ferite superficiali che l’ecosistema avrebbe risanato nel giro di alcuni decenni. Stavolta pero non ci sarebbe stato risanamento. Sarebbe stata la sesta grande estinzione, su tutti e tre i pianeti. E non aveva alcuna importanza che la vita nel nostro sistema fosse iniziata su Marte anziché sulla Terra, che fosse davvero sorta varie volte sul pianeta dei Forhilnor, che i Wreed sapessero o non sapessero che si trattava della sesta grande estinzione. Infatti sarebbe stata anche l’ultima grande estinzione, il capitolo conclusivo, la pulizia della lavagna, la mossa finale nel Game of Life. 30 Cosa si fa negli ultimi istanti di vita? A differenza dei sei miliardi di esseri umani che avevano appena ricevuto la sentenza di morte, io già da tempo mi preparavo alla dipartita. Mi aspettavo però che giungesse con più calma, con me in un letto di ospedale, assistito da Susan, forse da mio fratello Bill, da qualche amico e forse perfino dal coraggioso piccolo Ricky. L’esplosione di Betelgeuse però era del tutto imprevista; non l’avevamo anticipata. Oh, come Hollus aveva detto tempo prima, sapevamo che prima o poi Betelgeuse sarebbe diventata supernova, ma non avevamo motivo di ritenere che accadesse proprio adesso. La metropolitana di Toronto, secondo la radio, era già affollata. La gente scendeva nelle stazioni, saliva sulle vetture, si augurava di trovare protezione restando nel sottosuolo. I passeggeri si rifiutavano di uscire dai convogli, anche al capolinea. Le strade fuori del rom erano già diventate parcheggi, un unico ingorgo. Volevo essere con la mia famiglia, proprio come tutti, ma pareva che non ci fosse modo di riuscirci. Tentai ripetutamente di telefonare a Susan in ufficio, ma ottenni solo segnali d’occupato. Ovviamente la morte non sarebbe stata istantanea. Sarebbero trascorse settimane, perfino mesi, prima che l’ecosistema crollasse. In quel momento lo strato di ozono ci proteggeva dai fotoni ad alta energia e naturalmente la grandine di particelle pesanti cariche, che viaggiavano a velocità inferiore a quella della luce, ancora non era giunta fino a noi. Presto però l’assalto da Betelgeuse avrebbe distrutto lo strato di ozono e le radiazioni dure della stella in esplosione e del nostro stesso sole avrebbero raggiunto il terreno, distruggendo i tessuti viventi. Di sicuro sarei riuscito a riunirmi a mia moglie e a mio figlio, prima della fine. Per il momento, però, pareva che la mia unica compagnia sarebbe stata il simulacro di una creatura aliena. La prima emissione da Betelgeuse aveva già rovinato la rete di comunicazioni telefoniche basate sui ripetitori satellitari e perciò non era sorprendente che vedessi il simulacro di Hollus palpitare di tanto in tanto, mentre la cacofonia elettromagnetica di Orione interferiva con le trasmissioni fra la reale Hollus sopra l’Ecuador e il suo ologramma a Toronto. — Vorrei essere con Susan — dissi guardando la Forhilnor davanti alla scrivania ingombra di lavori non conclusi. Con mio stupore, Hollus alzò davvero la voce, cosa che non le avevo mai visto fare. — Almeno tu hai buone probabilità di rivedere la tua famiglia, prima della fine — disse. — Pensi di essere davvero lontano da casa? Io non posso neppure mettermi in contatto con i miei figli. Se Betelgeuse colpisce la Terra con questa forza, colpirà allo stesso modo anche Beta Hydri III. Non posso nemmeno trasmettere per radio un addio a Kassold e a Pealdon; non solo ci sono troppe interferenze, ma i segnali radio li raggiungerebbero solo fra ventiquattro anni. — Scusami — dissi. — Non ci pensavo. — No, non ci pensavi — sbottò Hollus, schizzando davvero saliva dalla bocca sinistra. Ma dopo un momento si calmò un poco. — Chiedo scusa. Solo, voglio molto bene ai miei figli. Sapere che loro… che tutta la mia razza… stanno per morire… Guardai la mia amica. Mancava dal suo mondo già da tanto tempo, era all’oscuro di ciò che vi accadeva ormai da anni. Suo figlio e sua figlia erano già adulti, quando lei era partita nel grandioso giro di otto sistemi solari, ma ora… ora, probabilmente erano nella mezza età, forse perfino biologicamente più vecchi di lei stessa, perché lei aveva viaggiato a velocità relativistiche per gran parte del tempo. In realtà era ancora peggio, a pensarci. Betelgeuse si trovava nel cielo settentrionale della Terra; Beta Hydri, in quello meridionale; quindi la Terra si trovava fra le due stelle. Sarebbero trascorsi vari anni prima che l’accresciuta luminosità di Betelgeuse fosse visibile da Beta Hydri III, ma non c’era modo di mandare un avvertimento: niente poteva raggiungere quel pianeta più velocemente dei rabbiosi fotoni di Betelgeuse già in viaggio. Hollus cercava chiaramente di riprendere il controllo di sé. — Vieni — disse alla fine, ballonzolando lentamente, con decisione. — Tanto vale uscire a guardare lo spettacolo. Scendemmo in ascensore e uscimmo dall’ingresso del personale. Ci fermammo sullo stesso tratto di cemento dove la navetta di Hollus era atterrata la prima volta. Per quanto ne sapevo, la Forhilnor e i suoi colleghi erano impegnati a spostare l’astronave in posizione di massima sicurezza. Ma il simulacro dell’aliena era lì con me, davanti al rom, all’ombra della cupola del planetario deserto, a guardare il cielo. Perfino gran parte dei passanti guardava la volta celeste, anziché il bizzarro alieno simile a un ragno. Betelgeuse era chiaramente visibile, sopra la via, verso Queen’s Park, a circa un terzo del cielo di sudest. Era inquietante, vedere una stella brillare di giorno. Cercai d’immaginare il resto della sagoma di Orione contro lo sfondo azzurro, ma non avevo idea di come fosse orientata, a quell’ora del giorno. Altri addetti al museo e visitatori uscirono a unirsi alla folla sempre più numerosa sul lato della strada. E dopo alcuni minuti, l’astronomo Donald Chen, il morto ambulante, uscì dall’ingresso del personale e si diresse verso di noi, altri morti ambulanti. Il telescopio spaziale Hubble era stato immediatamente puntato su Betelgeuse. Immagini molto migliori erano ottenute dall’astronave di Hollus, la Merelcas, ed erano trasmesse sulla Terra, a disposizione di tutti. Anche prima che la stella avesse iniziato a espandersi, i telescopi dell’astronave erano riusciti a risolvere Betelgeuse in un disco rosso macchiato di chiazze solari più fredde e punteggiato di chiazze convettive più calde, il tutto circondato da una magnifica corona color ruggine. Ora però la diafana atmosfera esterna era stata soffiata via in una fenomenale esplosione e la stella si espandeva rapidamente, varie volte più grossa del normale… anche se, essendo Betelgeuse una stella variabile, era difficile dire quale fosse la sua grandezza normale. Tuttavia non aveva mai nemmeno sfiorato quelle dimensioni. Un guscio biancogiallastro di gas iperriscaldato, un micidiale plasma, si espandeva verso l’esterno dal disco sempre più grande, precipitandosi in tutte le direzioni. Da terra, alla luce del giorno, potevamo vedere solo un vivido punto luminoso che lampeggiava e tremolava. I telescopi dell’astronave però mostravano di più. Molto di più. Incredibilmente di più. Mostravano un’altra esplosione che scuoteva la stella (Betelgeuse si muoveva leggermente nel campo visivo del telescopio) e altro plasma che schizzava nello spazio. E poi quello che pareva un piccolo squarcio verticale, dai bordi frastagliati, i lati messi in risalto da accecante energia biancazzurra, si aprì a breve distanza sulla destra della stella. Lo squarcio divenne più lungo, più frastagliato e poi… … e poi una sostanza più nera dello spazio stesso cominciò a defluire dallo squarcio e riversarsi nel vuoto. Era viscosa, quasi come pece che sgorgasse dall’altro lato, ma… Ma ovviamente non esisteva nessun “altro lato”: un buco non poteva comparire nella parete dell’universo, malgrado la mia fantasia sul prendere lo spazio stesso e ripiegarlo come il lembo di un tendaggio. L’universo, per definizione, era autocontenuto. Se la tenebra non proveniva dall’esterno, allora lo squarcio doveva essere un tunnel, un “foro di tarlo”, una giuntura, una distorsione, una porta spaziale, una scorciatoia… qualcosa che congiungesse due punti del cosmo. La massa nera continuò a defluire. Aveva bordi definiti: le stelle scomparivano appena toccate. Presumendo che si trovasse davvero nelle vicinanze di Betelgeuse, era di sicuro enorme; lo squarcio era lungo più di cento milioni di chilometri e ciò che ne defluiva varie volte più lungo. Ovviamente, poiché la cosa era di un nero assoluto e non irradiava né rifletteva luce, non aveva spettro da analizzare alla ricerca di effetti Doppler e non era facile determinarne la distanza mediante la parallasse. In breve l’intera massa era uscita dallo squarcio. Aveva una struttura palmata: un grumo centrale, con sei distinte appendici. Appena fu libera, lo squarcio nello spazio si chiuse e scomparve. La moribonda Betelgeuse si contraeva di nuovo. Ciò che era avvenuto fino a quel momento, disse Donald Chen, era solo il preambolo. Quando il gas in caduta verso il centro di gravità avesse colpito una seconda volta il nucleo di ferro, la stella sarebbe realmente esplosa, con tale luminosità che perfino noi, a quattrocento anni luce dì distanza, non avremmo potuto guardarla direttamente. L’oggetto nero si muoveva nel firmamento rotolando come una ruota a raggi, come se (non era possibile; no, non era possibile) le sue sei estensioni trovassero appoggio sul tessuto stesso dello spazio. L’oggetto si muoveva verso il disco in contrazione di Betelgeuse. La prospettiva era ingannevole… solo quando una delle sei estensioni della massa nera toccò e poi coprì il bordo del disco, fu chiaro che l’oggetto era un po’ più vicino alla Terra di Betelgeuse. Mentre la stella continuava a collassare, l’oggetto nero si frappose ancora, fino a eclissare in breve Betelgeuse. Da