Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare Luis Sepulveda Luis Sepulveda ha pubblicato Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare nel 1996. Il romanzo, dato il suo valore educativo, è stato poi proposto agli alunni di scuola elementare e media inferiore riscuotendo un grande successo. “Promettimi che non mangerai l’uovo” stridette aprendo gli occhi. “Prometto che non mi mangerò l’uovo” ripetè Zorba. “Promettimi che ne avrai cura finchè non sarà nato il piccolo” stridette sollevando il capo. “Prometto che avrò cura dell’uovo finchè non sarà nato il piccolo”. “E promettimi che gli insegnerai a volare” stridette guardando fisso negli occhi il gatto. Allora Zorba si rese conto che quella sfortunata gabbiana non solo delirava, ma era completamente pazza. “Prometto che gli insegnerò a volare. E ora riposa, io vado in cerca di aiuto” miagolò Zorba balzando direttamente sul tetto. Queste sono le promesse che la gabbiana Kengah riesce a strappare in fin di vita ad un grosso gatto nero di nome Zorba. Kengah si era poco prima tuffata nell’oceano per acchiappare qualche aringa insieme ai suoi compagni, ma quando aveva tirato fuori la testa si era ritrovata sola in quell’immensità. Il resto dello stormo era volato via e il mare era una distesa di petrolio che presto l’avrebbe asfissiata penetrando tra le piume e tappandole tutti i pori. Con enorme fatica spicca il volo, raggiunge la terra ferma, ma precipita su un balcone di Amburgo. Ed è proprio qui che incontra il gatto Zorba cui affida l’uovo che sta per deporre. Ma come potrà Zorba tenere fede alle tre promesse fatte, in particolare a quella di insegnare a volare? Avrà certamente bisogno dell’aiuto dei suoi amici Diderot, Colonnello e Segretario, ma anche quello di qualcun altro… Lo scrittore cileno, attraverso questo racconto-fiaba tocca temi a lui molto cari: parte dall’amore per la natura minacciata dagli atteggiamenti distruttori e menefreghisti dell’uomo e prosegue con la solidarietà e la generosità di esseri disinteressati e altruisti. Ma forse la cosa che maggiormente colpisce è il messaggio di speranza che trapela attraverso il riconoscere all’uomo non solo il ruolo di inquinatore e responsabile di disastri , ma anche quello di aiuto e contributo indispensabile all’equilibrio della natura in pericolo. Un racconto dolce e forte allo stesso tempo, adatto certamente a bambini e ragazzi, ma in grado di catturare l’attenzione anche di adulti sensibili alle tematiche della natura e a quelle della solidarietà. Una solidarietà priva di confini e barriere. O forse sarebbe più corretto parlare di barriere che possono essere valicate con un pizzico di impegno e buona volontà. A volte imparare a volare è un insegnamento che viene da chi meno ti aspetti. E non dimentichiamo:“Vola solo chi osa farlo”. Luis Sepúlveda STORIA DI UNA GABBIANELLA E DEL GATTO CHE LE INSEGNÒ A VOLARE Historia de una gaviota y del gato que le enseñó a volar, 1996 Traduzione di Ilide Carmignani Romanzo SALANI EDITORE Titolo dell'originale spagnolo HISTORIA DE UNA GAVIOTA Y DEL GATO QUE LE ENSENÓ A VOLAR ISBN 88-7782-512-X Prima edizione: agosto 1996 Copyright © Luis Sepúlveda,1996 by arrangement with Dr. Ray — Güde Mertin, Literarische Agentur, Bad Homburg, Germany Copyright © 1996 Adriano Salani Editore s.r.l. Firenze, via del Giglio 15 Ai miei figli Sebastián, Max e León, il miglior equipaggio dei miei sogni; al porto di Amburgo perché lì sono saliti a bordo; e al gatto Zorba, naturalmente. PARTE PRIMA CAPITOLO PRIMO: Mare del Nord <> annunciò il gabbiano di vedetta, e lo stormo del Faro della Sabbia Rossa accolse la notizia con strida di sollievo. Da sei ore volavano senza interruzione, e anche se i gabbiani pilota li avevano guidati lungo correnti di aria calda che rendevano piacevole planare sopra l'oceano, sentivano il bisogno di rimettersi in forze, e cosa c'era di meglio per questo di una buona scorpacciata di aringhe? Volavano sopra la foce del fiume Elba, nel mare del Nord. Dall'alto vedevano le navi in fila indiana, come pazienti e disciplinati animali acquatici, in attesa del loro turno per uscire in mare aperto e poi far rotta per tutti i porti della Terra. A Kengah, una gabbiana dalle piume color argento, piaceva particolarmente osservare le bandiere delle navi, perché sapeva che ognuna rappresentava un modo di parlare, di chiamare le stesse cose con parole diverse. <> commentò una volta Kengah con un compagno di volo. <> stridette l'altro. Al di là della linea costiera il paesaggio diventava di un verde intenso. Era un enorme prato nel quale spiccavano le greggi di pecore che pascolavano al riparo delle dighe, e i pigri bracci dei mulini a vento. Seguendo le istruzioni dei gabbiani pilota, lo stormo del Faro della Sabbia Rossa imboccò una corrente d'aria fredda e si lanciò in picchiata sul banco di aringhe. Centoventi corpi bucarono l'acqua come frecce e, quando risalirono a galla, ogni gabbiano stringeva un pesce nel becco. Aringhe saporite. Saporite e grasse. Proprio quello di cui avevano bisogno per recuperare energie prima di riprendere il volo fino a Den Helder, dove a loro si sarebbe unito lo stormo delle isole Frisoni. La rotta prevedeva poi di proseguire fino al passo di Calais e al canale della Manica, dove sarebbero stati accolti dagli stormi della baia della Senna e di Saint-Malo, assieme ai quali avrebbero volato fino a raggiungere il cielo di Biscaglia. A quel punto sarebbero stati un migliaio di gabbiani, simili a una veloce nuvola d'argento che si sarebbe pian piano ingrandita con l'arrivo degli stormi di Belle Ile e di Oléron, e dei capi Machichaco, Ajo e Penas. Quando tutti i gabbiani autorizzati dalla legge del mare e dei venti avessero sorvolato la Biscaglia, sarebbe potuto iniziare il grande convegno dei gabbiani del mar Baltico, del mare del Nord e dell'Atlantico. Sarebbe stato un bell'incontro. A questo pensava Kengah mentre si pappava la sua terza aringa. Come tutti gli anni si sarebbero sentite storie interessanti, specialmente quelle narrate dai gabbiani di capo Penas, instancabili viaggiatori che a volte volavano fino alle isole Canarie o a quelle di Capo Verde. Le femmine come lei si sarebbero date a grandi banchetti di sardine e di calamari, mentre i maschi avrebbero costruito i nidi sul bordo di una scogliera. Poi le femmine avrebbero deposto le uova, le avrebbero covate al sicuro da qualsiasi minaccia, e quando ai piccoli fossero spuntate le prime penne robuste sarebbe arrivata la parte più bella del viaggio: insegnare loro a volare nel cielo di Biscaglia. Kengah infilò la testa sott'acqua per acchiappare la quarta aringa, e così non sentì il grido d'allarme che fece tremare l'aria: <> Quando Kengah tirò di nuovo fuori la testa, si ritrovò sola nell'immensità dell'oceano. CAPITOLO SECONDO: Un gatto nero, grande e grosso <> disse il bambino accarezzando il dorso del gatto nero grande e grosso. Poi continuò a preparare lo zaino. Prendeva una cassetta del gruppo Pur, uno dei suoi preferiti, la infilava dentro, esitava, la tirava fuori, e non sapeva se rimetterla nello zaino o se lasciarla sul comodino. Era difficile decidere cosa portarsi via per le vacanze e cosa lasciare a casa. Il gatto nero grande e grosso lo guardava attentamente, seduto sul davanzale della finestra, il suo posto preferito. <> gli offrì il bambino prendendo la scatola. Gliene servì una porzione più che generosa, e il gatto nero grande e grosso iniziò a masticare lentamente, per gustarli bene. Che biscottini deliziosi, croccanti, al sapore di pesce! <> pensò il gatto con la bocca piena. <> si corresse mentre ingoiava. Zorba, il gatto nero grande e grosso, aveva degli ottimi motivi per pensarla così di quel bambino che spendeva i soldi della sua paghetta in quei deliziosi croccantini, che teneva sempre pulita la lettiera dove lui faceva i suoi bisogni, e che lo istruiva parlandogli di cose importanti. Avevano l'abitudine di passare molte ore assieme sul balcone osservando l'incessante traffico del porto di Amburgo, e lì, per esempio, il bambino gli diceva: <>. Come tutti i ragazzi di porto, anche quel bambino sognava viaggi in paesi lontani. Il gatto nero grande e grosso lo ascoltava facendo le fusa, e si vedeva anche lui a bordo di un veliero che solcava i mari. Sì. Il gatto nero grande e grosso nutriva molto affetto per il bambino, e non aveva dimenticato che gli doveva la vita. Zorba aveva contratto quel debito il giorno stesso in cui aveva abbandonato