Eragon Christopher Paolini Ciclo dell'eredità #1 Un ragazzo. Un drago. Un mondo di avventure. Quando Eragon trova una liscia pietra blu nella foresta, è convinto che gli sia toccata una grande fortuna: potrà venderla e nutrire la sua famiglia per tutto l’inverno. Ma la pietra in realtà è un uovo. Quando si schiude rivelando il suo straordinario contenuto, un cucciolo di drago, Eragon scopre che gli è toccata in sorte un’eredità antica come l’Impero. Forte di una spada magica e dei consigli di un vecchio cantastorie, dovrà cavarsela in un universo denso di magia, mistero e insidie, imparare a distinguere l’amico dal nemico, dimostrare di essere il degno erede dei Cavalieri dei Draghi... Christopher Paolini Eragon Dedico questo libro a mia madre, che sa mostrarmi la magia del mondo; a mio padre, che sa rivelare l’uomo dietro la cortina. E a mia sorella Angela, che sa confortarmi quando mi sento triste. Prologo Lo Spettro della paura Il vento ululava nella notte, portando con sé un odore che avrebbe cambiato il mondo. Uno Spettro, alto e flessuoso, alzò la testa per fiutare l’aria; aveva sembianze umane, ma i suoi capelli erano cremisi e gli occhi rossi come braci incandescenti. Batte più volte le palpebre, perplesso. Il messaggio era inequivocabile: stavano arrivando. E se fosse stata una trappola? Soppesò ogni eventualità, poi ordinò in tono gelido: «Sparpagliatevi: nascondetevi dietro gli alberi e i cespugli. Fermate chiunque si avvicini... o morite.» Intorno a lui si mossero goffi dodici Urgali, armati di corte spade e tondi scudi di ferro dipinti con simboli neri. Assomigliavano a esseri umani con le gambe storte, e avevano braccia tozze e massicce, fatte per schiantare; un orrido paio di corna ritorte spuntavano dietro i piccoli padiglioni auricolari. Fra sordi grugniti e borbottii concitati, i mostri si affrettarono a nascondersi nella boscaglia. Ben presto il trambusto si acquietò e la foresta tornò silenziosa. Lo Spettro scrutò da dietro un albero per osservare il sentiero. Era troppo buio per occhi umani, ma per lui il debole chiaro di luna era come il sole di mezzogiorno; tutto si stagliava nitido e preciso davanti al suo sguardo indagatore. La sua calma aveva un che di innaturale; nella mano stringeva una lunga e pallida spada, la lama solcata da un lungo graffio curvo, fine come un capello. L’arma era così sottile da penetrare fra una costola e l’altra, ma tanto robusta da squarciare la più solida delle armature. Gli Urgali non vedevano bene quanto lo Spettro; erravano nell’oscurità come mendicanti ciechi, maneggiando le armi con difficoltà. Un gufo lanciò il suo grido lamentoso nel greve silenzio. Nessuno si acquietò finché l’uccello non volò via. I mostri rabbrividirono nella gelida notte. Uno di loro spezzò senza volerlo un rametto calpestandolo; lo Spettro sibilò la sua collera, e gli Urgali si ritrassero, immobili e timorosi. Lui represse il proprio disgusto - i mostri puzzavano di carne rancida - e si volse, Erano strumenti, nient’altro. Lo Spettro conteneva a stento la propria impazienza via via che i minuti si trasformavano in ore. L’odore doveva aver preceduto di molto coloro che lo emanavano. Non permise agli Urgali di sgranchirsi le membra o riscaldarsi; lui stesso si negava questi lussi e restava in attesa dietro l’albero, a spiare il sentiero. Un’altra folata di vento turbinò nella foresta. Questa volta l’odore era più intenso. Eccitato, lo Spettro arricciò le labbra in un ghigno. «Preparatevi» bisbigliò, con un fremito violento che si propagò fino alla punta della sua spada. Aveva a lungo complottato e sofferto per arrivare a quel momento, e per niente al mondo avrebbe perso il controllo. Gli occhi degli Urgali scintillarono sotto le folte sopracciglia, e le creature strinsero ancora più forte le armi. Più avanti, lo Spettro udì un lieve acciottolio, come di sassolini smossi. Dall’oscurità emersero sagome indistinte; avanzavano lungo il sentiero. Tre cavalieri in sella a cavalli bianchi trottavano verso l’agguato, le teste alte e fiere, i mantelli che fluttuavano sotto la luna come argento liquido. Sul primo cavallo c’era un elfo: orecchie a punta e sopracciglia oblique, eleganti, Era di corporatura esile ma forte, come uno stocco. A tracolla portava un arco possente; da un fianco gli pendeva una spada, e dall’altro lato una faretra piena di frecce dall’impennaggio di cigno. L’ultimo cavaliere aveva il volto chiaro e i lineamenti più affilati del primo. Nella destra impugnava una lunga lancia, e nella cintura portava infilato un pugnale bianco. Sul capo indossava un elmo di straordinaria fattura, d’oro e ambra. Fra i due cavalcava un’elfa dai capelli neri come ali di corvo, che si guardava intorno con pacato sussiego. Incorniciati da lunghe ciocche nere, i suoi occhi splendenti emanavano una forza irresistibile. I suoi abiti erano di un’austera semplicità, ma nulla toglievano alla straordinaria bellezza della dama. Al fianco portava una spada, e sulla schiena un arco e una faretra. In grembo aveva una bisaccia che adocchiava di continuo, come per assicurarsi che fosse sempre lì. Uno degli elfi parlò, ma lo Spettro non riuscì a sentire che cosa diceva. La dama rispose con evidente autorevolezza, e le sue guardie si scambiarono di posto. Quello con l’elmo passò avanti e strinse le dita intorno alla lancia. Superarono il nascondiglio dello Spettro e dei primi Urgali senza sospettare nulla. Lo Spettro stava già assaporando la vittoria quando il vento mutò e soffiò verso gli elfi, portando con sé il fetore degli Urgali. I cavalli sbuffarono allarmati e scossero la testa con violenza. I cavalieri si irrigidirono, i loro occhi guizzarono da un lato e dall’altro; poi fecero voltare le cavalcature e presero a fuggire al galoppo. Il cavallo della dama galoppava più veloce degli altri e in breve li distaccò. Gli Urgali uscirono allo scoperto e scoccarono un nugolo di frecce nere. Lo Spettro balzò fuori dall’albero, levò la mano destra e gridò: «Garjzla!» Dal suo palmo sfrecciò in direzione dell’elfa un globo infuocato, che al suo passaggio tinse gli alberi di luce sanguigna. Il globo colpì il cavallo, che si arrestò con un nitrito di dolore e cadde di schianto. La dama balzò dalla sella con rapidità inumana, atterrò con grazia e si volse a guardare la sua scorta. Le frecce letali degli Urgali disarcionarono i due elfi, che caddero dai nobili destrieri lasciando una pozza di sangue nella polvere. Quando gli Urgali si avventarono sugli elfi uccisi, lo Spettro gridò: «Prendetela! È lei che voglio!» I mostri ringhiarono e continuarono a correre lungo il sentiero. L’elfa si lasciò sfuggire un gemito roco quando vide i compagni morti. Fece un passo verso di loro, poi maledisse i suoi nemici e fuggì dentro la foresta. Mentre gli Urgali sciamavano fra gli alberi, lo Spettro sì arrampicò su di uno sperone di granito che dominava sugli alberi, per avere una visuale completa. Levò una mano e gridò: «Bòetq istalri!» Uno spicchio di foresta, ampio un quarto di miglio, prese fuoco all’istante. Con uno sguardo feroce e concentrato, lo Spettro incendiò uno spicchio dopo l’altro fino a formare un anello di fuoco del diametro di mezza lega tutt’intorno al luogo dell’agguato. Le fiamme rosseggiavano come una corona d’oro sulle chiome degli alberi. Soddisfatto, continuò a fissare l’anello, per alimentare il fuoco. Più la fascia ardente si allargava, più si riduceva l’area che gli Urgali dovevano setacciare. All’improvviso, lo Spettro udì delle grida è uno strillo rauco: fra gli alberi, tre mostri caddero l’uno sull’altro, feriti a morte. Con la coda dell’occhio scorse l’elfa che fuggiva. La dama correva verso lo sperone di granito a velocità sorprendente. Lo Spettro studiò il terreno venti piedi più in basso, poi saltò e atterrò agile davanti a lei. L’elfa sì arrestò di colpo, poi deviò per tornare sul sentiero. Dalla sua spada gocciolava nero sangue Urgali: macchiava la bisaccia che stringeva in pugno. I mostri cornuti sbucarono dalla foresta e la circondarono, bloccandole ogni via di fuga. La dama si guardò intorno, frenetica, ma quando capì di non avere via di scampo, si ricompose con regale dignità. Lo Spettro le si avvicinò con la mano alzata, compiaciuto della sua impotenza. «Prendetela.» Non appena gli Urgali fecero per avventarsi su di lei, la dama aprì la bisaccia, vi infilò la mano, poi la lasciò cadere a terra. Tra le. dita reggeva un grande zaffiro che rifletteva il bagliore violento degli incendi. Lo sollevò in alto e le sue labbra mormorarono in fretta poche parole. Disperato, lo Spettro latrò: «Garjzla!» Un globo ardente guizzò dalla sua mano verso l’elfa, fulmineo come una saetta. Ma era troppo tardi. Un lampo di luce verde illuminò per un istante l’intera forestale la gemma scomparve. Poi il globo di fuoco colpì l’elfa, che cadde riversa al suolo. Lo Spettro ululò di rabbia e scagliò la spada contro un albero. La lama penetrò per metà nel tronco, dove rimase conficcata, vibrando. Lo Spettro scagliò nove globi di energia che uccisero sul colpo gli Urgali, poi liberò la spada e si avvicinò all’elfa. Dalla sua gola sgorgò un fiotto di parole: profezie di vendetta, pronunciate in una lingua abietta che soltanto lui conosceva. Strinse i pugni e levò gli occhi al cielo. Le fredde stelle ricambiarono il suo sguardo, occhi indifferenti di .un altro mondo. Lo Spettro fece una smorfia di disgusto e abbassò lo sguardo sull’elfa priva di sensi. La sua bellezza, in grado di ammaliare qualsiasi mortale, non sortiva alcun effetto su di lui. Si accertò che la gemma fosse davvero scomparsa, poi recuperò la propria cavalcatura dal nascondiglio in mezzo agli alberi. Legò l’elfa sulla sella, montò in groppa a sua volta e si avviò per uscire dal bosco. Spense gli incendi sul suo cammino, ma lasciò che tutto il resto venisse consumato dal fuoco. 1 Il ritrovamento Eragon s’inginocchiò su un mucchio di canne calpestate e studiò le tracce con occhio esperto: i cervi dovevano essere passati non più di mezz’ora prima. Presto si sarebbero fermati per riposare. Il suo obiettivo, una giovane femmina vistosamente zoppa, era ancora col branco. Strano che non fosse già caduta preda di un lupo o di un orso. Il cielo scuro era sereno; spirava una brezza leggera. Una nube d’argento indugiò sulle montagne intorno, i bordi frastagliati illuminati dal bagliore rossastro della luna nascosta fra due picchi. Era il plenilunio più vicino all’equinozio d’autunno. Lungo le pendici dei monti scorrevano molti ruscelli: scendevano dai ghiacciai perenni e dagli scintillanti cappucci nevosi. Una cupa nebbia aleggiava sul fondo della valle, tanto densa da nascondergli i piedi. Eragon aveva quindici anni; un anno soltanto lo separava dall’ingresso nella vita adulta. I suoi penetranti occhi nocciola erano sormontati da sopracciglia scure. I suoi abiti erano logori. Alla cintura portava un pugnale dal manico d’osso e una guaina di pelle di camoscio proteggeva il suo arco di legno di tasso dall’umidità. In spalla aveva uno zaino dall’intelaiatura di légno. I cervi lo avevano costretto ad addentrarsi sulla Grande Dorsale, una catena di monti selvaggi che si estendeva lungo tutto il territorio di Alagasëia. Spesso da quelle montagne provenivano funeste leggende e uomini misteriosi. Malgrado ciò, Eragon non aveva paura della Grande Dorsale: era l’unico cacciatore nei dintorni di Carvahall che osasse inseguire la selvaggina fin nei suoi più oscuri recessi.. Era la sua terza notte di caccia, e le scorte di cibo cominciavano a scarseggiare. Se non fosse riuscito ad abbattere quella ferrumina al più presto, gli sarebbe toccato tornare a casa a mani vuote. La sua famiglia aveva bisogno di carne perché ormai l’inverno era vicino, e non poteva permettersi di comprarla a Carvahall. Eragon si rialzò fiducioso al chiaro di luna, poi si inoltrò nella foresta, diretto verso una piccola valle dov’era sicuro che i cervi si sarebbero fermati. Le folte chiome degli alberi gli impedivano di scorgere il cielo e gettavano ambigue ombre sul terreno. Ma Eragon conosceva bene la strada, e solo di tanto in tanto abbassava lo sguardo per controllare il sentiero. Una volta raggiunta la piccola valle, incordò l’arco e prese tre frecce. Ne incoccò una, reggendo le altre due nella sinistra. La luce lunare rivelò una ventina di sagome immobili: i cervi che riposavano sull’erba. La femmina che cercava era ai margini del branco, la zampa ferita tesa davanti a sé. Eragon si avvicinò silenzioso, tenendo pronto l’arco. Tutta la fatica dei tre giorni precedenti lo aveva guidato a quel momento. Inspirò a fondo prima di scoccare la freccia: e un’esplosione squarciò la notte. Il branco si alzò di scatto e prese a fuggire in tutte le direzioni. Eragon si slanciò all’inseguimento sul prato, mentre un vento impetuoso gli sferzava il viso. Si fermò e scoccò una freccia contro la zoppicante femmina in fuga. La mancò di un soffio; la freccia si perse sibilando nel buio. Il ragazzo imprecò e si volse per prendere un’altra freccia. Alle sue spalle, dove pochi istanti prima riposava il branco di cervi, si allargava un ampio spiazzo d’erba e alberi bruciati. Molti pini avevano perso gli aghi. L’erba fuori dal cerchio annerito era schiacciata. Una voluta di, fumo si alzò, emanando un forte odore di bruciato. Al centro dello spiazzo devastato c’era una lucida pietra blu. La nebbia serpeggiò nell’area incenerita, accarezzando la pietra con tentacoli impalpabili. Eragon attese diversi minuti che il pericolo si mostrasse, ma runica cosa che si muoveva era la nebbia. Con estrema cautela, allentò la presa sull’arco e avanzò. La luna proiettava una pallida luce quando il ragazzo si fermò davanti alla pietra. La toccò con la punta di una freccia, poi fece un balzo indietro. Non successe nulla. Si fece coraggio e la raccolse. La natura non avrebbe mai potuto levigare una pietra in quel modo. La sua superficie perfetta era di un blu intenso, venato da una sottile ragnatela di striature bianche. La pietra era fredda e liscia al tatto, come seta solidificata. Lunga circa un piede, di forma ovale, pesava qualche libbra, ma era più leggera di quanto si fosse aspettato. La pietra lo affascinava e turbava al tempo stesso. Da dove viene? Ha uno scopo? All’improvviso gli attraversò la mente un pensiero ancora più inquietante: È caduta per caso, o ero destinato a trovarla? Se le antiche leggende gli avevano insegnato qualcosa, era che la magia e chi ne faceva uso dovevano essere trattati con cauto rispetto. Ma cosa devo fare di questa pietra? Sarebbe stato faticoso trasportarla, e chissà, magari anche pericoloso. Forse doveva lasciarla dov’era. Si sentì pervadere da un fremito di indecisione, fu lì lì per lasciarla cadere, quando qualcosa lo trattenne. Se non altro, mi servirà a comprare del cibo. Scrollò le spalle e infilò la pietra nello zaino. La valletta era troppo esposta per accamparsi al sicuro, così tornò nella foresta e si preparò un giaciglio sotto le radici divelte di un albero caduto. Dopo una cena fredda a base di pane e formaggio, si avvolse nelle coperte e si addormentò pensando a quanto era accaduto. 2 La valle Palancar Il mattino dopo, il sole sorse in un’abbagliante esplosione di rosa e giallo. L’aria era salubre, dolce, e molto fredda. Le rive dei torrenti erano coperte di brina, e i piccoli stagni erano del tutto gelati. Eragon mangiò una scodella di pappa d’avena per colazione, poi tornò nella valletta per osservare di nuovo l’area bruciata. La luce del mattino non rivelò altri dettagli, così si avviò verso casa. Il vecchio sentiero di caccia si distingueva a malapena, e in alcuni punti scompariva del tutto; tracciato dal passaggio degli animali, spesso si annodava su se stesso o si perdeva in lunghe deviazioni, ma restava pur sempre la via più rapida per uscire dalle montagne. La Grande Dorsale era uno dei rari luoghi che re Galbatorix non poteva includere nei propri domini. Ancora si narrava la tetra leggenda secondo cui metà del suo esercito era scomparso dopo essere entrato nell’antica foresta, sempre avvolta da un alone di misteriosa sventura. Sebbene gli alberi crescessero abbondanti e il sole splendesse sereno, erano pochi coloro che sostavano a lungo sulla Grande Dorsale senza subire un.incidente di qualche sorta, Eragon era uno di quei pochi. In cuor suo il ragazzo non era convinto di possedere chissà quale talento: attribuiva la sua buona sorte alla costante vigilanza e ai suoi pronti riflessi. Vagava sulle montagne da anni; non ne aveva paura, ma le considerava con una sorta di cauto rispetto. Ogni volta che credeva di aver scoperto tutti i loro segreti, accadeva sempre qualcosa che ridimensionava la sua presunzione di conoscerle a fondo: come la comparsa della pietra. Andando di buon passo, si lasciò alle spalle parecchie leghe. A tarda sera raggiunse l’orlo di un precipizio: in fondo spumeggiava l’Anora, il fiume che attraversava la Valle Palancar. Alimentato da centinaia di torrenti, era come un essere vivente dotato di forza bruta, che lottava contro ogni scoglio o macigno che gli sbarrasse la via, brontolando a gran voce. Eragon si accampò in un boschetto vicino al burrone e contemplò a lungo la luna prima di addormentarsi. Passò ancora un giorno e mezzo; il freddo aumentava, Eragon viaggiava spedito, senza badare alla natura che lo circondava. Poco dopo mezzogiorno sentì il fragore delle Cascate di Iguàlda, che cancellava ogni altro suono. Il sentiero lo condusse vicino a una cresta rocciosa e viscida, che il fiume lambiva impetuoso prima di precipitare e frangersi sulle colline verdeggianti. Davanti a lui si estendeva la Valle Palancar, vasta e piatta come una mappa dispiegata. La base delle Cascate di Igualda, oltre mezzo miglio più sotto, era il punto più a nord della valle. A poca distanza dalle cascate sorgeva Carvahall, un grumo di edifici scuri. Dai comignoli si levavano bianchi fili di fumò, come a sfidare il panorama selvaggio. Da quell’altezza le fattorie apparivano come tanti quadretti non più grandi del suo polpastrello; la terra attorno era marrone, giallastra dove l’erba secca ondeggiava nel vento. Dalle cascate, l’Anora proseguiva il suo corso sinuoso fino all’estremità sud della Valle Palancar, un nastro d’argento che rifletteva i raggi del sole. In lontananza scorreva vicino al villaggio di Therinsford e al solitario Monte Utgard. Poi Eragon sapeva soltanto che curvava a nord per gettarsi in mare. Dopo la breve sosta, .Eragon prese a scendere lungo il sentiero. Raggiunse il fondo quando il morbido crepuscolo già avvolgeva ogni cosa, sfumando i colori in grigie macchie indistinte. Le luci di Carvahall brillavano nell’oscurità; le case proiettavano lunghe ombre. A parte Theririsford. Carvahall era l’unico altro villaggio della Valle Palancar. Il paese era isolato e circondato da terre aspre e bellissime. Pochi vi si avventuravano, a parte gli erranti e i cacciatori. Le case erano tozze costruzioni di legno, con tetti bassi di tegole o paglia. Il fumo che usciva dai comignoli diffondeva nell’aria un forte odore di legna. Dalle costruzioni sporgevano ampi portici coperti dove la gente si riuniva per scambi di chiacchiere o affari; poche erano le finestre illuminate, da una candela o da una lampada accesa. Eragon sentì degli uomini parlare ad alta voce nella fredda aria serale, e donne che andavano a recuperare i mariti e li rimproveravano perché erano in ritardo. Il ragazzo proseguì verso la bottega del macellaio, une grossa capanna di larghe assi di legno. Il comignolo eruttava un denso fumo nero. Aprì la porta. L’ambiente spazioso era riscaldato e illuminato da un fuoco che scoppiettava nel caminetto di pietra. Lungo la parete in fondo correva un bancone disadorno; sul pavimento era sparsa della paglia; Tutto era scrupolosamente pulito, come se il proprietario amasse trascorrere il suo tempo liberò alla ricerca del più minuscolo granello di polvere. Dietro al bancone c’era il macellaio Sloan, un ometto che indossava una camicia di cotone e un grembiule macchiato di sangue. Dalla cintura gli pendeva un’impressionante serie di coltelli. Sul volto giallastro e butterato spiccavano occhietti neri e sospettosi. Stava pulendo il banco con uno straccio. Sloan fece una smorfia non appena vide entrare Eragon. «Bene bene, il divìn cacciatore è tornato fra noi poveri mortali. Quante prede hai ucciso questa volta?» «Nessuna» tagliò corto Eragon. Non gli era mai piaciuto Sloan. Il macellaio lo trattava sempre come se fosse un essere spregevole, Sloan era vedovo, e l’unica persona che gli stava a cuore era sua figlia Katrina. «Sono sorpreso» disse Sloan, ostentando falso stupore. Gli volse la schiena per raschiare qualcosa dal muro. «Ed è questa la ragione per cui sei venuto?» «Sì» ammise Eragon con aria mesta. «In tal caso, vediamo prima i soldi.» Sloan tamburellò con le dita sul banco, in attesa, ma Eragon rimase in silenzio, spostando il peso del corpo da un piede all’altro. «Avanti.., li hai o no?» «Non ho soldi, ma...» «Cosa? Niente soldi?» lo interruppe il macellaio. «E vorresti comprare della carne! Pensi forse che gli altri negozianti regalino così la loro merce? Dovrei darti la carne senza farti pagare? E poi è tardi» disse in tono brusco. «Torna domani con ì soldi. Per oggi ho chiuso.» Eragon lo guardò con ostilità. «Non posso aspettare fino a domani, Slòan. Però ti assicuro che quello che ho trovato ti ricompenserà ampiamente.» Estrasse la pietra dallo zaino con un gesto teatrale e la depose con delicatezza sul bancone scalfito, dove sfavillò di luce riflessa dalle fiamme tremolanti. «Rubato, piuttosto» borbottò Sloan, esaminando l’oggetto con interesse. Eragon ignorò il commento e disse: «Basta?» Sloan prese la pietra e la soppesò con aria pensosa; fece scorrere le dita sulla sua superficie levigata e ne scrutò le venature candide. Con uno sguardo perplesso, la rimise sul banco. «Bella, ma quanto vale?» «Non lo so» ammise Eragon. «ma nessuno si sarebbe preso la briga di lavorarla così bene se non valesse niente, ti pare?» «Mi pare» ribatte Sloan spazientito. «Ma quanto vale? Visto che non lo sai, ti suggerisco di trovare un mercante che lo sappia, oppure di accettare la mia offerta di tre corone.» «Che miseria! Deve valere almeno dieci volte tanto» protestò Eragon. Tre corone sarebbero bastate a comprare carne per appena una settimana. Sloan scrollò le spalle. «Se non ti piace la mia offerta, aspetta l’arrivo degli erranti. E comunque ne ho abbastanza di questa conversazione.» Gli erranti erano un gruppo nomade di mercanti e saltimbanchi che passavano da Carvahall ogni primavera e inverno. Compravano le eccedenze di quanto gli artigiani e i contadini locali fabbricavano e coltivavano, e vendevano loro il necessario per sopravvivere un altro anno: sementi, animali, stoffe, scorte di sale e zucchero. Ma Eragon non poteva aspettare il loro arrivo: ci sarebbe voluto ancora troppo tempo, e la sua famiglia aveva bisogno della carne subito. «D’accordo, accetto» sibilò. «Bene, ti vado a prendere la carne. Non che abbia importanza, ma dove l’hai trovata?» «Due notti fa, sulla Grande Dorsa...» «Fuori!» esclamò Sloan, e respinse la pietra. Arretrò fino all’estremità opposta del bancone e si diede a ripulire certe vecchie macchie di sangue da un coltello. «Perché?» chiese Eragon, attirando a sé la pietra, come per proteggerla dall’ira di Sloan. «Non voglio aver niente a che fare con quelle dannate montagne! Porta quella tua pietra stregata da qualche altra parte.» La mano di Sloan scivolò all’improvviso, e il macellaio si tagliò un dito, ma non parve farci caso. Continuò a strofinare la lama, macchiandola di sangue fresco. «Ti rifiuti di vendermi la carne?» «Già! A meno che non me la paghi con moneta sonante» grugnì Sloan, puntando il coltello verso Eragon, senza smettere di indietreggiare. «Vattene, prima di finire sventrato!» In quel momento la porta si spalancò di colpo. Eragon si volse di scatto, temendo nuovi guai in arrivo. Nella bottega si fece avanti Horst, un uomo alto e massiccio, seguito a ruota da Katrina, una sedicenne alta, dall’espressione volitiva. Eragon fu sorpreso nel vederla; di solito si teneva alla larga dal padre quando tirava una brutta aria. Sloan li guardò circospetto, poi prese ad accusare Eragon. «Non vuole...» «Taci» tuonò Horst, facendo schioccare le nocche. Era il fabbro di Carvahall, come testimoniavano il suo collo taurino e il grembiule di cuoio graffiato; dalla camicia gli spuntava un folto ciuffo di peli. La lunga barba nera tremò quando serrò la mascella. «Sloan, cos’hai combinato stavolta?» «Niente.» Il macellaio scoccò a Eragon uno sguardo omicida, poi sputò. «Questo... moccioso è entrato e ha cominciato a infastidirmi. Gli ho detto di andarsene, ma non si è mosso. L’ho minacciato, ma lui mi ha ignorato!» Sloan parve rimpicciolire sotto lo sguardo severo di Horst. «È vero?» domandò il fabbro. «No!» rispose Eragon. «Gli ho offerto questa pietra in cambio di un po’ di carne, e lui ha accettato. Ma quando gli ho detto che l’ho trovata sulla Grande Dorsale, si è rifiutato addirittura di toccarla. Che cosa importa, da dove Viene?» Horst guardò la pietra incuriosito, poi rivolse di nuovo l’attenzione al macellaio. «Perché non vuoi vendergli la carne, Sloan? Anche a me non piace la Grande Dorsale, ma se si tratta del valore della pietra, sono pronto a garantirlo con i miei soldi.» La domanda rimase sospesa per un istante. Poi Sloan si passò la lingua sulle labbra e disse: «Questa è la mia bottega, e faccio quello che mi pare.» Katrina fece un passo avanti e gettò indietro i capelli castano dorati, simili a una colata di rame fuso. «Padre, Eragon vuole pagare. Dagli la carne, così finalmente possiamo andare a cena.» Gli occhi di Sloan si ridussero a due fessure. «Torna a casa. Questi non sono affari tuoi... ho detto vaii» Il volto di Katrina si trasformò in una maschera di granito; la ragazza si voltò e uscì impettita dal negozio. Eragon era sdegnato dal fare di Sloan, ma non osò intervenire. Horst si lisciò la barba pensieroso e disse in tono aspro: «D’accordo, Sloan, allora te la vedrai con me. Che cosa volevi comprare, Eragon?» La sua voce tonante riempì il locale. «Tutto quello che potevo.» Horst