terra vedemmo tutti che la stella superluminosa era scomparsa; il sole non aveva più un rivale nel cielo diurno. Grazie ai telescopi della Merelcas, però, la forma nera era chiaramente visibile, una macchia d’inchiostro dalle molte braccia contro lo sfondo di una spolverata di stelle. E poi… E poi Betelgeuse si comportò di sicuro come Chen aveva detto che avrebbe fatto, esplose dietro la massa nera, con più energia di cento milioni di soli. Vista da mondi sul lato opposto, la grande stella era di sicuro avvampata enormemente, un’eruzione di luce accecante e di calore cauterizzante, accompagnata da urla di disturbi radio. Ma dalla Terra… Dalla Terra tutto ciò era invisibile. La macchia d’inchiostro però parve proiettarsi avanti, verso l’occhio dei telescopi, come se fosse stata colpita da dietro, e la chiazza centrale si dilatò a riempire una parte maggiore del campo visivo, mentre si avvicinava a grande velocità. Le sei braccia, nel frattempo, furono soffiate indietro, come i tentacoli di una seppia spinta a testa avanti dal getto d’inchiostro. Qualsiasi cosa fosse quell’oggetto, sopportò il peso maggiore dell’esplosione, schermando la Terra e presumibilmente anche i pianeti dei Forhilnor e dei Wreed, dal colpo che altrimenti avrebbe distrutto lo strato di ozono del nostro pianeta e dei loro. Fermi fuori del rom, non sapevamo che cosa fosse accaduto… non ancora, non a quel tempo. Ma a poco a poco su di noi albeggiò la comprensione, anche se non la supernova. In qualche modo, i tre pianeti sarebbero stati risparmiati. La vita sarebbe continuata. Incredibilmente, miracolosamente, la vita sarebbe continuata. Per alcuni, almeno. 31 Alla fine riuscii a tornare a casa, quella sera; era giunta voce, ai rifugiati nella metropolitana, che in qualche modo il disastro era stato evitato. Alle otto presi un treno pieno zeppo, diretto a sud, alla stazione Union; salii a bordo anche a costo di stare in piedi per tutto il percorso. Volevo vedere Susan, volevo vedere Ricky. Susan mi abbracciò con tanta forza da farmi male e anche Ricky mi abbracciò e andammo tutti sul divano e Ricky mi si sedette sulle ginocchia e ci abbracciammo ancora, una famiglia. Alla fine Susan e io mettemmo a letto Ricky; gli augurai con un bacio la buona notte… a mio figlio, al figlio che amavo con tutto il cuore. Malgrado tutte le traversie che aveva passato negli ultimi tempi, era ancora troppo giovane per capire che cos’era accaduto quel giorno. Susan e io tornammo sul divano e alle dieci guardammo le immagini riprese dai telescopi della Merelcas, trasmesse come servizio d’apertura del telegiornale. Peter Mansbridge pareva più acido del solito, méntre commentava il rischio che aveva corso la Terra quel giorno. Dopo avere mostrato le riprese, si unì a lui nello studio Donald Chen del ROM (il centro trasmissioni della cbc era più o meno a sud del museo) per spiegare nei particolari che cos’era accaduto e confermare che l’anomalia nera (fu quella, la parola usata da Don) era tuttora frapposta fra la Terra e Betelgeuse e ci schermava. Mansbridge chiuse l’intervista dicendo: — A volte siamo fortunati, immagino. — Si rivolse alla telecamera. — Le altre notizie di oggi… Non c’erano altre notizie… nessuna che importasse minimamente, nessuna paragonabile a ciò che era accaduto quel pomeriggio. A volte siamo fortunati, aveva detto Mansbridge. Circondai col braccio Susan, la tirai accanto a me, sentii il calore del suo corpo, il profumo del suo shampoo. Pensai a noi due insieme e non, per una volta, al poco tempo che ci restava, ma a tutti i giorni meravigliosi che avevamo avuto in passato. Mansbridge aveva ragione. A volte siamo davvero fortunati. Mi venne in mente il giorno dopo, durante il tragitto per andare al museo; chiarissima, mi balenò una rivelazione. Ero in ufficio da più di un’ora, quando finalmente comparve il simulacro di Hollus. Avevo atteso con impazienza che comparisse. — Buon giorno, Tom — disse Hollus. — Voglio scusarmi per l’asprezza delle mie parole di ieri. Erano dovute… — Non pensarci più — la interruppi. — Diventiamo tutti un po’ matti, quando ci rendiamo conto che potremmo essere in punto di morte. — Non m’interruppi, non le permisi di prendere il comando della conversazione. — Dimenticatene. Una cosa però mi è venuta in mente stamattina, mentre ero sul treno, impacchettato con tutti gli altri. E l’arca? L’astronave partita da Groombridge 1618 verso Betelgeuse? — Di sicuro sarà rimasta incenerita — disse Hollus. Parve triste. — Sarà bastato il primo spasmo della stella morente. — No, non è successo così — dissi, ancora stordito dall’enormità dell’idea. — Maledizione, avrei dovuto capirlo prima… e anche lui avrebbe dovuto capirlo. — Lui, chi? — disse Hollus. Non glielo dissi… non ancora. — I nativi di Groombridge non hanno abbandonato il loro pianeta — ripresi. — Sono trascesi in un reame virtuale, proprio come gli altri. — Sul loro pianeta non abbiamo trovato segnali d’avvertimento — disse Hollus. — E poi, perché mandare un’astronave verso Betelgeuse? Ipotizzi che contenesse una fazione che non voleva trascendere? — Nessuno sarebbe andato a Betelgeuse per vivere lì. Come hai detto, non è un posto adatto. E quattrocento anni luce sono una distanza spaventosamente lunga, solo per avere una spinta gravitazionale. No, sono sicuro che l’astronave da voi rilevata non aveva né equipaggio né passeggeri; tutti i nativi di Groombridge sono tuttora sul loro pianeta, scaricati in un mondo di realtà virtuale. Ciò che hanno inviato verso Betelgeuse era un’astronave senza equipaggio, contenente un imprecisato catalizzatore, un qualcosa che scatenasse l’esplosione in supernova della stella. Hollus smise di muovere i peduncoli oculari. — Scatenare? Perché? Avevo la testa confusa: la mia idea era pazzesca. Guardai la Forhilnor. — Per sterilizzare tutti i pianeti in questa parte della galassia — dissi. — Per spazzarne ogni forma di vita. Se tu avessi in progetto di seppellire alcuni computer e poi trasferirvi la tua coscienza, di che cosa avresti paura? Be’, di qualcuno che venisse a riportare alla luce i computer e li danneggiasse. In molti dei mondi visitati dalla vostra astronave, c’erano segnali d’avvertimento per spaventare i visitatori affinché non riportassero alla luce ciò che era sepolto. Su Groombridge hanno deciso di fare di meglio. Hanno tentato di assicurarsi che nessuno, neppure una razza di una stella vicina, interferisse col loro progetto. Sapevano che Betelgeuse, la più grossa stella della zona, prima o poi sarebbe diventata supernova. E così hanno affrettato le cose di qualche millennio, hanno mandato un catalizzatore, una bomba, un congegno che causasse al suo arrivo l’esplosione in supernova. — Presi fiato. — In realtà proprio per questo avete potuto vedere ancora lo scarico di fusione dell’astronave, anche se era quasi giunta a Betelgeuse. Non ha mai girato per frenare, perché non intendeva rallentare. Invece si è lanciata dritto nel cuore della stella, causando l’esplosione in supernova. — È… è mostruoso — disse Hollus. — È tutto da una parte. — Maledizione se lo è — dissi. — Certo, i nativi di Groombridge forse non sapevano con certezza che altrove esistessero altre forme di vita. In fin dei conti sono arrivati all’intelligenza in stato d’isolamento… hai detto che l’arca era in viaggio da cinquemila anni. Forse è parsa una prudente precauzione: non erano sicuri di spazzare via ogni altra civiltà. O forse se ne sbattevano. Forse pensavano di essere il popolo eletto e credevano che Dio aveva messo lì Betelgeuse proprio perché la usassero come l’hanno usata. — Può darsi che abbiano creduto una cosa simile — disse Hollus — ma tu sai che non è vero. Aveva ragione. Lo sapevo benissimo. Avevo visto la pistola ancora fumante. Avevo visto prove sufficienti perfino per me. Trassi un respiro profondo, cercai di calmarmi, di riesaminare tutto. Certo, quell’oggetto poteva essere una cosa fatta da una razza progredita; un deflettore artificiale di supernovae. Poteva essere… Si arriva però a un punto in cui la teoria più semplice, quella che presenta il minor numero di elementi, deve essere adottata. Si arriva a un punto in cui bisogna smettere di esigere per questa domanda (per questa sola domanda, fra tutte) una prova di grado più alto di quello richiesto per ogni altra teoria. Si arriva a un punto (forse molto vicino alla fine della propria vita) in cui le mura devono crollare. — Vuoi che lo dica? — replicai. Scrollai le spalle, come se l’idea fosse un maglione che bisognava muovere perché si adattasse comodamente. — Sì, quello era Dio; quello era il creatore. Esitai e lasciai che le mie parole restassero sospese per un poco, riflettendo se volevo tentare di ritrattarle. Non le ritrattai. — Un po’ di tempo fa, Hollus, hai detto che secondo te Dio era un’entità in qualche modo sopravvissuta al precedente Big Crunch, Un’entità che in qualche modo era riuscita a continuare a esistere da un precedente ciclo di creazione. Se ciò è vero, sarebbe realmente parte del cosmo. Oppure, se finora non lo era, forse ha la capacità di… qual è la parola che usano i teologi?