la cesta che faceva da casa a lui e ai suoi sette fratelli. Il latte di sua madre era tiepido e dolce, ma Zorba voleva assaggiare una di quelle teste di pesce che la gente del mercato dava ai gatti adulti. Non che pensasse di mangiarla tutta lui, no, la sua idea era di trascinarla fino alla cesta e là miagolare ai fratelli: <>. Pochi giorni prima che abbandonasse la cesta, sua madre gli aveva miagolato molto seriamente: <>. Ma Zorba, che all'epoca sembrava una pallina di carbone, abbandonò la cesta. Voleva assaggiare una di quelle teste di pesce. E anche vedere un po' di mondo. Non arrivò molto lontano. Trotterellando verso una bancarella di pesce con la coda ben alta e vibrante, passò davanti a un grosso uccello che dormicchiava con la testa piegata di lato. Era un uccello molto brutto e con un gozzo enorme sotto il becco. All'improvviso il piccolo gatto nero sentì che il suolo si allontanava da sotto le sue zampe, e senza capire cosa stava succedendo si ritrovò a far capriole in aria. Allora ricordò uno dei primi insegnamenti di sua madre e cercò un posto dove cadere in piedi, ma sotto lo aspettava l'uccello con il becco aperto. Piombò nel gozzo, che era molto buio e puzzava in modo orribile. <> miagolò disperato. <> gracchiò l'uccello senza aprire il becco. <> <> miagolò lui minaccioso. <> domandò l'uccello sempre a becco chiuso. <> gridò il gattino. <>. <> miagolò il piccolo Zorba cercando un punto in quel gozzo buio in cui conficcare gli artigli. <> gracchiò preoccupato l'uccello. <> <> meditò l'uccello, ma non gracchiò altro perché si agitò, sbatté le ali, e finalmente aprì il becco. Il piccolo Zorba, completamente fradicio di bava, si affacciò e saltò a terra. Allora vide il bambino, che teneva l'uccello per il collo e lo scuoteva. <> disse il bambino e lo prese in braccio. Così era iniziata quell'amicizia che durava ormai da cinque anni. Il bacio del bambino sulla testa lo allontanò dai ricordi. Vide che si metteva lo zaino, andava alla porta, e da là lo salutava ancora una volta. <>. <> lo salutarono i due fratelli minori del bambino. Il gatto nero grande e grosso sentì chiudere la porta a doppia mandata e corse a una finestra che si affacciava sulla strada per vedere la sua famiglia adottiva prima che salisse in auto. Il gatto nero grande e grosso sospirò compiaciuto. Per quattro settimane sarebbe stato signore e padrone dell'appartamento. Un amico di famiglia sarebbe venuto ogni giorno ad aprirgli un barattolo di cibo e a pulirgli la lettiera. Quattro settimane per oziare sulle poltrone e sui letti, o per uscire sul balcone, arrampicarsi sul tetto, saltare sui rami del vecchio ippocastano e scendere dal tronco nel cortile interno, dove aveva l'abitudine di ritrovarsi con gli altri gatti del quartiere. Non si sarebbe annoiato. Assolutamente. Così pensava Zorba, il gatto nero grande e grosso, perché non sapeva cosa gli sarebbe caduto fra capo e collo nelle ore seguenti. CAPITOLO TERZO: Amburgo in vista Kengah aprì le ali per spiccare il volo, ma l'onda densa fu più rapida e la sommerse completamente. Quando tornò a galla la luce del giorno era scomparsa, e dopo aver scosso il capo con energia capì che la maledizione dei mari le stava oscurando la vista. Kengah, la gabbiana dalle piume d'argento, tuffò varie volte la testa sott'acqua, sinché qualche filo di luce non raggiunse le sue pupille coperte di petrolio. La macchia vischiosa, la peste nera, le incollava le ali al corpo, così iniziò a muovere le zampe sperando di potersi allontanare rapidamente a nuoto dal centro dell'onda scura. Con tutti i muscoli tormentati dai crampi per lo sforzo, raggiunse finalmente il limite della macchia di petrolio e sentì il fresco contatto dell'acqua pulita. Quando, a forza di sbattere le palpebre e di tuffare la testa, riuscì a pulirsi gli occhi, guardò il cielo, ma vide solo alcune nuvole che si frapponevano tra il mare e l'immensità della volta celeste. I suoi compagni dello stormo del Faro della Sabbia Rossa dovevano volare ormai lontano, molto lontano. Era la legge. Anche lei aveva visto altri gabbiani sorpresi dalle mortifere onde nere, e nonostante il desiderio di scendere a offrire loro un aiuto tanto inutile quanto impossibile, si era allontanata, rispettando la legge che proibisce di assistere alla morte dei compagni. Con le ali immobilizzate, incollate ai corpi, i gabbiani erano facile preda dei grandi pesci, o morivano lentamente, asfissiati dal petrolio che penetrando fra le piume tappava loro tutti i pori. Era questa la morte che la aspettava, e desiderò scomparire presto tra le fauci di un grosso pesce. La macchia nera. La peste nera. Mentre aspettava la fine fatale, Kengah maledisse gli umani. <> stridette debolmente. Spesso, dall'alto, aveva visto come grandi petroliere approfittavano delle giornate di nebbia costiera per andare al largo a lavare le loro cisterne. Rovesciavano in mare migliaia di litri di una sostanza densa e pestilenziale che veniva trascinata via dalle onde. Ma a volte aveva visto anche delle piccole imbarcazioni che si avvicinavano alle petroliere e impedivano loro di svuotare le cisterne. Disgraziatamente quelle barche ornate dai colori dell'arcobaleno non sempre arrivavano in tempo per impedire l'avvelenamento dei mari. Kengah passò le ore più lunghe della sua vita posata sull'acqua, chiedendosi atterrita se per caso non la aspettava la più terribile delle morti: peggio che essere divorata da un pesce, peggio che patire l'angoscia dell'asfissia, era morire di fame. Disperata all'idea di una fine lenta si agitò e con stupore si accorse che il petrolio non le aveva incollato le ali al corpo. Aveva le piume impregnate di quella sostanza densa, ma almeno poteva spiegarle. <> stridette Kengah. Le tornò alla mente una storia, raccontatale da un vecchio gabbiano delle isole Frisoni, che parlava di un umano chiamato Icaro che, per realizzare il sogno del volo, si era costruito delle ali con piume di aquila ed era volato in alto, vicinissimo al sole, tanto che il calore aveva sciolto la cera con cui aveva incollato le piume ed era precipitato. Kengah batté energicamente le ali, ritirò le zampe, si innalzò di un paio di palmi, e ricadde sulle onde. Prima di tentare ancora si immerse e agitò le ali sott'acqua. Questa volta salì di un metro prima di cadere. Quel dannato petrolio le incollava le piume della coda, di modo che non riusciva a governare il decollo. Si tuffò ancora una volta e con il becco cercò di tirar via lo strato di sporco che le copriva la coda. Sopportò il dolore delle piume strappate, e finalmente vide la sua parte posteriore un po' meno lurida. Al quinto tentativo Kengah riuscì a spiccare il volo. Batteva le ali con disperazione perché il peso della cappa di petrolio non le permetteva di planare. Un solo attimo di riposo e sarebbe precipitata. Per fortuna era una gabbiana giovane e i suoi muscoli rispondevano adeguatamente. Guadagnò quota. Senza mai smettere di battere le ali guardò giù e vide la costa profilarsi appena come una linea bianca. Vide anche alcune barche che si muovevano come minuscoli oggetti su un panno blu. Volò ancora più alto, ma il sole non ebbe gli effetti sperati. Forse i suoi raggi emanavano un calore troppo debole, o la cappa di petrolio era troppo spessa. Kengah capì che le forze non le sarebbero durate ancora a lungo e, cercando un posto per scendere, volò verso l'entroterra, seguendo la serpeggiante linea verde dell'Elba. Il movimento delle sue ali si fece sempre più lento e pesante. Perdeva vigore. Adesso non volava più così in alto. In un disperato tentativo di riprendere quota chiuse gli occhi e batté le ali con le ultime energie. Non sapeva per quanto tempo era rimasta a occhi chiusi, ma quando li riaprì stava sorvolando un'alta torre ornata da una banderuola d'oro. <> stridette riconoscendo il campanile della chiesa di Amburgo. Le sue ali si rifiutarono di continuare a volare. CAPITOLO QUARTO: La fine di un volo Il gatto nero grande e grosso prendeva il sole sul balcone, facendo le fusa e meditando su come si stava bene lì, a pancia all'aria sotto quei raggi tiepidi, con tutte e quattro le zampe ben ritratte e la coda distesa. Nel preciso istante in cui si girava pigramente per farsi scaldare la schiena dal sole, sentì il sibilo provocato da un oggetto volante che non seppe identificare e che si avvicinava a grande velocità. Vigile, balzò in piedi sulle zampe e fece appena in tempo a scansarsi per schivare la gabbiana che cadde sul