estrasse di tasca un sacchetto di pelle e contò una pila di monete. «Dammi i tuoi migliori arrosti e le tue bistecche più succulente, E fai in modo di riempire bene lo zaino di Eragon.» Il macellaio esitò, lo sguardo che guizzava fra Horst ed Eragon. «Sappi che sarebbe una pessima idea rifiutarti di vendere la tua carne a me» lo ammonì Horst. Stillando veleno da ogni poro, Sloan s’infilò nel retrobottega. Per alcuni lunghi, imbarazzanti minuti, si udirono tonfi, schiocchi, imprecazioni. Infine Sloan tornò con un grosso involto. Accettò il denaro di Horst con volto inespressivo, poi riprese a pulire il coltello in silenzio, come se i due non ci fossero. Horst prese l’involto di carne e uscì. Eragon si affrettò a seguirlo, dopo aver raccolto lo zaino e la pietra. Accolsero l’aria fredda e pungente della notte con piacere, dopo l’atmosfera opprimente della bottega. «Ti ringrazio. Horst. Lo zio Garrow ne sarà felice.» Horst ridacchiò sotto i baffi. «Non devi ringraziarmi. Volevo farlo da tempo. Sloan è un arrogante che gode nel provocare la gente; gli ci voleva tuia bella umiliazione. Katrina ha sentito che cosa stava succedendo ed è venuta a chiamarmi. A quanto pare sono arrivato appena in tempo... voi due sembravate lì lì per venire alle mani. Purtroppo, temo che da ora in poi non vorrà più avere a che fare con te o con qualcuno della tua famiglia, anche se vi presenterete con i soldi.» «Ma perché è sbottato così? Non siamo mai stati in rapporti amichevoli, ma ha sempre accettato il nostro denaro. E non l’ho mai visto trattare Katrina in quel modo» disse Eragon, aprendo lo zaino. Horst si strinse nelle spalle. «Chiedi a tuo zio. Lui ne sa molto più di me su questa faccenda.» Eragon mise la carne nello zaino. «Be’, allora ho una ragione in più per correre a casa: devo risolvere il mistero. Tieni, questa ti spetta di diritto.» E porse la pietra a Horst. Horst sorrise. «No, tienila tu, questa strana pietra. E per ripagarmi... Albriech ha deciso di partire per Feinster in primavera. Vuole diventare mastro ferraio, e io avrò bisogno di un assistente. Potrai venire a lavorare da me per saldare il debito nei tuoi giorni liberi.» Entusiasta, Eragon accennò un inchino. Horst aveva due figli. Albriech e Baldor, e lavoravano entrambi nella sua fucina. Prendere il posto di uno dei due era una generosa offerta. «Allora grazie di nuovo! Non vedo l’ora di lavorare per te.» Era contento di avere la possibilità di rimborsare Horst. Suo zio non avrebbe mai accettato l’elemosina. A quel punto Eragon si ricordò di quello che suo cugino gli aveva detto prima che partisse per la caccia. «Roran voleva che riferissi un suo messaggio a Katrina, ma siccome non posso, lo farai tu per me?» «Contaci.» «Vuole farle sapere che verrà in città non appena arriveranno gli erranti, e così potranno vedersi.» «Tutto qui?» Eragon si sentiva alquanto imbarazzato. «No, vuole anche farle sapere che è la ragazza più bella che lui abbia mai visto e che pensa solo a lei.» Horst fece un ampio sorriso e strizzò rocchio a Eragon. «Una cosa seria, non ti pare?» «Sissignore» rispose Eragon con un sorriso fugace. «Puoi dirle anche grazie da parte mia? È stata gentile, a prendere le mie difese davanti al padre. Spero che non venga punita per questo. Roran andrebbe su tutte le furie, se lei dovesse passare un guaio per colpa mia.» «Non preoccuparti, Sloan non sa che è stata la figlia a chiamarmi, perciò non sarà duro con lei. Prima di andare, vuoi restare a cena da noi?» «Mi dispiace, ma non posso. Garrow mi aspetta» disse Eragon, e richiuse di nuovo lo zaino. Se lo gettò in spalla e si avviò per la strada, alzando una mano per salutare il fabbro. Il peso della carne lo rallentava, ma il desiderio di tornare a casa infuse nuovo vigore nel suo passo. Il villaggio terminava bruscamente, e il ragazzo si lasciò le calde luci alle spalle. La luna di perla si affacciò dai monti, inondando la valle di una pallida versione della luce del giorno. Tutto appariva piatto ed esangue. A un certo punto Eragon abbandonò la strada maestra, che proseguiva verso sud, per imboccare un sentiero che si snodava lungo un prato d’erba che gli arrivava alla cintura e s’inerpicava su di un colle in parte celato dalle ombre di una barriera di olmi. In cima alla collinetta, Eragon scorse la debole luce che proveniva da casa sua. La casa aveva il tetto di tegole e il comignolo di mattoni. Le grondaie sporgevano sui muri intonacati di bianco, ombreggiando il suolo attorno. Un lato del portico chiuso era ingombro di ciocchi di legna, pronti per il camino. Un groviglio di attrezzi agricoli affollava l’altro lato. La casa era abbandonata da mezzo secolo quando vi si erano trasferiti; era successo dopo la morte di Marian, la moglie di Garrow. Distava dieci miglia da Carvahall, più di qualsiasi altra fattoria. La gente considerava rischiosa quella distanza, perché in caso di pericolo la famiglia non avrebbe potuto contare sull’aiuto del villaggio, ma lo zio di Eragon non aveva voluto sentire ragioni. A circa cento piedi dalla casa, in un fienile scolorito, vivevano due cavalli. Birka e Brugh, insieme a una mucca e a qualche gallina. A volte c’era anche un maiale, ma quell’anno non se l’erano potuto permettere. Nel fienile c’era posto anche per un carro coperto. Al margine della proprietà, una folta linea di alberi delimitava il corso dell’Anora. Eragon vide una luce muoversi dietro una finestra mentre entrava sotto il portico. «Zio, sono Eragon. Aprimi.» Dapprima, e per un istante, si dischiuse una finestrella, poi la porta si spalancò. Sulla soglia c’era Garrow. I vestiti logori gli pendevano addosso come stracci su un manico di scopa. Un paio di occhi penetranti su un volto emaciato fissarono Eragon da sotto i capelli grigi. Sembrava un uomo che fosse stato parzialmente mummificato prima che scoprissero che era ancora vivo. «Roran dorme» rispose allo sguardo interrogativo di Eragon. Una lanterna tremolava su un tavolo di legno così vecchio che le venature formavano cordoncini simili a impronte digitali di un gigante. Sulla parete accanto alla stufa era appesa una serie di utensili da cucina. Una seconda porta conduceva al resto della casa. Il pavimento era di assi di legno consumate da anni di passi, Eragon posò lo zaino ed estrasse l’involto della carne. «E questo che cosa sarebbe? Hai comprato la carne? Dove hai preso i soldi?» domandò lo zio corrucciato, mentre il giovane apriva il pacco. Eragon inspirò a fondo prima di rispondere. «No, l’ha comprata Horst per noi.» «Hai lasciato che pagasse per noi? Quante volte te l’ho detto che non accetto elemosine? Se non riusciamo nemmeno a procurarci il cibo che ci serve, tanto vale trasferirci in città, allora. Vedrai, adesso cominceranno a mandarci anche vestiti usati e a chiedersi se ce la faremo a superare l’inverno.» Il volto di Garrow sbiancò di collera. «Non ho accettato nessuna elemosina» sbottò Eragon. «Horst mi ha detto che gli ripagherò il debito andando a lavorare da lui in primavera. Ha bisogno di un aiutante perché Albriech se ne va.» «E come troverai il tempo di lavorare per lui? Lo sai bene quanto c’è da fare qui» disse Garrow, sforzandosi di tenere bassa la voce. Eragon appese l’arco e la faretra a un gancio vicino alla porta d’ingresso. «Non lo so, come farò» disse irritato. «Comunque, ho trovato una cosa che potrebbe valere parecchio.» E posò la pietra sul tavolo. Garrow si chinò per esaminarla con sguardo rapace, le dita tremanti come in preda a uno strano tic. «L’hai trovata sulla Dorsale?» «Sì» disse Eragon, e gli spiegò che cos’era successo. «E ho anche perso la mia freccia migliore. Dovrò sbrigarmi a farne delle altre.» Zip e nipote fissarono la pietra alla fioca luce della lanterna. «Com’era il tempo?» domandò lo zio, e sollevò la pietra. Le sue mani si strinsero intorno all’oggetto come se temesse di vederla scomparire all’improvviso. «Freddo» rispose Eragon. «Non ha nevicato, ma ogni notte gelava.» Garrow parve turbato dalla notizia. «Domani dovrai aiutare Roran a finire di mietere l’orzo. Se riusciamo a raccogliere anche le zucche, il gelo non sarà un problema.» Passò la pietra a Eragon. «Ecco, tieni. Quando arriveranno i mercanti, scopriremo quanto vale. Probabilmente la cosa migliore da fare è venderla. Meno ci si immischia con la magia, meglio... Perché Horst ha pagato la carne per noi?» A Eragon bastarono pochi minuti per spiegare allo zio la sua discussione con Sloan.. «Non capisco perché si è arrabbiato tanto.» Garrow scrollò le spalle. «La moglie di Sloan. Ismira, precipitò dalle Cascate di Igualda un anno prima che tu arrivassi qui. Sloan non si è più avvicinato alla Grande Dorsale da allora, né ha voluto avere più niente a che fare con quel posto. Ma non c’è ragione di rifiutare un pagamento. Immagino che avesse soltanto voglia di litigare.» Eragon annuì e disse; «È bello essere di nuovo a casa.» Gli occhi di Garrow si addolcirono. Barcollando di stanchezza, Eragon si ritirò in. camera sua, depose la pietra sotto il letto, si lasciò cadere sul materasso. Casa. Per la prima volta da quando era partito per la caccia, si abbandonò del tutto nelle braccia del sonno. 3 Storie di draghi All’alba, i raggi del sole filtrarono dalla finestra, riscaldando il volto di Eragon. Il ragazzo si strofinò gli occhi e si alzò a sedere sulla sponda del letto. Il pavimento di legno era freddo sotto i piedi. Stiracchiò le gambe intorpidite e si massaggiò la nuca, sbadigliando. Vicino al letto c’era una serie di mensole che aveva riempito di oggetti collezionati nel corso degli anni. Frammenti contorti di alberi, strane conchiglie, sassi spezzati che rivelavano un interno scintillante, steli d’erba secca intrecciati. Il suo oggetto preferito era una radice intricata: non si stancava mai di guardarla. Il resto della camera era spoglio, fatta eccezione per un cassettone e un catino. Si infilò gli stivali e fissò il pavimento, pensieroso. Quello era un giorno speciale. Più o meno a quell’ora, sedici anni prima, sua madre Selena era arrivata a Carvahall, sola e incinta. Era stata via sei anni, e li aveva passati di città in città. Al suo ritorno, indossava abiti costosi e i suoi capelli erano racchiusi in una rete di perle. Aveva cercato il fratello. Garrow, e gli aveva chiesto di restare con lui fino alla nascita del bambino, che avvenne cinque mesi dopo. Appena dopo il parto, con le lacrime agli occhi, Selena chiese a Garrow e Marian di allevarle il piccolo. I due, esterrefatti, chiesero spiegazioni e fecero domande, ma la sua unica risposta, tra i singhiozzi, fu: «Devo.» Le sue suppliche diventarono sempre più disperate, e alla fine la coppia acconsentì. La madre lo chiamò Eragon; il giorno dopo partì di buon’ora e non fece mai più ritorno. Eragon ricordava ancora quello che aveva provato quando Marian gli aveva raccontato la storia, prima di morire. Scoprire che Garrow e Marian non erano i suoi veri genitori l’aveva turbato nel profondo. Cose che in precendenza aveva considerato ovvie e immutabili all’improvviso erano precipitate nell’abisso del dubbio. Col tempo aveva imparato a convivere con questo pensiero, ma aveva sempre covato l’insidioso sospetto di non essere stato all’altezza di sua madre. Sono sicuro che avesse una buona ragione per lasciarmi: vorrei solo sapere quale. Un’altra domanda lo tormentava: chi era suo padre? Selena non l’aveva detto a nessuno, e chiunque egli fosse, non era mai venuto a cercarlo. Avrebbe tanto voluto saperlo, almeno per poter avere un vero nome. Sarebbe stato bello conoscere il proprio retaggio. Sospirò e andò al catino. Immerse le mani nell’acqua e si spruzzò il viso. Tremò nel sentire le gocce scorrergli sul collo. Rinvigorito, prese la pietra da sotto il letto e la posò su una mensola. La luce del mattino accarezzò la sua superficie perfetta, proiettando una morbida ombra sulla parete. Eragon la toccò un’ultima volta e poi corse in cucina, desideroso di stare con la sua famiglia. Garrow e Roran erano già svegli, e mangiavano pollo. Quando Eragon li salutò. Roran si alzò con un sorriso. Roran aveva due anni più di Eragon, Era un giovanotto robusto e muscoloso che faceva sempre attenzione a come si muoveva. Se fossero stati veri fratelli, non avrebbero potuto essere più legati. «Sono felice che tu sia tornato. Com’è andato il viaggio?» «Un fiasco» rispose Eragon. «Lo zio ti ha raccontato cosa è successo?» Prese uh pezzo di pollo e lo divorò con grande appetito. «No» disse Roran, e subito dopo venne messo, al corrente dei fatti. Insistette tanto per vedere subito la pietra che Eragon lasciò il piatto a metà per accompagnarlo nella sua stanza e mostrargliela. Dopo qualche istante di esclamazioni di meraviglia e piacere. Roran gli domandò, nervoso: «Hai parlato con Katrina?» «No, non c’è stata l’occasione, dopo la discussione con Sloan. Ma lei ti aspetta all’arrivo degli erranti. Ho dato il messaggio a Horst; ci penserà lui a riferirglielo.» «L’hai detto a Horst?» esclamò Roran, incredulo. «Era una faccenda privata. Se avessi voluto farlo sapere a tutti, avrei acceso un falò e usato i segnali di fumo. Se Sloan lo scopre, non mi permetterà più di vederla.» «Horst terrà il segreto» lo rassicurò Eragon. «Non ha alcuna intenzione di dare a Sloan l’occasione di tormentare qualcuno, meno che mai te.» Roran non parve molto convinto, ma la discussione terminò lì. Tornarono in cucina a finire di mangiare, alla presenza taciturna di Garrow. Poi tutti e tre partirono per il lavoro nei campi. Il sole era freddo e pallido, avaro di conforto. Sotto il suo occhio vigile portarono l’orzo nel fienile, poi si dedicarono alla raccolta delle zucche, della brassica, delle barbabiètole, dei piselli, delle rape e dei fagioli, che ammassarono nella cantina. Alla fine dell’estenuante giornata, si sgranchirono i muscoli doloranti, felici di aver terminato il raccolto. Passarono i giorni seguenti a conservare, salare, sgusciare: a preparare le scorte di cibo per l’inverno. Nove giorni dopo il ritorno di Eragon, dalle montagne si abbattè sulla valle una terribile tempesta di neve. Le raffiche flagellavano la campagna, come bianchi sudari fluttuanti. I tre uomini uscirono di casa soltanto per prendere la legna da ardere e nutrire gli animali, perché temevano di perdersi nella neve turbinante, che impediva di orientarsi nel paesaggio uniforme. Passarono il tempo rannicchiati davanti alla stufa, mentre il vento scuoteva le imposte. Qualche giorno dopo la tempesta cessò, rivelando un mondo misterioso, coperto da una candida coltre. «Temo che gli erranti non verranno quest’anno, con questo tempaccio» disse Garrow. «Sono già in ritardo. Aspettiamo ancora un po’ prima di andare a Carvahall, ma se non arrivano presto, saremo costretti a comprare quello che ci serve al villaggio.» Il suo tono era rassegnato. Via via che i giorni trascorrevano senza traccia degli erranti, i tre diventavano sempre più ansiosi e taciturni. Sulla casa aleggiava un’atmosfera deprimente. La mattina dell’ottavo giorno. Roran si avventurò sulla strada e confermò che gli erranti non erano ancora passati. Trascorsero la giornata nei preparativi per il viaggio a Carvahall, racimolando con volti cupi ogni possibile mercé vendibile. Quella sera, per disperazione, Eragon controllò di nuovo la strada. Trovò profondi solchi nella neve, e molte impronte di zoccoli. Tornò a casa di corsa, tutto eccitato, e i preparativi si animarono di una rinnovata vitalità. Caricarono sul carro quello che potevano vendere prima dell’alba. Garrow ripose i risparmi di un anno in una bisaccia che legò alla cintura. Eragon infilò la pietra avvolta in un panno fra i sacchi di grano, per evitare che venisse sballottata durante il viaggio. Dopo una colazione frettolosa, attaccarono i cavalli e sgombrarono il sentiero per arrivare alla strada maestra. I carri dei mercanti avevano già spianato i cumuli di neve, e così poterono procedere spediti. A mezzogiorno. Carvahall era già ih vista. Alla luce del sole, appariva come un piccolo villaggio squallido, echeggiante di grida e risate. Gli erranti si erano accampati in uno spiazzo vuoto dove finivano le case. Gruppi di carri, tende e falò erano sparsi per il bivaccò, macchie di colore che spiccavano sul candore della neve. I quattro padiglioni dei trovatori risaltavano per i loro decori vivacissimi. Un flusso ininterrotto di gente univa l’accampamento al villaggio. La folla si aggirava fra due file di tende e bancarelle che ingombravano la via principale. I cavalli nitrivano, infastiditi dal chiasso. La neve era stata tanto pigiata e calpestata da diventare un’uniforme patina grigia, lucida come vetro affumicato; in alcuni punti, i falò l’avevano sciolta. L’aroma delle caldarroste dominava il miscuglio di odori. Garrow fermò il carro e legò i cavalli al palo di posta, poi trasse alcune monete dalla bisaccia. «Compratevi qualche squisitezza. Roran, fai quello che vuoi, ma trovati da Horst in tempo per la cena. Eragon, prendi la pietra e vieni con me.» Eragon fece un gran sorriso a Roran e s’infilò il denaro in tasca: sapeva già come spenderlo. Roran si allontanò subito, un’espressione decisa sul volto. Garrow guidò Eragon nella calca, facendosi largo a spintoni. Le donne compravano stoffe, mentre i mariti esaminavano un nuovo lucchetto, un gancio, un attrezzo. I bambini correvano su e giù per la strada, strillando eccitati. I banchi si susseguivano senza ordine, qui uno di coltelli, lì uno di spezie; lunghe file di pentole scintillavano accanto agli oggetti di cuoio. Eragon osservava gli erranti con curiosità: sembravano meno fiorenti dell’anno prima. I loro bambini avevano sguardi spaventati e diffidenti, e indossavano abiti rattoppati. Gli uomini smagriti portavano spade e pugnali con una nuova disinvoltura, e anche le donne avevano uno stiletto infilato nella cintura. Che cosa li ha fatti diventare così? E perché sono arrivati in ritardo? si chiese Eragon. Ricordava gli erranti come gente allegra e cordiale, ma ogni traccia della loro giovialità era scomparsa. Garrow si aggirava in cerca dì Merlock, un mercante che vendeva gioielli e ninnoli vari. Lo trovarono dietro un banco, intento a mostrare alcune spille a un gruppo di donne. Ogni nuovo gioiello veniva salutato da un coro di esclamazioni ammirate, segno che ben presto parecchi borsellini si sarebbero svuotati, Merlock gongolava orgoglioso; aveva una corta barba a punta e movenze agili e garbate, e sembrava considerare il resto del mondo con una nota di disprezzo. Il gruppetto eccitato impediva a Garrow e a Eragon di avvicinarsi; si sedettero su un gradino, in attesa. Non appena videro che Merlock si era liberato, si fecero avanti. «Che cosa desiderano lor signori?» domandò Merlock. «Un amuleto o un bel monile per una dama?» Con uno svolazzo della tunica, mostrò loro una rosa d’argento finemente lavorata. Il metallo lucido attirò l’attenzione di Eragon, che sgranò gli occhi, rapito. Il mercante proseguì: «Nemmeno tre corone: e pensare che è opera dei famosi artigiani di Belatona.» Garrow parlò in tono sommesso. «Non vogliamo comprare, ma vendere.» Merlock coprì di nuovo la rosa e li guardò con mutato interesse. «Capisco. Magari, se il vostro articolo è prezioso, potreste volerlo scambiare con un paio di questi pezzi squisiti.» Fece una pausa, ma Eragon e lo zio esitavano, perciò continuò: «Avete portato l’oggetto in questione?» «Sì, ma vorremo mostrartelo in disparte» disse Garrow, risoluto. Merlock inarcò un sopracciglio, ma parlò con voce tranquilla. «In questo caso, permettetemi di invitarvi nella mia tenda.» Raccolse la sua mercanzia e la depose in una cassetta di ferro, che chiuse a chiave. Poi fece loro cenno di seguirlo nell’accampamento. Si fecero strada fra i carri, fino a una tenda leggermente discosta dalle altre. La parte superiore era cremisi mentre il resto era nero, con piccoli triangoli variopinti intrecciati. Merlock sciolse i legacci dell’ingresso e sollevò un lembo. L’interno della tenda era occupato da oggetti di varia natura e da uno strano arredamento: un letto rotondo e tre scranni ricavati da altrettanti ceppi d’albero. Su un cuscino bianco era adagiato un pugnale ricurvo, con un rubino incastonato nell’elsa. Merlock richiuse il lembo e si volse. «Prego, accomodatevi.» Zio e nipote si sedettero. «Ora spiegatemi il motivo di tanta segretezza.» Eragon aprì l’involto che conteneva la pietra. Merlock tese una mano, con un certo brillio negli occhi, poi si bloccò e chiese: «Posso?» Al cenno affermativo di Garrow, Merlock afferrò la pietra e se la posò in grembo. Si protese a prendere una cassetta. All’interno c’erano una serie di strumenti di rame, che usò per misurare e pesare la pietra. Poi ne esaminò la superficie con una lente da orafo, la picchiettò delicatamente con un martelletto di legno, e vi passò sopra la punta di un’altra pietra trasparente. Ne misurò la lunghezza e il diametro, e annotò le cifre su una lavagna. Meditò qualche istante e infine chiese: «Sapete quanto vale?» «No» ammise Garrow. Un lieve spasmo gli percorse la guancia, e l’uomo si assestò sul sedile. Merlock fece una smorfia. «Purtroppo nemmeno io. Ma posso dirvi questo: le venature bianche sono dello stesso materiale azzurro che le circonda, cambia solo il colore. Di quale materiale si tratti, non ne ho idea. È più duro di qualsiasi pietra che abbia mai visto, persino del diamante. Chiunque l’abbia lavorata, deve aver usato degli strumenti che non conosco... o la magia. Ed è cava dentro.» «Cosa?» esclamò Garrow. Una punta d’irritazione trapelò nella voce di Merlock. «Avete mai sentito una pietra suonare così?» Prese il pugnale dal cuscino e lo calò di piatto sulla pietra. Una nota argentina risuonò nell’aria, per poi sfumare lentamente. Eragon si allarmò: temette che la pietra fosse stata scalfita. Merlock la inclinò verso di loro. «Non troverete nessun graffio o ammaccatura nel punto in cui l’ho colpita. Non credo che riuscirei a danneggiarla nemmeno se usassi un maglio.» Garrow incrociò le braccia con espressione dubbiosa. Su di loro calò il silenzio. Eragon era sconcertato. Sapevo che la pietra è comparsa sulla Dorsale grazie alla magia, ma è stata fatta con la magia? A quale scopo? «Quanto vale?» domandò di getto. «Non so dirvelo» rispose Merlock, perplesso. «Sono sicuro che certe persone pagherebbero una fortuna per entrarne in possesso, ma nessuna di loro si trova a Carvahall. Se volete trovare un compratore, vi consiglio di provare nelle città a sud. Da queste parti si tratta solo di una curiosità... non di un oggetto che valga la pena di comprare quando c’è bisogno di tante altre cose più utili.» Garrow alzò gli occhi verso il soffitto della tenda, come un giocatore d’azzardo che calcola le probabilità. «Allora, vuoi comprarla o no?» La risposta del mercante fu immediata. «H gioco non vale la candela. Forse potrei trovare un compratore danaroso durante uno dei miei viaggi primaverili, ma non posso darvi alcuna garanzia. E se anche lo trovassi, voi dovreste aspettare l’anno prossimo per avere i soldi. No, temo che dovrete rivolgervi a qualcun altro. Però sono curioso... Perché avete insistito a volermi parlare in privato?» Eragon mise via la pietra prima di rispondere. «Perché» esitò, adocchiando il mercante nel timore che sarebbe esploso come Sloan. «perché l’ho trovata sulla Grande Dorsale, e alla gente di qui non piace quel posto.» Merlock lo guardò, stupito. «Conoscete la ragione per cui io e i miei compagni siamo arrivati tardi quest’anno?» Eragon scosse la testa. «I nostri viaggi sono stati costellati di disgrazie. Ih Alagasëia sembra regnare il caos più assoluto. Siamo stati perseguitati da malattie, aggressioni e dalla più nera delle sfortune. Poiché gli attacchi dei Varden si sono fatti più frequenti. Galbatórix ha costretto le città a inviare altre truppe ai confini, uomini che invece sono necessari a combattere gli Urgali. Quei mostri stanno migrando a sudest, verso il Deserto di Hadarac. Nessuno sa perché, ma non sarebbe così grave, se non fosse che attraversano le zone popolate. Sono stati avvistati sulle strade e vicino ad alcune città. Peggio ancora, c’è chi parla di uno Spettro, anche se queste voci non hanno trovato conferma. Non sono molti coloro che sopravvivono a un simile incontro.» «Perché non ne sapevamo niente?» esclamò Eragon. «Perché» rispose Merlock in tono cupo «è cominciato tutto appena qualche mese fa. Interi villaggi sono stati costretti a migrare perché gli Urgali hanno devastato i loro campi e la carestia incombe.» «Sdocchezze» grugnì Garrow. «Non abbiamo visto nessun Urgali; runico da queste parti ha le corna appese nella taverna di Morn.» Merlock scosse la testa. «Può darsi, ma questo è un piccolo villaggio nascosto fra le montagne. Non mi sorprende che siate scampati al pericolo. Tuttavia ritengo che la vostra tranquillità non durerà a lungo. Vi ho parlato di queste cose perché anche qui hanno cominciato ad accadere strani eventi, visto che il ragazzo ha trovato la pietra sulla Grande Dorsale.» Detto questo, li congedò con un inchino e un lieve sorriso. Garrow prese la via del ritorno verso Carvahall. Eragon gli trottava alle spalle. «Cosa ne pensi?» chiese allo zio. «Mi servono altre informazioni prima di farmi un’idea precisa. Riporta la pietra sul carro e poi fa’ quello che vuoi. Ci vediamo a cena da Horst.» Eragon s’infilò tra la folla e corse dove avevano lasciato il carro. Gli affari avrebbero trattenuto lo zio per ore, e lui aveva tutte le intenzioni di trascorrerle a divertirsi. Nascose la pietra sotto i sacchi e tornò al mercato con passo baldanzoso. Si fermò davanti alle bancarelle a studiare la mercanzia con l’aria di chi intende comprare, malgrado le scarse risorse. Parlò con i venditori, e tutti confermarono quello che aveva detto Merlock sul fragile equilibrio di Alagasëia. Il messaggio era sempre lo stesso: la tranquillità dello scorso anno ci ha abbandonati; nuovi pericoli si profilano all’orizzonte; nessuno è più al sicuro. Comprò tre bastoncini di malto caramellato e una tortina alle ciliegie appena sfornata. Si lasciò pervadere con piacere dal calore del dolce, dopo le lunghe ore di freddo patito. Leccò via lo sciroppo appiccicoso dalle dita, dispiaciuto di non avere un’altra