… di incarnarsi. Dio ha preso forma fisica e si è frapposto fra la stella in esplosione e i nostri tre pianeti. All’improvviso mi venne un’altra idea. — Anzi, non è la prima volta che lo fa! Ricordi la supernova di Vela, nel 1320… una supernova vicina quasi quanto Betelgeuse, una stella i cui residui sono ora visibili, ma che nessuno vide, quando esplose, né i cinesi né alcun altro qui sulla Terra né sul tuo mondo né sul mondo dei Wreed. Questa entità intervenne allora come adesso, schermandoci dalle radiazioni della supernova. L’hai detto tu stessa, la prima volta che parlammo di Dio: l’indice di formazione delle supernovae deve essere bilanciato con cura. Bene, se non puoi praticamente impedire che una stella diventi supernova, questo è il sistema. Hollus avvicinò i peduncoli oculari. Parve abbandonarsi un poco, come se le sue sei gambe avessero difficoltà a sostenere il peso del corpo. Senza dubbio l’idea che l’entità fosse Dio era venuta prima a lei che a me, ma era chiaro che lei non aveva pensato a ciò che significava in relazione alla supernova di Vela. — Dio non solo provoca estinzioni in massa — disse la Forhilnor. — Le previene anche, quando ciò si conforma ai suoi scopi. —Incredibile, vero? — Mi sentivo anch’io malfermo. — Forse dovremmo andare a vedere — disse Hollus. — Se ora sappiamo dov’è Dio, forse dovremmo andare a vederlo. L’idea era stupefacente, enorme. Sentii di nuovo il cuore battere all’impazzata. — Ma… ma ciò che abbiamo visto in realtà è accaduto quattrocento anni fa — obiettai. — E la vostra astronave impiegherà almeno altri quattrocento anni per giungere a Betelgeuse. Perché Dio dovrebbe trattenersi lì per quasi un millennio? — Una normale vita umana o forhilnor dura circa un secolo, che è grosso modo cinquanta milioni di minuti — disse Hollus. — Dio è presumibilmente vecchio quanto l’universo, che esiste da 13,9 miliardi di anni; anche se fosse vicino al termine della sua vita, mille anni per lui sarebbero come quattro minuti per uno di noi. — Di sicuro non sprecherà tempo ad aspettarci. — Forse no. O forse sapeva che le sue azioni sarebbero state osservate, che avrebbero attirato la nostra attenzione. Forse farà in modo di essere di nuovo lì, l’unico posto che siamo mai riusciti a individuare, per un incontro al momento appropriato. Nel frattempo si assenterà per occuparsi d’altro, poi tornerà. Pare che giri parecchio: forse, se avesse saputo che l’arca di Groombridge stava per far esplodere Betelgeuse, l’avrebbe semplicemente distrutta prima che arrivasse a destinazione. Iniziata l’esplosione, però, è giunto in fretta… e potrebbe tornare con pari rapidità, poco prima del nostro arrivo. — Ammesso che voglia incontrarci! È un tentativo disperato, Hollus. — Senza dubbio. Tuttavia ci siamo imbarcati in questo viaggio per trovare Dio; questo è il punto più vicino cui siamo giunti e quindi dobbiamo seguire la pista. — Mi guardò. — Saresti il benvenuto, se volessi unirti a noi. Sentii il cuore battere più forte di prima. Ma ero tagliato fuori. — Non ho tutto quel tempo a disposizione — dissi piano. — La Merelcas può accelerare quasi alla velocità della luce in meno di un anno — disse Hollus. — Raggiunta quella velocità, gran parte della distanza sarà percorsa in quello che sembrerà pochissimo tempo; naturalmente ci vorrà un anno anche per decelerare, ma in meno di due anni soggettivi potremmo essere a Betelgeuse. — Non ho due anni a disposizione. — Be’, no, se stai sveglio durante il viaggio. Sai però che i Wreed viaggiano in animazione sospesa; potresti fare come loro. Ti toglieremmo dalla criostasi solo a destinazione. Mi si confuse la vista. L’offerta era incredibilmente tentatrice, una proposta sorprendente, un dono inimmaginabile. Anzi… anzi forse Hollus poteva ibernarmi fino a… — Potresti ibernarmi indefinitamente? — domandai. — Prima o poi ci sarà di sicuro una cura per il cancro e… — No, mi spiace. Il procedimento di criostasi comporta una degradazione fisiologica; la tecnica è sicura come un’anestesia generale in un periodo fino a quattro anni, ma non siamo riusciti a riportare in vita nessuno dopo più di dieci anni d’ibernazione. È un accorgimento per viaggiare, non un modo per andare nel futuro. Ah, be’. Comunque non mi ero realmente visto a seguire i gelidi passi di Walt Disney. Eppure, intraprendere con Hollus quel viaggio, volare a bordo della Merelcas per vedere che cosa fosse in realtà Dio… era un concetto incredibile, un pensiero meraviglioso. E forse, capii all’improvviso, era anche la cosa migliore per Susan e per Ricky, risparmiava loro la sofferenza dei miei ultimi mesi di vita. Dissi a Hollus che avrei dovuto rifletterci, discuterne con la mia famiglia. Una possibilità così fantastica, un’offerta così allettante… ma dovevo considerare svariati fattori. Avevo detto che Cooter era andato a incontrare il suo creatore, ma non ci avevo realmente creduto. Cooter era semplicemente morto. Forse io, invece, avrei incontrato davvero il mio creatore… e ancora da vivo. 32 — Hollus mi ha offerto l’opportunità di accompagnarla nella prossima tappa — dissi a Susan quella sera. Eravamo sul divano del soggiorno. — Alpha Centauri? Quella era davvero la successiva e ultima tappa, secondo i piani del viaggio della Merelcas; poi l’astronave sarebbe tornata a Delta Pavonis e a Beta Hydri. — No, hanno cambiato programma. Vanno a Betelgeuse. A vedere cosa c’è laggiù. Susan rimase in silenzio per un poco. — Il “Globe” non diceva che Betelgeuse dista quattrocento anni luce? Risposi con un cenno d’assenso. — Perciò non torneresti prima di un migliaio d’anni? — Dal punto di vista della Terra, sì. Susan restò in silenzio ancora un poco. Alla fine decisi di riempire io quel vuoto. — La loro astronave dovrà capovolgersi a metà viaggio e puntare lo scarico di fusione verso Betelgeuse. Così in soli 250 anni, il… l’entità vedrà quel punto luminoso e saprà che qualcuno è in arrivo. Hollus si augura che lui… l’entità aspetti il nostro arrivo o che ci venga incontro. — L’entità? Non riuscivo a usare, con lei, quell’altra parola. — L’essere che si è frapposto fra noi e Betelgeuse. — Tu pensi che sia Dio — disse con semplicità Susan. Era lei, quella che andava in chiesa. Quella che conosceva la Bibbia. E ormai per settimane, a pranzo, mi aveva ascoltato parlare di origini ultime, di cause prime, di costanti fondamentali, di progetto intelligente. Non avevo pronunciato spesso la parola dio, non in sua presenza, comunque. Quella parola aveva sempre significato per lei molto più di quanto non significasse per me e così me n’ero tenuto a distanza, in una sorta di distacco scientifico. Ma Susan sapeva. Lei sapeva. Mi strinsi nelle spalle. — Può darsi — ammisi. — Dio — ripeté Susan, intavolando con fermezza il concetto. — E hai l’occasione di andarlo a vedere. — Mi guardò, testa inclinata di lato. — Portano qualcun altro, dalla Terra? — Alcuni, ah, individui, sì. Una donna del West Virginia, affetta da grave schizofrenia. Un gorilla dal dorso argenteo del Burundi. Un cinese vecchissimo. — Scrollai le spalle. — Sono alcuni degli individui con cui gli altri alieni hanno stretto legami. Si sono dichiarati subito d’accordo. Susan mi guardò, con espressione accuratamente neutra. — Vuoi andare? Sì, pensai, sì, con ogni fibra del mio essere. Per quanto desiderassi di poter avere maggior tempo per stare con Ricky, avrei preferito che mio figlio mi ricordasse più o meno in buona salute, ancora capace di andare in giro da solo, ancora in grado di prenderlo in braccio. Risposi con un cenno, non mi fidavo della mia voce. — Hai un figlio — disse Susan. — Lo so — dissi piano. — E una moglie. — Lo so. — Non… non vogliamo perderti. — Presto però mi perderete — dissi in tono gentile. — Fin troppo presto. — Non subito — disse Susan. — Non ancora. Rimanemmo in silenzio. Avevo la mente in subbuglio. Susan e io ci eravamo conosciuti all’università, negli anni Sessanta. Eravamo usciti insieme, poi me n’ero andato, negli Stati Uniti, a perseguire il mio sogno. Non mi aveva ostacolato, allora. E ora avevo un altro sogno. La situazione però era diversa, molto diversa. Adesso eravamo sposati. Avevamo un figlio. Se l’equazione si fosse limitata a questo, non ci sarebbero state difficoltà. Se fossi stato in salute, non avrei mai considerato la prospettiva di abbandonarli… nemmeno come ipotesi oziosa. Invece non ero in buona salute. Susan lo capiva di sicuro. Ci eravamo sposati in chiesa, perché Susan aveva voluto così; e avevamo pronunciato i voti tradizionali, compreso “Finché morte non ci separi”. Naturalmente nessuno, in chiesa, dicendo quelle parole, pensa mai al cancro; la gente non si aspetta che il maledetto cancro sgattaioli nella sua vita, portandosi dietro calamità e sofferenze. — Pensiamoci ancora un poco — dissi. — La Merelcas parte solo fra tre giorni. Susan mosse leggermente la testa, in rigido segno d’assenso. — Hollus — dissi il giorno dopo, in ufficio — so che tu e i tuoi colleghi siete terribilmente impegnati, ma… — Lo siamo davvero. Dobbiamo terminare un mucchio di preparativi, prima di partire per Betelgeuse, E siamo coinvolti in un impegnativo dibattito morale. — A quale proposito? — Crediamo che tu abbia ragione: gli abitanti di Groombridge 1618 III hanno tentato davvero di sterilizzare tutto lo spazio locale. Un pensiero che non sarebbe venuto né ai Forhilnor né ai Wreed; scusa se te lo dico, ma è un’idea così barbara che poteva venire solo a un essere umano… o a un nativo di Groombridge, a quanto pare. Discutiamo se mandare messaggi ai nostri pianeti, riferendo ciò che i nativi di Groombridge hanno cercato di fare. — Mi pare una mossa ragionevole. Perché non dovreste dirlo? — I Wreed sono una razza non violenta, ma come ti ho detto, la mia specie è… be’, focosa sarebbe un eufemismo. Molti Forhilnor vorrebbero senza dubbio vendicarsi. Groombridge 1618 dista trentanove anni luce da Beta Hydri: non sarebbe difficile mandarvi delle astronavi. Purtroppo i nativi non hanno lasciato segnali della loro attuale posizione; perciò, per essere sicuri di sterminarli, dovremmo distruggere l’intero pianeta. I nativi di Groombridge non hanno mai scoperto la tecnologia della fusione a ultra energia che la mia razza possiede, altrimenti l’avrebbero usata per mandare più velocemente la loro bomba a Betelgeuse. Quella tecnologia ci fornisce energia sufficiente a distruggere un pianeta. — Ecco un vero dilemma morale! — dissi. — Ne parlerete al vostro mondo? — Non abbiamo ancora deciso. — I Wreed sono i grandi etici. Secondo loro, cosa dovreste fare? Hollus rimase in silenzio per qualche secondo. — Propongono di usare lo scarico di fusione della Merelcas per distruggere tutta la vita su Beta Hydri III. — Il pianeta forhilnor? — Sì. — Buon Dio! E perché? — Questo non l’hanno chiarito, ma sospetto che facciano… qual è la parola?