balcone. Era un uccello molto sporco. Aveva tutto il corpo impregnato di una sostanza scura e puzzolente. Zorba si avvicinò e la gabbiana tentò di alzarsi trascinando le ali. <> miagolò. <> ammise la gabbiana. <> miagolò Zorba. <> stridette accorata la gabbiana. <> miagolò Zorba. <> stridette la gabbiana con voce quasi impercettibile e chiuse gli occhi. <> pregò Zorba avvicinandosi alla gabbiana esausta. Vincendo la ripugnanza, il gatto le leccò la testa. La sostanza di cui era coperta aveva anche un sapore orribile. Mentre le passava la lingua sul collo notò che la respirazione dell'uccello si faceva sempre più debole. <> miagolò Zorba prima di arrampicarsi sul tetto. Si stava allontanando in direzione dell'ippocastano quando sentì che la gabbiana lo chiamava. <> suggerì, leggermente sollevato. <> stridette agitando goffamente le zampe nel vano tentativo di alzarsi in piedi. Zorba pensò che la povera gabbiana stava delirando e che con un uccello in uno stato così pietoso si poteva solo essere generosi. <> miagolò impietosito. <> stridette aprendo gli occhi. <> ripeté Zorba. <> stridette sollevando il capo. <>. <> stridette guardando fisso negli occhi il gatto. Allora Zorba si rese conto che quella sfortunata gabbiana non solo delirava, ma era completamente pazza. <> miagolò Zorba balzando direttamente sul tetto. Kengah guardò il cielo, ringraziò tutti i buoni venti che l'avevano accompagnata e proprio mentre esalava l'ultimo respiro, un ovetto bianco con delle macchioline azzurre rotolò accanto al suo corpo impregnato di petrolio. CAPITOLO QUINTO: In cerca di consiglio Zorba scese rapidamente dal tronco dell'ippocastano, attraversò il cortile interno a tutta velocità evitando di essere visto da alcuni cani randagi, uscì in strada, si assicurò che non arrivassero auto, attraversò e corse in direzione del Cuneo, un ristorante italiano del porto. Due gatti che frugavano in un bidone della spazzatura lo videro passare. <> miagolò uno di loro. <> chiese l'altro. Benché fosse molto preoccupato per la gabbiana, Zorba non era disposto a sopportare le provocazioni di quei due poco di buono. Per cui frenò, rizzò i peli sulla schiena e saltò sopra il bidone della spazzatura. Lentamente tese una delle zampe davanti, tirò fuori un artiglio lungo come un cerino, e lo avvicinò al muso di uno dei provocatori. <> miagolò con tutta calma. Il gatto con l'artiglio davanti agli occhi ingoiò la saliva prima di rispondere. <> miagolò senza smettere di fissare l'artiglio. <> miagolò Zorba all'altro gatto. <>. Sistemata la faccenda, Zorba riprese la sua strada fino ad arrivare davanti alla porta del ristorante. Dentro, i camerieri preparavano i tavoli per i clienti di mezzogiorno. Zorba miagolò tre volte e aspettò seduto sulla soglia. Dopo pochi minuti arrivò Segretario, un gatto romano molto magro e con solo due baffi, uno a destra e uno a sinistra del naso. <> miagolò come saluto. Stava per aggiungere qualcos'altro, ma Zorba lo interruppe. <>. <> miagolò Segretario e rientrò nel ristorante. Colonnello era un gatto dall'età indefinibile. Alcuni dicevano che aveva tanti anni quanti il ristorante che gli dava alloggio, mentre altri sostenevano che era ancora più vecchio. Ma la sua età non importava, perché Colonnello possedeva uno strano talento per dar consigli a chi si trovava in difficoltà, e per quanto non risolvesse mai alcun problema, i suoi consigli per lo meno davano un po' di conforto. Grazie alla sua vecchiaia e alla sua grande dote, Colonnello era una vera autorità fra i gatti del porto. Segretario tornò indietro di corsa. <> miagolò. Zorba lo seguì. Passando sotto i tavoli e le sedie della sala da pranzo arrivarono alla porta della cantina. Scesero a balzi i gradini di una scala stretta, e di sotto trovarono Colonnello, con la coda ben ritta, che controllava i tappi di alcune bottiglie di champagne. <> lo salutò Colonnello, che aveva l'abitudine di miagolare parole in napoletano. <> miagolò Zorba. <> ordinò Colonnello. <> si lamentò Segretario. Zorba ringraziò spiegando che non aveva fame e riferì rapidamente il movimentato arrivo della gabbiana, le sue penose condizioni, e le promesse che si era visto costretto a farle. Il vecchio gatto ascoltò in silenzio, poi meditò accarezzandosi i lunghi baffi, e alla fine miagolò risoluto: <>. <> miagolò Zorba. <> osservò Segretario. <> reclamò Colonnello. <> miagolò Zorba. <> dichiarò solennemente Colonnello. I tre gatti uscirono dalla cantina e, attraversando il labirinto di cortili interni delle case lungo il porto, corsero verso il tempio di Diderot. CAPITOLO SESTO: Un posto curioso Diderot viveva in un posto abbastanza difficile da descrivere, perché a prima vista poteva sembrare un disordinato negozio di oggetti strani, un museo di bizzarrie, un deposito di macchine inservibili, la biblioteca più caotica del mondo, o il laboratorio di qualche dotto inventore di aggeggi impossibili da definire. Ma non era niente di tutto questo, o meglio, era molto di più. Il posto si chiamava `Harry. Bazar del porto', e il proprietario, Harry, era un vecchio lupo di mare che nei suoi cinquant'anni di navigazione per i sette mari si era dedicato a raccogliere oggetti di ogni tipo nelle centinaia di porti che aveva visitato. Quando la vecchiaia gli era entrata nelle ossa, Harry aveva deciso di cambiare la sua vita di navigante con quella di marinaio a terra, e aveva aperto il bazar con tutti gli oggetti raccolti. Aveva affittato una casa a tre piani nella strada lungo il porto, ma gli mancava lo spazio necessario per esporre le sue insolite collezioni, perciò aveva preso la casa accanto, a due piani, ma anche così lo spazio non era bastato. Alla fine, dopo aver affittato una terza casa, era riuscito a sistemare tutti i suoi oggetti disponendoli — questo va detto — secondo il suo particolarissimo concetto dell'ordine. Nelle tre case, collegate attraverso corridoi e scale strette, c'erano quasi un milione di oggetti, fra i quali possiamo ricordare: 7200 cappelli con tesa flessibile per non essere portati via dal vento; 160 ruote del timone di barche col mal di mare a forza di girare intorno al mondo; 245 fanali di imbarcazioni che avevano sfidato le più fitte nebbie; 12 telegrafi di macchina sbattuti da iracondi capitani; 256 bussole che non avevano mai perso il nord; 6 elefanti di legno a grandezza naturale; 2 giraffe imbalsamate nell'atto di contemplare la savana; 1 orso polare imbalsamato nel cui ventre giaceva la mano destra, anche essa imbalsamata, di un esploratore norvegese; 700 ventilatori che con le loro pale ricordavano le fresche brezze dei tramonti tropicali; 1200 amache di iuta che garantivano i sogni migliori; 1300 marionette di Sumatra che avevano interpretato solo storie d'amore; 123 proiettori per diapositive che mostravano paesaggi nei quali si poteva essere sempre felici; 54.000 romanzi in quarantasette lingue; 2 riproduzioni della torre Eiffel, una costruita con mezzo milione di spilli da sarto e l'altra con trecentomila stuzzicadenti; 3 cannoni di navi corsare inglesi; 17 ancore trovate nei fondali del mare del Nord; 2000 quadri di tramonti; 17 macchine da scrivere appartenute a scrittori famosi; 128 mutande lunghe di flanella per uomini di oltre due metri d'altezza; 7 frac per nani; 500 pipe in schiuma di mare; 1 astrolabio ostinatamente fisso sulla posizione della Croce del Sud; 7 buccine giganti dalle quali provenivano echi lontani di mitici naufragi; 12 chilometri di seta rossa; 2 boccaporti di sottomarini; e molte altre cose che sarebbe troppo lungo elencare. Per visitare il bazar di Harry bisognava pagare il biglietto e, una volta dentro, era necessario un gran senso dell'orientamento per non perdersi nel labirinto di stanze senza finestre, di stretti corridoi e di scale anguste. Harry aveva due mascotte: la prima era uno scimpanzè di nome Mattia che si occupava dei biglietti e della sorveglianza, giocava molto male a dama con il vecchio marinaio, beveva birra e cercava sempre di dare un resto inferiore. L'altra mascotte era Diderot, un gatto grigio, piccolo e magro, che dedicava la maggior parte del suo tempo allo studio delle migliaia di libri là raccolti. Colonnello, Segretario e Zorba entrarono nel bazar con le code ben ritte. Si rammaricarono di non vedere Harry dietro il bancone, perché il vecchio marinaio aveva sempre delle parole affettuose e qualche salsiccia per loro. <> strillò Mattia. <> protestò Segretario. <> strillò con energia lo scimpanzè. <> miagolò