tortina, poi si sedette sui gradini di un portico a mordicchiare un bastoncino di caramello. Poco lontano c’erano due ragazzi di Carvahall che giocavano, ma non aveva voglia di unirsi a loro. Con l’avvicinarsi del tramonto, i mercanti proseguirono i loro commerci dentro le case del villaggio. Eragon aspettava impaziente la sera, quando sarebbero arrivati i trovatori a narrare storie e a esibirsi in giochi di prestigio. Adorava i loro racconti che parlavano di magia, degli dei e, se erano particolarmente fortunati, dei Cavalieri dei Draghi. Carvahall aveva un proprio cantastorie. Brom, un amico di Eragon, ma i suoi racconti erano invecchiati col passare degli anni, mentre i trovatori avevano sempre qualcosa di nuovo da dire, qualcosa che lui ascoltava con passione. Eragon aveva appena spezzato un ghiacciolo che penzolava dal portico quando vide passare Sloan. Il macellaio non si accorse di lui, così Eragon chinò il capo e ne approfittò per sgusciare dietro un angolo e infilarsi nella taverna di Morn. Il locale era caldo, impregnato del fumo grasso emanato dalle candele di sego. Le corna nere e lucenti dell’Urgali, larghe quanto le sue braccia distese, erano montate sull’architrave della porta. Il bancone era lungo e basso, con una rastrelliera di stecche di legno da un lato, dedicate ai clienti in vena d’intaglio. Morn serviva al banco, le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti. La parte bassa del suo viso era tronca e schiacciata, come se avesse appoggiato il mento su una mola. I tavoli di quercia erano gremiti di gente intenta ad ascoltare due mercanti che avevano concluso presto i loro affari ed erano entrati a bere una birra. Morn alzò lo sguardo da un boccale che stava pulendo. «Eragon! Che piacere vederti. Dov’è tuo zio?» «In giro a far compere» rispose Eragon con una scrollata di spalle. «Ci metterà parecchio.» «E Roran, c’è anche lui?» domandò Morn, passando a pulire un altro boccale. «Sì, niente animali malati a tenerlo a casa quest’anno.» «Bene, bene.» Eragon indicò i due mercanti. «Chi sono?» «Commercianti di granaglie. Hanno comprato a prezzi così bassi da essere ridicoli, e adesso stanno raccontando un mucchio di storie, e si aspettano che noi ci crediamo.» Eragon capì perché Morn era turbato. La gente ha bisogno di denaro. Non possiamo farne a meno. «Che tipo di storie?» Morn sbuffò. «Dicono che i Varden hanno stretto un patto con gli Urgali e stanno ammassando un esercito per attaccarci. A quanto pare, è solo grazie al nostro augusto sovrano che siamo rimasti incolumi per così lungo tempo... come se a Galbatorix importasse un accidente se le nostre terre vengono devastate… A ogni modo, valli a sentire. Io ho di meglio da fare che starti qui a spiegare le loro panzane.» Il primo mercante entrava a stento nella sedia; a ogni movimento, il legno gemeva sotto il peso. Il suo volto era imberbe, le mani tozze e grassocce erano lisce come quelle di un bambino, e per bere dal boccale arricciava le labbra carnose come una comare petulante. Il secondo aveva una faccia rubiconda, con una pappagorgia flaccida piena di noduli di grasso, come grumi di burro rancido. In confronto al viso e al collo, il resto del corpo era di una magrezza innaturale. Il primo mercante disse: «No, no, non capite. È solo grazie all’opera costante del re che voi potete stare qui a discutere con noi in tutta sicurezza. Se mai dovesse, nella sua imperscrutabile saggezza, ritirare il suo sostegno, poveri voi!» Qualcuno intervenne. «Certo, come no? E adesso perché non ci raccontate anche che sono tornati i Cavalieri e che avete ucciso un centinaio di elfi? Credete forse che siamo dei bambini, per credere alle vostre storie? Sappiamo cavarcela da soli.» Gli altri avventori ridacchiarono. Il mercante fece per ribattere, ma il suo smilzo compagno lo interruppe con un gesto della mano. Sulle sue dita scintillavano anelli preziosi. «Ci avete fraintesi. Sappiamo bene che l’Impero non può prendersi cura di ciascuno di noi personalmente, come vorreste, ma almeno impedisce agli Urgali e agli altri mostri di invadere questo...» cercò rapidamente il termine esatto «... posto.» Il mercante proseguì. «Siete arrabbiati con l’Impero perché tratta il popolo ingiustamente: è un risentimento legittimo, ma un governo non può soddisfare tutti. Conflitti e malanimo sono inevitabili. Tuttavia la maggior parte di noi non ha nulla di cui lamentarsi. Ogni paese ha le sue piccole sacche di resistenza che si ribellano al potere.» «Già» disse una donna. «se vogliamo definire piccoli i Varden.» Il grassone sospirò. «Vi abbiamo già spiegato che i Varden non hanno alcun interesse ad aiutarvi. È soltanto una falsa speranza, alimentata dai traditori nel tentativo di minare l’Impero e convincerci che la vera minaccia si trova all’interno, e non all’esterno dei nostri confini. Il loro scopo è solo quello di detronizzare il re e impossessarsi delle nostre terre. Hanno spie dappertutto e si preparano a invaderci. Non si può mai sapere chi è al loro servizio.» Eragon.non era d’accordo, ma le parole del mercante erano insinuanti, e qualcuno annuì. Si fece avanti e disse: «Come fate a sapere queste, cose? Io potrei dire che le nuvole sono verdi, ma questo non vuoi dire che sia vero. Dateci una prova che non state mentendo.» I due uomini lo guardarono minacciosi, mentre gli abitanti del villaggio aspettavano una risposta, in silenzio. Il mercante magro parlò per primo, evitando lo sguardo di Eragon. «Non insegnate forse il rispetto ai vostri figli? O lasciate che i ragazzi s’intromettano nelle questioni dei grandi quando vogliono?» I presenti esitarono, scrutando Eragon. Poi un uomo disse: «Rispondete alla domanda.» «Si tratta solo di buonsenso» disse il grassone, il labbro superiore imperlato di sudore. La sua risposta irritò la platea, e la discussione riprese. Eragon tornò al bancone con l’amaro in bocca. Non aveva mai conosciuto nessuno che amasse l’Impero e disprezzasse i suoi nemici. Carvahall covava un odio profondo per l’Impero, un odio che si tramandava di generazione in generazione. L’Impero non aveva alzato un dito per aiutarli durante i terribili anni di carestia, e i suoi esattori delle tasse erano spietati. Si sentiva giustificato a dissentire dai mercanti sulla magnanimità del re, ma non sapeva che cosa pensare dei Varden. I Varden erano un gruppo di ribelli che attaccavano e razziavano l’Impero di continuo, Era un mistero chi li guidasse o chi li avesse riuniti negli anni seguiti all’ascesa al trono di Galbatorix, più di un secolo prima. Il gruppo si era conquistato sempre più simpatie via via che eludeva gli sforzi di Galbatorix per distruggerlo. Poco si sapeva dei Varden: ma se eri un fuggiasco e dovevi nasconderti, o se odiavi l’Impero, ti avrebbero accolto a braccia aperte. L’unico problema era trovarli. Morn si sporse sul bancone e disse: «Incredibile, vero? Sono peggio degli avvoltoi che volano intorno a un animale moribondo. Se restano ancora un po’, prevedo guai.» «Per noi o per loro?» «Per loro» disse Morn, mentre voci concitate si levavano dai tavoli, Eragon se ne andò quando la discussione minacciava di degenerare. La porta si richiuse alle sue spalle con un tonfo, smorzando le grida. Il sole si stava tuffando dietro l’orizzonte; le case stampavano lunghe ombre sul terreno. Mentre camminava per la via principale, Eragon scorse Roran e Katrina in un vicolo. Roran disse qualcosa che Eragon non riuscì a sentire, Katrina abbassò lo sguardo e rispose in un sussurro, poi si alzò in punta di piedi e lo baciò, prima di allontanarsi in tutta fretta, Eragon si avvicinò a Roran e lo canzonò: «Hai passato un bel pomeriggio?» Roran borbottò vago e s’incamminò. «Hai sentito cosa dicono gli erranti?» gli domandò Eragon, seguendolo. La maggior parte degli abitanti del villaggio era in casa, a trattare con i mercanti o ad aspettare la sera per l’esibizione dei trovatori. «Sì.» Roran pareva distratto. «Cosa ne pensi di Sloan?» «Credevo che fosse evidente.» «Si scatenerà un pandemonio quando saprà di me e Katrina» disse Roran. Un fiocco di neve atterrò sul naso di Eragon, che alzò lo sguardo. Il cielo era diventato grigio. Non gli venne in. mente niente da dire. Roran aveva ragione. Gli posò una mano sulla spalla e continuò a camminare con lui lungo la stradina. La cena a casa di Horst fu molto piacevole. Tutti conversarono e risero amabilmente; liquori dolci e birra forte, bevuti in dosi massicce, contribuirono a riscaldare l’atmosfera. Svuotati i piatti, gli ospiti di Horst uscirono, diretti all’accampamento degli erranti. Un anello di pali conficcati nel terreno, sormontati da candele, delimitava un ampio cerchio. I falò ardevano tutt’intorno, creando ombre danzanti. Gli abitanti del villaggio si radunarono nello spiazzo e attesero al freddo. I trovatori uscirono schiamazzando dalle loro tende, nei loro vestiti ricchi di nappe, seguiti da menestrelli più anziani, vestiti in modo più sobrio. I menestrelli suonarono e raccontarono le storie, mentre i giovani recitavano nei ruoli diversi. Le prime rappresentazioni furono puro spettacolo: licenziose, umoristiche, una serie di scenette ridicole e personaggi grotteschi. Ma quando le candele cominciarono a sfrigolare e tutti si strinsero in un cerchio più piccolo, si fece avanti Brom, il vecchio cantastorie. Una folta barba bianca gli copriva il torace, e sulle spalle curve portava un mantello che gli nascondeva il corpo. Allargò le braccia, le mani tese come artigli, e così recitò: «Le sabbie del tempo non si fermano. Gli anni passano, volenti o nolenti... ma noi possiamo ricordare. Quel che è perduto rivive nelle nostre memorie. Ciò che ascolterete sarà imperfetto e lacunoso, ma serbatelo come un tesoro, poiché senza di voi non esisterebbe. Vi narrerò una storia a lungo dimenticata, celata nella nebbia incantata dei tempi.» I suoi occhi penetranti scrutarono i volti attenti; per qualche istante si soffermarono su Eragon. «Prima della nascita dei padri dei vostri nonni, e sì, prima ancora dei loro padri, sorsero i Cavalieri dei Draghi. Per migliaia di anni svolsero con successo la nobile missione di proteggere e difendere il popolo. La loro abilità in battaglia era ineguagliabile, poiché ciascuno possedeva la forza di dieci uomini. Erano immortali, pur essendo vulnerabili alla spada o al veleno. Usavano i loro poteri solo a fin di bene, e sotto la loro tutela vennero costruite grandi città e innalzate torri di roccia viva. Grazie alla pace che essi mantenevano, la terra prosperava. Fu un’epoca d’oro. Gli elfi erano nostri alleati, i nani nostri amici. Le città traboccavano di opulenza, e gli uomini godevano di grande prosperità. Ma piangete, amici... poiché tutto questo era destinato a non durare.» Brom abbassò lo sguardo e la sua voce s’incrinò, velata da una grande tristezza. «Sebbene nessun nemico potesse distruggerli, non seppero guardarsi da se stessi. E venne il giorno in cui, al culmine della loro potenza, nacque un maschio di nome Galbatorix nella provincia di Inzilbèth, che non esiste più.. All’età di dieci anni venne messo alla prova, com’era usanza, e si scoprì che possedeva un grande potere. I Cavalieri lo accolsero come uno di loro. «Lo istruirono e lo addestrarono, e il giovane si dimostrò superiore a tutti gli altri allievi. Di mente acuta e fisico gagliardo, in breve tempo conquistò il suo posto fra i ranghi dei Cavalieri. Qualcuno considerò pericolosa quella sua rapida ascesa e ammonì gli altri, ma i Cavalieri ignorarono la cautela, poiché il potere li aveva resi arroganti. Ahimè, quel giorno fu concepita la sventura. «Poco dopo aver completato l’addestramento. Galbatorix intraprese un viaggio insieme a due amici. Volarono a nord, notte e giorno, ed entrarono nel territorio degli Urgali, pensando, stolti, che i loro nuovi poteri li avrebbero protetti. Su una spessa coltre di ghiaccio, che nemmeno il sole d’estate aveva sciolto, furono colti nel sonno da un’imboscata. I suoi amici e i loro draghi vennero massacrati, e anche Galbatorix subì gravi ferite, ma riuscì lo stesso a uccidere i suoi aggressori. Purtroppo, durante la battaglia, una freccia vagante colpì il cuore del suo drago. Egli non conosceva le arti per salvarla, e la povera creatura spirò fra le sue braccia, Ecco come venne piantato il seme della follia.» Il cantastorie si strinse le mani e si guardò intorno lentamente, il volto illuminato appena dalle tremule luci dei falò. Il racconto proseguì come la triste recita di un requiem. «Solo, fiaccato nel corpo e nello spirito, impazzito di dolore. Galbatorix vagò disperato in quella landa desolata, invocando la morte. Ma la morte non rispose, malgrado egli si avventasse impavido contro ogni forma vivente. Gli Urgali e gli altri mostri impararono presto a fuggire quell’essere tormentato. Nel frattempo Galbatorix cominciò a credere che i Cavalieri gli avrebbero assegnato un altro drago. Spinto da questo pensiero, intraprese l’ardua via del ritorno, a piedi, attraverso la Grande Dorsale. Gli ci vollero mesi per valicare il territorio che aveva sorvolato senza affanni sul dorso di un drago. Poteva ancora fare ricorso alla magia per cacciare, ma spesso camminava in luoghi dove gli animali non passavano. Quando infine giunse ai piedi delle montagne, era prossimo alla morte. Un contadino lo trovò svenuto nel fango e convocò i Cavalieri. «Lo portarono privo di sensi nelle loro terre, e il suo corpo fu sanato. Dormì quattro giorni. Al risveglio, nulla faceva supporre che fosse impazzito. Quando venne condotto davanti al consiglio riunitosi per giudicarlo. Galbatorix chiese un altro drago. La disperazione della sua richiesta rivelò la sua follia, e il consiglio lo riconobbe per quello che era. Di fronte a tale diniego. Galbatorix, attraverso la lente distorta della sua mente malata, cominciò a credere che fosse colpa dei Cavalieri se il suo drago era morto. Da quel momento, lunghe notti passò a escogitare il piano per la vendetta.» La voce di Brom divenne un sussurro ipnotico. «Trovò un Cavaliere solidale, e le sue parole insidiose misero radici. Con ragionamenti persuasivi e l’uso di oscuri segreti appresi da uno Spettro, istigò il Cavaliere contro gli anziani. Insieme ne attirarono uno con l’inganno in un’imboscata e lo assassinarono. Quando l’empio gesto fu compiuto. Galbatorix si rivolse contro il suo complice e lo uccise. I Cavalieri lo trovarono con le mani ancora grondanti di sangue. Dalle sue labbra si levò un grido straziante, e fuggì nella notte. Poiché la follia lo aveva reso ancora più scaltro, i Cavalieri non riuscirono a scovarlo. «Per anni si nascose fra le terre desolate come un animale braccato, vigilando di continuo. Il suo atroce gesto non fu dimenticato, ma col tempo i Cavalieri abbandonarono le ricerche. Per un infausto capriccio della sorte, egli incontrò un giovane Cavaliere, Morzan, forte di muscoli ma debole di cervello. Galbatorix convinse Morzan a lasciare aperto uno dei cancelli di Ilirea, che ora si chiama Urù’baen. Nottetempo. Galbatorix s’introdusse furtivamente nella cittadella e rubò un cucciolo di drago. «Insieme al suo nuovo discepolo. Galbatorix si nascose in un luogo maledetto, dove i Cavalieri non osavano avventurarsi, Morzan divenne apprendista di oscuri segreti e incantesimi proibiti, che non avrebbero mai dovuto essere rivelati. Quando la sua formazione fu completa e il drago nero di Galbatorix, Shruikan, raggiunse la piena maturità. Galbatorix si rivelò al mondo, con Morzan al suo fianco. Insieme combatterono ogni Cavaliere che incontrarono sul cammino. Ogni assassinio accresceva la loro forza. Dodici Cavalieri si unirono a Galbatorix per desiderio di potere e di vendetta contro presunti torti subiti. I dodici, con Morzan, divennero i Tredici Rinnegati. I Cavalieri furono colti di sorpresa e perirono sotto i loro attacchi. Anche gli elfi combatterono aspramente contro Galbatorix, ma vennero sopraffatti e costretti a fuggire nei loro luoghi segreti, da cui non sono più tornati. «Soltanto Vrael, capo dei Cavalieri, riuscì a resistere a Galbatorix e ai Rinnegati. Vecchio e saggio, lottò per impedire che gli ultimi draghi cadessero nelle mani nemiche. Durante l’ultima battaglia, davanti alle porte di Dorù Areaba. Vrael sconfisse Galbatorix, ma al momento del colpo di grazia esitò. Galbatorix approfittò della circostanza e lo trafisse al fianco. Ferito e sofferente. Vrael si rifugiò sul Monte Utgard, dove sperava di recuperare le forze. Purtroppo Galbatorix lo trovò. Questa volta, durante il duello. Galbatorix gli sferrò un calcio all’inguine, e grazie a quel colpo sleale riuscì a fargli perdere l’equilibrio e gli recise la testa di netto. «Mentre il potere gli ribolliva nelle vene. Galbatorix si autoproclamò re di tutta l’Alagasëia. «E da quel giorno ci governa.» Concluso il racconto. Brom si ritirò con gli altri trovatori. Eragon credette di vedere una lacrima brillare sulla guancia del vecchio. La folla si divise per tornare al villaggio, mormorando. Garrow disse a Eragon e Roran: «Consideratevi fortunati. Io non ho ascoltato questa storia che un paio di volte in vita mia. Se l’Impero sapesse che Brom l’ha recitata, non vivrebbe tanto da vedere la prossima luna.» 4 Un dono del fato La sera dopo il ritorno da Carvahall, Eragon decise di sottoporre la pietra a qualche esperimento, come i aveva fatto Merlock. Solo, nella sua stanza, la posò sul letto insieme a tre arnesi. Cominciò con un piccolo mazzuolo di legno e la picchiò delicatamente. La pietra emise un lieve suono argentino. Soddisfatto, la colpì con il secondo attrezzo, un pesante martello, e ne uscì un mesto rintocco. Infine usò uno scalpello, che non riuscì a scalfire né a graffiare la pietra, ma produsse un suono limpidissimo. Mentre la nota svaniva, gli parve di udire un debole squittio. Merlock ha detto che la pietra era cava; potrebbe contenere qualcosa di prezioso. Però non so come aprirla. Chiunque l’abbia lavorata deve aver avuto una buona ragione per farlo, ma chi l’ha mandata sulla Grande Dorsale non si è dato la pena di recuperarla, oppure non sa dove si trova. Ma non credo che un mago con tanto potere da spostare in quel modo la pietra non sia poi capace di ritrovarla. Allora ero destinato ad averla? Non sapeva darsi una risposta. Rassegnato davanti a quel mistero, ripose gli arnesi e mise di nuovo la pietra sulla mensola. Quella notte Eragon si svegliò di soprassalto. Drizzò le orecchie. Silenzio. In preda all’inquietudine, infilò la mano sotto il materasso e afferrò il coltello. Aspettò qualche minuto, poi sprofondò di nuovo nel sonno. Uno squittio acuto lacerò il silenzio. Un attimo dopo era già in piedi, con il coltello sguainato. Cercò a tentoni la scatola con l’acciarino e accese una candela. La porta della stanza era chiusa. Lo squittio era troppo forte per appartenere a un topo o a un ratto, ma controllò lo stesso sotto il letto. Niente. Si sedette sul bordo del materasso e si strofinò gli occhi. Un altro squittio lo fece sobbalzare. Da dove veniva quel rumore? Non poteva esserci niente nelle pareti o nel pavimento: erano fatti di legno massiccio. Lo stesso valeva per il letto, e comunque se ne sarebbe accorto, se qualcosa si fosse intrufolato nel materasso di paglia durante la notte. Il suo sguardo si posò sulla pietra. La prese dalla mensola e cominciò ad accarezzarla distrattamente, mentre esaminava la stanza. Un altro squittio gli trillò nelle orecchie e gli riverberò nelle dita: veniva dalla pietra. Quella cosa non gli aveva procurato che rabbia e delusione, e adesso non lo faceva nemmeno dormire! La pietra ignorò il suo sguardo furente e continuò a emettere qualche raro pigolio. Poi diede in un ultimo sonoro squittio e tacque. Eragon la rimise al suo pósto e tornò sotto le coperte. Qualunque fosse il segreto della pietra, avrebbe dovuto aspettare la mattina dopo. La luna filtrava dalla finestra quando Eragon si svegliò ancora. La pietra dondolava furiosamente sulla mensola, cozzando contro la parete. I freddi raggi lunari le davano un colore translucido. Eragon balzò fuori dal letto con il coltello in pugno. Il movimento cessò, ma il ragazzo rimase in guardia. Poi la pietra ricominciò a squittire e a vibrare più forte di prima. Eragon lanciò un’imprecazione e si vestì in fretta e furia. Non gli importava quanto valesse quella pietra: l’avrebbe portata lontano e seppellita. Le oscillazioni cessarono di nuovo; la pietra si acquietò. Poi ebbe un fremito, s’inclinò in avanti e cadde sul pavimento con un tonfo. Eragon fece un passo verso la porta, mentre la pietra rotolava verso di lui. A un tratto, sulla superficie comparve una crepa. Poi un’altra, e un’altra ancora. Affascinato, Eragon si chinò per osservarla, il coltello sempre stretto in pugno. In cima, dove s’incontrava la ragnatela di fessure, un piccolo frammento sussultò, come se fosse in equilibrio, si sollevò e infine cadde sul pavimento. Dopo un’altra serie di squittii, dal foro sbucò una piccola testa nera, seguita da un bizzarro corpo contorto. Eragon strinse il coltello ancora più forte. In pochi istanti la creatura sgusciò del tutto fuori dalla pietra. Restò immobile per un attimo, poi guizzò verso la luce della luna. Eragon si ritrasse, sbigottito. Davanti a lui, intento a leccar via la membrana che lo ricopriva, c’era un drago. 5 Risveglio Il drago era lungo appena quanto il suo avambraccio, eppure aveva un’aria nobile e dignitosa. Le sue squame erano blu zaffiro, lo stesso colore della pietra. Anzi, ormai era chiaro: non una pietra, un uovo. Il drago dispiegò le ali; ecco perché al principio il suo corpo gli era sembrato deforme. Le ali erano parecchie volte più lunghe del corpo, listate di sottili nervature d’osso che si estendevano dal bordo davanti, formando una serie di artigli distanziati. La testa del drago era triangolare; dalla mascella superiore spuntavano due piccole e bianche zanne affilate. Anche le unghie erano bianche come lucido avorio, e ricurve. Lungo la spina dorsale della creatura, dalla base della testa fino alla coda, correva una cresta di punte acuminate. Dove le spalle si univano al collo, le punte erano più distanziate che altrove: lì lasciavano uno spazio vuoto, Eragon si mosse appena, e il drago girò la testa di scatto e lo fissò con i suoi profondi occhi azzurro ghiaccio. Il ragazzo rimase immobile. Se la creatura avesse deciso di attaccare, sarebbe stata un’avversaria formidabile. Il drago perse subito interesse per Eragon e cominciò a esplorare la stanza. Si muoveva con difficoltà e squittiva quando urtava contro un mobile o una parete. Con un frullo d’ali, balzò sul letto e strisciò verso il cuscino, pigolando. La sua bocca spalancata aveva un che di commovente, come il becco di un pulcino, ma era irta di denti aguzzi, Eragon si sedette ai piedi del letto. Il drago gli annusò la mano e gli addentò piano la manica. Eragon ritrasse il braccio. Nell’osservare la piccola creatura, gli sfuggì un sorriso di tenerezza. Tese lentamente la mano destra e toccò il fianco del drago. Un lampo di gelida energia gli trafisse la mano e gli percorse il braccio, bruciandogli le vene come fuoco liquido. Cadde all’indietro, lanciando un urlo. Un clangore metallico gli risuonò nelle orecchie, e sentì un muto grido di rabbia. Ogni parte del suo corpo bruciava di dolore. Provò a muoversi, ma non ci riuscì. Dopo quelle che gli parvero ore, il calore gli tornò formicolando nelle membra. Scosso da un tremito incontrollabile, si rimise a sedere. Aveva la mano intorpidita, le dita paralizzate. Preoccupato, si guardò il palmo della mano: al centro si stava formando un lucido ovale bianco. La pelle gli prudeva e bruciava come se fosse stato morso da un ragno. Il cuore gli batteva all’impazzata. Eragon sbatte le palpebre, cercando di capire che cosa fosse successo. Qualcosa gli sfiorò la coscienza, come un dito carezzevole sulla pelle. Poi lo sentì di nuovo, questa volta più deciso, come un tentacolo di pensiero attraverso il quale avvertiva una crescente curiosità. Era come se un muro invisibile intorno ai suoi pensieri fosse crollato, lasciandolo libero di espandersi con la mente. Provò la spaventosa sensazione che senza qualcosa a trattenerlo sarebbe fluttuato fuori dal corpo senza poi essere in grado di rientrarvi, diventando uno spirito dell’etere. Impaurito, si sottrasse al contatto. Il. nuovo senso svanì come se avesse chiuso gli occhi. Guardò corrucciato il drago immobile. Una zampa squamosa gli grattò il fianco, e lui fece un balzo all’indietro, per paura di una nuova scarica di energia, che però non ci fu. Sconcertato, accarezzò la testa del drago con la mano destra; soltanto un leggero formicolio gli pervase il braccio. Il drago gli strofinò il muso addosso, inarcando la schiena come un gatto. Eragon fece scorrere un dito sulla sottile membrana di un’ala. Sembrava una vecchia pergamena, tiepida e vellutata, ma era ancora leggermente umida. Centinaia di vene sottili pulsavano lì dentro. Il tentacolo gli toccò di nuovo la mente, ma questa volta, invece di curiosità, provò un senso di fame vorace. Si alzò con un sospiro. Era un animale pericoloso, senz’ombra di dubbio, eppure aveva un’aria così indifesa, lì rannicchiato sul suo letto, che il ragazzo si chiese se non fosse il caso di tenerlo. Il drago emise un piagnucolio stridulo, come se cercasse del cibo. Eragon si affrettò ad accarezzarlo sulla testa per tranquillizzarlo. Ci penserò dopo, disse, e uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Quando tornò con due strisce di carne secca, trovò il drago appollaiato sul davanzale a contemplare la luna. Tagliò la carnè a pezzetti e ne porse uno al drago. L’animale lo annusò con diffidenza, poi fece scattare la testa in avanti come un serpente e gli strappò via il pezzette dalle dita. Lo inghiottì tutto in una volta, con uno strano singulto. Poi spinse il muso contro la sua mano, per chiederne ancora. Eragon gli diede da mangiare, stando bene attento alle dita. Quando non fu rimasto che un ultimo pezzetto di carne, la pancia del drago era gonfia. Il ragazzo glielo offrì; la creatura esitò un istante, poi lo prese e lo inghiottì senza fretta. Finito di mangiare, gli si arrrampicò sul braccio e si accoccolò sul suo petto. Sbuffò, e dalle narici