… dell’ironia. Se siamo disposti a distruggere quelli che sono stati o potrebbero essere una minaccia per noi stessi, non siamo migliori di loro. — Si interruppe. — Non intendevo però scaricare su di te questo fardello — riprese. — Che cosa volevi? — Be’, a confronto di ciò che hai appena detto, sembra una quisquilia. — Quisquilia? — Una cosa di scarsa importanza. Comunque, be’, vorrei parlare a un Wreed. Ho un dilemma morale e non riesco a risolverlo. Hollus mi fissò. — Sul fatto di venire o non venire a Betelgeuse? Assentii. — Il nostro amico T’kna al momento è impegnato nel quotidiano tentativo di mettersi in contatto con Dio, ma dovrebbe essere disponibile fra circa un’ora. Se puoi spostare il proiettore in una stanza più grande, gli chiederò di unirsi a noi. Altri, ovviamente, erano giunti alla stessa mia conclusione: quella che Donald Chen aveva definito in modo neutro “anomalia” e Peter Mansbridge aveva accantonato discretamente facendola passare per semplice “fortuna”, era annunciata come prova d’intervento divino da gente in tutto il mondo. E ovviamente quella gente vi metteva il proprio punto di vista: ciò che io avevo chiamato una pistola ancora fumante era ritenuto da molti un miracolo. Tuttavia era un’opinione di minoranza: molti non sapevano niente di supernovae e molti, compresa gran parte del mondo musulmano, diffidavano delle immagini in teoria prodotte dai telescopi della Merelcas. Altri sostenevano che era tutta opera del demonio: una fuggevole occhiata al fuoco dell’inferno e poi una tenebra che tutto includeva; alcuni satanisti ora reclamavano per essere scagionati. Intanto i fondamentalisti cristiani frugavano la Bibbia, cercando brani della scrittura che potessero essere piegati a quell’evento. Altri si appellavano a predizioni di Nostradamus. All’università di Gerusalemme, un matematico ebreo sottolineò che l’entità a sei punte era topologicamente equivalente alla Stella di David e ipotizzò che fosse stato annunciato l’avvento del Messia. Un’organizzazione chiamata Chiesa di Betelgeuse aveva già messo in funzione un elaborato sito Internet. E ogni briciola di stronzate pseudoscientifiche sugli antichi Egizi e su Orione (la costellazione dove la supernova era accidentalmente comparsa) riceveva risalto dai media. Tutti quanti però potevano solo tirare a indovinare. Invece io avevo l’opportunità di andare a vedere… di scoprirlo con certezza. Eravamo di nuovo nella sala conferenze al quinto piano del centro amministrativo del museo, ma stavolta non c’erano telecamere. C’ero solo io e un piccolo dodecaedro alieno… e la proiezione di due esseri extraterrestri. Hollus se ne stava in silenzio da un lato della sala. T’kna era in piedi dall’altra parte. Fra loro, il tavolo delle conferenze. Oggi la cintura porta-utensili di T’kna era verde anziché gialla, ma presentava la stessa icona a forma di galassia color sangue. — Salve — dissi, non appena la proiezione del Wreed si fu stabilizzata. Il rumore di ciottoli rotolanti, poi la voce meccanica: — Saluto ricambiato. Da quest’uno desideri qualcosa? — Consiglio — dissi, inclinando un poco la testa. — Il tuo parere. Il Wreed rimase immobile: ascoltava. — Hollus ti ha detto che ho un tumore terminale — dissi. T’kna si toccò la fibbia. — Dispiacere espresso di nuovo. — Grazie. Voi però mi avete offerto l’opportunità di andare a Betelgeuse… per incontrare chiunque si trovi laggiù. Un ciottolo che colpisce il pavimento. — Sì. — Presto sarò morto. Non so esattamente quando, ma di sicuro nel giro di un paio di mesi. Allora, dovrei passare questi mesi in compagnia della mia famiglia o dovrei venire con voi? Da una parte i miei familiari vogliono dividere con me ogni minuto che mi resta… e ovviamente li amo molto e desidero stare con loro. D’altra parte, però, la mia condizione peggiorerà e diventerò per loro un fardello. — Ripresi fiato. — Se vivessimo negli Stati Uniti, forse ci sarebbe una questione monetaria… le ultime settimane di vita di una persona, trascorse in un ospedale, comporterebbero spese enormi. Ma qui in Canada il denaro non compare nell’equazione; l’unico fattore è il costo emotivo, mio e della mia famiglia. Mi rendevo conto di esporre il problema in termini matematici… fattori, equazioni, questioni monetarie… ma le parole mi erano venute così, senza che le avessi preparate. Mi augurai di non avere completamente confuso il Wreed. — E a me domandi quale scelta dovresti fare? — disse la voce del traduttore. — Sì — risposi. Rumore di pietra frantumata, seguito da un breve silenzio. Poi: — La scelta morale è ovvia. È sempre ovvia. — E qual è? Altro acciottolio, poi: — La morale non può essere fornita da una fonte esterna — disse T’kna e con le quattro braccia si toccò il petto a pera capovolta. — Deve giungere dall’interno. — Non me lo dirai, vero? Il Wreed ondeggiò e scomparve. Quella sera, mentre Ricky guardava la tv al pianterreno, Susan e io ci sedemmo sul divano. Ed esposi la mia decisione. — Ti amerò sempre — dissi a Susan. Lei chiuse gli occhi. — Ti amerò sempre anch’io. Non c’è da stupirsi che mi piacesse tanto Casablanca. Ilsa Lund sarebbe andata con Victor Laszlo? O sarebbe rimasta con Rick Blaine? Avrebbe seguito il marito? O avrebbe seguito il proprio cuore? E c’erano cose più grandi di lei? Più grandi di Rick? Più grandi di tutt’e due? C’erano altri fattori da considerare, altri termini dell’equazione? Ma… siamo onesti… c’era qualcosa di più grande, nel mio caso? Certo, Dio poteva essere al centro della faccenda… ma se fossi andato a Betelgeuse, niente sarebbe cambiato, ne sono sicuro… mentre la resistenza di Victor contro i nazisti avrebbe collaborato a salvare il mondo. Tuttavia avevo deciso. Per quando difficile fosse, avevo preso la decisione. Non avrei mai saputo però se era quella giusta. Mi sporsi a baciare Susan, la baciai come se quella fosse l’ultima volta. 33 — Ciao, giovanotto! — dissi, entrando nella stanza di Ricky. Ricky era seduto alla scrivania, sul cui piano era stampata una carta geografica del mondo. Con le matite colorate disegnava qualcosa e sporgeva la lingua, al massimo della concentrazione. — Sì, papà — disse. Diedi un’occhiata in giro. La stanza era in disordine, ma non un disastro. Vestiti sporchi lasciati sul pavimento; di solito lo sgridavo, per questo, ma non oggi. Ricky aveva parecchi piccoli scheletri di dinosauro, di plastica, che gli avevo portato io, e un giocattolo parlante, regalo di Natale. E libri, tanti libri per bambini: il nostro Ricky sarebbe stato un accanito lettore, da grande. — Figliolo — dissi e aspettai pazientemente che mi rivolgesse tutta l’attenzione. Stava completando un elemento del disegno… pareva un aeroplano. Lo lasciai terminare: so quanto può essere tormentoso il lavoro non terminato. Finalmente Ricky mi guardò e parve sorpreso che fossi ancora lì. Inarcò le sopracciglia, a mo’ di domanda. — Figliolo — ripetei — sai che papà è stato molto male. Ricky posò la matita colorata: aveva capito che si trattava di cose serie. Annuì. — E, sì, penso che tu sappia già che non migliorerò. Sporse le labbra e annuì con coraggio. Mi si spezzava il cuore. — Sto per partire — dissi, — Vado via con Hollus. — Può guarirti? Lui ha detto che non poteva, però… Ricky non sapeva che Hollus era femmina, ma non volevo cambiare discorso proprio ora. — No, no, lui non può fare niente per me. Ma, be’, va a fare un viaggio e voglio andare con lui. — Ero già stato via di casa varie volte… per scavi, per conferenze. Ricky era abituato. — Quando torni? — E poi, con angelica innocenza: — Mi porti un regalo? Chiusi gli occhi per un attimo. Avevo un nodo allo stomaco. — Ah, stavolta non torno — dissi piano. Ricky rimase in silenzio a digerire la notizia. — Vuoi dire… vuoi dire che parti per morire? — Mi spiace davvero. Mi spiace tantissimo lasciarti. — Non voglio che muori. — Nemmeno io voglio morire, ma… ma a volte non abbiamo nessuna scelta. — Posso… Voglio venire con te. Sorrisi tristemente. — Non puoi, Ricky. Devi stare qui e andare a scuola. Devi stare qui e aiutare mamma. — Ma… Aspettai che concludesse l’obiezione. Ma lui disse solo: — Non andare, papà. Invece l’avrei lasciato davvero. Quello stesso mese, sull’astronave di Hollus, o fra un paio di mesi, in un letto d’ospedale, con tubicini nelle braccia e nel naso e nel dorso della mano, monitor di ecg pigolanti sullo sfondo, infermiere e medici affannati a correre avanti e indietro. In un modo o nell’altro, me ne sarei andato. Non avevo scelta, ma potevo dire la mia sul quando e sul come. — Mi è difficile andare via — sospirai. Non potevo dirgli che volevo essere ricordato da lui com’ero adesso, anche se avrei voluto che mi ricordasse com’ero un anno fa, con venti chili in più e una ragionevole capigliatura. Meglio così, comunque, che non come sarei divenuto fra poco. — Allora non andare, papà. — Mi spiace, giovanotto, mi spiace davvero. Ricky era bravo, come qualsiasi bambino della sua età, a supplicare e a piagnucolare per stare alzato fino a tardi, per ottenere un giocattolo che desiderava, per mangiare ancora un po’ di dolce. Parve capire, però, che quel comportamento non avrebbe funzionato in questo caso e gli volli ancora più bene per quella saggezza da bambino di sei anni. — Ti voglio bene, papà — disse Ricky, con gli occhi adesso umidi. Mi chinai a sollevarlo dalla sedia e me lo strinsi al petto. — Ti voglio bene anch’io, figliolo. L’astronave di Hollus, la Merelcas, era del tutto diversa da come m’aspettavo. Mi ero abituato alle astronavi dei film, con ogni sorta di particolari nello scafo. Quell’astronave