Segretario. <<È esattamente ciò che stavo per dire. Ancora una volta mi toglie i miagolii di bocca>> si lamentò Colonnello. <> intimò Mattia. Zorba saltò dall'altra parte della biglietteria e guardò fisso negli occhi lo scimpanzè. Sostenne lo sguardo finché Mattia non sbatté le palpebre e iniziò a piagnucolare. <> strillò timidamente. Zorba, senza smettere di fissarlo negli occhi, tirò fuori un artiglio dalla zampa anteriore destra. <> miagolò tranquillamente. <> cedette lo scimpanzè fingendosi calmo. I tre gatti, con le code orgogliosamente erette, scomparvero nel labirinto di corridoi. CAPITOLO SETTIMO: Un gatto enciclopedico <> miagolò Diderot quando li vide arrivare. Passeggiava nervoso davanti a un enorme libro aperto sul pavimento e a tratti si portava le zampe anteriori alla testa. Sembrava davvero sconsolato. <> domandò Segretario. <<È esattamente quello che stavo per domandare. A quanto pare togliermi i miagolii di bocca è un'ossessione>> osservò Colonnello. <> suggerì Zorba. <> insisté Diderot tirandosi i baffi. <> miagolò Colonnello. <> precisò Segretario. <> esclamò Colonnello. <> miagolò Zorba, e subito gli narrò la triste storia della gabbiana. Diderot ascoltò con attenzione. Assentiva con cenni del capo e quando la coda, attraverso nervosi movimenti, esprimeva con troppa eloquenza i sentimenti che risvegliavano in lui i miagolii di Zorba, cercava di schiacciarla a terra con le zampe posteriori. <<… e così l'ho lasciata, molto malridotta, poco fa…>> concluse Zorba. <> esclamò esultante. <> miagolarono i tre gatti. <> spiegò deciso Diderot. <> lo esortò Colonnello. <> sussurrò lentamente Segretario. <> brontolò Colonnello. Diderot si arrampicò su un enorme mobile sul quale erano allineati grossi volumi d'aspetto importante, e dopo aver cercato sui dorsi le lettere G e P, fece cadere i tomi. Poi scese giù e, con un artiglio molto corto e logoro a forza di esaminare libri, cominciò a sfogliare le pagine. I tre gatti mantennero un rispettoso silenzio mentre lo sentivano bisbigliare miagolii quasi impercettibili. <> esclamò indignato Diderot. <> lo interruppe Segretario. <> borbottò Colonnello. <> si giustificò Diderot, e continuò a guardare le parole finché non trovò quella che cercava. Ma ciò che l'enciclopedia diceva dei gabbiani non fu di grande aiuto. Scoprirono solo che la gabbiana oggetto delle loro preoccupazioni apparteneva alla specie argentata, così detta per il colore argenteo delle sue piume. E anche quello che trovarono sul petrolio non li portò a scoprire come aiutare la gabbiana, ma solo a sorbirsi una lunga dissertazione di Diderot, che non la finiva più di parlare di una certa guerra del petrolio scoppiata negli anni Settanta. <> miagolò Zorba. <<È terribile! Terribile! Per la prima volta l'enciclopedia mi ha deluso>> esclamò sconsolato Diderot. <> chiese Colonnello. <> annunciò Diderot euforico arrampicandosi di nuovo sul mobile dei libri. <> spiegò Colonnello al silenzioso Segretario. Nella pagina dedicata alla parola `smacchiatore' trovarono, oltre a come togliere le macchie di marmellata, inchiostro di china, sangue e sciroppo di lamponi, la soluzione per eliminare le macchie di petrolio. << `Si pulisce la superficie interessata con un panno bagnato di benzina'. Ecco qua! >> miagolò Diderot. <> brontolò Zorba con evidente malumore. <> miagolò Colonnello. <> si scusò Segretario. <<È molto semplice: lei si bagnerà adeguatamente la coda di benzina e poi andremo a occuparci di quella povera gabbiana>> spiegò Colonnello guardando altrove. <> protestò Segretario. <> sussurrò Colonnello. <> miagolò costernato Segretario. Diderot decise di accompagnarli, e tutti e quattro i gatti corsero all'uscita del bazar di Harry. Quando li vide passare, lo scimpanzè, che aveva appena finito di bere una birra, dedicò loro un sonoro rutto. CAPITOLO OTTAVO: Zorba inizia a tener fede alle sue promesse I quattro gatti balzarono dal tetto sul balcone e capirono immediatamente di essere arrivati troppo tardi. Colonnello, Diderot e Zorba osservarono con rispetto il corpo senza vita della gabbiana, mentre Segretario agitava la coda al vento per farle perdere l'odore di benzina. <> spiegò Colonnello. Vincendo la ripugnanza che provocava in loro quell'essere impregnato di petrolio, le unirono le ali al corpo e, mentre la muovevano, scoprirono l'uovo bianco a macchioline azzurre. <> esclamò Zorba. <> lo avvertì Colonnello. <> si chiese Zorba sempre più angosciato. <> propose Segretario. <> assicurò Diderot. <> dichiarò solennemente Colonnello. <> miagolò disperato Zorba. Allora tutti i gatti guardarono Diderot. Forse nella sua famosa en-ci-clo-pe-dia c'era qualcosa al riguardo. <> spiegò Diderot in tono pedante e didattico. <> consigliò Segretario. <<È esattamente ciò che stavo per suggerire. Zorba, tu rimani con l'uovo e noi accompagneremo Diderot a vedere cosa dice la sua enpilo… encimope… insomma, sai a cosa mi riferisco. Torneremo stasera con le novità e daremo sepoltura a questa povera gabbiana>> stabilì Colonnello prima di saltare sul tetto. Diderot e Segretario lo seguirono. Zorba rimase sul balcone, accanto all'uovo e alla gabbiana morta. Con grande attenzione si sdraiò e si avvicinò l'uovo alla pancia. Si sentiva ridicolo. Pensava a quanto lo avrebbero preso in giro i due gatti rissosi che aveva affrontato al mattino, se per caso l'avessero visto. Ma una promessa è una promessa, e così, al tepore dei raggi del sole, si addormentò con l'uovo bianco a macchioline azzurre ben stretto contro il suo ventre nero. CAPITOLO NONO: Una notte triste Alla luce della luna Segretario, Diderot, Colonnello e Zorba scavarono una buca ai piedi dell'ippocastano. Poco prima, badando che nessun umano li vedesse, avevano gettato la gabbiana morta dal balcone nel cortile interno. La depositarono in fretta nella fossa e la coprirono di terra. Poi Colonnello miagolò in tono grave. <> <> si sentì che sussurrava Diderot. <<È esattamente ciò che il signor Colonnello stava per dire. Non gli tolga i miagolii di bocca>> consigliò Segretario. <<…promesse difficili da mantenere>> proseguì impassibile Colonnello, <>. Ai piedi del vecchio ippocastano i quattro gatti iniziarono a miagolare una triste litania, e ai loro miagolii si aggiunsero ben presto quelli degli altri gatti delle vicinanze, e poi quelli dei gatti dell'altra riva del fiume, e ai miagolii dei gatti fecero coro gli ululati dei cani, lo straziante cinguettio dei canarini in gabbia, il garrito delle rondini nei loro nidi, il triste gracidio delle rane, e perfino le grida stonate dello scimpanzè Mattia. Le luci di tutte le case di Amburgo si accesero, e quella notte tutti gli abitanti si chiesero le ragioni della strana tristezza che improvvisamente si era impadronita degli animali. PARTE SECONDA CAPITOLO PRIMO: Il gatto cova Per molti giorni il gatto nero grande e grosso rimase sdraiato accanto all'uovo, proteggendolo e riavvicinandolo con tutta la delicatezza delle sue zampe pelose ogni volta che con un movimento involontario del corpo lo allontanava di un paio di centimetri. Furono giorni lunghi e pieni di disagi, che ogni tanto gli parevano completamente inutili perché gli sembrava di prendersi cura di un oggetto senza vita, una specie di fragile sasso, anche se bianco a macchioline azzurre. Una volta, tormentato dai crampi per la mancanza di movimento, visto che seguendo gli ordini di Colonnello abbandonava l'uovo solo per mangiare e per far visita alla cassetta dei bisogni, provò la tentazione di controllare se dentro quella capsula di calcio cresceva effettivamente un piccolo gabbiano. Allora avvicinò un orecchio al guscio, poi l'altro, ma non riuscì a sentire niente. Non ebbe fortuna nemmeno quando tentò di guardare all'interno dell'uovo mettendolo controluce. Il guscio bianco a macchioline azzurre era spesso e non lasciava trasparire assolutamente nulla. Ogni sera gli facevano visita Colonnello, Segretario e Diderot, che esaminavano l'uovo per scoprire se si realizzavano quelli che Colonnello chiamava gli `attesi progressi', ma dopo aver visto che era ancora uguale al primo giorno, cambiavano argomento. Diderot non mancava di deplorare il fatto che sulla sua enciclopedia non venisse riportata la durata esatta dell'incubazione: il dato più preciso che era riuscito a trovare sui suoi libroni diceva che questa poteva durare dai diciassette ai trenta giorni, a seconda delle caratteristiche della specie a cui apparteneva la gabbiana madre. Covare non era stato