gli uscì una nuvoletta di fumo nero. Eragon lo guardava affascinato. Proprio quando era convinto che il drago si fosse addormentato, dalla sua gola uscì un basso mormorio vibrante. Il ragazzo adagiò l’animale sul letto, posandolo contro il cuscino. Il drago, con gli occhi chiusi, attoreigliò la coda intorno a una colonnina del letto. Eragon gli si distese accanto, flettendo la mano nell’oscurità. Lo assillava un tormentoso dilemma: allevando un drago, sarebbe potuto diventare un Cavaliere. Tutti conoscevano e amavano i miti e le leggende sui Cavalieri, e diventare uno di loro gli avrebbe assicurato un posto fra quelle leggende. Ma se l’Impero avesse scoperto il drago, lui e la sua famiglia sarebbero stati condannati a morte, a meno che lui non si fosse unito al re. Nessuno avrebbe potuto - o voluto - aiutarli. La soluzione più semplice sarebbe stata sopprimere il drago, ma l’idea era così ripugnante che la scartò subito. I draghi erano creature sacre per lui. E poi, che cosa potrebbe tradirci? pensò. Viviamo in una regione sperduta, e non facciamo nulla per attirare l’attezione. Il problema era convincere Garrow e Roran a permettergli di tenere il drago. Nessuno dei due sarebbe stato favorevole a una cosa del genere. Potrei allevarlo di nascosto.In un paio di mesi diventerà troppo grande perché Garrow possa sbarazzarsene: ma lo accetterà? E se anche fosse, come faccio a procurargli il cibo finché lo tengo nascosto? Adesso è grande quanto un gatto, ma si è divorato una montagna di carnei. Immagino che alla fine sarà in grado di cacciare da solo, ma fino ad allora? Sopravviverà al freddo che fa fuori? Il desiderio di tenere il drago era troppo forte. Più ci pensava, più si sentiva convinto. Comunque fossero andate le cose con Garrow, Eragon avrebbe fatto di tutto per proteggerlo. Finalmente deciso, si addormentò con il drago accoccolato al fianco. All’alba, trovò il drago appollaiato sulla colonnina del letto, come un’antica sentinella intenta a salutare il nuovo giorno. Eragon ammirò il suo colore. Non aveva mai visto un blu così limpido e intenso. Le sue squame splendevano come centinaia di pietre preziose. Il ragazzo notò che l’ovale bianco sul palmo della mano, dove aveva toccato il drago, riluceva argenteo. Pensò di poterlo nascondere tenendo le mani sporche. Il drago si lanciò dalla colonnina e atterrò sul pavimento, Eragon lo prese e uscì dalla casa silenziosa, fermandosi solo per prendere dell’altra carne, qualche correggia di cuoio e diversi stracci. L’aria del mattino era frizzante; tino strato di neve fresca ricopriva la fattoria. Sorrise quando dal rifugio sicuro delle sue braccia la creatura si guardò intorno con curiosità. Attraversò i campi di corsa e s’inoltrò nell’oscura foresta, in cerca di un luogo protetto dove nascondere il drago. Alla fine trovò un sorbo rosso solitario in cima a una collinetta brulla, i rami grigi coperti di neve che svettavano come dita scheletriche verso il cielo. Posò il drago alla base del tronco. Con dita abili ed esperte, usando le cinghie di cuoio, intrecciò un cappio che fece passare sulla testa del drago, intento a esplorare i mucchietti di neve attorno all’albero, il cuoio era consumato, ma avrebbe retto. Eragon osservò il drago annaspare nel tentativo di spostarsi: allora sciolse il cappio e ne fece invece una briglia, perché la creatura non si strangolasse. Poi raccolse una bracciata di rametti e ricostruì sopra l’albero un piccolo rifugio, che foderò di stracci e riempì di carne secca. L’albero ondeggiò sotto il suo peso; sul viso gli piovve una cascatella di neve. Allora sistemò altri stracci sull’apertura del rifugio per mantenerlo caldo e osservò compiaciuto l’opera finita. «È ora di mostrarti la tua nuova casa» disse, e scese a prendere il drago. La creatura subito cercò di divincolarsi, poi entrò nel rifugio e mangiò un pezzo di carne, si rannicchiò e lo guardò con aria schiva. «Finché resterai qui, andrà tutto bene» disse Eragon. Il drago continuò a fissarlo. Sicuro di non essere stato capito, Eragon lasciò libera la mente finché non avvertì la coscienza del drago. Ancora una volta provò una terribile sensazione di apertura, uno spazio così immenso da opprimerlo come una coltre pesante. Appellandosi a tutte le sue forze, si concentrò sul drago per imprimergli nella coscienza un unico concetto: Resta qui. Il drago smise di muoversi e inclinò la testa verso di lui, Eragon insistette: Resta qui. Avvertì un debole cenno affermativo attraverso il contatto, ma dubitò che la creatura avesse davvero capito. Alla fine, è solo un animale. Si ritrasse con sollievo dal contatto e tornò nei confini sicuri della propria mente. Scese dall’albero e si allontanò, gettandosi continue occhiate alle spalle. Il drago fece capolino dal rifugio e lo guardò con gli occhi spalancati. Tornato di corsa a casa, Eragon sgattaiolò in camera sua per sbarazzarsi dei frammenti d’uovo. Era sicuro che Garrow e Roran non avrebbero notato l’assenza della pietra: l’avevano dimenticata non appena avevano saputo di non poterla vendere. Quando si svegliarono. Roran disse di aver sentito dei rumori nella notte, ma con grande sollievo di Eragon, non insistette. L’entusiamo aiutò Eragon a far passare in fretta la giornata. La facilità con cui era riuscito a nascondere il segno sulla mano lo liberò da ogni preoccupazione. Ben presto tornò al sorbo rosso, portando con sé delle salsicce che aveva sottratto dalla dispensa. Si avvicinò all’albero con apprensione. Riuscirà a sopravvivere all’inverno? Le sue paure erano infondate. Appollaiato su un ramo, il drago stava masticando qualcosa che teneva fra le zampe davanti. Non appena lo vide, cominciò a squittire, eccitato, Eragon fu lieto che fosse rimasto sull’albero, alla larga da eventuali predatori. Non appena lui posò le salsicce ai piedi dell’albero, il drago scese. Mentre divorava vorace il cibo, Eragon esaminò il rifugio. Tutta la carne che aveva lasciato era scomparsa, ma il covo era intatto, e il pavimento era cosparso di piume. Bene. Sa procurarsi il cibo da solo. In quel momento si rese conto di non sapere se il drago era maschio o femmina. Lo prese in braccio e lo voltò, ignorando i suoi squittii di disapprovazione, ma non riuscì a trovare alcun segno distintivo. A quanto pare non rivela i suoi segreti senza combattere. Passò molto tempo col drago. Lo slegò, lo posò su una spalla e andò con lui a esplorare il bosco. Gli alberi carichi di neve li sovrastavano come solenni pilastri di una grande cattedrale. In quell’isolamento, Eragon disse al drago tutto ciò che sapeva della foresta, senza curarsi se capisse le sue parole. Era il semplice atto di mettere in comune una conoscenza che era importante. Gli parlò di continuo. Il drago ricambiava il suo sguardo con occhi brillanti, bevendosi ogni sua parola. Per un po’ Eragon sedette con la creatura in grembo, guardandola con stupore, ancora turbato dai fatti recenti. Si avviò verso casa al tramonto, sentendo il duro sguardo azzurro che gli trafiggeva le spalle, pieno di risentimento per l’abbandono. Quella notte fu tormentato dall’angoscia di quello che sarebbe potuto succedere al piccolo animale indifeso. Immagini di tempeste di ghiaccio e feroci animali gli affollarono la mente, impedendogli di prendere sonno. Quando, dopo parecchie ore, si addormentò, sognò volpi e lupi neri che sbranavano il drago con zanne insanguinate. Alle prime luci dell’alba, Eragon uscì di corsa dalla casa con cibo e altre pezze di stoffa per isolare meglio il rifugio. Trovò il drago sano e salvo, che osservava il sorgere del sole dall’alto di un ramo. Eragon ringraziò con fervore tutti gli dei, noti e sconosciuti. Il drago scese mentre lui si avvicinava e gli balzò in braccio, rannicchiandosi contro il suo petto. Il freddo non lo aveva infastidito, ma sembrava spaventato. Emise dalle narici un breve sbuffo di fumo nero. Eragon lo accarezzò e si sedette con la schiena appoggiata al sorbo rosso, mormorando dolcemente. Restò immobile mentre il drago gli ficcava la testa sotto la giacca. Dopo un po’ si sciolse dall’abbràccio e gli salì sulla spalla. Eragon gli diede da mangiare, poi sistemò altri stracci sulla piccola capanna. Giocarono insieme per un po’: ma Eragon doveva tornare a casa presto. Ben presto si definì una confortevole serie di abitudini. Ogni mattina Eragon andava all’albero e dava da mangiare al drago; poi tornava in fretta a casa. Si dedicava con impegno ai suoi diversi compiti per finire presto e tornare dal drago. Garrow e Roran notarono il suo comportamento e gli domandarono come mai passava tanto tempo fuori. Lui si limitò a scrollare le spalle, ma da quel momento cominciò a controllare che nessuno lo seguisse. Dopo i primi giorni, cessò di preoccuparsi che al drago potesse capitare una disgrazia. La sua crescita fu esplosiva: ancora qualche tempo e sarebbe stato al sicuro da quasi tutti i pericoli. Raddoppiò di taglia nella prima settimana. Quattro giorni dopo gli arrivava al ginocchio. Non entrava più nella piccola capanna sul sorbo, e così Eragon fu costretto a inventare un nuovo rifugio nascosto, sul terreno. Gli ci vollero tre giorni. Quando il drago ebbe due settimane, dovette lasciarlo libero di vagare da solo, perché aveva bisogno di molto più cibo. La prima volta che lo slegò, fu solo grazie alla volontà che gli impedì di seguirlo alla fattoria. Ogni volta che la creatura tentava di farlo, lui la respingeva con la mente, finché il drago non imparò a evitare la casa e i suoi abitanti. Eragon fece capire al drago l’importanza di cacciare soltanto sulla Grande Dorsale, dove erano minori le probabilità di essere visto. I contadini l’avrebbero certo notato, se dalla Valle Palancar cominciava a sparire la selvaggina. Quando il drago si allontanava, Eragon si sentiva più sicuro, ma anche più inquieto. Il contatto mentale che aveva con la creatura si rafforzava giorno dopo giorno; scoprì che, sebbene il drago non comprendesse le sue parole, poteva comunicare con lui attraverso immagini o emozioni. Certo, era un metodo approssimativo, che si prestava agli equivoci. Nel frattempo, il raggio entro cui potevano toccarsi la mente a vicenda si espandeva in fretta; Eragon riusciva ormai a mettersi in contatto con il drago a una distanza di tre leghe. Lo faceva spesso e il drago, a sua volta, gli sfiorava piano la mente. Queste mute conversazioni gli riempivano le ore di lavoro; c’era sempre una piccola parte di lui connessa con il drago, ignorata a volte, però mai dimenticata. Quando parlava con altre persone, il contatto lo distraeva, come una mosca che gli ronzasse nell’orecchio. Via via che il drago maturava, i suoi squittii divennero ruggiti, e il debole mormorio di gola un cupo rombo: eppure non sputava ancora fuoco, e questo impensieriva Eragon. Lo aveva visto sbuffare fumo, quando era nervoso, ma una fiammella mai. Alla fine del mese, la spalla del drago arrivava al gomito di Eragon. In quel breve arco di tempo, si era trasformato da una piccola e indifesa creatura in una bestia possente. Le sue squame erano dure come maglie di un’armatura, le zanne affilate come pugnali. Eragon faceva lunghe passeggiate la sera, con il drago che gli trotterellava accanto. Quando trovavano una radura, lui si sedeva con la schiena contro un albero e osservava il drago librarsi in aria. Amava vederlo volare e si rammaricava che non fosse ancora abbastanza grande da poter essere cavalcato. Spesso si sedeva accanto al drago e gli massaggiava il collo; sentiva i nervi e i muscoli contrarsi sotto le sue dita. Malgrado gli sforzi di Eragon, il bosco intorno alla fattoria prese a riempirsi di indizi dell’esistenza del drago. Èra impossibile cancellare tutte le enormi impronte nella neve, e il ragazzo non provò neppure a seppellire le montagne di escrementi che il drago disseminava ovunque. L’animale si grattava contro gli alberi, strappando lunghi brandelli di corteccia, e si affilava gli artigli sui tronchi abbattuti, incidendo solchi profondi. Se Garrow o Roran si fossero avventurati nella foresta ai margini della fattoria, lo avrebbero scoperto. Eragon non riusciva a immaginare modo peggiore per venire a conoscere la verità; così decise di giocare d’anticipo e spiegare tutto. Ma prima voleva fare due cose: dare al drago un nome adeguato e imparare quante più cose possibili sui draghi, E per questo doveva parlare con Brom, maestro di epica e di leggende, gli unici luoghi dove sopravvivevano le tradizioni dei draghi. E così, quando Roran decise di andare a Carvahàll per farsi riparare uno scalpello, Eragon si offrì di accompagnarlo. La sera prima di partire, Eragon andò in una piccola radura nella foresta e chiamò il drago col pensiero. Dopo un istante, scorse un puntino lontano nel cielo scuro. Il drago scese in picchiata verso di lui, frenò all’improvviso e rimase sospeso sulle chiome degli alberi, Eragon udì il basso sibilo dell’aria contro le sue ali. La creatura calò in lente spirali e atterrò alla sua sinistra con un tonfo discreto, agitando le ali per recuperare l’equilibrio. Eragon dilatò la mente, non ancora del tutto abituato a quella strana sensazione, e disse al drago che stava partendo. Il drago sbuffò, irrequieto. Il ragazzo cercò di calmarlo con un’immagine mentale rassicurante, ma il drago frustò l’aria con la coda, insoddisfatto, Eragon gli posò una mano sulla spalla, sforzandosi di emanare pace e serenità. Le squame si gonfiarono sotto le sue dita. Una sola parola risuonò nella sua mente, limpida e profonda. Eragon. Era solenne e triste, come se fosse stato appena suggellato un patto. Guardò il drago e si sentì formicolare il braccio. Eragon. Si sentì lo stomaco stretto in una morsa mentre gli occhi color zaffiro lo scrutavano, insondabili. Per la prima volta non pensò al drago come a un animale. Era qualcos’altro, qualcosa di diverso. Si alzò e tornò a casa di corsa, cercando di sfuggire al drago. Il mio drago. Eragon. 6 Té per due Roran ed Eragon si separarono alla periferia di Carvahall. Eragon s’incamminò lentamente verso ria casa di Brom, immerso nei propri pensieri. Giunto sulla soglia, alzò una mano per bussare. Una voce gracchiò: «Che cosa vuoi, figliolo?» Eragon si volse di scatto. Alle sue spalle c’era Brom, appoggiato a un lungo bastone ricurvo, adorno di strani intagli. Indossava un mantello marrone col. cappuccio, come quello di un frate. Dalla logora cintura di pelle gli pendeva una bisaccia. Il volto era dominato dal naso adunco, che ombreggiava la lunga barba bianca; gli occhi erano incassati sotto la fronte sporgente. Scrutò Eragon, in attesa di una risposta. «Informazioni» disse Eragon. «Roran è andato a farsi riparare uno scalpello, e io ho un po’ di tempo libero. Sono venuto a farti alcune domande.» Il vecchio tese la mano destra verso la porta, borbottando qualcosa. Eragon notò un anello d’oro scintillare sulle sue dita, e la luce si riflette sullo zaffiro incastonato, mettendo in risalto lo strano simbolo che vi era inciso. «Vieni; dentro potremo parlare meglio. Le tue domande sembrano non avere mai fine.» L’interno della casa era più nero del carbone, e l’aria era satura di un odore acre. «Facciamo un po’ di luce.» Eragon sentì il vecchio muoversi, poi lanciare un’imprecazione mentre qualcosa cadeva. «Ecco fatto.» Balenò una scintilla; una fiammella si accese. Brom era in piedi accanto a un caminetto di pietra e reggeva una candela. Pile di libri circondavano uno scranno di legno intagliato con un alto schienale e le zampe a forma di artigli d’aquila. Il sedile e lo schienale erano rivestiti di pelle incisa secondo un motivo spiraleggiante di rose. C’erano altre piccole sedie sparse per la stanza, sepolte sotto cumuli di pergamene; lo scrittoio era invaso da una serie di calamai e penne sparse. «Siediti dove vuoi, ma in nome dei re perduti, stai attento. Questa roba è preziosa.» Eragon scavalcò un mucchio di pagine ingiallite coperte di rune. Spostò con cautela alcune pergamene crepitanti da una sedia e le posò a terra. Quando si sedette, si levò una nuvola di polvere. Soffocò uno starnuto. Brom si chinò e accese il camino con la candela. «Bene! Non c’è niente di meglio che sedersi davanti al fuoco per conversare.» Gettò indietro il cappuccio, ed Eragon si accorse che i suoi capelli non erano bianchi, ma d’argento. Il vecchio mise una teiera sul fuoco e prese posto sullo scranno. «Dunque, cosa volevi sapere?» Si rivolse al ragazzo in tono brusco, ma non scortese. «Be’» cominciò Eragon, cercando il modo migliore per affrontare l’argomento. «sento sempre parlare dei Cavalieri dei Draghi e delle loro gesta. Sembra che tutti vogliano il loro ritorno, ma non ho mai saputo come hanno cominciato, da dove vennero i draghi né che cosa rese speciali i Cavalieri... a parte i draghi, naturalmente.» «Un argomento piuttosto vasto di cui parlare» borbottò Brom, scrutandolo preoccupato. «Se ti raccontassi tutta la storia, staremmo seduti qui fino al prossimo inverno. Sarò costretto ad abbreviarla. Ma prima di cominciare, ho bisogno della mia pipa.» Eragon attese paziente che Brom caricasse il tabacco nel fornelletto. Gli era simpatico. Brom. A volte il vecchio era irascibile, ma per lui trovava sempre un po’ di tempo. Una volta Eragon gli aveva chiesto da dove venisse, e Brom aveva riso, dicendo: “Da un villaggio molto simile a Carvahall, solo non così interessante.” Incuriosito, Eragon aveva domandato a suo zio, ma Garrow gli aveva detto soltanto che Brom aveva comprato casa a Carvahall una quindicina di anni prima, e da allora aveva sempre vissuto lì in tranquillità. Brom usò esca e acciarino per accendere la pipa. Sbuffò qualche nuvoletta di fumo, poi disse: «Sarà meglio non interrompermi... tranne che al momento del té, s’intende. Dunque, i Cavalieri, o Shur’tugal, come li chiamano gli elfi. Da dove cominciare? La loro storia ricopre un arco di tempo lunghissimo e al culmine della loro potenza dominavano un territorio grande due volte l’Impero. Si raccontano tante storie su di loro, ma la maggior parte sono soltanto sciocchezze. Se dovessi credere a tutto quello che si dice, ti verrebbe da pensare che abbiano i poteri di un dio minore. Molti studiosi dedicano la vita a separare queste leggende dai fatti, ma dubito che qualcuno ci riesca. Tuttavia non sarà un’impresa troppo ardua se ci atteniamo alle tre domande che hai posto: come hanno cominciato i Cavalieri, perché sono tenuti in così alta considerazione, e da dove vengono i draghi. Partiamo dall’ultima.» Eragon si appoggiò allo schienale e ascoltò rapito la voce del vecchio. «I draghi non hanno inizio, a meno che esso non risieda nella creazione della stessa Alagasëia. E se avranno fine, essa coinciderà con la fine di questo mondo, poiché soffrono quello che la terra soffre. I draghi, i nani e pochi altri sono i veri abitanti di questa terra. Vivevano qui da molto prima di tutti noi, forti e orgogliosi nella loro gloria elementare. Il loro mondo rimase immutato finché i primi elfi non giunsero dall’oceano sulle loro navi d’argento.» «Da dove venivano gli elfi?» lo interruppe Eragon. «E perché sono chiamati stirpe leggiadra? Esistono davvero?» Brom si accigliò. «Vuoi che risponda alle tue prime domande o no? Non ci arriverò mai, se vuoi esplorare ogni recondito brano di conoscenza.» «Mi dispiace» disse Eragon. Abbassò la testa e cercò di assumere un’aria mortificata. «Non è vero» disse Brom con un ghigno. Spostò lo sguardo verso il caminetto e contemplò le fiamme che lambivano la teiera. «Se vuoi proprio saperlo, gli elfi non sono una leggenda, e vengono chiamati stirpe leggiadra perché sono più belli di qualunque altro popolo.. Dicono di venire da Alalea, anche se nessuno, tranne loro, sa cosa sia o dove sia. «Dunque.,.» proseguì con aria severa, sbirciando da sotto le sopracciglia cespugliose per assicurarsi che non vi sarebbero state altre interruzioni. «Gli elfi erano una razza fiera, all’epoca, ed esperti di magia. Al principio considerarono i draghi alla stregua di animali. Un giovane elfo sventato inseguì un drago, come avrebbe fatto con un cervo, e lo uccise. I draghi, oltraggiati, tesero un agguato all’elfo, che fu ucciso a sua volta. Purtroppo lo spargimento di sangue non si fermò lì. I draghi si riunirono e attaccarono l’intera nazione elfica. Sgomenti per la gravita dell’equivoco, gli elfi tentarono di porre fine alle ostilità, ma non riuscirono a trovare il modo di comunicare con i draghi. «Per abbreviare una complicatissima serie di eventi, diciamo che ci fu una lunga, sanguinosa guerra, di cui entrambe le parti alla fine si pentirono. Al principio gli elfi combatterono solo per difendersi, perché non volevano peggiorare la situazione, ma la ferocia dei draghi alla fine li costrinse ad attaccare per sopravvivere. La guerra durò cinque anni e sarebbe continuata ancora a lungo se un elfo di nome Eragon non avesse trovato un uovo di drago.» Eragon trasalì. «Ah, vedo che non conosci l’origine del tuo nome» disse Brom. «No.» La teiera lanciò un sibilo prolungato. Perché mi è stato dato il nome di un elfo? «A questo punto troverai tutto molto più interessante» disse Brom. Tolse la teiera dal fuoco e versò l’acqua bollente in due tazze. Ne porse una a Eragon e lo avvertì: «Queste foglie non hanno bisogno di una lunga infusione. Bevi in fretta, prima che diventi troppo forte.» Eragon trasse un sorso, ma si scottò la lingua. Brom posò la sua tazza e continuò a fumare. «Nessuno sa perché quell’uovo fosse stato abbandonato. Alcuni sostengono che i genitori del cucciolo furono uccisi durante un attacco degli elfi. Altri credono che i draghi lo abbiano lasciato di proposito. Comunque sia, Eragon capì quanto era importante allevare un drago amico. Se ne prese cura in segreto e lo chiamò, secondo l’usanza dell’antica lingua. Bid’Daum. Quando Bid’Daum raggiunse la maturità, viaggiarono insieme per raggiungere i draghi e convincerli a vivere in pace con gli elfi. Fra le due razze venne siglato un accordo, e per garantire la pace decisero di creare i Cavalieri. «Al principio i Cavalieri dovevano essere un semplice mezzo di comunicazione fra elfi e draghi. Tuttavia, col passare del tempo, il loro valore fu sempre più apprezzato e conquistarono maggiore potere. Alla fine stabilirono la loro dimora sull’isola Vroengard e fondarono una città:. Dorù Areaba. Prima che Galbatorix li sconfiggesse, i Cavalieri avevano più potere di tutti i re di Alagasëia. Ora, credo di aver risposto a due delle tue domande.» «Sì» disse Eragon in tono assente. Il fatto di portare il nome del primo Cavaliere gli sembrava una coincidenza stupefacente. Per qualche ragione, il suo nome non gli sembrava’più lo stesso. «Che cosa significa Eragon?» «Non lo so» disse Brom. «È un nome molto antico. Non credo che qualcuno se lo ricordi, tranne gli elfi, e dovrai avere un gran colpo di fortuna prima d’incontrarne uno. Però è un bel nome da portare; dovresti esserne orgoglioso. Non tutti hanno un nome così onorevole.» Eragon accantonò la questione e si concentrò su quello che aveva appreso da Brom: c’era qualcosa che gli sfuggiva. «Non capisco. Dov’eravamo noi quando sono stati creati i Cavalieri?» «Noi?» disse Brom, inarcando un sopracciglio. «Sai, noi.» Eragon fece un vago gesto con la mano. «Gli esseri umani in generale.» Brom rise. «Questa terra non ci appartiene più di quanto non appartenga agli elfi. Ci vollero altri tre secoli perché i nostri antenati arrivassero e si unissero ai Cavalieri.» «Non può essere» protestò Eragon. «Siamo sempre vissuti nella Valle Palancar.» «Questo vale per qualche generazione, ma prima no. E non vale nemmeno per te, Eragon» aggiunse Brom gentilmente. «Anche se ti consideri parte della famiglia di Garrow, e a buon diritto, i tuoi padri non erano di qui. Chiedi alla gente e scoprirai che parecchi non vivono qui da molto; Questa valle è antichissima e non è appartenuta sempre a noi.» Eragon si accigliò e bevve qualche sorso di té in silenzio. Era ancora bollente da scottargli la gola. Quella era casa sua, e chi fosse o non fosse suo padre non contava nulla! «Che cosa è successo ai nani dopo che i Cavalieri furono annientati?» «Nessuno lo sa per certo. Combatterono al fianco dei Cavalieri nelle prime battaglie, ma quando fu chiaro che Galbatorix avrebbe vinto, sigillarono tutti gli ingressi noti delle loro gallerie e scomparvero sottoterra. Per quanto ne so, nessuno li ha più visti da allora.» «E i draghi?» chiese Eragon. «E loro, che fine hanno fatto? Non possono essere stati uccisi tutti.» Brom assunse un’espressione dolente. «È il più grande mistero di Alagasëia: quanti draghi sono sopravvissuti agli ignobili massacri di Galbatorix? Il re disse che avrebbe risparmiato quanti avessero accettato di servirlo, ma soltanto i draghi dei Rinnegati potevano assecondare la sua follia. Se è rimasto qualche drago vivo, a parte Shruikan, dev’essersi nascosto dove l’Impero non potrà mai trovarlo.» E allora il mio drago da dove viene? si chiese Eragon. «Gli Urgali erano già qui quando gli elfi giunsero in Alagasëia?» chiese. «No, seguirono gli elfi sul mare, come zecche succhiasangue. Furono una delle ragioni per cui i Cavalieri divennero sempre più stimati e apprezzati per il loro valore in battaglia e la capacità di mantenere la pace... Si può imparare molto dalla storia, È un peccato che il re lo abbia reso un argomento scottante» riflette Brom. «Sai, ti ho ascoltato raccontare quel mito l’ultima volta che sono stato in città.» «Mito!» ruggì Brom, gli occhi che sprizzavano scintille. «Se questo è un mito, allora sono vere le voci che parlano della mia morte, e tu stai parlando con un fantasma! Rispetta il passato: non puoi mai sapere in che modo ti segnerà.» Eragon attese che il volto di Brom si rasserenasse prima di chiedere ancora; «Quanto erano grandi i draghi?» Una voluta di fumo grigio salì oltre la testa di Brom, come un ciclone in miniatura. «Più di una casa. Anche i più piccoli avevano un’apertura alare di cento piedi; non smettevano mai di crescere. Alcuni degli antichi, prima che l’Impero li sterminasse, potevano essere scambiati per colline.» Eragon cadde in preda all’avvilimento. Come farò a nascondere il mio drago negli anni futuri? Sebbene dentro si sentisse fremere, si sforzò di mantenere un