invece aveva superficie perfettamente liscia. Consisteva di un blocco rettangolare a una estremità e di un disco perpendicolare all’altra, collegati da due lunghi montanti tubolari. Il tutto di colore verde chiaro. Non avrei saputo dire quale parte fosse la prua. Anzi, era impossibile avere idea delle dimensioni: non c’era niente che riconoscessi… neppure gli oblò. La nave poteva essere lunga solo alcuni metri oppure dei chilometri. — Quant’è grande? — domandai a Hollus, che galleggiava, privo di peso, accanto a me. — Lunga circa un chilometro — mi rispose. — La parte rettangolare è il modulo di propulsione; i montanti sono alloggiamenti per l’equipaggio, uno per i Forhilnor, l’altro per i Wreed. E il disco è la zona comune. — Grazie ancora per avermi portato con te — dissi. Mi tremavano le mani per l’entusiasmo. Negli anni Ottanta si era brevemente parlato di mandare un giorno un paleontologo su Marte e avevo sognato a occhi aperti di essere io quel fortunato. Naturalmente, però, avrebbero voluto uno specialista in invertebrati: nessuno credeva seriamente che dei vertebrati fossero mai vissuti sul pianeta rosso. Se Marte aveva avuto un ecosistema, come sosteneva Hollus, probabilmente l’aveva avuto solo per alcune centinaia di milioni di anni e l’aveva perduto quando l’atmosfera era volata via nello spazio. Tuttavia… c’è una fondazione chiamata “Esprimi un Desiderio”, che cerca di esaudire le ultime richieste di bambini con malattie terminali; non so se esista un analogo gruppo per adulti e, per essere onesto, non sono sicuro di quale desiderio avrei espresso, se me ne avessero dato l’opportunità. Questo viaggio andava benissimo. Eccome! L’astronave continuò a ingrandirsi nello schermo. Hollus aveva detto che era stata “mascherata” per più di un anno, in modo da essere invisibile a osservatori sulla Terra, ma ormai era superfluo tenerla nascosta. Una parte di me avrebbe voluto che ci fossero oblò, sulla navetta e sulla Merelcas. Ma non ce n’erano: le due navi avevano uno scafo privo d’interruzioni. Immagini dell’esterno erano proiettate su schermi grossi come una parete. A un certo punto li avevo esaminati attentamente, ma non ero riuscito a distinguere né pixel né linee di scansione né sfarfallio. Gli schermi avevano la stessa funzione di un finestrino di vetro; anzi, per molti versi erano migliori: erano anabbaglianti e ovviamente potevano zoomare, mostrare la ripresa da un’altra telecamera o le informazioni desiderate. Forse a volte la simulazione è davvero migliore della realtà. Continuammo ad avvicinarci. Alla fine potevo distinguere qualcosa sullo scafo verde dell’astronave: delle scritte, in giallo. Due righe: una, in un sistema di segni geometrici, triangoli e quadrati e cerchi, alcuni con puntini in orbita intorno a essi; l’altra, una serie di ghirigori che assomigliavano vagamente all’arabo. Avevo già visto segni simili a quelli della prima riga, sul proiettore di Hollus, perciò pensai che fosse la scrittura dei Forhilnor; l’altra sarà stata quindi quella dei Wreed. — Cosa c’è scritto? — domandai. — Alto — rispose Hollus. Fissai l’aliena, attonito. — Scusa — disse Hollus. — Un piccolo scherzo. È il nome della nave. —Ah! Merelcas, vero? Cosa significa? — Belva Vendicatrice dello Sterminio — disse Hollus. Deglutii con forza. Una parte di me si era aspettata, credo, uno di quei momenti tipo “È un libro di cucina!” Allora però Hollus increspò i peduncoli oculari, ridendo. — Scusa — ripeté — ma non ho saputo resistere. Significa “Viandante stellare” o qualcosa di simile. — Piuttosto blando — dissi, augurandomi di non essere offensivo. Hollus distanziò al massimo i peduncoli oculari. — È stato deciso da un comitato — precisò. Sorrisi: proprio come il nome per la Sala Scoperte, al rom. Guardai di nuovo l’astronave. Mentre ero distratto, nella fiancata era comparsa un’apertura, non so se a iride o a pannello mobile. Era illuminata di luce giallastra e lasciava scorgere all’interno altre tre navette d’atterraggio nere. La nostra navetta continuò ad avvicinarsi. — Dove sono le stelle? — domandai. Hollus mi fissò. — Mi aspettavo di vedere stelle, nello spazio. — Ah. Il bagliore del sole e della Terra le fanno scomparire. — Disse alcune parole nella sua lingua musicale e sullo schermo a parete comparvero le stelle. — Ora il computer ha aumentato la luminosità apparente di ciascuna stella in modo che sia visibile. — Col braccio sinistro indicò un punto. — Vedi quello zigzag? È Cassiopea. Proprio sotto la stella centrale ci sono Mu ed Eta Cassiopeae. — Intorno alle stelle indicate comparve un cerchietto creato dal computer, — E vedi quella chiazza più sotto? — Comparve un altro cerchietto. — Quella è la galassia Andromeda. — Bellissima — dissi. Ben presto però la Marelcas riempì tutto il campo visivo. Ogni operazione pareva automatica: a parte un occasionale comando a voce, da quando eravamo saliti a bordo Hollus non aveva fatto niente. Vi fu un rumore di ferraglia, trasmesso dallo scafo, quando entrammo in contatto con un adattatore di attracco nella parete più lontana dello scomparto aperto. Hollus puntò i piedi contro la paratia, si diede una spinta e veleggiò verso il portello. Tentai di seguirla, ma mi accorsi di essermi allontanato troppo dalla parete: non avevo niente a portata di braccia e di gambe, non potevo darmi la spinta. Hollus capì subito il mio guaio e increspò di nuovo i peduncoli oculari, ridendo. Tornò indietro e mi tese la mano. Sentii che era davvero Hollus in carne e ossa, perché non c’era il formicolio elettrostatico. Hollus si diede di nuovo la spinta contro la paratia e veleggiammo insieme verso il portello, che si aprì al nostro avvicinarsi. Tre Forhilnor e due Wreed ci aspettavano. I Forhilnor erano facili da distinguere, perché ciascuno portava un indumento di colore diverso, ma i Wreed parevano proprio uguali l’uno all’altro. Passai tre giorni a esplorare l’astronave. L’illuminazione era tutta indiretta e non si vedeva la fonte. Le pareti e gran parte delle attrezzature erano grigio-azzurro. Immaginai che per i Wreed e i Forhilnor quel colore, non molto diverso da quello del cielo, fosse ritenuto una tinta neutra, usata dove noi terrestri usiamo di solito il beige. Visitai l’habitat wreed, ma vi sentii un odore di muffa che trovai sgradevole; trascorsi la maggior parte del tempo nel modulo comune. Conteneva due centrifughe concentriche per simulare la gravità; l’esterna riproduceva le condizioni su Beta Hydri III, l’interna quelle su Delta Pavonis II. Noi quattro passeggeri terrestri (io stesso; Qaiser, la donna schizofrenica; Zhu, il vecchissimo contadino cinese; Huhn, il gorilla dal dorso argenteo) trovavamo piacevole guardare il favoloso spettacolo della Terra, una splendida sfera di lucida sodalite, che si faceva sempre più piccola man mano che la Merelcas procedeva nel suo viaggio (anche se Huhn, ovviamente, non si rendeva conto di cosa vedeva). In meno di un giorno oltrepassammo l’orbita della Luna. Ora ci trovavamo più lontano dalla Terra di quanto l’uomo non fosse mai andato, eppure avevamo percorso neanche un decimiliardesimo della distanza prevista. Cercai ripetutamente di parlare con Zhu: il cinese all’inizio era assai diffidente nei miei riguardi (in seguito mi disse che ero il primo occidentale che avesse conosciuto) ma alla fine cambiò idea, anche perché parlavo cinese mandarino. Immagino però di avere fatto chissà quanti errori. Mi era facile capire perché io, uno scienziato, volessi partire per Betelgeuse; mi era più difficile capire come mai un vecchio contadino volesse fare la stessa cosa. E Zhu era davvero vecchio: lui stesso non sapeva con esattezza in quale anno era nato, ma non mi sarei sorpreso se fosse stato prima della fine del Diciannovesimo secolo. — Vado in cerca di Illuminazione — disse Zhu. Parlava lentamente, quasi in un soffio. — Cerco prajna, pura e assoluta conoscenza. — Mi guardò con occhi velati. — Dandart — (era il Forhilnor che si era legato a lui) — dice che l’universo ha subito una serie di nascite e di morti. Come ovviamente fa l’individuo, finché non raggiunge l’illuminazione. — Allora vieni con noi per motivi religiosi? — domandai. — Motivi che riguardano tutto — rispose semplicemente Zhu. Sorrisi. — Auguriamoci che il viaggio valga la pena. — Sono sicuro che varrà la pena — disse Zhu, con un’espressione di pace sul viso. — Sei certo che non ci siano pericoli? — dissi a Hollus, mentre scendevamo nella sala dove mi avrebbero messo in animazione sospesa. L’aliena increspò i peduncoli oculari. — Voli nello spazio a quella che definiresti velocità rompicollo, diretto verso una entità di potenza quasi inconcepibile, e ti preoccupi se il procedimento di ibernazione è sicuro? Risi. — Be’, se la metti in questo modo… — È sicuro, stai tranquillo. — Ricordati di svegliarmi, quando arriviamo a Betelgeuse. Hollus riusciva a essere perfettamente impassibile, a volte. — Prenderò un appunto — rispose. Susan Jericho, sessantaquattro anni ormai, sedeva nello studio della casa in Ellerslie Street. Erano trascorsi quasi dieci anni dalla partenza di Tom. Naturalmente, se Tom fosse rimasto sulla Terra, non sarebbe stato più in vita da quasi altrettanto tempo. Invece era presumibile che fosse vivo, in animazione sospesa, a bordo di un’astronave di alieni, pronto per essere riportato in vita fra 430 anni. Susan capiva. La portata di quel concetto però le faceva venire l’emicrania e quel giorno era un giorno di festa, non di sofferenza: il sedicesimo compleanno di Richard Blaine Jericho. Susan gli aveva regalato ciò che suo figlio più desiderava: la promessa di pagargli le lezioni di guida e, ottenuta la patente, di comprargli un’automobile. Aveva ricevuto un mucchio di soldi dall’assicurazione e la spesa non era un problema. La Great Canadian Life aveva fatto per breve tempo il