facile per il gatto nero grande e grosso. Non poteva dimenticare la mattina in cui l'amico di famiglia incaricato di prendersi cura di lui aveva considerato che nell'appartamento si stava accumulando troppo sporco e aveva deciso di passare l'aspirapolvere. Ogni mattina, durante le sue visite, Zorba aveva nascosto l'uovo tra i vasi del balcone per poter così dedicare qualche minuto al brav'uomo che gli cambiava la lettiera e gli apriva le lattine di cibo. Gli miagolava con gratitudine, si strusciava contro le sue gambe, e l'amico se ne andava ripetendo che era un gatto molto simpatico. Ma quella mattina, dopo avergli visto passare l'aspirapolvere in salotto e in camera, gli sentì dire: <>. Quando udì il fracasso di una fruttiera che andava in mille pezzi,l'amico corse sulla soglia della cucina e gridò: <>. Che insulto immeritato. Zorba uscì immediatamente dalla cucina fingendo una gran vergogna con la coda tra le zampe, e trotterellò sul balcone. Non fu facile far rotolare l'uovo fin sotto un letto, ma ci riuscì, e là attese che l'amico finisse le pulizie e se ne andasse. La sera del ventesimo giorno Zorba stava dormicchiando, e perciò non si accorse che l'uovo si muoveva, lentamente, ma si muoveva, come se volesse mettersi a rotolare per l'appartamento. Lo svegliò un solletichio alla pancia. Aprì gli occhi e non poté evitare un sussulto quando si accorse che, da una crepa nel guscio, appariva e scompariva una puntina gialla. Zorba prese l'uovo fra le zampe anteriori e così vide che il pulcino beccava fino ad aprirsi un varco attraverso il quale fece capolino la sua minuscola testa umida e bianca. <> stridette il piccolo gabbiano. Zorba non seppe cosa rispondere. Sapeva che la sua pelliccia era nera, ma pensò che l'emozione e il rossore dovevano averlo trasformato in un gatto viola. CAPITOLO SECONDO: Non è facile essere mamma <> tornò a stridere il piccolo ormai fuori dall'uovo. Era bianco come il latte, e delle piume sottili, rade e corte gli coprivano alla meglio il corpo. Cercò di fare qualche passo, ma crollò accanto alla pancia di Zorba. <> stridette beccandogli la pelliccia. Cosa poteva dargli da mangiare? Diderot non aveva miagolato nulla su questo argomento. Sapeva che i gabbiani si nutrono di pesce, ma dove lo trovava lui adesso un pezzo di pesce? Zorba corse in cucina e tornò indietro facendo rotolare una mela. Il pulcino si rialzò sulle zampe traballanti e si precipitò sulla frutta. Il piccolo becco giallo toccò la buccia, si piegò come fosse stato di gomma e, quando poi si raddrizzò di nuovo, catapultò il pulcino all'indietro facendolo cadere. <> stridette arrabbiato. <> Zorba tentò di fargli beccare una patata qualche croccantino — con la famiglia in vacanza non c'era molto da scegliere! — , rimpiangendo di aver vuotato la sua ciotola di cibo prima della nascita del piccolo. Fu tutto inutile. Il piccolo becco era molto morbido e si piegava al contatto con la patata. Allora, in preda alla disperazione, ricordò che il pulcino era un uccello e che gli uccelli mangiano gli insetti. Uscì sul balcone e aspettò pazientemente che una mosca arrivasse a tiro delle sue grinfie. Non tardò a catturarne una e la consegnò all'affamato. Il piccolo prese la mosca nel becco, strinse, e chiudendo gli occhi la ingoiò. <> stridette con entusiasmo. Zorba saltava da una parte all'altra del balcone. Aveva preso cinque mosche e un ragno, quando dal tetto della casa di fronte gli arrivarono le voci note dei due gatti rissosi che aveva affrontato ormai vari giorni prima. <> miagolò uno. <> miagolò I'altro. I due poco di buono ridevano, al sicuro dall'altra parte del cortile. Zorba avrebbe fatto assaggiare loro molto volentieri il filo dei suoi artigli, ma erano lontani, e così tornò dall'affamato con il suo bottino di insetti. Il pulcino divorò tutte e cinque le mosche, ma si rifiutò di assaggiare il ragno. Soddisfatto, fece un ruttino, e si rannicchiò stretto stretto al ventre di Zorba. <> stridette. <> miagolò Zorba. <> rispose chiudendo gli occhi. Quando arrivarono Colonnello, Segretario e Diderot, trovarono il piccolo addormentato accanto a Zorba. <> chiese Diderot. <> rispose Zorba. <<È quello che si chiede in questi casi. Non la prendere male. Si tratta davvero di un bellissimo pulcino>> miagolò Colonnello. <> esclamò Diderot portandosi le zampe anteriori alla bocca. <> domandò Colonnello. <> insisté Diderot. <> riconobbe Zorba. <> chiese Colonnello. <> si scusò Segretario. <> ordinò Colonnello. <> protestò Segretario. <> spiegò Colonnello. <> chiese Segretario prima di arrampicarsi sul tetto. <> stridette il piccolo indicando i gatti. <> riuscì a esclamare Diderot prima che lo sguardo di Zorba gli consigliasse di chiudere la bocca. <> dichiarò Colonnello. <> miagolò Zorba ironico. <> assicurò Diderot. <> li interruppe il piccolo. CAPITOLO TERZO: Il pericolo è in agguato Le complicazioni cominciarono il secondo giorno di vita del pulcino. Zorba dovette intervenire drasticamente per evitare che l'amico di famiglia lo scoprisse. Appena lo sentì aprire la porta, rovesciò un vaso da fiori vuoto sul piccolo e ci si sedette sopra. Per fortuna l'umano non uscì sul balcone, e dalla cucina non poteva sentire le strida di protesta. L'amico, come sempre, pulì la cassetta cambiò la lettiera, aprì una scatoletta di cibo e, prima di andarsene, si affacciò alla porta del balcone. <>. E se gli fosse venuto in mente di guardare sotto il vaso? Solo al pensiero sentì che se la faceva sotto e dovette correre alla cassetta. Lì, con la coda ben ritta, provò un gran sollievo e pensò alle parole dell'umano. `Pazzo di un gatto'. Lo aveva chiamato così. `Pazzo di un gatto'. Forse aveva ragione perché la cosa più pratica sarebbe stata lasciargli vedere il piccolo. L'amico allora avrebbe pensato che aveva intenzione di mangiarlo, e se lo sarebbe portato via per prendersene cura finché non fosse cresciuto. Ma lui lo aveva nascosto sotto un vaso. Era pazzo? No. Niente affatto. Zorba seguiva rigorosamente il codice d'onore dei gatti del porto. Aveva promesso all'agonizzante gabbiana che avrebbe insegnato a volare al pulcino, e lo avrebbe fatto. Non sapeva come, ma lo avrebbe fatto. Zorba stava ricoprendo con cura i suoi escrementi quando le strida allarmate del piccolo lo richiamarono sul balcone. Quello che vide gli fece gelare il sangue nelle vene. I due gatti poco di buono erano sdraiati davanti al pulcino, muovevano eccitati le code, e uno di loro lo teneva fermo con le grinfie sopra la coda. Per fortuna gli voltavano le spalle e non lo videro arrivare. Zorba tese tutti i muscoli del corpo. <> miagolò uno. <> strideva il pulcino. <> notò l'altro. Zorba saltò. Mentre era in aria sfoderò tutti e dieci gli artigli delle zampe anteriori e, quando atterrò in mezzo ai due furfanti, sbatté loro le teste per terra. Cercarono di rialzarsi, ma non ci riuscirono perché entrambi avevano un orecchio trapassato da un artiglio. <> stridette il piccolo. <> miagolò uno con la testa schiacciata per terra. <> assicurò l'altro. <> miagolò Zorba, tirandoli per le orecchie in modo che potessero vederlo. Quando lo riconobbero, ai due poco di buono si rizzarono i peli. <> assicurò il primo. <> affermò l'altro. <> spiegò Zorba. <<È quello che dico sempre al mio amico: bisogna avere dei figli gabbiani. Vero, amico?>> dichiarò il primo. Zorba decise di farla finita con quella farsa, ma quei due cretini si sarebbero portati via un ricordo delle sue grinfie. Con un movimento energico ritrasse le zampe anteriori e i suoi artigli lacerarono le orecchie dei due vigliacchi. Scapparono di corsa miagolando dal dolore. <> stridette il piccolo. Zorba capì che il balcone non era un posto sicuro, e non poteva farlo entrare nell'appartamento perché il pulcino avrebbe sporcato tutto e sarebbe stato scoperto dall'amico di famiglia. Doveva trovargli un posto sicuro. <> miagolò Zorba prima di prenderlo delicatamente fra i denti. CAPITOLO QUARTO: Il pericolo è sempre in agguato Riuniti nel bazar di Harry, i gatti decisero che il piccolo non poteva restare nell'appartamento di Zorba. Là correva troppi rischi, il maggiore dei quali non era tanto la minacciosa presenza dei due gatti poco di buono, quanto quella dell'amico di famiglia. <> sentenziò Colonnello. <> miagolò Diderot. <> aggiunse Segretario. Dopo una breve consultazione decisero che Zorba e il pulcino avrebbero vissuto nel bazar finché quest'ultimo non avesse imparato a volare. Zorba sarebbe andato nel suo appartamento tutte le mattine in modo che l'umano non si allarmasse, e poi sarebbe tornato indietro a prendersi cura del piccolo. <> suggerì Segretario. <<È esattamente ciò che stavo per proporre. Temo che questo vizio di togliermi i miagolii di bocca sia più forte di lei>> si lamentò Colonnello. <> miagolò Zorba. Non fece in tempo a chiudere la bocca che Diderot aveva già tirato giù dallo scaffale un tomo dell'enciclopedia. Il diciannovesimo volume, corrispondente alla lettera S, e sfogliava le pagine cercando la parola `sesso'. Disgraziatamente l'enciclopedia non diceva nulla su come distinguere il sesso di un piccolo gabbiano. <> si lamentò Zorba. <> ribatté offeso Diderot. <> dichiarò Segretario. <<È esattamente quello che stavo per miagolare. Le proibisco di continuare a togliermi i miagolii di bocca!