tono neutro. «Quando maturavano?» «Be’» disse Brom, grattandosi il mento. «non potevano sputare fuoco se non verso i cinque, sei mesi, quando raggiungevano anche la capacità di riprodursi. Più vecchio era un drago, più a lungo poteva sputare fuoco. Alcuni ci riuscivano per minuti interi.» Brom soffiò un anello di fumo e lo guardò fluttuare verso il soffitto. «Ho sentito dire che le loro squame brillavano come gemme.» Brom si protese in avanti e borbottò: «Hai sentito bene. Erano di ogni forma e colore. Si diceva che un gruppo di draghi avesse l’aspetto di un arcobaleno vivente, sfolgorante, in perenne mutamento. Ma chi te ne ha parlato?» Eragon ammutolì per un istante, poi mentì. «Un mercante.» «Come si chiamava?» domandò Brom, le folte sopracciglia corrugate in un’unica striscia bianca, la fronte aggrottata. La brace nella pipa languiva. Eragon fece finta di riflettere. «Non lo so. Stava parlando da Morn, ma non so chi fosse.» «Peccato» mormorò Brom. «Ha detto anche che un Cavaliere poteva sentire i pensieri del suo drago» si affrettò ad aggiungere Eragon, sperando che il suo mercante fittizio lo proteggesse dai sospetti. Brom socchiuse gli occhi. Con lenti gesti, riprese la scatola con l’acciarino e accese di nuovo la pipa. Si levò un filo di fumo mentre aspirava a fondo ed espirava lentamente. Con voce atona disse: «Non è vero. Nessuna storia ne parla, e io le conosco tutte. Ha detto altro?» Eragon si strinse nelle spalle. «No.» Brom mostrava troppo interesse per il mercante immaginario. Il ragazzo tentò di sviare il discorso. «I draghi vivevano a lungo?» Brom non rispose subito. Teneva il mento appoggiato sul petto, meditabondo, mentre le dita tamburellavano stilla pipa e l’anello rifletteva la luce del focolare. «Scusa, stavo pensando ad altro. Sì, un drago vive a lungo, per sempre in effetti, a meno che non venga ucciso e il suo Cavaliere non muoia.» «Come fai a saperlo?» obiettò Eragon. «Se un drago muore quando muore il suo Cavaliere, allora potrebbe vivere solo fino a sessanta, settantanni. Durante la tua…narrazione, hai detto che i Cavalieri vissero per centinaia di anni, ma questo è impossibile.» Il pensiero di sopravvivere alla sua famiglia e ai suoi amici lo turbava. Un sorriso indulgente comparve sulle labbra di Brom quando disse: «Che cosa sia possibile o no, è una questione aperta. Alcuni sostengono che non si può viaggiare sulla Grande Dorsale e sopravvivere, ma tu lo fai. Dipende dai punti di vista. Devi essere molto saggio per sapere tante cose alla tua giovane età.» Eragon arrossì e il vecchio ridacchiò. «Non te la prendere; nessuno si aspetta che tu le sappia. Dimentichi che i draghi erano magici, ed esercitavano strane influenze su tutto ciò che li circondava. Grazie alla stretta convivenza, i Cavalieri ne subirono i più vistosi effetti. Il più comune era il prolungamento della vita. Il nostro re è vissuto abbastanza da dimostrarlo, anche se la maggior parte della gente ne attribuisce la causa ai suoi poteri magici. C’erano anche altri cambiamenti, meno evidenti. Tutti i Cavalieri avevano un fisico più resistente, una mente più scaltra e una vista più acuta rispetto agli uomini normali, E i Cavalieri umani col tempo sviluppavano orecchie a punta, anche se non grandi come quelle degli elfi.» Eragon fece appena in tempo a frenare la mano che d’istinto gli saliva alle orecchie. In quale altro modo quel drago cambierà la mia vita? Non solo mi e entrato nella mente, ma anche il mio corpo si trasformerà «I draghi erano intelligenti?» «Non hai sentito quello che ti ho detto prima?» esclamò Brom, spazientito. «Come avrebbero potuto gli elfi stringere accordi di pace con delle bestie ottuse? Certo che erano intelligenti, come te e me.» «Ma erano animali» insistette Eragon. Brom sbuffò. «Non più animali di noi. Per qualche ragione, la gente. esaltava tutto quello che facevano i Cavalieri, ma ignorava i draghi, considerandoli niente più che un esotico mezzo di trasporto. Be’, non lo erano. Le grandi gesta dei Cavalieri furono possibili soltanto grazie ai draghi. Quanti uomini avrebbero osato sguainare la spada, sapendo che un lucertolone sputafuoco, con più saggezza e astuzia di quanta perfino un re possa mai sperare di avere, sarebbe arrivato a fermare la violenza? Eh?» Soffiò un altro anello di fumo e lo guardò volar via. «Ne hai mai visto uno?» «No» disse Brom. «Scomparvero molto prima della mia epoca.» E adesso il nome. «Sto cercando di ricordare il nome di un certo drago, ma continua a sfuggirmi. Mi pare di averlo sentito quando sono venuti gli ambulanti a Carvahall, ma non ne sono sicuro. Mi puoi aiutare?» Brom si strinse nelle spalle ed elencò una serie di nomi. «C’erano Jura. Hìrador, e Fundor, che combatterono contro il gigantesco serpente di mare. Galzra. Briam. Ohen il Gagliardo. Gretiem. Beroan. Roslarb...» Ne aggiunse molti altri. Alla fine ne pronunciò uno a voce talmente bassa che Eragon lo udì appena: «... e Saphira.» Brom svuotò la pipa nel focolare. «Era uno di questi?» «Temo di no» disse Eragon. Brom gli aveva fornito parecchio materiale su cui riflettere, e comunque si stava facendo tardi. «Be’, probabilmente Roran ha finito da Horst. Mi dispiace, ma devo andare.» Brom inarcò un sopracciglio. «Cosa? Tutto qui? Credevo di dover rispondere alle tue domande finché non fosse venuto a chiamarti. Nessuna domanda sulle tattiche di guerra dragonesche, niente descrizioni di combattimenti d’aria mozzafiato? Abbiamo finito?» «Per il momento» rise. Eragon. «Ho saputo quello che volevo e anche di più.» Si alzò, e Brom lo imitò. «D’accòrdo, allora.» Accompagnò Eragon alla porta. «Arnvederci e stai bene. E ricorda, se ti torna in mente il nome di quel mercante, fammelo sapere.» «Contaci, e grazie.» Eragon uscì nell’abbagliante luce invernale e si avviò a passo lento, riflettendo su quello che aveva appreso.. 7 Il potere di un nome Sulla via del ritorno. Roran disse: «Oggi da Horst c’era uno straniero di Therinsford.» «Chi era?» domandò Eragon. Aggirò una lastra di ghiaccio e continuò a camminare a passo rapido. Le guance e gli occhi gli pizzicavano per il freddo. «Si chiama Dempton. È venuto da Horst per ordinare dei giunti» disse Roran. Le sue gambe robuste affondarono in un cumulo di neve, spianando la strada a Eragon. «A Therinsford non c’è il fabbro?» «Sì» rispose Roran. «ma non è abbastanza esperto.» Guardò Eragòn di sottecchi e con una scrollata di spalle aggiunse; «Dempton ha bisogno di giunti per il suo mulino. Si vuole espandere e mi ha offerto un lavoro. Se accetto, partirò con lui quando viene a ritirare i giunti.» I mugnai lavoravano tutto l’anno. Durante l’inverno macinavano tutto quello che la gente portava loro, ma nella stagione del raccolto compravano il grano e lo rivendevano in forma di farina, Era un lavoro duro, pericoloso; spesso qualcuno ci rimetteva le dita o le mani, tra le gigantesche mole. «Lo dirai a Garrow?» domandò Eragon. «Sì.» Il volto di Roran fu solcato da un sorriso triste. «A che scopo? Lo sai come la pensa sul fatto che ce ne andiamo. Ti caccerai nei guai, se ne parli. Dimentica questa storia, così stasera potremo mangiare in pace.» «Non posso. Ho deciso di accettare.» Eragon si fermò di botto. «Perché?» Erano l’uno di fronte all’altro; i loro fiati formavano nuvolette di condensa. «Lo so che ci mancano i soldi, ma siamo sempre riusciti a cavarcela. Non devi partire.» «No. Ma i soldi servono a me.» Roran fece per incamminarsi di nuovo, ma Eragon non si mosse. «A cosa ti servono?» chiese. Roran irrigidì appena le spalle. «Voglio sposarmi.» Eragon fu stupito e sconcertato. Ricordava il bacio che aveva visto Roran e Katrina scambiarsi quando erano arrivati gli erranti, ma sposarsi? «Katrina?» disse debolmente, come per avere conferma. Roran annuì. «Gliel’hai già chiesto?» «Non ancora, ma lo farò in primavera, quando potrò costruirmi una casa.» «Non puoi partire adesso che c’è tanto lavoro alla fattoria» protestò Eragon. «Aspetta fino alla semina.» «No» disse Roran, con una leggera risata. «La primavera è il momento in cui c’è più bisogno di me. Bisogna arare e seminare. Togliere le erbacce. Per non parlare di tutto il resto. No, questo è il momento migliore per andarmene, quando non abbiamo altro da fare che aspettare la bella stagione. Tu e Garrow potrete fare a meno di me. Se tutto va bene, tornerò presto a lavorare alla fattoria, con una moglie.» Eragon fu costretto ad ammettere che Roran aveva ragione. Scosse il capo, senza sapere se per lo stupore o la rabbia. «Immagino di non poter far altro che augurarti buona fortuna. Ma Garrow se ne avrà a male.» «Vedremo.» Ripresero a camminare, divisi da una barriera di silenzio. Eragon aveva il cuore in tumulto. Gli ci sarebbe voluto del tempo per abituarsi all’idea. Quando arrivarono a casa. Roran non parlò a Garrow dei suoi progetti, ma Eragon era sicuro che lo avrebbe fatto molto presto. Eragon andò a trovare il drago per la prima volta da quando la creatura gli aveva parlato. Si avvicinò con apprensione: ormai sapeva quanto erano simili, loro due. Eragon. «È tutto quello che sai dire?» ribattè, aspro. Sì. Il ragazzo spalancò gli occhi per quell’inattesa risposta, e si sedette imbronciato. Ha anche un certo spirito. E cos’altro? In un moto di rabbia, spezzò un rametto secco con un piede. L’annuncio di Roran lo aveva messo di cattivo umore. Il drago gli comunicò un pensiero interrogativo, e lui gli raccontò che cosa era successo. Via via che parlava, la sua voce aumentava di volume, finché non si ritrovò a gridare al vento. Il monologo durò finché le sue emozioni non si placarono; alla fine picchiò il pugnò sul terreno. «Non voglio che se ne vada, ecco tutto» disse. Il drago lo guardava impassibile, ascoltando e imparando. Eragon borbottò un paio di invettive e si strofinò gli occhi. Guardò pensieroso il drago. «Ti serve un nome. Oggi ne ho sentiti alcuni, sembravano interessanti; magari ne trovi uno che ti piace.» Con la mente scorse la lista che Brom gli aveva elencato finché non scelse due nomi che trovava particolarmente eroici, nobili e dal suono gradevole. «Che te ne pare di Vanilor o del suo successore, Eridor? Furono entrambi draghi famosi.» No, disse il drago. Sembrava divertito dai suoi sforzi. Eragon. «Quello è il mio nome, non puoi averlo» disse il ragazzo, strofinandosi il mento. «Be’, se questi non ti piacciono, ce ne sono degli altri.» Continuò con la lista, ma il drago rifiutava ogni proposta. Sembrava ridere di qualcosa che Eragon non capiva, ma il ragazzo lo ignorò e continuò a suggerire nomi. «C’era Ingothold, che uccise...» Lo folgorò un’illuminazione. Ecco qual è il problema! Ho scelto nomi maschili! Tu sei una lei! Sì. La dragonessa si lisciò le ali, compiaciuta. Adesso che sapeva che cosa cercare, Eragon suggerì una mezza dozzina di nomi. Provò con Miremel, ma non andava bene: era il nome di un drago bruno. Anche Opheila e Lenora vennero scartati. Era sul punto di arrendersi quando gli venne in mente l’ultimo nome che Brom aveva mormorato. A lui piaceva, ma alla dragonessa? Domandò: «Saphira?» Lei ricambiò il suo sguardo con occhi intelligenti. In fondo alla mente, Eragon avvertì la sua approvazione. Sì. Qualcosa scattò nella sua testa, e la voce di lei riecheggiò come da una grande distanza. Il ragazzo sorrise in risposta. Saphira cominciò a borbottare. 8 Il futuro mugnaio Il sole era tramontato quando la cena arrivò in tavola. Fuori ululava un vento impetuoso, che scuoteva la casa. Eragon gettava continue occhiate a Roran, in attesa dell’inevitabile. Alla fine il cugino disse: «Mi è stato offerto un lavoro al mulino di Therinsford... e credo che accetterò.» Garrow finì di masticare il boccone con deliberata lentezza e posò la forchetta. Si appoggiò allo schienale della sedia, s’intrecciò le dita dietro la testa e pronunciò un’unica parola: «Perché?» Roran glielo spiegò, mentre Eragon piluccava distrattamente il cibo. «Capisco» fu il commento asciutto di Garrow. Rimase in silenzio a fissare il soffitto. Nessuno si mosse, in attesa del suo verdetto. «Dunque, quando hai intenzione di partire?» «Cosa?» esclamò Roran. Garrow si protese sul tavolo con uno scintillio negli òcchi. «Pensavi che ti avrei fermato? Ho sempre sperato che ti sposassi presto. Così la famiglia riprenderà a crescere. Katrina sarà fortunata, ad avere al suo fianco un uomo come te.» Lo stupore iniziale di Roran lasciò il posto a un gran sorriso di sollievo. «Allora, quando pensi di partire?» ripetè Garrow. Roran ritrovò la voce. «Quando torna quel Dempton a ritirare i giunti per il mulino.» Garrow annuì. «Ossia fra...» «Un paio di settimane.» «Bene. Avremo tempo per prepararci. Sarà diverso, avere la casa solo per noi. Ma se va tutto come deve andare, non sarà per molto.» Guardò Eragon dall’altro lato del tavolo e chiese: «Tu lo sapevi?» Eragon si strinse nelle spalle con aria afflitta. «Non fino a oggi... È una pazzia.» Garrow si passò una mano sul volto. «È il corso naturale della vita.» Si alzò. «Andrà tutto bene; il tempo aggiusta ogni cosa. Ma per il momento, datemi una mano a sparecchiare.» Eragon e Roran lo aiutarono in silenzio. I giorni che seguirono furono tesi. Eragon aveva i nervi a fior di pelle. Tranne che per rispondere in fretta alle domande dirette, non parlava con nessuno. Ovunque si voltasse, piccoli ma eloquenti dettagli gli annunciavano rimminente partenza di Roran: Garrow che gli preparava un pacco, oggetti che mancavano alle pareti, e uno strano senso di vuoto che si dilatava dentro la casa. Dopo una settimana si accorse che lui e Roran erano separati da un distacco sempre maggiore:, quando si parlavano, le parole uscivano a fatica e conversare era difficile. Saphira era un balsamo per la sua delusione. Con lei parlava in libertà, esprimeva le sue emozioni più intime, e lei lo comprendeva meglio di chiunque altro. Nelle settimane prima della partenza di Roran, la dragonessa attraversò un’altra fase di crescita repentina. Le sue spalle superarono quelle di Eragon, e il ragazzo scoprì che l’avvallamento vuoto fra le punte del dorso gli offriva un comodo spazio dove sedersi. Spesso la sera le saliva in groppa e le grattava il collo, spiegandole il significato delle parole. Ben presto la creatura arrivò a capire tutto quello che lui diceva, e spesso lo commentava, anche. Per Eragon, questa parte della vita era meravigliosa. Saphira era vera e complessa come un essere umano. La sua personalità era eclettica, a volte molto remota, eppure si comprendevano a vicenda a un livello molto profondo. Le azioni e i pensieri della dragonessa rivelavano di continuo nuovi aspetti del suo carattere. Una volta catturò un’aquila e invece di mangiarla la liberò, dicendo: Nessun predatore dei cieli dovrebbe finire i propri giorni da preda. Meglio morire in volo che inchiodati al suolo. L’idea di Eragon di mostrare Saphira alla famiglia si scontrò con l’annuncio di Roran e le parole caute della stessa Saphira. La dragonessa era riluttante a mostrarsi e lui, in parte per egoismo, accettò. Nel momento in cui fosse stata resa nota, la sua esistenza, ne sarebbero scaturiti timori e accuse contro di lui: perciò rimandava. Si disse che avrebbe aspettato un segno, il segnale che i tempi erano maturi. La notte prima della partenza di Roran, Eragon andò a parlargli. Si fece avanti lungo il corridoio verso la porta aperta della sua stanza. Sul cassettone era accesa una lampada a olio, che irradiava sulle pareti la sua calda luce tremula. Le colonnine del letto gettavano lunghe ombre sulle mensole vuote, che arrivavano fino al soffitto. Roran, il volto in ombra, stava arrotolando delle coperte intorno alle proprie cose. Si fermò, prese un oggetto dal cuscino e se lo fece rimbalzare nella mano. Eragon riconobbe una pietra lucida che proprio lui gli aveva regalato anni prima. Roran fece per infilarla nel fagotto, poi ci ripensò e la posò su uno scaffale, Eragon sentì un nodo alla gola e se ne andò in silenzio. «Bene. Avremo tempo per prepararci. Sarà diverso, avere la casa solo per noi. Ma se va tutto come deve andare, non sarà per molto…Guardò Eragon dall’altro lato del tavolo e chiese: «Tu lo sapevi?» Eragon si strinse nelle spalle con aria afflitta. «Non fino a oggi... È una pazzia. Garrow si passò una mano sul volto. «È il corso naturale della vita.» Si alzò. «Andrà tutto bene; il tempo aggiusta ogni cosa. Ma per il momento, datemi una mano a sparecchiare.» Eragon e Roran lo aiutarono in silenzio. I giorni che seguirono furono tesi. Eragon aveva i nervi a fior di pelle. Tranne che per rispondere in fretta alle domande dirette, non parlava con nessuno. Ovunque si voltasse, piccoli ma eloquenti dettagli gli annunciavano l’imminente partenza di Roran: Garrow che gli preparava un pacco, oggetti che mancavano alle pareti, e uno strano senso di vuoto che si dilatava dentro la casa. Dopo una settimana si accorse che lui e Roran erano separati da un distacco sempre maggiore: quando si parlavano, le parole uscivano a fatica e conversare era difficile. Saphira era un balsamo per la sua delusione. Con lei parlava in libertà, esprimeva le sue emozioni più intime, e lei lo comprendeva meglio di chiunque altro. Nelle setti-mane prima della partenza di Roran, la dragonessa attraversò un’altra fase di crescita repentina. Le sue spalle superarono quelle di Eragon, e il ragazzo scoprì che l’avvalla-mento vuoto fra le punte del dorso gli offriva un comodo spazio dove sedersi. Spesso la sera le saliva in groppa e le grattava il collo, spiegandole il significato delle parole. Ben presto la creatura arrivò a capire tutto quello che lui diceva, e spesso lo commentava, anche. Per Eragon, questa parte della vita era meravigliosa. Saphira era vera e complessa come un essere umano. La sua personalità era eclettica, a volte molto remota, eppure si comprendevano a vicenda a un livello molto profondo. Le azioni e i pensieri della dragonessa rivelavano di continuo nuovi aspetti del suo carattere. Una volta catturò un’aquila e invece di mangiarla la liberò, dicendo: Nessun predatore dei cieli dovrebbe finire i propri giorni da preda. Meglio morire in volo che inchiodati al suolo. L’idea di Eragon di mostrare Saphira alla famiglia si scontrò con l’annuncio di Roran e le parole caute della stessa Saphira. La dragonessa era riluttante a mostrarsi e lui, in parte per egoismo, accettò. Nel momento in cui fosse stata resa nota la sua esistenza, ne sarebbero scaturiti timori e accuse contro di lui: perciò rimandava. Si disse che avrebbe aspettato un segno, il segnale che i tempi erano maturi. La notte prima della partenza di Roran, Eragon andò a parlargli. Si fece avanti lungo il corridoio verso la porta aperta della sua stanza. Sul cassettone era accesa una lampada a olio, che irradiava sulle pareti la sua calda luce tremula. Le colonnine del letto gettavano lunghe ombre sulle mensole vuote, che arrivavano fino al soffitto. Roran, il volto in ombra, stava arrotolando delle coperte intorno alle proprie cose. Si fermò, prese un oggetto dal cuscino e se lo fece rimbalzare nella mano. Eragon riconobbe una pietra lucida che proprio lui gli aveva regalato anni prima. Roran fece per infilarla nel fagotto, poi ci ripensò e la posò su uno scaffale. Eragon sentì un nodo alla gola e se ne andò in silenzio. 9 Stranieri a Carvahall Consumarono una colazione fredda, ma per fortuna il té era bollente. Il ghiaccio dentro le finestre si era sciolto al fuoco del mattino ed era colato sul pavimento di legno, formando piccole pozzanghere scure. Eragon guardò Garrow e Roran in piedi accanto alla stufa e pensò che quella era l’ultima volta che li avrebbe visti insieme per parecchi mesi. Roran si sedette e prese ad allacciarsi gli stivali. A terra c’era il grosso zaino. Garrow rimase in piedi, con le mani in tasca. Aveva la camicia fuori dai calzoni; il volto era teso, tirato. Nonostante le insistenze dei ragazzi, si rifiutò di andare con loro. Quando gli chiesero perché, si limitò a rispondere che era meglio così. «Hai preso tutto?» disse Garrow al figlio. «Sì.» L’uomo annuì ed estrasse dalla tasca un borsellino che porse a Roran in un tintinnio dì monete. «Li ho messi da parte per te. Non è molto, ma ti basterà se desideri comprare qualche gingillo.» «Grazie, ma non sprecherò il mio denaro in cose superflue» disse Roran. «Fa’ come vuoi; sono tuoi» disse Garrow. «Non ho altro da darti, tranne la mia benedizione. Accettala, se vuoi, per quello che vale.» La voce di Roran era rotta dall’emozione. «Sarò onorato di riceverla.» «Eccola, dunque, e vai in pace» disse Garrow, e lo baciò sulla fronte. Poi si voltò e disse con voce stentorea: «Non pensare che mi sia dimenticato di te, Eragon. Ho parole per tutti e due. È tempo che ve le dica, poiché vi state affacciando sul mondo. Fatene tesoro, perché vi saranno utili nella vita.» Fissò i ragazzi con sguardo severo. «Per prima cosa, non permettete a nessuno di dominare la vòstra mente o il vostro corpo. Badate che i vostri pensieri siano sempre liberi. Un uomo può essere libero, eppure vivere in ceppi peggiori di quelli che ha uno schiavo. Date agli altri la vostra attenzione, mai il vostro cuore. Mostrate rispetto per chi possiede il potere, ma non seguitelo ciecamente. Giudicate con logica e raziocinio, ma non commentate. «Non considerate nessuno superiore a voi, qualunque sia il suo rango. Trattate tutti con giustizia, o vi attirerete la vendetta. Non sciupate il denaro. Tenetevi strette le vostre convinzioni, e gli altri vi ascolteranno.» Proseguì in tono più lento. «Per quanto riguarda le questioni d’amore, il mio unico consiglio è di essere onesti. Questo è il vostro strumento più potente per schiudere un cuore e garantirvi il perdono. Questo è quanto ho da dirvi.» Tacque, alquanto compiaciuto del proprio discorso. Prese lo zaino di Roran. «Devi andare. L’alba è vicina e Dempton ti starà aspettando.» Roran s’infilò lo zaino in spalla e abbracciò Garrow. «Tornerò il prima possibile» disse. «Bene!» rispose Garrow. «Ma adesso vai, e non preoccuparti di noi.» Si separarono a malincuore. Eragon e Roran uscirono di casa, poi si voltarono e lo salutarono con la mano. Garrow ricambiò il saluto con la mano ossuta; i suoi occhi tristi seguirono i ragazzi che si avviavano sul sentiero. Dopo un lungo istante chiuse la porta. Il tonfo echeggiò nell’aria tersa del mattino e raggiunse Roran, che si fermò. Eragon si guardò indietro a contemplare la fattoria. I suoi occhi indugiarono sulle costruzioni solitarie, dall’aria piccola e fragile. Il sottile filo di fumo che s’innalzava dalla casa era l’unica prova che quella fattoria isolata nella neve era abitata. «Questo è tutto il nostro mondo» osservò Roran in tono cupo. Eragon rabbrividì impaziente e borbottò: «Un bel mondo, però.» Roran annuì, poi raddrizzò le spalle e s’incamminò verso il suo futuro. Era ancora prestò quando giunsero a Carvahall, ma trovarono la bottega del fabbro già aperta. All’interno regnava un piacevole calore. Baldor stava azionando piano due enormi mantici, fissati alla grande fucina di pietra dove rosseggiavano i carboni. Davanti alla fucina c’erano un’incudine nera e un barile cerchiato di ferro, pieno d’acqua salata. Da una serie di pali sporgenti dalle pareti pendevano parecchi utensili: tenaglie, pinze, martelli di ogni forma e peso, scalpelli, bulini, lime, raspe, barre di ferro e d’acciaio in attesa di essere forgiate, morse, cesoie, punteruoli e palette. Horst e Dempton chiacchieravano davanti a un lungo bancone. Dempton si avvicinò sorridendo sotto i fiammeggianti baffi rossicci. «Roran! Sono lieto che tu sia venuto. Con le nuove mole che ho acquistato, ci sarà molto più lavoro di quanto possa farne da solo. Sei pronto a partire?» Roran mostrò lo zaino. «Sì. Andiamo subito?» «Ci sono alcune cosette che devo sbrigare prima, ma partiremo al massimo fra un’ora.» Eragon strofinò i piedi per terra quando Dempton si rivolse a lui arricciandosi la punta di un baffo. «Tu devi essere Eragon. Avrei voluto offrire un lavoro anche a te, ma Roran ha preso l’unico posto disponibile. Magari fra un anno o due, eh?» Eragon abbozzò un sorriso e gli strinse la mano. L’uomo era cordiale; in altre circostanze gli sarebbe riuscito simpatico, ma in quel momento Eragon avrebbe voluto che il mugnaio non avesse mai messo piede a Carvahall. Dempton sbuffò. «Bene, molto bene.» Rivolse la sua attenzione a Roran e prese a spiegargli come funzionava un mulino. «Sono pronti» lo interruppe Horst, indicando una serie di involti sul tavolo. «Potete prenderli.» Si scambiarono una stretta di mano; poi Horst uscì dalla bottega, facendo cenno a Eragon di seguirlo. Eragon ubbidì, incuriosito. Trovò il fabbro sulla strada, con le braccia incrociate. Eragon indicò con il pollice il mugnaio alle sue spalle e disse: «Cosa ne pensi di lui?» «È un brav’uomo» borbottò Horst. «Roran si troverà bene con lui.» Si spazzolò con aria assente qualche filo metallico dal grembiule, poi posò una mano possente sulla spalla di Eragon. «Figliolo, ti ricordi la lite con Sloan?» «Se ti riferisci al pagamento della carne, sappi che non l’ho dimenticato.» «No.. mi fido di te, figliolo. Quel che voglio sapere è se hai ancora quella pietra blu.» Il cuore di Eragon ebbe un sussulto. Perché lo vuole sapere? Forse qualcuno ha visto Saphira! Sforzandosi di mantenere il controllo, rispose: «Sì, ma perché me lo chiedi?» «Non appena torni a casa, cerca di sbarazzartene.» Eragon soffocò un’esclamazione sgomenta, mentre Horst proseguiva. «Ieri sono arrivati due stranieri. Due tipi loschi vestiti di nero e armati di spada. Mi è venuta la pelle d’oca solo a vederli. Ieri sera hanno cominciato a fare domande a tutti, chiedendo di una pietra come la tua. E oggi lo stesso.» Eragon impallidì. «Nessuno con un briciolo di buonsenso ha detto niente, sanno riconoscere i guai quando li incontrano. Ma conosco qualcuno che potrebbe parlare.» Eragon si sentì attanagliare le viscere dal terrore. Chiunque avesse mandato la pietra sulla Grande Dorsale, alla fine l’aveva ritrovata. O forse l’Impero era venuto a sapere di Saphira. Non sapeva che cosa fosse peggio. Pensa! Pensa! L’uovo ormai è andato. Adesso per loro è impossibile trovarlo. Ma se sanno che cos’era, capiranno che cosa è successo... Saphira potrebbe essere