tentativo di non pagare: Tom Jericho non era realmente morto, sosteneva. Ma quando i media erano venuti a conoscenza della storia, la gol aveva subito un tale assalto che il presidente della società aveva chiesto pubblicamente scusa e aveva consegnato di persona a Susan e a suo figlio l’assegno di cinquecentomila dollari. Un compleanno è sempre speciale, ma Susan e Dick (crescendo, Ricky aveva scelto di farsi chiamare Dick) lo avrebbero festeggiato anche una seconda volta, fra un mese. Il compleanno di Dick non aveva mai avuto la giusta risonanza per Susan, dal momento che lei non era presente, quando il bambino era nato. Fra un mese però, in luglio, cadeva il sedicesimo anniversario dell’adozione e quello era un ricordo che Susan aveva assai caro. Quando Dick tornò a casa da scuola (completava le superiori alla Northview Heights) Susan aveva per lui altri due regali. Primo, una copia del diario paterno, relativo al periodo trascorso con Hollus; secondo, una copia della cassetta registrata da Tom nello studio, che lei aveva convertito da VHS a dvd. — Magnifico! — disse Dick. Era alto e robusto, l’orgoglio di Susan. — Non sapevo che papà avesse fatto un video. — Mi ha chiesto di aspettare dieci anni, prima di dartelo — disse Susan. Scrollò le spalle. — Forse voleva che tu fossi abbastanza grande per capire. Dick soppesò la scatola, come se potesse così indovinarne i segreti. Era chiaramente ansioso. — Possiamo guardarlo subito? — domandò. Susan sorrise. — Certo! Andarono nel soggiorno e Dick inserì il disco nel lettore. E si sedettero insieme sul divano e guardarono Tom, smagrito e devastato dalla malattia, tornare in vita. Dick aveva visto alcune foto di Tom di quel periodo, in un album dove Susan aveva raccolto i ritagli stampa della visita di Hollus sulla Terra e della seguente partenza di Tom. Ma non aveva mai visto con tale precisione che cosa il cancro avesse fatto a suo padre. Susan lo vide indietreggiare un poco, quando le immagini presero a scorrere. Ben presto però il viso di Dick rivelò solo attenzione, rapita attenzione, mentre il ragazzo pendeva da ogni parola. Alla fine tutt’e due si asciugarono le lacrime, lacrime per l’uomo che avrebbero sempre amato. 34 Buio assoluto. E calore, che mi lambiva da tutti i lati. L’inferno? Era… No, naturalmente. Avevo un mal di testa spaventoso, ma cominciavo a ragionare. Un forte scatto metallico e poi… E poi il coperchio dell’unità d’ibernazione scivolò da parte. La bara oblunga, fatta per i Wreed, era a filo del pavimento; Hollus, a gambe divaricate, agganciata con i sei piedi a delle staffe per non andare alla deriva, piegò le gambe frontali e abbassò i peduncoli oculari per guardarmi. — È ora di alzarsi, amico mio — disse. Sapevo che cosa si pensa che uno debba dire in una situazione come quella: avevo visto Khan Noonien Singh. — Quanto tempo? — domandai. — Più di quattro secoli — rispose Hollus. — Siamo nell’anno 2432 della Terra. “Così, semplicemente” pensai. “Quattrocento anni volati via senza che me ne sia reso conto. Così, semplicemente.” Erano stati saggi a installare le camere d’ibernazione fuori delle centrifughe; non credo che sarei riuscito a reggermi da solo. Hollus mi tese la destra e io allungai la sinistra ad afferrarla e il semplice cerchietto d’oro nell’anulare mi parve immutato, malgrado il freddo e il tempo. Hollus mi aiutò a uscire dalla bara di ceramica nera; poi si staccò dalle staffe e restammo librati. — La nave ha smesso di decelerare — disse la Forhilnor. — Abbiamo quasi raggiunto ciò che resta di Betelgeuse. Ero nudo; per qualche ragione provai imbarazzo a farmi vedere da Hollus in quello stato. Ma i vestiti mi aspettavano; mi vestii in fretta… una camicia blu e un paio di morbidi calzoni color cachi, veterani di molti scavi. Avevo difficoltà a mettere a fuoco la vista e sentivo la bocca secca. Di sicuro Hollus l’aveva previsto: teneva pronto per me un contenitore trasparente pieno di acqua a temperatura ambiente. I Forhilnor non raffreddavano mai l’acqua, ma in quel momento quella mi andava benissimo… l’ultima cosa di cui avevo bisogno era una bevanda fredda. — Non dovrei fare un controllo? — domandai, quando terminai di spremermi in bocca l’acqua. — No — disse Hollus. — È tutto automatico. Sei stato tenuto sotto osservazione continua. Stai… — Si interruppe e sono sicuro che stesse per dire che stavo bene, ma sapevamo tutt’e due che non era vero. — Stai come stavi prima dell’animazione sospesa. — Mi fa male la testa. Hollus mosse le membra in un modo bizzarro; dopo un istante capii che le fletteva come avrebbe fatto per ballonzolare, se non ci fossimo trovati in assenza di gravità. — Per un paio di giorni avrai vari dolori. È naturale. — Chissà com’è la Terra — dissi. Hollus rivolse una frase melodiosa al più vicino monitor a parete. Dopo alcuni istanti comparve un’immagine ingrandita: un disco giallo, della grandezza di un quarto di dollaro tenuto a braccio teso. — Il tuo sole — disse Hollus, Poi indicò un oggetto più opaco, circa un sesto del diametro del sole. — E quello è Giove, che da qui mostra una faccia gibbosa. A questa distanza, è difficile risolvere la Terra in luce visibile, ma se guardi un’immagine radio, la Terra risplende più del sole, con le sue numerose frequenze. — Ancora? — dissi. — Trasmettiamo ancora per radio, dopo tutto questo tempo? — Era magnifico: significava che… Hollus rimase in silenzio per qualche istante, forse sorpresa che non capissi. — Non so — disse poi. — La Terra è a 429 anni luce da noi; la luce che ci giunge adesso mostra come era il tuo sistema solare al tempo della nostra partenza. Annuii tristemente. Certo. Sentii il cuore battere forte e la vista mi si confuse maggiormente. All’inizio pensai che qualcosa nella rianimazione fosse andato storto, ma non si trattava di quello. Ero scosso; non avevo pensato a come mi sarei sentito. Ero ancora vivo. Socchiusi gli occhi e fissai il piccolo disco giallo, poi abbassai lo sguardo sulla fede d’oro. Sì, ero ancora vivo. La mia amata Susan però non c’era più. Di sicuro. Mi domandai che vita aveva avuto, dopo la mia partenza. Mi augurai che fosse stata felice. E Ricky? Mio figlio, il mio fantastico figlio? Be’, c’era quel medico che avevo sentito alla crv, quello che aveva detto che era già nato il primo essere umano che sarebbe vissuto per sempre. Forse Ricky era ancora vivo… e aveva 438 anni. Le probabilità però erano scarse, pensai. Era molto più facile che Ricky fosse cresciuto per diventare l’uomo che era destinato a diventare, che avesse lavorato e amato e ora… E ora non c’era più. Mio figlio. Quasi certamente ero vissuto più di lui. Un padre in teoria non dovrebbe sopravvivere al figlio. Sentii le lacrime agli occhi, lacrime che erano congelate nemmeno un’ora fa, lacrime che in assenza di gravità formavano una sorta di pozza vicino ai condotti lacrimali. Le asciugai. Hollus conosceva il significato delle lacrime per gli uomini, ma non mi domandò perché piangessi. Anche i suoi figli, Pealdon e Kassold, erano di sicuro ormai morti. Rimase pazientemente librata accanto a me. Mi domandai se Ricky avesse lasciato figli e nipoti e pronipoti; mi sconvolgeva pensare che ormai potevo avere facilmente una quindicina di generazioni di discendenti. Forse il nome Jericho circolava ancora… E mi domandai se il Royal Ontario Museum esisteva ancora, se avevano riaperto il planetario o se in realtà il volo spaziale a buon mercato per tutti aveva infine, giustamente, reso ridondante quella istituzione. Mi domandai se esisteva ancora il Canada, quel grande paese che tanto amavo. Più di tutto, ovviamente, mi domandai se la razza umana esisteva ancora, se l’Uomo aveva scansato il veleno in fondo all’equazione di Drake, se aveva evitato di farsi saltare in aria da solo. Quando ero partito, avevamo armi nucleari da più di cinquant’anni; chissà se in un periodo otto volte superiore avevamo resistito alla tentazione di usarle. O forse… Era la scelta dei nativi di Epsilon Indi. E di quelli di Tau Ceti. E di Mu Cassiopeae A. E di Età Cassiopeae A. E anche di Sigma Draconis. Perfino degli amorali esseri di Groombridge 1618, gli arroganti bastardi che avevano fatto saltare Betelgeuse. Tutti quanti, se avevo ragione, erano trascesi in un regno delle macchine, in un mondo virtuale, in un paradiso generato da computer. E a quest’ora, con altri quattro secoli di progressi tecnologici, senza dubbio l’Homo sapiens era in grado di fare la stessa cosa. Forse l’Uomo l’aveva fatta. Forse l’aveva fatta. Guardai Hollus, librata a mezz’aria: la reale Hollus, non il suo simulacro. La mia amica, in carne e ossa. Forse l’Uomo aveva perfino preso l’imbeccata dai nativi di Mu Cassiopeae A, aveva fatto esplodere la Luna, aveva dato alla Terra anelli che rivaleggiavano con quelli di Saturno; certo, la nostra luna è relativamente più piccola di quella di Mu Cassiopeae e perciò contribuisce meno al sommovimento del nostro mantello terrestre. Eppure… forse adesso c’era un segnale d’avvertimento in qualche parte geologicamente stabile della Terra. Ero andato di nuovo alla deriva, troppo lontano da una parete: avevo la tendenza a non badarci. Hollus manovrò in modo da venirmi vicino e prendermi per mano. Mi augurai che l’Uomo non si fosse scaricato nei computer. Mi augurai che la razza fosse, be’, ancora umana… ancora calda e biologica e reale. Non avevo modo di saperlo con certezza. E l’entità era ancora lì ad aspettarci, dopo più di quattro secoli? Sì. Oh, forse non era rimasta sempre lì; forse aveva davvero calcolato quando saremmo giunti e si era allontanata a prendersi cura di altre cose nel frattempo. Mentre la Merelcas attraversava i 429 anni luce a velocità solo di un pelo inferiore a quella della luce stessa, il panorama era virato nell’ultravioletto, risultando quindi invisibile. Per gran parte di quel tempo l’entità