>> brontolò Colonnello. Mentre i gatti miagolavano, il pulcino faceva una passeggiata tra dozzine di uccelli imbalsamati. C'erano merli, pappagalli, tucani, pavoni, aquile, falchi, che lui guardava impaurito. All'improvviso un animale con gli occhi rossi, che non era affatto imbalsamato, gli sbarrò la strada. <> stridette disperato. Il primo ad arrivare fu Zorba, e appena in tempo, perché in quel preciso istante un topo di fogna stava allungando le zampe anteriori verso il collo del pulcino. Quando vide Zorba, il ratto fuggì dentro una fessura del muro. <> stridette il piccolo attaccandosi a Zorba. <> spiegò Zorba. <> consigliò Colonnello. Zorba si avvicinò alla fessura. Dentro era molto buio, ma riuscì a scorgere gli occhi rossi del ratto. <> miagolò Zorba deciso. <> si sentì rispondere dall'oscurità. <> insisté Zorba. Sentì che il topo si allontanava. I suoi arti gli graffiavano i tubi su cui correva. Dopo qualche minuto vide ricomparire i suoi occhi rossi nella penombra. <> squittì il ratto. Zorba scese nello scantinato. Cercò dietro il baule e vide che nel muro c'era un foro dal quale poteva passare. Scostò le ragnatele ed entrò nel mondo dei topi. Puzzava di umidità e di sudiciume. <> squittì un ratto che non riuscì a vedere. Obbedì. Man mano che si spingeva avanti strisciando sentiva che la pelliccia gli si riempiva di polvere e di sporco. Avanzò nell'oscurità finché non arrivò in un pozzetto illuminato a stento da un fioco fascio di luce del giorno. Zorba suppose di essere sotto la strada e che i raggi filtrassero dal tombino della fognatura. Il posto puzzava, ma era abbastanza alto da poter stare in piedi su tutte e quattro le zampe. In mezzo scorreva un rigagnolo di acque immonde. Poi scorse il capo dei topi, un grosso ratto dalla pelliccia scura, con il corpo pieno di cicatrici, che ammazzava il tempo passando e ripassando un artiglio sugli anelli della coda. <> squittì il capo dei topi. <> fecero coro dozzine di ratti di cui Zorba scorgeva solo gli occhi rossi. <> miagolò risolutamente. <> squittì il capo dei topi. <> fecero coro gli altri ratti. <> miagolò Zorba. <> accusò il ratto. <> ripeterono gli altri topi. <> lo avvertì tranquillamente Zorba. <> minacciò il topo. <> ripeterono gli altri ratti. Allora Zorba saltò sul capo dei topi. Gli atterrò sul dorso, imprigionandogli la testa con gli artigli. <> minacciò Zorba. <> accettò il topo. <> chiese Zorba. <> squittì il topo. <> spiegò Zorba lasciandogli la testa. Uscì dalla fogna camminando all'indietro senza perdere di vista né il capo dei topi né le dozzine di occhi rossi che lo fissavano con odio. CAPITOLO QUINTO: Pulcino o pulcina? Passarono tre giorni prima che potessero vedere Sopravento, che era un gatto di mare, un autentico gatto di mare. Sopravento era la mascotte dello Hannes II, una potente draga incaricata di mantenere sempre pulito e libero da ostacoli il fondo dell'Elba. I marinai dello Hannes II erano affezionati a Sopravento, un gatto color miele con gli occhi azzurri, che consideravano un compagno come tutti gli altri durante il duro lavoro di dragaggio del fiume. Nei giorni di tempesta lo coprivano con un mantello di tela cerata gialla fatto su misura, simile agli impermeabili che usavano loro, e Sopravento passeggiava in coperta con l'espressione accigliata dei marinai che sfidano il maltempo. Lo Hannes II aveva pulito anche i porti di Rotterdam, di Anversa e di Copenaghen, e Sopravento miagolava sempre storie divertenti su quei viaggi. Sì. Era un autentico gatto di mare. <> miagolò Sopravento entrando nel bazar. Lo scimpanzè sbatté le palpebre perplesso vedendo che il gatto avanzava ondeggiando da sinistra a destra a ogni passo, e che ignorava l'importanza della sua carica di bigliettaio del bazar. <> strillò Mattia. <> ordinò Sopravento e continuò a camminare senza attendere la risposta dello scimpanzè. Quando arrivò nella stanza dei libri, salutò dalla porta i gatti lì riuniti. <> miagolò Sopravento. <> lo salutò Colonnello. Rapidamente gli miagolarono la storia della gabbiana e delle promesse di Zorba, promesse che, ripeterono, impegnavano anche tutti loro. Sopravento ascoltò scuotendo la testa con aria afflitta. <> spiegò stizzito Sopravento. <> aggiunse indignato Diderot. <> chiese Sopravento. <> rispose Colonnello. Lo accompagnarono dal pulcino che dormiva soddisfatto dopo essersi pappato un calamaro portatogli da Segretario, a cui Colonnello aveva dato ordine di occuparsi della sua alimentazione. Sopravento allungò una delle zampe davanti, gli esaminò la testa, e poi sollevò le piume che iniziavano a crescergli sulla coda. Il pulcino cercò Zorba con occhi spaventati. <> esclamò divertito il gatto di mare. <<È una bella pulcina che un giorno deporrà tante uova quanti peli ho sulla coda!>> Zorba leccò la testa della piccola gabbiana. Rimpianse di non aver chiesto alla madre come si chiamava, perché se la figlia era destinata a proseguire il suo volo interrotto dalla disgrazia, sarebbe stato bello che portasse lo stesso nome. <> miagolò Colonnello, <>. <> approvò contento Sopravento. <>. <> affermò Diderot. Tutti furono d'accordo sul nome proposto da Colonnello. Così i cinque gatti formarono un cerchio intorno alla piccola gabbiana, si alzarono in piedi sulle zampe posteriori e, allungando quelle davanti fino a coprirla con un tetto d'artigli, miagolarono la rituale formula di battesimo dei gatti del porto. <> <> esclamò felice Sopravento. CAPITOLO SESTO: Fortunata, davvero fortunata Fortunata crebbe in fretta, circondata dall'affetto dei gatti. Dopo un mese che si era trasferita nel bazar di Harry, era una giovane e snella gabbiana dalle setose piume color argento. Quando qualche raro turista visitava il bazar, lei seguiva le istruzioni di Colonnello e se ne stava buona buona fra gli uccelli imbalsamati fingendo di essere una di loro. Ma la sera, quando il bazar chiudeva e il vecchio lupo di mare si ritirava, vagava per tutte le stanze con la sua ondeggiante andatura di uccello marino, stupita dalle migliaia di oggetti che vedeva, mentre Diderot sfogliava libri su libri cercando un metodo con cui Zorba potesse insegnarle a volare. <> sussurrava Diderot con il naso infilato fra le pagine. <> strideva Fortunata con le ali ben strette al corpo. <> rispondeva Diderot. <>. <> replicava Fortunata. <>. Una sera si avvicinò al bancone all'ingresso del bazar ed ebbe uno sgradevole incontro con lo scimpanzè. <> strillò Mattia. <> domandò timidamente Fortunata. <> ripeté sicurissimo lo scimpanzè. <> ribatté Fortunata cercando la simpatia della scimmia. <>. <> strillò lo scimpanzè. Quella sera i gatti si stupirono che la gabbianella non venisse a mangiare il suo piatto preferito: i calamari che Segretario trafugava nella cucina del ristorante. Molto preoccupati la cercarono, e fu Zorba a trovarla, triste e avvilita, fra gli animali imbalsamati. <> spiegò Zorba. La gabbianella non aprì becco. <> insisté preoccupato Zorba. <> <> domandò lei senza guardarlo. <> rispose Zorba. <> stridette con i lucciconi agli occhi. <> miagolò deciso Zorba. Lì lì per scoppiare a piangere, Fortunata gli riferì tutto quello che Mattia le aveva strillato. Zorba le leccò le lacrime e all'improvviso si sentì miagolare come non aveva mai fatto prima. <>. <> stridette Fortunata alzandosi. <> miagolò Zorba leccandole la testa. <>. La gabbianella e il gatto nero grande e grosso iniziarono a camminare. Lui le leccava teneramente la testa, e lei gli copriva il dorso con una delle sue ali tese. CAPITOLO SETTIMO: Imparando a volare <> miagolò Diderot. Dalla cima di una libreria Colonnello, Segretario, Zorba e Sopravento osservavano attentamente quello che accadeva in basso. Giù