in pericolo! Ricorse a tutto il suo autocontrollo per assumere un’aria disinvolta. «Grazie per avermelo detto. Sai dove sono?» Notò con orgoglio che la sua voce tremava appena. «Non ti ho avvertito per farteli incontrare, ragazzo! Vattene da Carvahall. Torna a casa.» «Sicuro» disse Eragon per tranquillizzare il fabbro. «se credi che sia meglio.» «Altroché, se lo credo.» Il volto di Horst si addolcì. «Forse esagero, ma ho un gran brutto presentimento. Sarà meglio che resti a casa finché quei due non se ne vanno. Cercherò di tenerli lontani dalla tua fattoria, anche se dubito che servirà a molto.» Eragon gli scoccò un’occhiata colma di gratitudine. Avrebbe voluto raccontargli di Saphira. «Me ne vado subito» disse, e tornò indietro da Roran. Lo abbracciò forte e gli disse addio. «Non resti ancora un po’?» domandò Roran, sorpreso. Eragon represse una risata. Per qualche ragione, quella domanda gli pareva buffa. «Non ho niente da fare qui, e non voglio vederti partire.» «D’accordo» disse Roran, perplesso. «Immagino che questa sia l’ultima volta che ci vedremo per parecchi mesi.» «Sono convinto che passeranno in fretta» replicò Eragon, asciutto. «Abbi cura di te e torna presto.» Lo abbracciò ancora e si allontanò dalla bottega. Horst era ancora sulla strada. Consapevole di essere seguito dallo sguardo del fabbro, Eragon prese la via che portava fuori da Carvahall. Non appena il fabbro scomparve alla vista, sgusciò dietro una casa e tornò al villaggio per un’altra strada. Cercò in ogni vicolo, restando nell’ombra, le orecchie tese in ascolto del più lieve rumore. Con la mente tornò in camera sua, dove aveva lasciato l’arco; quanto avrebbe voluto averlo con sé! Percorse Carvahall in lungo e in largo, evitando qualsiasi incontro, finché non sentì una voce sibilante provenire da dietro una casa. Per quanto avesse un buon udito, dovette fare uno sforzo per cogliere le parole. «Quando è successo?» La voce era melliflua; sembrava colare nell’aria come un rivoletto untuoso, ma aveva un che di gelido e sibilante che gli fece rizzare i capelli sulla nuca. «Circa tre mesi fa» rispose qualcun altro, che Eragon identificò subito come Sloan. Per il sangue di uno Spettro, gli sta dicendo... Decise che avrebbe mollato un pugno a Sloan, la prossima volta che l’avesse incontrato. Intervenne una terza persona. La voce era cavernosa, umida, faceva pensare a qualcosa in decomposizione, alla muffa, e ad altre cose che era meglio non toccare. «Sei sicuro? Non vorremmo che ti sbagliassi. Perché in tal caso sarebbe una situazione davvero... incresciosa.» A Eragon non fu difficile immaginare che cosa sarebbe successo. Chi, se non l’Impero, avrebbe osato minacciare la gente in quel modo? Nessuno. Ma chiunque avesse inviato l’uovo doveva essere abbastanza potente da usare la forza impunemente. «Sì che sono sicuro. All’epoca ce l’aveva lui. Non sto mentendo. Un sacco di gente lo sa. Chiedete in giro.» Sloan era chiaramente terrorizzato. Poi disse qualcosa che Eragon non sentì. «L’abbiamo fatto, ma abbiamo ricevuto scarsa... collaborazione.» Le parole erano ironiche. Ci fu una pausa. «La tua informazione ci è stata preziosa. Non ci dimenticheremo di te.» Questo è certo, pensò Eragon. Sloan borbottò qualcosa; poi Eragon sentì qualcuno allontanarsi in fretta. Spiò da dietro l’angolo. In mezzo alla strada c’erano due uomini alti, con lunghi mantelli neri dal bordo sollevato all’altezza dei polpacci, dove spuntavano i foderi delle spade. Sulle loro casacche spiccavano complicati stemmi intessuti d’argento. Avevano il volto coperto dal cappuccio e le mani guantate. La loro schiena mostrava uno strano rigonfiamento, come se gli abiti fossero imbottiti. Eragon si spostò appena per vedere meglio. Uno degli stranieri si irrigidì e lanciò un eloquente grugnito al compagno. Si volsero di scatto, pronti all’attacco. Eragon trattenne il fiato, in preda a un terrore mortale. Il suo sguardo rimase inchiodato sui volti nascosti, mentre un potere immenso s’impadroniva della sua mente e gli impediva qualsiasi movimento. Tentò di opporsi e gridò a se stesso: Muoviti!, ma le sue gambe non risposero. Gli stranieri presero ad avanzare tranquilli verso di lui. Eragon sapeva che ormai lo vedevano in viso. Erano quasi all’angolo; le loro mani corsero alle spade... «Eragon!» Il ragazzo trasalì nel sentirsi chiamare. Gli stranieri si bloccarono, sibilando. Brom arrivò da una traversa, a testa nuda, il bastone in mano. Dov’era non poteva vedere gli stranieri. Eragon tentò di avvertirlo, ma la sua lingua e le sue mani erano paralizzate. «Eragon!» esclamò ancora il vecchio. Gli stranieri scoccarono un’ultima occhiata a Eragon; poi scivolarono via tra le case. Eragon crollò a terra, tremante. Aveva la fronte imperlata di sudore e sentiva un gran freddo. Il vecchio gli tese la mano e lo aiutò ad alzarsi. «Ragazzo, che ti prende? Ti senti bene?» Eragon deglutì e annuì senza parlare. Si guardò intorno, in cerca di qualcosa di insolito. «All’improvviso ho avuto un capogiro... è passato. Strano... non so come è successo.» «Ti rimetterai» disse Brom. «ma forse è meglio che te ne torni a casa.» Sì, devo andare a casa! Devo arrivare prima di loro. «Hai ragione. Forse sta arrivando una malattia.» «Allora per te non c’è posto migliore di casa. È una lunga camminata, ma una volta arrivato, sono sicuro che ti sentirai meglio. Vieni, ti accompagno sulla strada.» Eragon non protestò quando il vecchio lo prese per un braccio, guidandolo in fretta. La neve crepitava sotto il bastone di Brom. «Perché mi stavi cercando?» Brom si strinse nelle spalle. «Pura curiosità. Ho saputo che eri in città e mi chiedevo se ti eri ricordato il nome di quel mercante.» Quale mercante? Di che cosa sta parlando? Eragon lo fissò vacuo; la sua confusione attirò lo sguardo inquisitorio di Brom. «Non,..» disse. Poi rammentò. «Non mi è venuto ancora in mente.» Brom sospirò, come se avesse avuto la conferma di qualcosa, e si strofinò il naso aquilino. «Be’... quando te lo ricordi, vieni a dirmelo. Sono molto interessato a questo mercante che pretende di sapere tutto sui draghi.» Eragon annuì con aria distratta. Camminarono in silenzio fino alla strada, poi Brom disse: «Affrettati a tornare a casa. Non credo che sarebbe una buona idea ciondolare lungo il tragitto.» E gli tese la destra rattrappita. Eragon la strinse, ma quando fece per tirare indietro il braccio, qualcosa s’impigliò nella mano di Brom e gli sfilò il guanto di lana, che cadde in terra. Il vecchio si chinò a raccoglierlo. «Che sbadato» si scusò, e lo porse a Eragon. Non appena il ragazzo lo prese, le dita robuste di Brom si chiusero sul suo polso e lo girarono di scatto. Per un istante, l’ovale argenteo sul suo palmo fu ben visibile. Gli occhi di Brom scintillarono, ma lasciò che Eragon ritraesse la mano e si rimettesse il guanto. «Arrivederci» borbottò Eragon, turbato, e si avviò di corsa. Alle sue spalle, sentì Brom fischiettare un allegro motivetto. 10 Sulle ali del destino La mente di Eragon era in tumulto, mentre correva a perdifiato verso casa, sempre più ansante. Calpestando a grandi falcate il terreno gelato, cercò di dilatare la mente in cerca di Saphira, ma la dragonessa era ancora troppo lontana per stabilire un contatto. Pensò a quello che avrebbe detto a Garrow. Non aveva scelta, ormai: doveva rivelargli l’esistenza di Saphira. Arrivò a casa senza fiato, con il cuore che gli batteva all’impazzata. Garrow era accanto alla stalla, con i cavalli. Eragon esitò. Devo dirglielo adesso? Non mi crederà mai, se non vede Saphira. È meglio che vada a chiamarla. Aggirò la fattoria e si diresse nella foresta. Saphira! gridò col pensiero. Arrivo, fu la debole risposta. Eragon avvertì anche una. nota di allarme. La sua attesa impaziente non durò a lungo; ben presto udì un fragore di ali che frustavano l’aria. La dragonessa atterrò in uno sbuffo di fumo. Che cosa è successo? gli domandò. Lui le toccò la spalla e chiuse gli occhi. Sforzandosi di restare calmo, le raccontò in fretta che cos’era successo. Quando arrivò agli stranieri, Saphira trasalì. S’impennò sulle zampe di dietro e lanciò un ruggito assordante, agitando la coda, che gli mancò la testa di un soffio. Eragon indietreggiò sorpreso e si chinò per schivare un altro colpo di coda, che sollevò una nube di neve polverizzata. La creatura emanava spaventose ondate di terrore e ferocia. Fuoco! Nemici! Morte! Assassini! Che cosa succede? Eragon fece ricorso a tutti i suoi poteri mentali, ma una parete d’acciaio sembrava schermare i pensieri della dragonessa, che lanciò un altro ruggito e conficcò gli artigli nel terreno, strappando zolle di terra gelata. Fermati! Garrow li sentirà! Giuramenti traditi, anime uccise, uova infrante! Sangue dappertutto. Assassini! In preda al panico, Eragon respinse le emozioni di Saphira e tenne d’occhio la sua coda. Quando gli passò accanto, si gettò di lato e le afferrò una punta del dorso. Tenendosi ben saldo, si issò sul piccolo incavo alla base del collo, mentre lei. tornava a impennarsi. «Basta, Saphira!» gridò. Il flusso di pensieri cessò di colpo. Il ragazzo le accarezzò le squame. «Andrà tutto bene.» La dragonessa si rannicchiò e alzò le ali, tenendole sospese per un istante; poi le abbassò di colpo e spiccò il volo. Eragon lanciò un urlo quando il terreno si allontanò dai suoi piedi e cominciarono a volare sopra gli alberi. Il vento lo investiva con violenza, strappandogli il respiro, Saphira ignorò il suo terrore e virò verso la Grande Dorsale. Sotto di loro, Eragon scorse la fattoria e il fiume Anora. Il sito stomaco si ribellò. Strinse le braccia intorno al collo di Saphira e per non vomitare si concentrò sulle squame che aveva davanti al naso, mentre la dragonessa continuava la sua ascesa. Quando il volo si fece più regolare, Eragon trovò il coraggio di guardarsi attorno. L’aria era così fredda che sulle sue ciglia si cristallizzò uno strato di brina. Avevano raggiunto le montagne più in fretta di quanto non ritenesse possibile. Dall’alto, le cime sembravano gigantesche zanne affilate come rasoi, in attesa di farli a brandelli. Saphira s’inclinò su un lato all’improvviso, ed Eragon perse quasi l’equilibrio. Si asciugò le labbra, amare di bile, e seppellì di nuovo la testa nella nuca della creatura. Dobbiamo tornare indietro, la supplicò. Gli stranieri stanno andando alla fattoria. Bisogna avvertire Garrow. Voltati! Nessuna risposta. Provò a entrare nella sua mente, che però era ancora bloccata da una torbida barriera di rabbia e paura. Deciso a farla tornare indietro, tentò di insinuarsi nella sua armatura mentale, cercando i punti deboli, minando le zone più resistenti, lottando per farsi ascoltare: ma invano. Ben presto furono circondati dalle montagne, gigantesche pareti candide interrotte da rupi di granito. I ghiacciai risplendevano azzurri come fiumi gelati. Sotto di loro si aprivano lunghe valli e paurose voragini. Eragon udì le strida sbigottite degli uccelli quando Saphira comparve davanti a loro. Vide un gregge di capre lanose saltellare da una cengia all’altra di una parete scoscesa. Era in balìa dei mulinelli di vento provocati dalle ali di Saphira, e tutte le volte che lei muoveva il collo veniva sballottato da una parte all’altra. La dragonessa sembrava instancabile. Eragon temeva che avrebbe volato per tutta la notte. Ma al calar delle tenebre iniziò la lènta discesa. Eragon guardò avanti e vide che puntavano verso una piccola radura in una valle. Saphira planò tracciando ampie spirali, sfiorando le cime degli alberi. Frenò in vista del terreno, gonfiò le ali e atterrò sulle zampe di dietro. I suoi potenti muscoli vibrarono nell’assorbire l’impatto con il suolo. Infine posò anche le zampe davanti e fece un passo per recuperare l’equilibrio. Eragon smontò ancora prima che la dragonessa chiudesse le ali. Non appena toccò terra, le ginocchia gli cedettero e cadde a faccia avanti nella neve. Un dolore lancinante alle gambe gli mozzò il fiato e gli fece venire le lacrime agli occhi. I suoi muscoli, contratti per lo sforzo di cavalcare così a lungo, tremavano violentemente. Rotolò sulla schiena con un brivido e cercò di sgranchirsi le gambe. Le guardò, tendendo il collo. Due grandi aloni scuri macchiavano l’interno delle braghe di lana. Toccò la stoffa. Era umida. Allarmato, si abbassò le braghe e fece una smorfia: aveva l’interno delle cosce scorticato a sangue. La pelle si era consumata, dopo tanto sfregare contro le dure squame di Saphira. Si tastò le abrasioni e si morse le labbra. Rasoiate di ghiaccio lo ferirono quando si alzò le braghe, e urlò quando la stoffa strusciò sulla carne viva. Provò ad alzarsi, ma le gambe non risposero. La notte cominciava a oscurare il panorama; i profili torreggianti delle montagne gli erano ignoti. Eccomi sulla Grande Dorsale, senza sapere bene dove, nel cuore dell’inverno, con un drago impazzito, e non sono in grado di camminare o trovare un riparo. Sta calando la notte. Domani devo tornare alla fattoria. E l’unica modo per arrivarci è volare, ma non ce la faccio più. Inspirò a fondo. Oh, quanto vorrei che Saphira potesse sputare fuoco. Si voltò e la vide accanto a sé, accovacciata sulla neve. Le posò una mano sul fianco e scoprì che tremava. La barriera che le bloccava la mente si era dissolta, e la sua paura lo travolse. Cercò di tenerla a freno, inviandole immagini rassicuranti. Perché hai paura degli stranieri? Assassini, sibilò lei. Garrow è in pericolo e tu mi hai costretto a seguirti in questo assurdo viaggio! Non sei capace di proteggermi? La dragonessa ringhiò e fece schioccare le fauci irritata. Ma se credi di poterlo fare, perché sei fuggita? La morte è veleno. Eragon si alzò su un gomito, sforzandosi di contenere la propria delusione. Saphira, guarda dove siamo! Il sole è tramontato, e il tuo volo mi ha spellato a sangue le gambe. Era questo che volevi? No. E allora perché l’hai fatto? chiese. Attraverso il contatto con Saphira, avvertì il suo rammarico per le ferite che senza volerlo gli aveva inflitto, ma non per le proprie azioni. Lei distolse lo sguardo e non rispose. La temperatura glaciale cominciò a intorpidire le gambe di Eragon: se non altro gli faceva sentire meno dolore, ma sapeva che alla lunga la situazione sarebbe peggiorata. Cambiò tattica. Finirò congelato, se non mi costruisci un ricovero dove possa ripararmi dal freddo. Anche un mucchio di aghi e rami di pino andrà bene. La dragonessa parve sollevata nel sapere che lui aveva smesso di interrogarla. Non serve. Mi avvolgerò intorno a te e ti coprirò con le mie ali. Il fuoco nel mio ventre ti terrà caldo. Eragon lasciò ricadere la testa sul terreno. D’accordo, ma libera un po’ di spazio dalla neve. Sarà più comodo. Per tutta risposta, Saphira spianò un cumulo di neve con un solo colpo di coda, e con gli artigli sgretolò l’ultimo strato di ghiaccio. Il ragazzo guardò il terreno brullo con una smorfia. Non ce la faccio ad arrivare fin lì; mi devi aiutare. La dragonessa abbassò la testa, più grande del torso di Eragon. Lui fissò i suoi enormi occhi color zaffiro e con le mani afferrò una delle punte d’avorio del suo dorso, Saphira sollevò dolcemente la testa e lo trascinò verso lo spiazzo pulito. Piano, piano. Vide le stelle quando scivolò sopra un sasso, ma riuscì a non allentare la presa. Nello spiazzo, Saphira si sdraiò su un fianco, mostrando il ventre tiepido, Eragon si accoccolò contro le squame morbide. La dragonessa alzò l’ala destra e lo racchiuse in una fitta tenebra, come una tenda vivente. Quasi subito l’aria perse il suo rigore. Eragon infilò le braccia dentro la giubba e si avvolse le maniche vuote intorno al collo. Per la prima volta avvertì i morsi della fame. Ma la sua vera preoccupazione era un’altra: come faceva a tornare alla fattoria prima degli stranieri? E se non ce l’avesse fatta, che cosa sarebbe successo? Anche se mi costringo a cavalcare di nuovo Saphira, non arriveremo prima del pomeriggio. Gli stranieri potrebbero essere arrivati da un pezzo. Chiuse gli occhi e sentì una lacrima solitaria scorrergli lungo il viso. Che cosa ho fatto? 11 La morte dell’innocenza Il mattino dopo, quando aprì gli occhi, Eragon pensò che il cielo fosse caduto. Sulla sua testa si ergeva una cupola di un azzurro intenso; tese una mano, ancora mezzo addormentato, e con le dita tastò una sottile membrana. Solo allora capì che cosa stava guardando. Girò piano il collo e contemplò l’incavo squamoso su cui aveva posato la testa. Lentamente distese le gambe dalla posizione rannicchiata, e le croste delle ferite crepitarono. Il dolore era diminuito, dal giorno prima, ma al solo pensiero di camminare gli venne la nausea. Un crampo allo stomaco gli rammentò i pasti saltati. Si appellò a tutte le sue energie e fece capolino da sotto l’ala. «Ehi! Svegliati!» gridò alla dragonessa. Saphira si mosse appena e sollevò l’ala; un torrente di luce investì Eragon, che socchiuse gli occhi contro il riverbero accecante della neve. Al suo fianco, Saphira si stiracchiò come un gatto e sbadigliò, mostrando un’impressionante chiostra di zanne candide. Quando gli occhi di Eragon si furono abituati alla luce, il ragazzo si guardò intorno. Vette imponenti e sconosciute li circondavano, proiettando scure ombre sulla radura. Nella neve notò tracce di animali che s’inoltravano nella foresta; da laggiù proveniva il gorgoglio sommesso di un ruscello. Si alzò con un gemito e zoppicò verso un albero. Afferrò uno dei rami bassi e lo tirò con tutto il suo peso. Il ramo dapprima resistette, poi cedette di schianto. Eragon lo ripulì e lo usò come una stampella. Con quel sostegno si avviò verso il ruscello coperto di ghiaccio. Ruppe lo strato gelato e immerse le mani nella corrente limpida per bere. Una volta dissetato, tornò nella radura. Non appena uscì dal folto degli alberi, riconobbe le montagne e la radura. Era lo stesso luogo dove, con un boato assordante, aveva fatto la sua comparsa l’uovo di Saphira. Si appoggiò a un tronco caduto. Non poteva sbagliarsi: quegli alberi grigi e spogli erano stati inceneriti dall’esplosione. Come faceva Saphira a conoscere quel posto? Allora era ancora dentro l’uovo. I miei ricordi devono averle dato le informazioni per trovarlo. Scosse la testa, sopraffatto da un muto stupore. Saphira lo aspettava paziente. Mi porti a casa? le chiese. Lei inclinò la testa da un lato. So che non vuoi, ma devi. Tutti e due abbiamo un obbligo nei confronti di Garrow. Lui si è preso cura di me e, attraverso me, anche di te. Vuoi ignorare il tuo debito? Che cosa vuoi che dicano di noi col passare del tempo, se non torniamo? Che ci siamo nascosti come codardi mentre mio zio era in pericolo? Già mi sembra di sentirla, la storia del Cavaliere e del suo drago vigliacco! Se ci sarà da combattere, lo faremo a testa alta. Tu sei un drago! Perfino uno Spettro fuggirebbe davanti a te! E tu che cosa fai? Ti nascondi fra le montagne come un coniglio spaurito. Eragon voleva farla arrabbiare, e ci riuscì benissimo. Dalla gola della dragonessa vibrò un ringhio furente, mentre faceva schioccare le fauci a pochi pollici dal suo volto. Snudò le zanne e lo guardò bieca, fumando dalle narici, Eragon sperò di non essersi spinto troppo in là. I pensieri di lei lo raggiunsero, ardenti di rabbia. Il sangue conoscerà il sangue. Combatterò. I nostri wyrda, i nostri destini ci legano, ma non mi sfidare. Ti porterò a casa perché sono in debito, ma sappi che voliamo verso la follia. «Follia o no» disse al vento. «non abbiamo scelta: dobbiamo andare.» Si tolse la camicia e la strappò a metà, e con la stoffa foderò l’interno delle braghe. Poi salì in groppa a Saphira e le cinse il collo. Questa volta, le disse, vola più basso e più veloce. Tieniti stretto, lo ammonì lei, e si levò in volo. Appena raggiunte le chiome degli alberi, la dragonessa prese un ritmo regolare e continuò a volare sulla foresta, sfiorando i rami. Lo stomaco di Eragon ricominciò a fare le capriole; era una fortuna che fosse vuoto. Più in fretta, più in fretta, la incitò. Lei non disse niente, ma accelerò il battito d’ali, Eragon strizzò gli occhi e s’ingobbì. Aveva sperato che l’imbottitura nelle braghe lo avrebbe protetto, ma ogni movimento gli procurava dolorose fitte alle gambe. Sangue fresco cominciò a sgocciolargli lungo i polpacci. Sentì l’ansia di Saphira, che batteva le ali al massimo. In basso, il terreno sfrecciava come se qualcuno stesse sfilando sotto di loro una mappa, Eragon si disse che da terra dovevano apparire solo come una macchia confusa. Nel primo pomeriggio arrivarono in vista della Valle Palancar. Le nuvole oscuravano la visuale a sud; Carvahall si trovava a nord. Saphira si abbassò appena, per consentire a Eragon di scorgere la fattoria. Quando infine lui la vide, il suo cuore ebbe un tuffo. Un nero pennacchio di fumo si levava dalla dimora in fiamme. Saphira! Indicò in basso. Fammi scendere lì. Subito! La dragonessa inclinò le ali e si tuffò in picchiata, avvicinandosi al terreno a una velocità spaventosa. Poi rallentò per puntare verso la foresta, Eragon urlò al di sopra del vento: «Atterra nei campi!» e si strinse forte alla creatura. Saphira aspettò di trovarsi a un centinaio di piedi dal suolo per puntare le ali verso il basso e frenare la discesa con pochi colpi poderosi. Atterrò pesantemente, e lui perse l’appiglio. Finì a terra, ma si rialzò subito, barcollante, senza fiato. La casa era esplosa. Le assi del tetto e delle pareti erano sparse a raggiera in tutta l’area, il legno polverizzato come schiacciato da un colossale maglio. Tegole annerite costellavano il terreno; piccoli frammenti contorti di metallo erano tutto quel che restava della stufa. La neve era disseminata di pezzi di terraglia bianca e mattoni rossicci del comignolo. Un denso fumo oleoso si levava dal fienile in fiamme. Gli animali erano stati uccisi; qualcuno era fuggito. «Zio!» Eragon corse verso i resti fumanti delle stanze, in cerca di Garrow. Nessuna traccia. «Zio!» gridò ancora. Saphira fece il giro della casa e gli si avvicinò. Qui dimora il dolore, disse la dragonessa. «Questo non sarebbe successo se non fossi fuggita via con me!» Tu non saresti vivo se fossimo rimasti. «Guarda!» urlò il ragazzo. «Avremmo potuto avvertire Garrow! È colpa tua se non è fuggito!» Sferrò un pugno contro un palo e si sbucciò le nocche. Senza badare al sangue che gli gocciolava dalle dita, uscì a grandi passi dalla casa, o meglio, da ciò che ne restava. Raggiunse il sentiero che conduceva alla strada maestra e si accoccolò per esaminare la neve. C’erano parecchie impronte, ma aveva la vista appannata e non riusciva a distinguerle bene. Sto diventando cieco? si chiese. Con la mano tremante si toccò le guance e le trovò bagnate. Un’ombra torreggiò su di lui quando Saphira lo raggiunse, coprendolo con le sue ali. Consolati; forse non tutto è perduto…Eragon alzò lo sguardo versò di lei, in cerca di speranza. Guarda la neve. I miei occhi vedono soltanto due serie di orme. Garrow non è stato portato via. Eragon scrutò la neve calpestata. Le orme di due paia di stivali andavano verso la casa. Poco distante, le stesse impronte che si allontanavano. E chiunque avesse lasciato quest’ultima serie, aveva lo stesso peso di quando era arrivato. Hai ragione: Garrow è ancora qui Si alzò di scatto e corse di nuovo verso le rovine. lo cercherò qui intorno e nella foresta, disse Saphira. Eragon scavalcò i resti della cucina e cominciò a scavare frenetico sotto un cumulo di macerie. Grossi detriti che normalmente non sarebbe riuscito a sollevare gli parevano leggeri come fuscelli. Per un attimo fu ostacolato da una credenza quasi intatta; poi la spostò di peso e la fece volare. Mentre afferrava una tavola, udì un rumore alle sue spalle. Si volse di scatto, pronto a difendersi. Una mano sbucò da sotto una parte di tetto crollato. Si muoveva appena, ed Eragon l’afferrò con un grido. «Zio, riesci a sentirmi?» Nessuna risposta. Eragon prese a staccare pezzi di legno, senza far caso alle schegge che gli ferivano le mani. Comparvero un braccio e una spalla, ma il corpo era sepolto sotto una trave pesante. Provò a spingerla con la spalla, mettendoci ogni fibra del suo essere, ma fu inutile. «Saphira! Ho bisogno di te!» La dragonessa arrivò subito. Il legno schioccava sotto le sue zampe mentre si faceva strada fra le rovine. Senza una parola, gli passò accanto e appoggiò il fianco contro la trave. Conficcò gli artigli in quello che restava del pavimento e tese i muscoli. Con un lento scricchiolio, la trave si alzò ed Eragon vi s’infilò sotto. Garrow era disteso a faccia in giù, gli abiti ridotti a brandelli. Eragon lo trascinò fuori dalle macerie. Non appena furono al sicuro, Saphira lasciò andare la trave, che ricadde con uno schianto fragoroso. Eragon trascinò lo zio fuori dalla casa distrutta e lo adagiò per terra. Lo guardò sconvolto, lo toccò con delicatezza. La sua pelle era grigia, senza vita, e secca, come se una febbre lo avesse prosciugato. Aveva il labbro spaccato e un taglio profondo gli solcava lo zigomo, ma non era quella la cosa peggiore. La maggior parte del corpo era coperta da gravi ustioni, bianche come gesso, che trasudavano un liquido chiaro. Emanava un puzzo nauseabondo, come di frutta marcita. Respirava a fatica; ogni rantolo sembrava l’ultimo. Assassini, sibilò Saphira. Non dirlo.. Potrebbe ancora salvarsi! Dobbiamo portarlo da Gertrude. Ma io non posso,farcela da solo fino a Carvahall Saphira gli trasmise l’immagine di Garrow sospeso sotto di lei mentre volava. Puoi portarci tutti e due? Devo. Eragon scavò fra le macerie finché non trovò una tavola abbastanza grande e qualche cinghia di cuoio. Disse a Saphira di trapassare con un’unghia ciascuno dei quattro angoli della tavola, poi fece scorrere le cinghie nei fori e le fissò alle zampe davanti della dragonessa. Dopo aver controllato i nodi, fece rotolare Garrow sulla barella. Mentre lo legava per sicurezza, dalla mano dello zio cadde un brandello di stoffa nera. Era il tessuto dei mantelli degli stranieri. Eragon se lo infilò in tasca con un gesto di rabbia, salì in groppa a Saphira e chiuse gli occhi per combattere il dolore pulsante che gli tormentava le gambe. Vai! La dragonessa piantò saldamente le zampe dietro a terra