poteva benissimo essere andata altrove. E naturalmente forse non era davvero Dio, forse era solo una forma di vita estremamente progredita, una rappresentante di una razza antica, ma del tutto naturale. O forse era davvero una macchina, un massiccio sciame di entità frutto della nanotecnologia; non c’era motivo per cui una tecnologia progredita non potesse sembrare materia organica. Ma dove si traccia la linea? Qualcosa… qualcuno… aveva deciso i parametri fondamentali per questo universo. Qualcuno era intervenuto su almeno tre pianeti in un periodo di 375 milioni di anni, un tempo due milioni di volte più lungo del paio di secoli che le razze intelligenti parevano sopravvivere in forma corporea. E ora qualcuno aveva salvato la Terra e Delta Pavonis II e Beta Hydri III dall’esplosione di una supergigante, assorbendo in un giro di istanti più energia di quella emessa da tutte le altre stelle della galassia, senza rimanerne distrutto. Come si definisce Dio? Deve essere onnisciente? Onnipotente? Come dicono i Wreed, queste sono mere astrazioni, forse irraggiungibili. Deve essere definito, Dio, in un modo che lo ponga al di sopra della sfera della scienza? Avevo sempre creduto che non ci fosse niente, al di là della sfera della scienza. E ci credo ancora. Dove si traccia la linea? Proprio qui. Per me, la risposta era proprio qui. Come si definisce Dio? Così. Un Dio che potevo capire, almeno potenzialmente, era molto più interessante e importante di uno che sfidasse la comprensione. Mi librai davanti a uno degli schermi a parete, con Hollus alla mia sinistra, altri sei Forhilnor accanto a lei, una fila di Wreed alla mia destra, E guardammo lui, l’entità. Risultò vasto circa 1,5 miliardi di chilometri… grosso modo il diametro dell’orbita di Giove. E di un nero così intenso che perfino il bagliore dello scarico di fusione della Merelcas, rimasto puntato da quella parte per due secoli di frenata, non vi si era riflesso. L’entità continuò a eclissare Betelgeuse, o quel che ne restava, finché non fummo molto vicino. Allora rotolò via, movendo i sei arti come raggi di una ruota, lasciando scorgere l’ampia nebulosa che si era formata dietro di esso e al cui centro c’era la piccola pulsar, il cadavere di Betelgeuse. Ma quella fu la sua unica reazione alla nostra presenza, almeno per quel che potevo dire. Rimpiansi di nuovo che non ci fossero veri oblò: forse, se ci avesse visto agitare il braccio, avrebbe risposto allo stesso modo, movendo in un arco lento e maestoso uno dei suoi enormi pseudopodi neri come ossidiana. Roba da diventare pazzi: ero lì, a distanza di sputo da quello che poteva anche essere Dio, e lui pareva così indifferente nei miei riguardi come, be’, come quando dei tumori avevano cominciato a formarsi nei miei polmoni. Già una volta avevo tentato di parlare a Dio e non avevo ricevuto risposta, ma ora, maledizione, almeno la cortesia, se non altro, imponeva una risposta: avevamo fatto il viaggio più lungo che mai avessero fatto gli uomini o i Forhilnor o i Wreed. Ma l’entità non fece alcun tentativo di comunicazione… almeno, nessuno che io o Zhu o Qaiser o addirittura Huhn riconoscessimo come tale. Neppure i Forhilnor parvero riuscire a contattarlo. I Wreed però… I Wreed, con la loro mentalità radicalmente diversa, col loro diverso modo di vedere, di pensare… E con la loro incrollabile fede… I Wreed parevano davvero in comunicazione telepatica con l’entità. Per anni avevano tentato di parlare a Dio e ora pareva che Dio parlasse a loro, in un modo che nessun altro poteva scorgere. I Wreed non avrebbero potuto esprimere ciò che era detto loro, proprio come non avrebbero potuto esprimere in maniera comprensibile le intuizioni sul significato della vita che davano loro pace; eppure iniziarono a costruire un congegno nella loro centrifuga. Prima che fosse terminato, Lablok, il medico Forhilnor della Merelcas, capì di che cosa si trattava, basandosi sui principi generali di progettazione: un grande utero artificiale. I Wreed presero campioni genetici del membro più anziano del loro gruppo, una femmina di nome K’t’ben, e del più anziano Forhilnor, un ingegnere di nome Geedas, e… No, non miei, anche se rimpiansi che non l’avessero fatto: avrebbe portato completezza, conclusione. No, presero il campione umano di Zhu, il vecchio contadino cinese. Ci sono quarantasei cromosomi umani. Ci sono trentadue cromosomi forhilnor. Ci sono cinquantaquattro cromosomi wreed… anche se loro non li hanno mai contati. I Wreed presero una cellula forhilnor ed estrassero dal nucleo tutto il dna. Poi con cura inserirono in quella cellula corredi diploidi di cromosomi di Geedas e di K’t’ben e di Zhu, cromosomi che si erano già divisi tante di quelle volte che i loro telomeri erano ridotti a niente. E quella cellula, contenente i 132 cromosomi di tre razze diverse, fu attentamente sistemata nell’utero artificiale e galleggiò in una vasca di liquido contenente basi di purina e di pirimidina. Allora avvenne qualcosa di sorprendente… qualcosa che mi fece sobbalzare, che indusse Hollus a distanziare al massimo i peduncoli oculari. Ci fu un lampo di luce vividissima; i sensori della Merelcas rivelarono che un raggio di particelle era stato sparato dal centro esatto dell’entità ed era passato proprio attraverso l’utero artificiale. Scrutando con uno scanner a ingrandimento l’interno dell’utero, si videro sorprendenti interazioni. Cromosomi dei tre pianeti parvero cercarsi l’un l’altro, unendosi in lunghi fili. Alcuni consistevano di due cromosomi forhilnor uniti insieme e con un cromosoma wreed nella parte terminale; Hollus aveva parlato dell’equivalente forhilnor della sindrome di Down e di come cromosomi mancanti di telomere potevano unirsi portando a contatto le rispettive parti terminali, una capacità innata, a prima vista inutile, perfino dannosa; ma ora… Altre catene consistevano di cromosomi umani posti in mezzo a cromosomi forhilnor e wreed. Alcune catene erano lunghe solo due cromosomi: in genere, uno umano e uno forhilnor. E sei cromosomi dei Wreed rimasero inalterati. Era adesso evidente che le catene di dna avevano la capacità innata di fare molto di più, non semplicemente morire o formare tumori, una volta eliminati i loro telomeri. Anzi, i cromosomi privi di telomero erano pronti per l’ultimo passo lungamente atteso. E ora che forme di vita intelligenti di diversi mondi erano finalmente, con una piccola spinta, venute in esistenza insieme, quei cromosomi erano in grado di muovere quel passo. Ora capii perché il cancro esisteva… perché Dio aveva bisogno di cellule che continuassero a dividersi anche dopo avere esaurito i telomeri. I tumori in forme di vita isolate erano semplicemente uno sfortunato effetto collaterale; come T’kna aveva detto, “Lo specifico spiegamento di realtà che includeva il cancro, presumibilmente indesiderabile, di sicuro conteneva anche qualcosa di molto desiderato”. E la cosa molto desiderata era questa: la capacità di legare cromosomi, di unire specie diverse, di concatenare forme di vita… il potenziale biochimico per creare qualcosa di nuovo, qualcosa di più. Battezzai i cromosomi combinati: li chiamai ipersomi. E gli ipersomi facevano ciò che fanno i normali cromosomi: si riproducevano, aprendosi nel senso della lunghezza, separandosi in due parti, aggiungendo le basi corrispondenti prelevate dal brodo nutritivo… una citosina accoppiata a ogni guanina; una timina per ogni adenina… per riempire le loro metà ora carenti. Qualcosa di affascinante si verificò la prima volta che gli ipersomi si riprodussero: la catena divenne più corta! Grandi sequenze di dna della regione intragenica… ciarpame… caddero via durante il processo di copiatura. Anche se gli ipersomi contenevano il triplo di dna attivo rispetto ai normali cromosomi, formavano sequenze molto più compatte. Gli ipersomi non aumentavano il limite teorico di grandezza per cellule biologiche; anzi, stipavano più informazioni in meno spazio. E naturalmente, quando gli ipersomi si riprodussero, la cellula che li conteneva si suddivise, creando due cellule figlie. E poi queste cellule si divisero. Ancora e ancora. Prima della parie centrale del cambriano, la vita aveva avuto un vincolo fondamentale imposto dal fatto che le cellule fertilizzate non potevano suddividersi più di dieci volte, limitando gravemente la complessità degli organismi risultanti. Poi si verificò l’esplosione del cambriano e la vita di colpo divenne più evoluta. C’erano però ancora dei limiti. Un feto poteva ingrossarsi solo fino a un certo punto: neonati umani e Forhilnor e Wreed rientravano tutti nell’ordine massimo di cinque chilogrammi. Neonati più grandi avrebbero richiesto canali di nascita enormemente più larghi; sì, corpi più grandi avrebbero potuto ospitare cervelli più grandi, ma gran parte della massa cerebrale aggiunta sarebbe servita solo a controllare il corpo più grande. Forse, solo forse, una balena era intelligente come l’uomo… ma non più intelligente. La vita aveva raggiunto, pareva, il conclusivo livello di complessità. Invece il feto spinto da ipersomi continuò a diventare sempre più grande nell’utero artificiale. Ci eravamo aspettati che a un certo punto smettesse di crescere: oh, un Forhilnor poteva nascere con un cromosoma di doppia lunghezza; un bambino umano poteva sopravvivere per un certo tempo pur avendo tre cromosomi ventuno. Ma questa combinazione, questa folle miscela genetica, questo guazzabuglio, era certamente esagerato, spingeva troppo lontano i limiti del possibile. Molte gravidanze… wreed o forhilnor o umane… abortiscono spontaneamente allo stadio iniziale, quando qualcosa va male nello sviluppo dell’embrione, di solito ancora prima che la madre si renda conto d’essere incinta. Il nostro feto però, il nostro impossibile triplo ibrido, non abortì. In tutte e tre le