c'erano Fortunata, in piedi in fondo a un corridoio che avevano denominato pista di decollo, e Diderot, chino all'altro capo del corridoio sul dodicesimo volume, corrispondente alla lettera L, dell'enciclopedia. Il libro era aperto su una delle pagine dedicate a Leonardo da Vinci, dove si vedeva un curioso aggeggio battezzato `macchina per volare' dal grande maestro italiano. <> ordinò Diderot. <> ripeté Fortunata saltando prima sulla zampa sinistra e poi sulla destra. <> miagolò Diderot, che si sentiva importante come un ingegnere della NASA. <> obbedì Fortunata spiegando entrambe le ali. <> ordinò Diderot. <> esclamò Sopravento. <> ribatté Diderot. <> <> commentò Segretario. <<È esattamente ciò che stavo per miagolare>> brontolò Colonnello. <> Fortunata era lì, in procinto di tentare il suo primo volo, perché durante l'ultima settimana si erano verificati due episodi grazie ai quali i gatti avevano capito che la gabbiana voleva volare, anche se nascondeva molto bene il suo desiderio. Il primo fatto era avvenuto un pomeriggio in cui Fortunata aveva accompagnato i gatti a prendere il sole sul tetto del bazar di Harry. Dopo un'ora che erano lì, a crogiolarsi ai raggi del sole, avevano visto volare in alto, molto in alto, sopra di loro, tre gabbiani. Spiccavano, belli e maestosi, nel cielo blu. A tratti sembravano paralizzarsi, limitandosi a fluttuare nell'aria con le ali tese, ma bastava un lieve movimento perché si spostassero con una grazia e un'eleganza che facevano invidia, e anche voglia di starsene lassù con loro. All'improvviso i gatti smisero di fissare il cielo e si voltarono a guardare Fortunata. La gabbianella osservava il volo dei suoi simili, e senza rendersene conto spiegava le ali. <> commentò Colonnello. <> riconobbe Zorba. <>. <> suggerì Segretario. Quando sentì i miagolii dei suoi amici, Fortunata ripiegò le ali e si avvicinò a loro. Si sdraiò accanto a Zorba e iniziò a far risuonare il becco imitando le fusa. Il secondo episodio era accaduto il giorno successivo, mentre i gatti ascoltavano una storia di Sopravento. <<…e come vi miagolavo, le onde erano così alte che non potevamo vedere la costa, e… per il grasso del capodoglio! colmo delle disgrazie, la nostra bussola era impazzita. Cinque giorni e cinque notti passammo in mezzo alla burrasca e non sapevamo se stavamo navigando verso la costa o se ci allontanavamo in mare aperto. Ma proprio allora, quando ci sentivamo ormai perduti, il timoniere avvistò uno stormo di gabbiani. Che gioia, compagni! Puntammo la prua nella stessa direzione in cui volavano e riuscimmo a raggiungere la terraferma. Per i denti del barracuda! Quei gabbiani ci salvarono la vita. Se non li avessimo visti, ora non sarei qui a miagolarvi la storia>>. Fortunata, che seguiva sempre con molta attenzione i racconti del gatto di mare, lo ascoltava con gli occhi spalancati. <> chiese. <> assicurò Sopravento. <>. I miagolii del gatto scendevano nel profondo del cuore a Fortunata. Batteva le zampe per terra e muoveva nervosamente il becco. <> indagò Zorba. Fortunata li guardò a uno a uno prima di rispondere. <>. I gatti miagolarono la loro gioia e subito misero zampa al lavoro. Attendevano quel momento da molto tempo. Con tutta la pazienza che contraddistingue i gatti, avevano aspettato che la gabbianella comunicasse loro il suo desiderio di volare, perché grazie a un'ancestrale saggezza capivano che volare è una decisione molto personale. E il più felice di tutti era Diderot, che ormai aveva trovato i fondamenti del volo nel dodicesimo volume, lettera L, dell'enciclopedia, e che perciò si era assunto l'incarico di dirigere le operazioni. <> miagolò Diderot. <> annunciò Fortunata. <> ordinò Diderot. Fortunata venne avanti, ma lentamente, come se avanzasse su pattini male oliati. <> reclamò Diderot. La giovane gabbiana accelerò un po'. <> istruì Diderot. Fortunata spiegò le ali mentre avanzava. <> comandò Diderot. Fortunata alzò le piume della coda. <> spiegò Diderot. Fortunata batté le ali, ritrasse le zampe, si innalzò di un paio di centimetri, e subito ricadde come un sacco di patate. Con un balzo i gatti scesero dalla libreria e corsero da lei. La trovarono con gli occhi pieni di lacrime. <> ripeteva sconsolata. <> miagolò Zorba leccandole la testa. Diderot cercava di trovare l'errore guardando e riguardando la macchina del volo di Leonardo. CAPITOLO OTTAVO: I gatti decidono di rompere un tabù Fortunata tentò di spiccare il volo diciassette volte, e per diciassette volte finì a terra dopo essere riuscita a innalzarsi solo di pochi centimetri. Diderot, più magro del solito, si era strappato i baffi a uno a uno dopo i primi dodici fallimenti, e con tremanti miagolii cercava di scusarsi. <> I gatti accettavano le sue spiegazioni, e tutta la loro attenzione si concentrava su Fortunata, che a ogni tentativo fallito diventava sempre più triste e malinconica. Dopo l'ultimo insuccesso, Colonnello decise di sospendere gli esperimenti, perché la sua esperienza gli diceva che la gabbianella iniziava a perdere fiducia in se stessa, e questo era molto pericoloso se davvero voleva volare. <> dichiarò Segretario. <>. <> ribatté Diderot. <> esclamò Sopravento. <<È una gabbiana e i gabbiani volano!>> <> ripeté Zorba. <> ricordò Colonnello. <> suggerì Zorba. <> domandò serio Colonnello. <> dichiarò Zorba guardando negli occhi i suoi compagni. <> miagolarono i gatti tirando fuori gli artigli e rizzando i peli sul dorso. `Miagolare l'idioma degli umani è tabù'. Così recitava la legge dei gatti, e non perché loro non avessero interesse a comunicare. Il grosso rischio era nella risposta che avrebbero dato gli umani. Cosa avrebbero fatto con un gatto parlante? Sicuramente lo avrebbero rinchiuso in una gabbia per sottoporlo a ogni genere di stupidi esami, perché in genere gli umani sono incapaci di accettare che un essere diverso da loro li capisca e cerchi di farsi capire. I gatti sapevano, per esempio, della triste sorte dei delfini, che si erano comportati in modo intelligente con gli umani e così erano stati condannati a fare i pagliacci negli spettacoli acquatici. E sapevano anche delle umiliazioni a cui gli umani sottopongono qualsiasi animale che si mostri intelligente e ricettivo con loro. Per esempio i leoni, i grandi felini, obbligati a vivere dietro le sbarre e a vedersi infilare tra le fauci la testa di un cretino; o i pappagalli, chiusi in gabbia a ripetere sciocchezze. Perciò miagolare nel linguaggio degli umani era un grandissimo rischio per i gatti. <> ordinò Colonnello. Durò ore e ore la riunione dei gatti. Ore e ore durante le quali Zorba rimase sdraiato accanto alla gabbianella, che non nascondeva la sua tristezza per non saper volare. Era ormai notte quando terminarono. Zorba si avvicinò per conoscere la decisione. <> dichiarò solennemente Colonnello. CAPITOLO NONO: La scelta dell'umano Non fu facile decidere con quale umano avrebbe miagolato Zorba. I gatti fecero una lista di quelli che conoscevano, ma li scartarono tutti uno dopo l'altro. <> dichiarò Colonnello. <> commentò Diderot. <> spiegò Segretario. <> concluse Sopravento. <> miagolò Zorba. <> brontolò Colonnello. <> spiegò Zorba. <>. Bubulina era una bella gatta bianca e nera che passava lunghe ore tra i vasi di fiori di una terrazza. Tutti i gatti del porto passavano lentamente davanti a lei sfoggiando l'elasticità dei loro corpi, la lucentezza delle loro pellicce accuratamente pulite, la lunghezza dei loro baffi,l'eleganza delle loro code erette nel tentativo di impressionarla, ma Bubulina rimaneva impassibile, e accettava solo l'affetto di un uomo che si piazzava sulla terrazza davanti a una macchina da scrivere. Era un umano strano, che a volte rideva dopo aver letto quello che aveva appena scritto, e a volte appallottolava i fogli senza nemmeno guardarli. La sua terrazza era sempre inondata da una musica dolce e malinconica che faceva assopire Bubulina e suscitava profondi sospiri nei gatti che passavano da lì. <> chiese Colonnello. <> ammise Zorba. <>. <<È un poeta! Si chiama poesia quello che fa. Sedicesimo volume, lettera P, dell'enciclopedia>> dichiarò Diderot. <> volle sapere Segretario. <> rispose Zorba. <> ordinò Colonnello. E fu così che lo autorizzarono a miagolare con il poeta. CAPITOLO DECIMO: Una gatta, un gatto e un poeta Zorba prese la via dei tetti fino alla terrazza dell'umano prescelto. Quando vide Bubulina sdraiata fra i vasi, sospirò prima di miagolare. <>. <> domandò allarmata la gatta. <> La gatta gli fece cenno di sì con la testa. Zorba saltò sulla terrazza e si sedette sulle zampe posteriori. Bubulina si avvicinò per annusarlo. <> approvò la gatta. <> la avvertì Zorba. Una dolce melodia arrivava fino sulla terrazza. <> commentò Zorba. <<È Vivaldi. Le quattro stagioni. Cosa vuoi da me?