e s’impennò, agitando le ali con vigore, i muscoli tesi nello sforzo di contrastare la gravità. Per un lungo, terribile istante non accadde nulla; poi la creatura si staccò dal suolo e prese a salire rapida. Mentre sorvolavano la foresta, Eragon le disse: Segui la strada maestra, così troverai spazio per atterrare. Mi potrebbero vedere. Non ha più importanza! La dragonessa non replicò. Virò verso la strada e si diresse a Carvahall. Garrow ondeggiava paurosamente sotto di loro; soltanto le sottili cinghie di cuoio gli impedivano di cadere. Il doppio peso rallentava il volo di Saphira. La testa prese a ciondolarle; aveva la schiuma alla bocca. Nonostante gli sforzi, mancava ancora una lega a Carvahall quando si arrese e atterrò sulla strada. Le sue zampe sollevarono un ampio ventaglio di neve, Eragon scivolò a terra, rotolando su un fianco per evitare di farsi ancora male alle gambe. Si alzò a fatica e sciolse i lacci dalle zampe di Saphira. Il respiro affannoso della dragonessa rimbombava nell’aria fredda. Trova un posto sicuro per riposare, le disse. Non so quanto starò via, perciò dovrai cavartela da sola per un po’. Aspetterò, disse lei. Eragon strinse i denti e cominciò a trascinare Garrow lungo la strada. I primi passi gli procurarono un’esplosione di dolore, in tutto il corpo. «Non posso farcela!» gridò al cielo, ma continuò ad arrancare. Le labbra contratte in una smorfia, fissava il terreno sotto i piedi per costringersi ad andare avanti. Era una lotta contro il proprio corpo: una lotta che voleva vincere a tutti i costi. I minuti passavano con una lentezza intollerabile; ogni piede guadagnato sembrava lungo un miglio. In preda alla disperazione, si chiese se Carvahall esistesse ancora, o se non fosse stata rasa al suolo dagli stranieri. Dopo quella che gli parve un’eternità di dolore, sentì gridare e alzò gli occhi. Brom correva verso di lui, gli occhi sgranati, i capelli scarmigliati, un lato della testa incrostato di sangue rappreso. Agitava le braccia come un forsennato. Quando lo raggiunse, lasciò cadere il bastone e lo afferrò per le spalle, dicendogli qualcosa ad alta voce. Eragon lo guardò senza capire. All’improvviso, il terreno parve venirgli incontro. Sentì il sapore del sangue; poi tutto si fece nero. 12 Veglia di dolore Strani sogni affollavano la mente di Eragon, resi vividi e reali dalle misteriose leggi dell’inconscio. Vide un gruppo di gente su fiere cavalcature che si avvicinava a un fiume solitario. Molti avevano chiome d’argento e impugnavano lunghe lance. Li attendeva una strana nave bianca, scintillante al chiaro di luna. Le figure s’imbarcarono lente sul vascello; due di loro, più alte delle altre, avanzavano mano nella mano. I loro volti erano celati da cappucci, ma una era senz’alcun dubbio una donna. Rimasero sul ponte della nave, a contemplare la riva. Un uomo era rimasto sulla spiaggia ghiaiosa, l’unico a non essere salito a bordo. Gettò indietro la testa e lanciò un lungo grido colmo di dolore. Sulla scia inquietante di quel grido, la nave scivolò lungo il fiume, senza vele e senza remi, solcando la terra piatta e deserta. La visione si offuscò, ma prima che svanisse del tutto, in cielo Eragon scorse due draghi. Eragon colse per prima cosa un cigolio costante: avanti e indietro, avanti e indietro. Il rumore gli fece aprire gli occhi, che si trovarono a fissare un soffitto di paglia. Le sue nudità erano nascoste sotto una ruvida coperta. Qualcuno gli aveva fasciato le gambe e stretto una benda pulita intorno alle nocche. Era in una capanna. Da una parte c’era un tavolo, su cui poggiavano un mortaio e un pestello, oltre a una serie di ciotole e vasi di piante. Alle pareti erano appesi mazzolini di erbe essiccate che riempivano la stanza di aromi pungenti. Il fuoco ardeva in un camino, davanti al quale c’era una sedia a dondolo di vimini, occupata da una donna corpulenta: Gertrude, la guaritrice del villaggio. Aveva gli occhi chiusi e la testa ciondoloni. In grembo teneva due ferri da calza e un gomitolo di lana. Pur sentendosi assolutamente privo di forze, Eragon si costrinse a sedersi. Il gesto lo aiutò a schiarirsi la mente, e il ragazzo ripassò gli eventi degli ultimi giorni. Il suo primo pensiero fu per Garrow; il secondo per Saphira. Spero che sia al sicuro. Provò a cercarla con la mente, ma senza esito. Ovunque fosse, era lontana da Carvahall. Almeno Brom mi ha portato a Carvahall Mi chiedo che cosa gli sia successo. Tutto quel sangue… Gertrude si mosse e aprì gli occhi, due palline lucenti. «Oh» disse. «Sei sveglio. Bene!» La sua voce era piena e calda. «Come ti senti?» «Così così. Dov’è Garrow?» Gertrude trascinò la sedia accanto al letto. «È a casa di Horst. Qui non c’era posto per tutti e due. Sai, non ho fatto altro che correre avanti e indietro per badare a entrambi. Sono stanca morta.» Eragon inghiottì le proprie preoccupazioni e chiese: «Come sta?» . Ci fu una lunga pausa durante la quale la donna si scrutò le mani. «Non bene. Continua ad avere la febbre alta, e le sue ferite non guariscono.» «Devo vederlo.» Cercò di alzarsi dal letto. «No, finché non avrai mangiato» ribattè lei decisa, spingendolo contro il materasso. «Non ho passato tutto questo tempo al tuo capezzale solo per vederti star male di nuovo. Su gran parte delle gambe hai carne viva al posto della pelle, e la febbre ti è passata solo ieri sera. Non temere per Garrow. Si rimetterà. Ha una forte tempra.» Gertrude mise una pentola sul fuoco e cominciò ad affettare delle pastinache per la zuppa. «Da quanto sono qui?» «Due giorni.» Due giorni! Voleva dire che il suo ultimo pasto risaliva a quattro giorni prima! Al solo pensiero fu preso da un profondo senso di debolezza. Saphira è rimasta da sola tutto questo tempo; spero che stia bene. «Tutta la città vuole sapere che cosa è successo. Hanno mandato degli uomini alla fattoria e l’hanno trovata distrutta.» Eragon annuì; se l’era aspettato. «Il fienile era bruciato... È così che si è ferito Garrow?» «Io... non lo so» disse Eragon. «Non c’ero quando è successo.» «Be’, non importa. Sono sicura che la verità si saprà presto.» Gertrude riprese a fare la maglia mentre la zuppa bolliva. «Hai una bella cicatrice sul palmo.» Eragon strinse il pugno, per un riflesso istintivo. «Già.» «Come te la sei fatta?» Gli vennero in ménte diverse risposte. Scelse la più semplice. «Ce l’ho da quando ho memoria. Non ho mai chiesto a Garrow la sua origine.» «Mmm...» Calò il silenzio, interrotto soltanto dal borbottio della pentola. A un certo punto. Gertrude tolse la zuppa dal fuoco e ne versò una scodella a Eragon, porgendogli anche un cucchiaio. Lui l’accettò volentieri e sorbì una cauta cucchiaiata. Era squisita. Quando ebbe finito, chiese: «Posso andare a trovare Garrow adesso?» Gertrude sospirò. «Sei un ragazzo ostinato, eh? Be’, se proprio lo desideri, non ti fermerò. Vestiti, ti accompagno.» Lei si voltò mentre lui si infilava le braghe a fatica; strinse i denti quando gli strusciarono sulle bende. Poi toccò alla camicia, e Gertrude lo aiutò ad alzarsi. Sentiva le gambe deboli, ma non gli facevano più male come prima. «Prova a fare qualche passo» gli ordinò lei, poi osservò secca: «Almeno non dovrai strisciare fino da Horst.» Fuori, il vento gli soffiò sul viso il fumo che si spandeva dalle costruzioni vicine. Nubi di temporale nascondevano la Grande Dorsale e coprivano la valle, mentre un fronte nevoso avanzava verso il villaggio, oscurando le colline, Eragon si appoggiò con tutto il suo peso a Gertrude mentre percorrevano le vie del villaggio. Horst aveva costruito la sua casa a due piani su una collina, per poter godere del panorama sulle montagne. Ci aveva messo tutta la sua arte. Il tetto di scisto spioveva su un balcone con la ringhiera, che si apriva davanti a un’alta finestra al secondo piano. Ogni pluviale aveva la forma di un gargoyle, e ogni porta e finestra era incorniciata da intagli di serpenti, cervi, corvi e rampicanti, Ad aprire la porta fu Elain, la moglie di Horst, una donna piccola e minuta, dai lineamenti delicati, i biondi capelli serici raccolti in una crocchia. Il suo abito era semplice e pulito, i suoi movimenti aggraziati. «Prego, entrate» disse con voce dolce. Varcarono la soglia e si trovarono in un’ampia stanza bene illuminata. Una scala dalla balaustra lucida si curvava fino al pavimento. Le pareti erano color miele. Elain scoccò a Eragon un sorriso mesto, ma si rivolse a Gertrude: «Stavo proprio mandando a chiamarti. Non sta bene. Devi vederlo subito.» «Elain, ti spiacerebbe aiutarlo a salire le scale?» disse Gertrude, e si affrettò a salire i gradini a due a due. «Non importa, posso farcela da solo» disse Eragon. «Sicuro?» domandò Elain. Lui annuì, ma lei parve esitare. «D’accordo.,. ma non appéna hai finito, scendi da me in cucina. Ho appena fatto una crostata che ti piacerà.» Non appena la donna scomparve oltre una porta, Eragon si appoggiò al muro, sfinito. Poi prese a salire le scale, un passo doloroso dopo l’altro. Quando fu in cima, vide un lungo corridoio su cui si affacciavano parecchie porte. L’ultima era socchiusa. Trasse un respiro profondo e si avviò da quella parte. C’era Katrina accanto a un camino, intenta a far bollire delle pezze. La ragazza alzò lo sguardo, mormorò il suo dispiacere, poi tornò al suo lavoro. Gertrude era accanto a lei, intenta a pestare erbe per un impiastro. Un secchio ai suoi piedi conteneva neve che si stava sciogliendo nell’acqua fredda. Garrow giaceva a letto, sotto una montagna di coperte. La sua fronte era madida di sudore, e sotto le palpebre chiuse gli occhi tremolavano, ciechi. La pelle del volto era tesa come quella di un cadavere. Era immobile; solo un lieve tremore tradiva il suo respiro affannato. Eragon toccò la fronte dello zio, sentendosi remoto, strano. Scottava. Alzò con apprensione le coperte e vide che le ferite èrano state fasciate. Dove stavano cambiando le bende, le ustioni erano esposte. Non avevano ancora cominciato a rimarginarsi. Eragon guardò Gertrude con occhi disperati. «Non puoi fare niente per queste?» La donna immerse una pezza nel secchio d’acqua gelata, la strizzò e la posò sulla fronte di Garrow. «Ho provato di tutto: balsami, impiastri, tinture, ma non è servito a niente. Se le ferite si rimarginassero, avrebbe maggiori probabilità. Tuttavia le cose possono ancora migliorare. È un uomo forte e resistente.» Eragon si spostò in un angolo e si lasciò scivolare fino a terra. Non era così che dovevano andare le cose! Il silenzio inghiottì i suoi pensieri. Fissò il letto con occhi spénti. Dopo un po’ si accorse che Katrina si inginocchiava vicino a lui e gli posava una mano sulla spalla. Davanti alla sua assenza di reazioni, la ragazza si allontanò con aria diffidente. Qualche tempo dopo la porta si aprì ed entrò Horst. Parlò con Gertrude a bassa voce, poi si avvicinò a Eragon. «Andiamo. Devi uscire di qui.» Prima che Eragon potesse protestare. Horst lo trasse in piedi e lo condusse alla porta. «Io voglio restare» piagnucolò il ragazzo. «Hai bisogno di una pausa e di un po’ d’aria fresca. Non preoccuparti, potrai tornare presto» lo consolò Horst. A malincuore Eragon lasciò che il fabbro lo aiutasse a scendere le scale per andare in cucina. Gli odori di tuia mezza dozzina di piatti, ricchi di spezie ed erbe, riempivano l’aria. Albriech e Baldor stavano chiacchierando con la madre, intenta .a impastare il pane. I fratelli tacquero quando videro Eragon, ma lui udì abbastanza da sapere che stavano parlando di Garrow. «Ecco, siediti qui» disse Horst, porgendogli una sedia. Eragon si sedette riconoscente. «Grazie.» Le sue mani tremavano un po’, così le strinse in grembo. Un piatto pieno di cibo gli fu posato davanti. «Non devi mangiare per forza» disse Elain. «ma se ne hai voglia...» Tornò a cucinare, mentre lui prendeva una forchetta. Riuscì a stento a inghiottire un paio di bocconi. «Come ti senti?» disse Horst. «Malissimo.» Il fabbro attese un istante. «Lo so che questo non è il momento adatto, ma dobbiamo sapere... che cosa è successo?» «Non mi ricordo, davvero.» «Eragon» disse Horst, proteso verso di lui. «io ero fra quelli che sono andati a vedere la fattoria. La tua casa non è solo crollata. Qualcosa l’ha fatta a pezzi. Intorno c’erano tracce di una bestia gigantesca che non ho mai visto. Anche gli altri le hanno viste. Ora, se c’è uno Spettro o un mostro che vaga qui intorno, dobbiamo saperlo. Tu sei l’unico che può dircelo.» Eragon sapeva di dover mentire. «Quando ho lasciato Carvahall...» e contò il tempo. «... quattro giorni fa, c’erano degli….stranieri in città che facevano domande su una pietra che avevo trovato.» Guardò Horst negli occhi. «Sei stato tu a parlarmene, e così sono corso a casa.» Tutti lo stavano fissando. Si bagnò le labbra. «Non... non è successo niente, quella notte. La mattina dopo ho sbrigato le mie faccende e sono andato a fare una passeggiata nella foresta. A un certo punto ho sentito un’esplosione e ho visto del fumo oltre gli alberi. Mi sono precipitato alla fattoria, ma chiunque avesse compiuto quello scempio era scomparso. Ho scavato fra le macerie e… ho trovato Garrow.» «E così l’hai messo su quella tavola e l’hai trascinato qui?» disse Albriech. «Sì» rispose Eragon. «ma prima di partire ho dato un’occhiata al sentiero che porta alla strada maestra. C’erano due serie di impronte, entrambe di uomini.» S’infilò la mano in tasca e trasse il pezzo di stoffa nera. «Ho trovato questo. Lo stringeva in mano Garrow. Credo che appartenga agli abiti di quegli stranieri.» Lo posò sul tavolo. «Infatti» disse Horst. Sembrava tanto arrabbiato quanto perplesso. «E le tue gambe? Come ti sei fatto male?» «Non lo so per certo» disse Eragon, il capo. «Credo che sia successo mentre liberavo Garrow dalle macerie. È stato solo quando il sangue ha cominciato a colarmi lungo i polpacci che me ne sono accorto.» «È orribile!» esclamò Elain. «Dobbiamo acciuffare quegli uomini» dichiarò Albriech, infervorato. «Non devono passarla liscia! Con un paio di buoni cavalli possiamo raggiungerli domani e riportarli qui.» «Togliti queste sciocchezze dalla testa» disse Horst. «Sarebbero capaci di sollevarti come un bambino e scaraventarti su un albero. Ricordi com’era ridotta la casa? Non voglio averci a che fare, con quella gente. Per giunta, hanno già quello che vogliono.» Guardò Eragon. «Hanno preso la pietra, vero?» «Non era in casa.» «Quindi non c’è ragione che tornino, ora che è in mano loro.» Scrutò il ragazzo più da vicino. «Non hai detto niente di quelle strane impronte. Sai da dove venivano?» Eragon scosse la testa. «Non si capiva.» Baldor intervenne. «Non mi piace questa storia. Sa di stregoneria. Chi sono questi uomini? Sono Spettri? Perché volevano la pietra, e come hanno fatto a ridurre così la casa se non ricorrendo a poteri oscuri? Potresti avere ragione, padre, forse volevano soltanto la pietra, ma ho la sensazione che li rivedremo.» Il silenzio seguì le sue parole. Qualcosa però era stato tralasciato, anche se Eragon non sapeva dire che cosa. Poi ebbe una folgorazione. Con il cuore a pezzi, diede voce al suo sospetto. «Roran non sa niente, vero?» Come aveva fatto a dimenticarlo? Horst fece cenno di no. «Lui e Dempton sono partiti poco dopo di te. A meno che non abbiano incontrato difficoltà lungo la strada, ormai dovrebbero essere arrivati a Therinsford da un paio di giorni. Volevamo mandar loro un messaggio, ma ieri e l’altro ieri il tempo è stato troppo, brutto.» «Io e Baldor stavamo per partire quando ti sei svegliato» disse Albriech. Horst si passò una mano sulla barba. «Allora andate, voi due. Vi aiuto a sellare i cavalli.» Baldor si rivolse a Eragon. «Non temere, gli racconterò tutto con la dovuta cautela» promise; poi seguì Horst e Albriech fuori dalla cucina. Eragon rimase seduto al tavolo, gli occhi concentrati su un nodo del legno. Ogni dettaglio gli appariva nitido: le venature contorte, un bozzo impreciso, tre piccoli solchi di colore un po’ diverso. Il nodo era pieno di minuscoli particolari: più lo guardava da vicino, più cose vedeva. Cercò una risposta in esso, ma se c’era, gli sfuggiva. Un debole grido interruppe il corso dei suoi pensieri. Sembrava che qualcuno fuori stesse urlando. Lo ignorò. Lascia che se ne occupi qualcun altro. Qualche minuto dopo lo udì ancora, più forte. Sbuffò, stizzito. Perché non abbassano la voce? Garrow sta riposando. Guardò Elain, ma lei non parve infastidita dal baccano. ERAGON! Il ruggito lo colpì tanto forte che quasi cadde dalla sedia. Si guardò intorno allarmato, ma non era cambiato niente. All’improvviso capì che le grida venivano da dentro la sua testa. Saphira? chiese ansioso. Ci fu una pausa. Sì, orecchie di pietra. Si sentì sollevato. Dove sei? La dragonessa gli inviò l’immagine di un boschetto. Ho provato a chiamarti molte volte, ma eri troppo lontano. Sono stato male… ma adesso va meglio. Perché non ti potevo sentire prima? Dopo due notti di attesa, mi è venuta fame. Sono stata a caccia. E cosa hai preso? Un capriolo. Era abbastanza saggio da guardarsi dai predatori di terra, ma non da quelli del cielo. Quando l’ho preso tra le mie fauci, ha scalciato per tentare di fuggire. Ma io ero più forte, e quando ha capito di essere sconfitto, si è arreso ed è morto. Anche Garrow lotta contro l’inevitabile? Non lo so. Le raccontò i particolari, poi disse: Passerà ancora del tempo prima che io possa tornare a casa. Non potremo vederci per almeno altri due giorni. Devi continuare a cavartela da sola. Farò come dici, sospirò la dragonessa, avvilita. Ma non metterci troppo. Si separarono a malincuore, Eragon guardò fuori dalla finestra e si stupì nel vedere che il sole era tramontato. Sentendosi molto stanco, si alzò vacillante per andare da Elain, che stava avvolgendo dei pasticci di carne in carta oleata. «Torno a casa di Gertrade a dormire» le disse. Lei finì di chiudere i pacchetti e domandò: «Perché non resti con noi? Starai più vicino a tuo zio, e Gertrude potrà riavere il suo letto.» «Avete posto?» domandò, esitante. «Ma certo.» Si asciugò le mani. «Vieni con me; ti faccio vedere.» Lo accompagnò in una stanza vuota al piano di sopra. Eragon si sedette sul bordo del letto. «Ti serve niente?» gli chiese lei. Lui scosse il capo. «Comunque io sarò di sotto. Chiamami, se hai bisogno.» Eragon ascoltò i passi di Elain scendere le scale. Poi aprì la porta e scivolò lungo il corridoio, fino alla camera di Garrow. Gertrude gli sorrise da sopra i ferri da calza. «Come sta?» sussurrò lui. La voce della donna era velata dalla stanchezza. «È debole, ma la febbre si è abbassata, e qualche ustione sembra vada meglio. Non possiamo far altro che aspettare, ma forse questo significa che può guarire.» Di umore migliore, Eragon tornò nella sua stanza. Il buio lo avvolse ostile mentre si rintanava sotto le coperte. Alla fine il sonno lo vinse, curando le ferite che il suo corpo e la sua anima avevano sofferto. 13 L’ingiustizia della vita Era ancora buio quando Eragon si svegliò di soprassalto, ansante. La stanza era gelata; aveva la pelle d’oca sulle braccia e sulle spalle. Mancavano un paio d’ore all’alba: era il momento della notte in cui nulla si muove e la vita attende di essere sfiorata dai primi tiepidi raggi di sole. Il cuore gli martellava, gonfio di una terribile premonizione. Era come se il mondo fosse coperto da un sudario, con il lembo più oscuro disteso sulla sua stanza. Si alzò e si vestì. Angosciato, corse lungo il corridoio e si fermò allarmato quando vide la porta della camera di Garrow aperta, e tanta gente assiepata dentro. Garrow giaceva composto sul letto. Indossava abiti puliti, aveva i capelli pettinati all’indietro e il suo viso era sereno. Si sarebbe detto che dormisse, se non fosse stato per l’amuleto d’argento appeso al collo e il mazzolino di cicuta essiccata adagiato sul petto: gli ultimi doni dei vivi al defunto. Katrina era in piedi accanto al letto, il volto pallido, gli occhi bassi. La udì mormorare: «Speravo di poterlo chiamare padre, un giorno...» Chiamarlo padre, pensò Eragon amareggiato, un diritto che nemmeno io ho avuto. Si sentiva come un fantasma, prosciugato di ogni vitalità. Tutto era inconsistente, tranne il viso di Garrow. Lacrime copiose gli scesero lungo le guance. Rimase lì, le spalle tremanti, ma non pianse forte. Madre, zia, zio: li aveva perduti tutti. Il peso del dolore era schiacciante, una forza mostruosa, che lo fece barcollare. Qualcuno lo riaccompagnò in camera sua, mormorando parole di conforto. Si lasciò cadere sul letto e si coprì il viso con le braccia, scosso dai singhiozzi. Sentì che Saphira lo cercava, ma la respinse e sì chiuse nel suo dolore. Non riusciva ad accettare che Garrow non ci fosse più. Con la sua morte, in che cos’altro poteva credere? Solo in un mondo spietato e indifferente, che spegneva la vita come una candela si spegne a un soffio di vento. Deluso e terrorizzato, rivolse il viso bagnato dì lacrime al cielo e gridò; «Quale dio può permettere tutto questo? Mostrati!» Sentì qualcuno che correva verso la sua stanza, ma dal cielo non giunse alcuna risposta. «Non lo meritava!» Mani delicate lo strinsero; si rese conto che c’era Elain seduta accanto a lui. Lo tenne stretto mentre piangeva. Alla fine, esausto, Eragon scivolò suo malgrado nel sonno. 14 L’arma di un Cavaliere Al risveglio, Eragon si sentì sopraffare dall’angoscia. Con gli occhi ancora chiusi, non riuscì a trattenere una nuova ondata di lacrime. Cercò un pensiero, una speranza che gli impedisse di scivolare nella follia. Nonposso vivere così, gemette. Allora non farlo. Le parole di Saphira echeggiarono nella sua mente. Come? Garrow se n’éandato per sempre! E quando arriverà il mio momento, anch’io incontrerò lo stesso fato. Gli affetti, la famiglia, le conquiste... tutto ti viene strappato via, senza lasciarti niente. Qual è il valore di ciò che facciamo? Il valore consiste nell’atto. Il tuo valore ha fine quando ti arrendi e non provi più il desiderio di cambiare, di vivere la vita. Ma hai parecchie strade davanti a te: scegline una e dedicati a essa anima e corpo. Saranno le azioni a darti una nuova speranza e un nuovo scopo. Ma che cosa posso fare? L’unica vera guida è il tuo cuore. Nulla può aiutarti, se non il suo desiderio supremo. La dragonessa lasciò che il ragazzo riflettesse su quei pensieri. Eragon esaminò le proprie emozioni. Fu sorpreso quando scoprì di provare, più che dolore, una rabbia cocente. Che cosa vuoi che faccia... devo inseguire gli stranieri? Sì La sua risposta diretta lo confuse. Trasse un profondo, tremante respiro. Perché? Ricordi quello che mi hai detto sulla Grande Dorsale? Quando mi hai rammentato il mio dovere di drago, e io ti ho riportato a casa malgrado il mio istinto? Anche tu devi controllarti. Ho riflettuto molto negli ultimi giorni, e ho capito che cosa significa essere drago e Cavaliere: è il nostro destino tentare l’impossibile, realizzare grandi imprese senza timore, È la nostra responsabilità per il futuro. Non m’importa quel che dici; non sono buoni motivi per partire! gridò Eragon. Ce ne sono altri. Hanno visto le mie impronte e la gente comincia a sospettare la mia presenza. Alla fine mi scopriranno, E poi, qui non ti resta niente. Non hai casa, non hai famiglia, e... Roran non è morto! disse il ragazzo con foga. Ma se resti, dovrai spiegargli che cosa è successo davvero. Lui ha il diritto di sapere come e perché suo padre è morto. Che cosa credi che farà quando saprà di me? Gli argomenti di Saphira cominciarono a minare l’ostinazione di Eragon, ma il ragazzo continuava a rifiutare l’idea di abbandonare la Valle Palancar: quella era casa sua, E insieme, il pensiero di vendicarsi degli stranieri lo allettava con la sua ferocia. Avrò la forza di affrontare tutto questo? Avrai me. Il dubbio lo tormentava. Era un atto assurdo, disperato. Si disprezzò per la propria indecisione e un sorriso amaro gli affiorò sulle labbra. Saphira aveva ragione. Non contava altro se non l’atto in sé. L’importante è fare. E che cosa gli avrebbe procurato più soddisfazione che braccare gli stranieri? Si sentì crescere dentro una forza terribile, che raccolse tutte le sue emozioni trasformandole in una solida spranga di rabbia, con una sola parola stampata sopra: vendetta. La testa gli pulsava mentre diceva, convinto: Lo farò. Interruppe il contatto con Saphira e rotolò fuori dal letto, il corpo teso come ima molla compressa. Era ancora presto; non aveva dormito che poche ore. Niente è più pericoloso di un nemico che non ha nulla da perdere, pensò. È quello che sono diventato. Il giorno prima aveva fatto fatica ad alzarsi, ma quella mattina si muoveva con una scioltezza alimentata da una volontà di ferro. Il dolore che il corpo gli inviò fu sconfitto e ignorato. Mentre si aggirava furtivo per la casa, sentì due persone parlottare a bassa voce. Incuriosito, si fermò a origliare. Elain stava, dicendo: «... un posto per restare. Abbiamo spazio.» Horst rispose con un borbottio incomprensibile. «Già, povero ragazzo» disse Elain. Questa volta Eragon riuscì a sentire le parole di Horst. «Può darsi...» Una lunga pausa. «Ho pensato molto a ciò che ha detto Eragon, e non sono sicuro che ci abbia raccontato tutto.» «Che cosa intendi dire?» chiese Elain, una nota di apprensione nella voce. «Quando siamo andati alla fattoria, sulla strada c’era una lunga traccia spianata, lasciata dalla tavola su cui Eragon aveva trascinato Garrow. Ma poi siamo arrivati in un punto dove la neve era tutta smossa e calpestata. Le sue orme e la traccia della tavola si fermavano lì, ma abbiamo visto le stesse impronte gigantesche che circondavano la fattoria, E le sue gambe? Mi sembra impossibile che non si sia accorto di essersi ferito a quel modo. Non ho voluto insistere, ma credo che sia giunto il momento di saperne di più.» «Forse ciò che ha visto lo ha tanto spaventato che non ha voluto dirci nulla» stiggerì Elain. «Hai visto com’era sconvolto.» «Ma questo non spiega come sia riuscito a trascinare Garrow per buona parte del tragitto senza lasciare tracce.» Saphira aveva ragione, pensò Eragon. Dobbiamo andarcene. Troppe domande. Prima o poi vorranno delle risposte. Continuò a muoversi circospetto, fermandosi col cuore in gola ogni volta che il