specie, l’ontogenesi, ossia lo sviluppo del feto, pare ricapitolare la filogenesi, ossia la storia evolutiva di quell’organismo. Gli embrioni umani sviluppano e poi scartano branchie, coda e altri chiari echi del proprio passato evolutivo. Anche quel feto attraversava degli stadi, mutava la propria morfologia. Ero incredulo… mi pareva di guardare l’esplosione cambriana svolgersi sotto i miei occhi, centinaia di piani corporei provati e scartati. Simmetria radiale, simmetria quadrilatera, simmetria bilaterale. Orifizi per la respirazione e branchie e polmoni e altre cose che nessuno di noi riconobbe. Code e appendici non meglio definite, occhi compositi e peduncoli oculari, corpi segmentati e corpi ininterrotti. Nessuno aveva mai capito che cosa significava l’ontogenesi che ricapitolava in apparenza la filogenesi, ma non si trattava di una vera ripetizione della storia evolutiva dell’organismo… ciò era evidente, dal momento che le forme non erano uguali a quelle trovate come fossili. Ora però lo scopo pareva chiaro: il dna conteneva di sicuro una routine d’ottimizzazione, provava ogni possibile mutazione e poi sceglieva quali adattamenti esprimere. Vedevamo non solo soluzioni terrestri e di Beta Hydri e di Delta Pavonis, ma anche miscele di tutte e tre. Alla fine, dopo quattro mesi, il feto parve decidersi per un piano corporeo, una fondamentale architettura diversa da quella dell’Uomo e dei Forhilnor e dei Wreed. Il corpo del feto consisteva in un tubo a ferro di cavallo, circondato da un anello dal quale derivavano sei arti. C’era uno scheletro interno in formazione, visibile nella sostanza trasparente del corpo, ma non era di osso liscio, bensì di fasci di materiale intrecciato. Pensammo di dare un nome all’embrione. Lo chiamammo Wibadal, parola forhilnor che significava “pace”. Un’altra figlia che non sarei vissuto tanto da veder crescere. Come per il mio Ricky, però, sono sicuro che sarebbe stata una figlia adottiva, curata e nutrita se non dall’equipaggio della Merelcas, dall’enorme tenebra palmata che si estendeva nel cielo. Dio era il programmatore. Le leggi della fisica e le costanti fondamentali erano il codice sorgente. L’universo era l’applicazione. E contava 13,9 miliardi di anni, fino a quel momento. Il fatto che la capacità di trascendere, di scartare la biologia, giungesse troppo presto nella vita di una razza, era un baco, una falla nel progetto, una complicazione non voluta. Alla fine però, mediante accurata manipolazione, il programmatore aveva eliminato quel baco. E Wibadal? Wibadal era il risultato. Il punto di tutto. Le augurai buona fortuna. Era l’antico modo di procedere, il motore che aveva sempre spinto l’evoluzione. Una vita termina; un’altra inizia. Fui di nuovo posto in animazione sospesa e trascorsi i successivi undici mesi senza subire altre degenerazioni provocate dal cancro. Quando la gestazione di Wibadal si concluse, Hollus mi risvegliò per quella che, lo sapevamo tutt’e due, sarebbe stata l’ultima volta. I Wreed avevano annunciato che quello sarebbe stato il giorno; la bambina era ormai completa e sarebbe stata tolta dall’utero artificiale. — Possa esprimere il meglio di tutti noi — disse T’kna, il Wreed che avevo conosciuto all’inizio, per telepresenza, tanti mesi… e tanti secoli… fa. Hollus ballonzolò. — Amen — disse. Ero ancora intontito per il risveglio, ma guardai affascinato Wibadal che veniva estratta dall’utero. Venne al mondo piangendo, proprio come avevo fatto io e tutti i miliardi di creature nati prima di me. Hollus e io passammo delle ore solo a guardarla, una creatura strana, bizzarra, già grande la metà di me. — Chissà quale sarà la sua durata di vita — dissi alla mia amica forhilnor; forse era una domanda insolita, ma la durata di vita era una cosa che avevo sempre in mente. — Chi può saperlo? — rispose Hollus. — La mancanza di telomeri non sembra essere per lei un ostacolo. Le sue cellule potrebbero continuare a riprodursi per sempre e… Si interruppe. — E si riprodurranno per sempre — concluse, dopo qualche istante di riflessione. — Quella entità — e indicò la tenebra inquadrata al centro di uno schermo a parete — è sopravvissuta all’ultimo Big Crunch e Big Bang. Wibadal, sospetto, sopravvivrà al prossimo, diventerà il Dio dell’universo che succederà a questo. Era un’idea sconcertante, ma forse Hollus aveva ragione. Io però non sarei vissuto tanto da saperlo con certezza. Wibadal era dietro la parete di vetro di una sala maternità costruita apposta, contenente una culla circolare. Picchiettai sul vetro, come i genitori del mio mondo hanno fatto milioni di volte prima di me. Picchiettai e agitai il braccio. E Wibadal si mosse e agitò verso di me una tozza appendice. Forse il Dio attuale non aveva mai riconosciuto la mia presenza… anche quando ero venuto proprio da lui, era stato sempre indifferente nei miei riguardi… ma quel Dio in fieri mi aveva notato, almeno una volta, almeno per un momento. E per quel momento non sentii dolore. Presto però il dolore tornò; era peggiorato a poco a poco e io ero diventato sempre più debole. Il tempo stava per scadere. Scrissi un’ultima, lunga lettera a Ricky, nel caso che, per miracolo, fosse ancora vivo. Hollus la trasmise per me alla Terra; sarebbe giunta fra circa mezzo millennio. Dissi a mio figlio ciò che avevo visto qui e quanto gli volevo bene. E poi chiesi a Hollus un ultimo favore, un’ultima cortesia. Le chiesi una di quelle cose che solo un buon amico può chiedere a un altro. Le chiesi di aiutarmi ad andarmene, a morire. Avevo portato con me dalla Terra solo pochi effetti personali, oltre alle medicine e agli analgesici. Avevo portato però un testo di biochimica con i dati sufficienti perché il medico di bordo della Merelcas potesse sintetizzare qualcosa che ponesse alla mia vita una fine rapida e indolore. Hollus stessa mi iniettò la sostanza e si sedette accanto al mio letto, tenendomi la mano: la sua pelle a bolle fu l’ultima cosa che sentii. Dissi a Hollus di scrivere le mie ultime parole e di trasmetterle alla Terra, anche queste, in modo che Ricky o chiunque ci fosse ancora, sapesse ciò che avevo detto. Forse lui o uno dei miei pronipoti dell’ennesima generazione avrebbe potuto scrivere un libro sul primo contatto fra un extraterrestre e un essere che, suppongo, era fin troppo umano. Fui sorpreso dei miei ultimi pensieri. — Sai — dissi a Hollus, i cui peduncoli oculari si muovevano avanti e indietro — ricordo il primo momento in cui rimasi affascinato dai fossili. Hollus attese che continuassi. — Fu sulla spiaggia — dissi. — Giocavo con i sassi e fui stupito di trovare una conchiglia incastonata in uno di essi. Avevo trovato una cosa che non avevo mai saputo di cercare. — Il dolore diminuiva; tutto scivolava via. Strinsi la mano della Forhilnor. — Credo d’essere un uomo fortunato — dissi, sentendo la pace scendere su di me. — L’esperienza si è ripetuta. Ringraziamenti Sinceri ringraziamenti alla mia incantevole moglie, Carolyn Clink; al mio editor, David G. Hartwell, e al suo vice, James Minz; al mio agente, Ralph Vicinanza, e ai suoi collaboratori, Christoper Lotts e Vince Gerardis; al dottor Stanley Schmidt, direttore della rivista “Analog”; a Tom Doherty, Jynne Dílling e Linda Quinton, della casa editrice Tor Books; a Harold e Sylvia Fenn, Robert Howard, Suzanne Hallsworth e Heidi Winter, della H.B. Fenn and Company; al dottor Marshall L. McCall, del Dipartimento di Fisica e di Astronomia della York University di Toronto; a John-Allen Price; a Jean-Louis Trudel: a Roberta van Belkom. Verificatori di questo romanzo sono stati il reverendo Paul Fayter, storico di scienza e teologia; Michael A. Burstein; David Livingstone Clink; James Alan Gardner; Richard M, Gotlib; Terence M. Green; il dottor Howard Miller; il dottor Ariel Reich; Alan B. Sawyer; Edo van Belkom; Andrew Weiner. Particolari ringraziamenti alle gentili persone che mi hanno permesso di discutere con loro nella sezione “Robert J. Sawyer” del sf Author Forum su CompuServe (vi si accede col comando CompuServe “Go Sawyer”). Ringrazio inoltre per il sostegno economico la sezione Writing and Publishing del Council for the Arts canadese, che mi concesse una sovvenzione per partecipare alla World Science Fiction Convention di Melbourne, dove ho terminato questo romanzo. Ringrazio infine mio padre, John A, Sawyer, per avere permesso a Carolyn e a me di usare ripetutamente la sua casa estiva sul lago Canandaigua, dove gran parte di questo romanzo è stata scritta. L’autore Robert J. Sawyer Robert J. Sawyer, canadese nato nel 1960, ha vinto il premio Nebula con il romanzo The Terminal Experiment del 1995 ed è considerato uno degli autori di punta della sf tecnologica. Golden Fleece (pubblicato con il titolo Apocalisse su Argo su “Urania”), Il suo primo libro, è stato proclamato da Orson Scott Card “miglior romanzo del 1990” (su “Fantasy and Science Fiction”), Sawyer è l’unico scrittore canadese di sf a tempo pieno e vive a Tornhill, nell’Ontario, con la moglie Caroline. Starplex (1996), pure pubblicato da “Urania”, è giunto in finale al Premio Nebula. Anche Frameshift (1997) ha vinto un premio, questa volta in Spagna, ed è uscito su “Urania” col titolo Mutazione pericolosa. Tra i suoi romanzi più recenti segnaliamo Illegal Alien (1997) e Factoring Humanity (1998, I Transumani, “Urania”). Ha scritto anche: Far seer (1992), Fossil Hunter (1993), Foreigner (1994), End of an Era (1994). sono in opzione i diritti cinematografici di Illegal Alien e The Terminal Experiment, che, come Golden Fleece, sono una mescolanza di giallo e fantascienza. Far Seer, Fossil Hunter e Foreigner compongono la cosiddetta “Quintaglio Ascension Trilogy” e raccontano le storie degli equivalenti extraterrestri di Galileo, Darwin e Freud rispettivamente. Calculating God è uscito in edizione originale nel 2000. G. L.