>> chiese Bubulina. <> rispose Zorba. <> rispose la gatta. <> implorò Zorba. <> chiese Bubulina con diffidenza. <> rispose Zorba deciso. <> miagolò Bubulina con il pelo ritto. <> <> Dentro casa l'umano batteva sui tasti della macchina da scrivere. Si sentiva felice perché stava per finire una poesia e i versi nascevano con stupefacente facilità. All'improvviso dalla terrazza gli arrivarono i miagolii di un gatto che non era la sua Bubulina. Erano dei miagolii stonati, che però sembravano avere un certo ritmo. Un po' seccato un po' incuriosito, uscì sulla terrazza, e dovette strofinarsi gli occhi per credere a quello che stava vedendo. Bubulina si tappava le orecchie con le zampe anteriori e davanti a lei un gatto nero grande e grosso, seduto sul fondoschiena e col dorso appoggiato a un vaso, si teneva la coda con una delle zampe davanti come se fosse un contrabbasso, mentre con l'altra fingeva di suonare le corde, lanciando contemporaneamente dei miagolii snervanti. Una volta riavutosi dalla sorpresa, non riuscì a soffocare l'ilarità, e appena si piegò in due premendosi la pancia per le troppe risate, Zorba ne approfittò per intrufolarsi dentro casa. Quando l'umano, continuando a ridere, si voltò, vide il gatto nero grande e grosso seduto su una poltrona. <> disse l'umano. <> ribatté Zorba nel linguaggio degli umani. L'umano aprì la bocca, si tirò un ceffone e appoggiò la schiena alla parete. <> esclamò l'umano. <> lo esortò Zorba. <> disse l'umano lasciandosi cadere sul divano. <> spiegò Zorba. L'umano si portò le mani alla testa e si tappò gli occhi ripetendo 'è la stanchezza, è la stanchezza'. Ma quando tolse le mani, il gatto nero grande e grosso era ancora sulla poltrona. << Sono allucinazioni. Vero che sei un'allucinazione?>> chiese l'umano. <> assicurò Zorba. <>. <> chiese incredulo l'umano. <> propose Zorba. <> disse l'umano. <> lo corresse Zorba. <> insisté l'umano. <> tornò a correggerlo Zorba. <> gridò l'umano. <> chiese Zorba. <> rispose l'umano. << Allora posso andare al sodo>> propose Zorba. L'umano annuì, ma gli chiese di rispettare il rituale di conversazione degli umani. Servì al gatto una scodella ai latte, e poi si accomodò sul divano con un bicchiere di cognac fra le mani. <> disse l'umano, e Zorba gli riferì la storia della gabbiana, dell'uovo, di Fortunata, e degli infruttuosi sforzi dei gatti per insegnarle a volare. <> domandò Zorba dopo aver concluso il suo racconto. <> rispose l'umano. <> chiese conferma Zorba. <> lo esortò l'umano. <> osservò Zorba. <> disse l'umano. <> si scusò Zorba. Allora l'umano andò alla sua scrivania prese un libro e cercò tra le pagine. <>. <> miagolò Zorba saltando giù dalla poltrona. Si dettero appuntamento a mezzanotte davanti alla porta del bazar, e il gatto nero grande e grosso corse via a informare i suoi compagni. CAPITOLO UNDICESIMO: Il volo Una pioggia fitta cadeva su Amburgo e dai giardini si alzava un profumo di terra umida. L'asfalto delle strade splendeva e le insegne al neon si riflettevano deformi sulla superficie bagnata. Un uomo avvolto in un impermeabile camminava in una solitaria strada del porto dirigendo i suoi passi verso il bazar di Harry. <> strillò lo scimpanzè. <> <> miagolò Zorba. <> strillò Mattia. <> miagolò Sopravento. <> stridette supplichevole Fortunata. <> strillò in tono canzonatorio Mattia. <> miagolò Diderot. <> annunciò Segretario che sbirciava fuori. <<È il poeta! Non c'è tempo da perdere!>> miagolò Zorba correndo a tutta velocità verso la finestra. Le campane della chiesa di San Michele iniziarono a suonare i dodici rintocchi della mezzanotte e l'umano sussultò al rumore di vetri rotti. Il gatto nero grande e grosso cadde per strada in mezzo a una pioggia di schegge, ma si rialzò senza preoccuparsi per le ferite alla testa, e saltò di nuovo dentro la finestra dalla quale era uscito. L'umano si avvicinò nel preciso istante in cui una gabbiana veniva sollevata da vari gatti fino al davanzale. Dietro i gatti, uno scimpanzè si palpeggiava la faccia cercando di tapparsi occhi, orecchi e bocca allo stesso tempo. <> miagolò Zorba. <> disse l'umano prendendola in braccio. L'umano si allontanò in fretta dalla finestra del bazar. Sotto l'impermeabile aveva un gatto nero grande e grosso e una gabbiana dalle piume d'argento. <> strillò lo scimpanzè. <> ribatté Segretario. <> protestò Colonnello. <> miagolò Sopravento. Il gatto nero grande e grosso e la gabbianella stavano ben comodi sotto l'impermeabile, al calduccio contro il corpo dell'umano che camminava con passi rapidi e sicuri. Sentivano i loro tre cuori battere con ritmi diversi, ma con la stessa intensità. <> chiese l'umano vedendo delle macchie di sangue sui risvolti dell'impermeabile. <> chiese Zorba. <> stridette Fortunata. <> le assicurò Zorba. <> chiese l'umano. <> insisté Zorba. <> rispose l'umano. Zorba fece capolino. Erano davanti a un edificio alto. Sollevò gli occhi e riconobbe il campanile di San Michele illuminato da vari riflettori. I fasci di luce colpivano in pieno la sua struttura slanciata rivestita di lastre di rame che il tempo, la pioggia e i venti avevano coperto di una patina verde. <> miagolò Zorba. <> disse l'umano. <>. Fecero un giro e si intrufolarono da una piccola porta laterale che l'umano aprì con l'aiuto di un coltello a serramanico. Poi tirò fuori di tasca una torcia e, guidati dal suo sottile fascio di luce, iniziarono a salire una scala a chiocciola che sembrava interminabile. <> stridette Fortunata. <> miagolò Zorba. Dal campanile di San Michele si vedeva tutta la città. La pioggia avvolgeva la torre della televisione, e al porto le gru sembravano animali in riposo. <> miagolò Zorba. <> stridette Fortunata. Zorba saltò sulla balaustra che girava attorno al campanile. In basso le auto sembravano insetti dagli occhi brillanti. L'umano prese la gabbiana tra le mani. <> stridette Fortunata beccando le mani dell'umano. <> miagolò Zorba. <> disse l'umano. <> miagolò Zorba. La gabbianella spiegò le ali. I riflettori la inondavano di luce e la pioggia le copriva di perle le piume. L'umano e il gatto la videro sollevare la testa con gli occhi chiusi. <> stridette. <> miagolò Zorba. <> stridette Fortunata avvicinandosi al bordo della balaustra. <> miagolò Zorba. <> stridette lei già con metà delle zampe fuori dalla balaustra, perché come dicevano i versi di Atxaga, il suo piccolo cuore era lo stesso degli equilibristi. <> miagolò Zorba allungando una zampa e toccandola appena. Fortunata scomparve alla vista, e l'umano e il gatto temettero il peggio. Era caduta giù come un sasso. Col fiato sospeso si affacciarono alla balaustra, e allora la videro che batteva le ali sorvolando il parcheggio, e poi seguirono il suo volo in alto, molto più in alto della banderuola dorata che corona la singolare bellezza di San Michele. Fortunata volava solitaria nella notte amburghese. Si allontanava battendo le ali con energia fino a sorvolare le gru del porto, gli alberi delle barche, e subito dopo tornava indietro planando, girando più volte attorno al campanile della chiesa. <> strideva euforica dal vasto cielo grigio. L'umano accarezzò il dorso del gatto. <> disse sospirando. <> miagolò Zorba. <> chiese l'umano. <> miagolò Zorba. <> lo salutò l'umano. Zorba rimase a contemplarla finché non seppe se erano gocce di pioggia o lacrime ad annebbiare i suoi occhi gialli di gatto nero grande e grosso, di gatto buono, di gatto nobile, di gatto del porto. Laufenburg, Foresta Nera,1996 Luis Sepúlveda è nato in Cile nel 1949, e vive attualmente tra Amburgo e Parigi. È autore di romanzi, racconti e commedie. Membro attivo dell'Unità popolare cilena, negli anni Settanta, dopo il colpo di stato militare, ha dovuto abbandonare il suo paese. Ha viaggiato e lavorato in Brasile, Uruguay, Paraguay e Perù; ha vissuto in Ecuador tra gli indios Shuar, come membro di una missione di studi dell'Unesco; ha girato tutto il mondo, anche al seguito dell'equipaggio di Greenpeace. Ha ottenuto un grande successo internazionale con 'Il vecchio che leggeva romanzi d'amore', 'Il mondo alla fine del mondo', 'Un nome da torero' e 'La frontiera scomparsa', tutti pubblicati in Italia da Guanda.