pavimento scricchiolava. Le vie erano deserte; erano quasi tutti ancora in casa, a quell’ora del mattino. Si fermò un istante per concentrarsi. Non mi occorre un cavallo, Saphira sarà la mia cavalcatura, ma ho bisogno di una sella. Lei saprà cacciare per tutti e due, quindi non mi devo preoccupare del cibo... però potrei procurarmene un po’ comunque. Qualunque altra cosa mi serva, la troverò sepolta sotto le macerie di casa. Andò alla conceria di Gedric, ai margini di Carvahall. L’odore acre gli fece storcere il naso, ma entrò lo stesso in una baracca addossata al fianco della collina, dove si conservavano le pelli conciate. Sganciò tre grandi pelli di bue dalle lunghe file di pelli appese al soffitto. Il furto lo fece sentire in colpa.. ma si disse: Non sto rubando. Un giorno o l’altro pagherò Gedric, e anche Horst. Arrotolò le pelli e le portò fino a un boschetto lontano dal villaggio. Infilò l’involto fra i rami di un albero e tornò a Carvahall. E adesso il cibo. Si avviò verso la taverna, intenzionato a sottrarre un po’ di viveri, ma poi sorrise tra sé e cambiò direzione. Se doveva rubare, tanto valeva farlo da Sloan. S’intrufolò di soppiatto nella bottega del macellaio. La porta principale era chiusa quando Sloan non c’era, ma la porta sul retro era protetta da una piccola catena, che riuscì a spezzare con facilità. Dentro era buio. Si aggirò a tentoni finché le sue mani non sfiorarono dei fagotti di carne. Si infilò tutti quelli che poteva sotto la camicia, poi tornò sulla strada e richiuse la porta. Poco distante, una donna gridò il suo nome. Strinse a sé l’orlo della camicia per non far scivolare la carne e si rifugiò dietro un angolo. Rabbrividì quando vide Horst camminare fra due case, a pochi metri da lui. Non appena Horst fu scomparso, Eragon prese a correre, con le gambe che gli pulsavano dolorosamente. Uscì da un vicolo e puntò verso il boschetto. Scivolò fra i tronchi, poi si voltò per vedere se era stato seguito. Nessuno. Trasse un sospiro di sollievo e tese una mano verso il ramo dove aveva nascosto le pelli. Erano scomparse. «Vai da qualche parte?» Eragon si volse di scatto. Brom lo fissava accigliato, sempre con quella brutta ferita alla tempia. Alla cintura gli pendeva il fodero scuro di una spada corta. Stringeva in mano le pelli. Gli ocelli di Eragon si ridussero a due fessure. Come aveva fatto il vecchio a pedinarlo? Tutto era così silenzioso che avrebbe giurato che non ci fosse nessuno. «Ridammele!» gli intimò, brusco. «Perché? Così puoi scappare ancora prima che Garrow sia seppellito?» L’accusa lo ferì. «Non sono affari tuoi!» urlò, su tutte le furie. «Perché mi hai seguito?» «Non ti ho seguito» grugnì Brom. «Ti stavo aspettando qui. Dove hai intenzione di andare?» «Da nessuna parte.» Eragon si lanciò in avanti all’improvviso e gli strappò le pelli di mano. Brom non oppose resistenza. «Spero che tu abbia abbastanza carne per il tuo drago.» Eragon fu raggelato dalla battuta. «Ma di che cosa parli?» Brom incrociò le braccia. «Non mi inganni. So come ti sei procurato quel segno sulla mano, il gedw’éy ignasia, il palmo luccicante: hai toccato un cucciolo di drago. So perché sei venuto da me con tutte quelle domande, e so che ancora una volta i Cavalieri vivono.» Eragon lasciò cadere le pelli e la carne. Alla fine è successo... Devo scappare! Non posso correre più veloce di lui con le gambe ferite, ma se... Saphira! chiamò. Per qualche interminabile istante, lei non rispose. Poi: Si Siamo stati scoperti! Ho bisogno di te! Le inviò l’immagine del luogo dove si trovavate lei si alzò subito in volo. Ormai doveva soltanto guadagnare tempo. «Come l’hai scoperto?» domandò in tono sommesso. Brom guardò in lontananza e mosse le labbra in un mornorio muto, come se stesse parlando con qualcuno. Poi disse: «C’erano tracce e indizi dappertutto; sono solo stato molto attento. Chiunque con le giuste informazioni ci sarebbe arrivato. Ora, dimmi come sta il tuo drago?» «La mia dragonessa» disse Eragon «sta bene. Non eravamo alla fattoria quando sono arrivati gli stranieri.» «Ah, le tue gambe. Stavi volando?» Come fa a saperlo? E se gli stranieri lo hanno costretto a cerarmi? Forse vogliono che lui scopra dove voglio andare per poterci tendere un agguato. E dov’è Saphira? Dilatò la mente e scoprì che volava in circolo a qualche lega di distanza. Vieni! No, resterò a guardarvi per un po’ Perché? Per il massacro di Dorù Areaba. Cosa? Brom si appoggiò a un albero, con uno strano sorriso ulle labbra. «Le ho parlato, e lei ha acconsentito a restare in volo finché non avremo appianato i nostri contrasti. Come puoi vedere, non hai altra scelta se non rispondere alle mie domande. Adesso dimmi, dove hai intenzione di andare?» Sbigottito, Eragon avvicinò una mano alla tempia. Come fa Brom a parlare con Saphira? La testa gli pulsava; nella lente gli frullarono centinaia di pensieri, ma continuava ad arrivare alla stessa conclusione: doveva dire qualcosa al vecchio. «Voglio trovare un posto sicuro dove nasconderli finché non sarò guarito.» «E dopo?» Non poteva ignorare la domanda. Il dolore pulsante alla testa peggiorò, offuscandogli il pensiero; non aveva più le idee ciliare. Desiderava solo raccontare a qualcuno gli eventi degli ultimi mesi. Il pensiero che quel segreto era la causa della morte di Garrow lo tormentava. Si arrese e disse, con voce tremante: «Voglio inseguire gli stranieri e ucciderli.» «Un’impresa ardua per un ragazzo così giovane» disse Brom con tranquillità, come se Eragon gli avesse esposto il progetto più ovvio e opportuno. «Certo un impegno encomiabile, che saprai come portare a termine.. Tuttavia, ho idea che un piccolo aiuto non ti sarà d’intralcio.» Si chinò dietro un cespuglio e ne estrasse un grosso involto. Il suo tono divenne burbero. «Comunque, non starò a guardare mentre un bambino vaga con un drago.» Mi sta davvero offrendo il suo aiuto, o è una trappola? Eragon aveva paura di quello che i suoi misteriosi nemici erano in grado di fare. Ma Brom ha convinto Saphira a fidarsi di lui, e hanno parlato attraverso la mente. Se lei non è preoccupata... Decise di accantonare i sospetti, per il momento. «Non mi serve aiuto» disse Eragon. Poi aggiunse, con una smorfia; «Ma se vuoi venire...» «Allora sarà meglio che andiamo» disse Brom. La sua espressione divenne neutra per un istante. «Credo che scoprirai che il tuo drago ti ascolta di nuovo.» Saphira? disse Eragon. Sì. Frenò l’impulso di interrogarla. Ci vediamo alla fattoria? Sì. Avete raggiunto un accordo? Credo di sì. La dragonessa si ritrasse e volò via. Eragon guardò verso Carvahall e vide uomini che correvano di casa in casa. «Credo che mi stiano cercando.» Brom inarcò un sopracciglio. «Probabile. Andiamo?» Eragon esitò. «Vorrei lasciare un messaggio per Roran. Non mi sembra giusto partire senza dirgli il perché.» «Ho già provveduto» lo rassicurò Brom. «Ho lasciato una lettera per lui da Gertrude, con qualche spiegazione. L’ho anche avvertito di guardarsi da certi pericoli. È abbastanza?» Eragon annuì. Avvolse la carne nelle pelli e s’incamminarono. Furono attenti a non farsi vedere finché non ebbero raggiunto la via maestra; poi si affrettarono, desiderosi di mettere quanta più strada possibile fra loro e Carvahall. Eragon camminava avanti, con piglio deciso, nonostante il dolore alle gambe. Il passo costante gli sgombrò la mente. Una volta arrivati a casa, non muoverò un passo con Brom finché non mi avrà dato delle risposte, si disse risoluto. Spero che possa dirmi di più sui Cavalieri e su coloro che voglio combattere. Quando i ruderi della fattoria comparvero, le sopracciglia di Brom fremettero di rabbia, Eragon fu turbato nel vedere con quanta rapidità la natura reclamava la fattoria. La neve e la pólvere si erano già accumulate sui resti della casa, celando la violenza dell’attacco degli stranieri. Tutto ciò che restava del fienile era un rettangolo di assi bruciate in rapido disfacimento. La testa di Brom scattò verso l’alto quando sopra gli alberi si udì il battito d’ali di Saphira. La dragonessa scese in planata dietro di loro, arrivando quasi a sfiorare le loro teste, e lo spostamento d’aria li fece barcollare. Le squame di Saphira scintillarono mentre tracciava un arco sopra la fattoria e atterrava con grazia davanti a loro. Brom fece un passo avanti, con espressione solenne e gioiosa. I suoi occhi splendevano, e una lacrima brillò sulla sua guancia prima di scomparire nella barba. Rimase immobile a lungo, ansante, mentre guardava Saphira, e lei lui. Eragon lo udì mormorare qualcosa e mosse qualche passo per sentire meglio. «E così... ricomincia. Ma come, quando finirà? La mia visione è annebbiata; non so predire se sarà farsa o tragedia, poiché vedo gli elementi di entrambe... Comunque, la mia posizione resta immutata, e io… » Le sue parole si dissolsero in un borbottio mentre Saphira si avvicinava fiera, Eragon superò Brom, fingendo di non aver udito nulla, e la salutò. C’era qualcosa di diverso fra loro, come se si conoscessero più a fondo, ma fossero ancora estranei. Le strofinò il collo, e il suo palmo formicolò quando le menti si toccarono. La dragonessa emanava un’intensa curiosità. Non ho mai visto umani, tranne te e Garrow, e lui era ferito, disse lei. Hai visto altra gente attraverso i miei occhi. Non è la stessa cosa. La dragonessa si avvicinò e volse la lunga testa per poter scrutare meglio Brom con un enorme occhio azzurro. Siete proprio creature bizzarre, disse in tono critico, e continuò a fissare il vecchio. Brom rimase immobile mentre la dragonessa annusava l’aria circostante; poi tese una mano. Saphira abbassò piano la testa e gli permise di toccarla sulla fronte. Poi si ritrasse di colpo con uno sbuffo e si nascose dietro Eragon. La sua coda frustò il terreno. Che cosa succede? domandò lui. Lei non rispose. Brom si rivolse al ragazzo e chiese sottovoce; «Come si chiama?» «Saphira.» Una strana espressione attraversò il volto di Brom. Conficcò il bastone nel terreno con tanta forza che le nocche sbiancarono. «Di tutti i nomi che mi hai suggerito, quello è l’unico che le è piaciuto. Credo che sia appropriato» si affrettò ad aggiungere Eragon. «Molto appropriato» disse Brom, Eragon colse una sfumatura indecifrabile nella sua voce. Perdita, meraviglia, paura, invidia? Non ne era sicuro; poteva essere tutto o niente. Brom alzò la voce e disse; «Salute a te, Saphira. Sono onorato di conoscerti.» Fece un gesto svolazzante con la mano e s’inchinò. Mi piace, disse Saphira. Ovvio; a tutti piace essere lusingati. Eragon la toccò sulla spalla e puntò verso la casa diroccata. Saphira lo seguì insieme a Brom. Il vecchio aveva l’aria vivace. Eragon si arrampicò sulle macerie e scivolò sotto una porta in ciò che restava della sua stanza. A stento la riconobbe sotto i cumuli di legno divelto. Guidato dalla memoria, cercò la parete interna e trovò il suo zaino vuoto. Parte dell’intelaiatura di legno era rotta, ma si poteva riparare. Continuò a frugare attorno e alla fine scoprì un’estremità del suo arco, ancora chiuso nella custodia di pelle. N La pelle era rovinata e piena di graffi, ma fu lieto di constatare che il legno oliato era rimasto intatto. Almeno un colpo di fortuna. Incordò l’arco e ne saggiò l’elasticità. L’arco si piegò senza schiocchi o rotture. Soddisfatto, cercò la faretra, che trovò sepolta lì vicino. Molte frecce erano spezzate. Porse l’arco e la faretra a Brom, che commentò: «Ci vuole un braccio robusto per tenderlo.» Eragon accettò il complimento in silenzio. Vagò ancora per la casa in cerca di altri oggetti utili e li posò ai piedi di Brom. Un ben magro bottino. «E adesso?» disse il vecchio. I suoi occhi lo scrutavano in profondità. Eragon distolse lo sguardo. «Troviamo un posto dove nasconderci.» «Hai già in mente qualcosa?» «Sì.» Avvolse gli oggetti, tranne l’arco, in un ampio fagotto, e lo chiuse stretto. Se lo gettò in spalla, disse: «Da questa parte» e s’incamminò verso la foresta. Saphira, seguici in volo. Le tue impronte sono troppo facili da scoprire. D’accordo. La dragonessa si librò. La destinazione era vicina, ma Eragon seguì un percorso tortuoso allo scopo di seminare eventuali inseguitori. Era passata oltre un’ora quando finalmente si fermò in una radura ben nascosta. Lo spiazzo era largo quanto bastava per ospitare un falò, due persone e un drago. Gli scoiattoli fuggirono tra gli alberi, protestando con sonori squittii contro l’intrusione. Brom si districò da un rampicante e si guardò intorno con interesse. «Qualcun altro sa di questo posto?» domandò. «No. L’ho scoperto quando ci siamo trasferiti qui. Mi ci è voluta una settimana per ripulirlo, e un’altra ancora per portar via tutti i rami secchi.» Saphira atterrò accanto a loro e chiuse le ali, attenta a evitare i rovi. Si accovacciò, spezzando qualche rametto con le dure squame, e posò la testa sul terreno. I suoi occhi imperscrutabili seguivano ogni loro mossa. Brom si appoggiò al bastone e la osservò attento. Il suo sguardo insistente innervosiva Eragon, che rimase a sua volta a guardare il vecchio finché la fame non lo costrinse ad agire. Accese un falò, riempì una pentola di neve e la mise sul fuoco, per farla sciogliere. Quando l’acqua bollì, tagliò qualche pezzo di carne e lo tuffò nella pentola insieme a un pugno di sale. Non è granché, pensò amaramente, ma basterà allo scopo. Probabilmente mangerò questa roba per parecchio.tempo, perciò tanto vale che mi ci abitui. Lo stufato bolliva lentamente, diffondendo un ricco aroma nella radura. Saphira fece schioccare la punta della lingua e assaggiò l’aria. Quando la carne fu tenera. Brom si avvicinò ed Eragon lo servì. Mangiarono in silenzio, evitando di guardarsi. Alla fine. Brom prese la sua pipa e cominciò a fumare, soddisfatto, «Perché vuoi venire con me?» gli chiese Eragon. Brom sbuffò una nuvoletta di fumo, che risalì a spirale per poi perdersi fra gli alberi. «Ho un certo interesse nel mantenerti vivo» disse. «Che cosa significa?» disse Eragon. «Per farla breve, sono un cantastorie, e si da il caso che tu rappresenti per me una gran bella storia. Sei il primo Cavaliere al di fuori del controllo del re in oltre cento anni. Che cosa succederà? Morirai come un martire? Ti unirai ai Varden? O ucciderai re Galbatorix? Domande affascinanti, E io sarò lì a testimoniare ogni tuo passo costi quel che costi.» Eragon si sentì stringere lo stomaco in una morsa. Non riusciva a immaginarsi nell’atto di compiere quelle gesta, e ancora meno di diventare un martire. Cerco vendetta, ma per il resto non ho ambizioni. «Vedremo. Ma dimmi una cosa:. come fai a parlare con Saphira?» Brom si concesse il tempo necessario per aggiungere altro tabacco alla pipa. Dopo averla riaccesa e rimessa in bocca, disse; «D’accordo, se sono le risposte che vuoi, risposte avrai, ma potrebbero non piacerti.» Si alzò per andare a prendere il suo fagotto e tornò vicino al fuoco. Ne estrasse un lungo oggetto avvolto in un panno. Misurava all’incirca cinque piedi e, a giudicare da come lo maneggiava, doveva essere piuttosto pesante. Brom cominciò a dipanare la protezione di stoffa, un lembo alla volta, come se fossero le bende di una mummia. Lo sguardo incantato di Eragon s’illuminò quando si posò su una spada. Il pomo era d’oro, a forma di goccia, e recava incastonato un rubino grande come un uovo di quaglia. L’elsa era di filigrana d’argento brunito, e scintillava come una galassia di stelle. Il fodero era di pelle color vino, liscia come seta, adorna solo di uno strano simbolo nero inciso. Vicino alla spada c’era una cintura di pelle con una pesante fibbia. L’ultimo lembo di stoffa cadde, e Brom passò l’arma a Eragon. La sua mano aderì perfettamente all’impugnatura, come se fosse stata fatta per lui. Lentamente sfilò la spada dal fodero, che scivolò senza nemmeno un fruscio. La lama piatta era di un rosso iridescente, che rifletteva la luce del falò. I due profili taglienti convergevano eleganti in una punta aguzza. Sul metallo era inciso il simbolo nero impresso sul fodero. L’equilibrio della spada era perfetto; sembrava un’estensione del suo braccio, al contrario dei rozzi utensili da agricoltore cui era abituato. Emanava un’aura di potere, come se nel suo nucleo covasse una forza irresistibile. Era stata creata per le violente emozioni della battaglia, per porre fine alla vita degli uomini, eppure era di una bellezza sconvolgente. «Un tempo questa era l’arma di un Cavaliere» disse Brom in tono grave. «Quando un Cavaliere terminava l’addestramento, gli elfi gli facevano dono di una spada. I loro metodi di forgiatura sono sempre rimasti segreti. Le loro spade sono eternamente affilate e non si macchiano mai. L’usanza era che il colore della lama combaciasse con quello del drago del Cavaliere, ma immagino che in questo caso possiamo fare un’eccezione. Questa spada si chiama Zar’roc. Non so che cosa significa: probabilmente qualcosa di personale per il Cavaliere che la possedeva.» Osservò Eragon tentare qualche fendente. «Dove l’hai presa?» domandò il ragazzo. A malincuore rimise la spada nel fodero e fece per restituirla al vecchio, ma Brom non mosse un dito per prenderla. «Non ha importanza» disse Brom. «Ti basti sapere.che ho dovuto passare una serie di brutte e pericolose avventure per entrarne in possesso. Considerala tua. Hai più diritto di me ad averla, e prima che sia tutto compiuto, credo proprio che ti servirà.» L’offerta colse Eragon alla sprovvista. «È un dono principesco: ti ringrazio.» Incerto su che altro dire, fece scorrere la mano sul fodero. «Che cosa significa questo simbolo?» domandò. «Era l’emblema personale del Cavaliere.» Eragon cercò di interromperlo, ma Brom lo fulminò con un’occhiataccia. «Ora, sarà bene che tu sappia che chiunque può imparare a parlare con i draghi, se ha ricevuto l’adeguata istruzione. Ma» e alzò un dito con enfasi «saperlo fare non significa niente. So più io dei draghi e delle loro capacità di qualsiasi altro essere vivente. Da solo, ti ci vorrebbero anni per imparare quello che io posso insegnarti. Ti sto offrendo la mia conoscenza come via più breve. La ragione per cui so queste cose rimane affar mio.» Quando Brom ebbe finito di parlare, Saphira si alzò per avvicinarsi a Eragon. Il ragazzo estrasse la spada per mostrarla alla dragonessa. Ha potere, disse lei, sfiorandone la punta con il naso. Il colore iridescente del metallo ondeggiò come acqua quando fu toccato dalle sue squame. Lei alzò la testa con uno sbuffo soddisfatto, e la spada riprese il suo aspetto normale. Eragon la ripose nel fodero, turbato. Brom inarcò un sopracciglio. «Questo è il genere di cose di cui ti parlavo. I draghi ci stupiscono sempre. Accadono certe cose intorno a loro, cose misteriose che sono impossibili altrove. Anche se i Cavalieri hanno agito a fianco dei draghi per secoli, non hanno mai compreso fino in fondo le loro capacità. C’è chi sostiene addirittura che nemmeno i draghi conoscano fino in fondo la portata dei loro poteri. Sono legati a questa terra in un modo che consente loro di superare grandi ostacoli. Ciò che Saphira ha appena fatto dimostra la mia tesi: c’è ancora molto che non sai.» Ci fu una lunga pausa. «Può darsi» disse Eragon. «ma posso imparare, E gli stranieri sono la cosa che più mi interessa al momento. Hai idea di chi fossero?» Brom, trasse un lungo sospiro. «Si chiamano Ra’zac. Nessuno sa se sia il nome della loro razza o quello che si sono scelti. A ogni modo, se possiedono nomi individuali, li tengono segreti. I Ra’zac non si sono mai visti prima dell’ascesa al potere di Galbatorix. Deve averli scovati da qualche parte durante i suoi viaggi e arruolati al suo servizio. Si sa poco di loro. Ma posso dirti una cosa: non sono umani. Quando ho intravisto la testa di uno di loro, mi è sembrato di scorgere un becco e occhi neri grandi quanto il mio pugno... ma come riescano a parlare la nostra lingua è un mistero. Senza dubbio il resto del loro corpo è altrettanto deforme. Per questo si coprono sempre con i mantelli, che sia caldo o freddo. «Quanto ai loro poteri, sono più forti di qualunque uomo e possono fare salti di incredibile altezza, ma non sanno usare la magia. Ritieniti fortunato per questo, ragazzo mio, perché altrimenti a quest’ora saresti già nelle loro grinfie. So anche che provano una certa avversione per la luce del sole, per quanto essa non possa fermarli, se sono decisi. Non commettere mai l’errore di sottovalutare un Ra’zac, perché sono astuti e pieni di risorse.» «Quanti sono?» disse Eragon, chiedendosi come facesse Brom a sapere tante cose. «per quanto ne so, solo quei due che hai visto. Potrebbero essercene altri, ma non ne ho mai sentito parlare. Può darsi che siano gli ultimi di una razza quasi estinta. Sai, sono i cacciatori di draghi personali del re. Quando la notizia di un avvistamento di un drago in queste terre giunge all’orecchio di Galbatorix, lui manda i Ra’zac a investigare. E spesso li segue una scia di morte.» Brom soffiò una serie di anelli di fumo e li guardò fluttuare fra i rovi. Eragon ignorò gli anelli finché non si accorse che stavano cambiando colore e guizzavano in tutte le direzioni. Brom ammiccò con aria astuta. Eragon era sicuro che nessuno avesse visto Saphira: perciò come poteva Galbatorix aver avuto notizia della sua esistenza? Quando espresse i suoi dubbi. Brom disse: «Hai ragione, mi sembra molto improbabile che qualcuno di Carvahall abbia avvertito il re. Perché non mi racconti dove hai trovato l’uovo e come hai allevato Saphira? Questo potrebbe aiutarci a capire.» Eragon esitò; poi gli narrò gli eventi fin da quando aveva trovato l’uovo sulla Grande Dorsale. Provò un meraviglioso senso di sollievo nel potersi finalmente confidare con qualcuno. Brom fece qualche domanda, ma per la maggior parte del tempo ascoltò con attenzione. Il sole stava per tramontare quando Eragon giunse alla fine del racconto. Entrambi rimasero in silenzio mentre le nuvole si tingevano di rosa. Alla fine Eragon disse: «Vorrei tanto sapere da dove viene. Saphira non ricorda.» Brom inclinò la testa da un lato. «Non so... Mi hai chiarito molti aspetti di questa storia. Sono sicuro che nessuno, oltre a noi, ha visto Saphira. I Ra’zac dovevano avere una fonte di informazioni al di fuori di questa valle, una persona che probabilmente adesso è già morta... Hai passato momenti difficili e te la sei cavata egregiamente. Sono impressionato. » Eragon fissò nel vuoto, poi chiese: «Che cosa ti è successo alla testa? Sembra che ti abbia colpito un sasso.» «No, ma ci sei andato vicino.» Trasse una lunga boccata di fumo dalla pipa. «Mi aggiravo intorno all’accampamento dei Ra’zac quando è calata la sera, cercando di scoprire quello che potevo, ma mi hanno sorpreso nell’ombra. Era una buona occasione, ma mi hanno sottovalutato e sono riuscito a sfuggire al loro agguato. Tuttavia» aggiunse amareggiato. «ho dovuto pagare questo tributo alla mia stupidità. Stordito, sono caduto a terra e non ho ripreso i sensi se non il giorno dopo. A quel punto loro erano già arrivati alla tua fattoria. Era troppo tardi per fermarli, ma li ho cercati comunque. È stato quando ci siamo incontrati per la strada.» Ma chi crede di essere, per poter affrontare i Ra’zac da solo? Gli hanno teso un agguato nel buio, e lui è rimasto solo stordito? Turbato, Eragon chiese con foga: «Quando hai visto il mio marchio, il gedwey ignasia, perché non mi hai detto chi erano i Ra’zac? Avrei avvertito Garrow invece di andare prima da Saphira, e tutti e tre saremmo potuti fuggire.» Brom sospirò. «Non sapevo che cosa fare. Pensavo di poter tenere i Ra’zac lontani da te. Una volta che fossero partiti, ti avrei chiesto di Saphira. Ma loro mi hanno battuto in astuzia, È un errore di cui mi pento amaramente, un errore che ti è costato caro.» «Chi sei?» esclamò Eragon indignato. «Come mai un semplice cantastorie di campagna possiede la spada di un Cavaliere? Come mai sai tante cose sui Ra’zac?» Brom tamburellò le dita sulla pipa. «Mi sembrava di aver già detto che di questo non voglio parlare.» «Mio zio è morto per questo. Morto!» gridò Eragon, tagliando l’aria con la mano. «Finora mi sono fidato di te perché Saphira ti rispetta. Ma adesso basta! Tu non sei la persona che ho conosciuto in tutti questi anni a Carvahall, Dimmi chi sei.» Per un lunghissimo istante Brorri guardò il fumo dilatarsi fra loro, la fronte solcata da rughe sempre più profonde. Quando si mosse, fu solo per trarre un’altra boccata. Infine disse: «Probabilmente non ci hai mai pensato, ma ho trascorso gran parte della mia vita lontano dalla Valle Palancar, È stato solo a Carvahall che ho assunto il ruolo di cantastorie. Ho recitato diverse parti per diverse persone... il mio passato è complicato. È anche per il desiderio di sfuggirgli che sono venuto qui. E comunque hai ragione, non sono l’uomo che pensavi che fossi.» «Ah!» sbuffò Eragon. «E allora chi sei?» Brom sorrise con dolcezza. «Sono colui che è qui per aiutarti. Non disprezzare queste parole, perché sono le più sincere che abbia mai pronunciato. Ma non risponderò alla tua domanda. In questo momento non ti serve conoscere la mia storia, né ti sei guadagnato questo diritto. Sì, possiedo conoscenze che Brom il cantastorie non potrebbe mai avere, ma io sono più di lui. Dovrai imparare a convivere con questo, e con il fatto che non elargisco descrizioni della mia vita a chiunque me le chieda!» Eragon lo guardò, corrucciato. «Vado a dormire» disse, e si allontanò dal fuoco. Brom non parve sorpreso, ma nei suoi occhi comparve un’ombra di dolore. Distese la sua coperta accanto al fuoco, mentre Eragon si coricava al fianco di Saphira. Un silenzio glaciale calò sull’accampamento. 15 L’arte del sellaio Quando Eragon aprì gli occhi, il ricordo di Garrow lo investì con tutto il suo dolore straziante. Si trasse le coperte sulla testa e pianse in silenzio nel buio tepore. Quanto avrebbe voluto restare così, nascondersi per sempre dal resto del mondo. Le lacrime cessarono di sgorgare. Maledisse Brom. Si asciugò le guance e si alzò a malincuore. Brom stava preparando la colazione. «Buongiorno» disse. Eragon grugnì un saluto. S’infilò le mani ghiacciate sotto le ascelle e si accovacciò davanti al fuoco, in attesa che il cibo fosse pronto. Mangiarono in fretta, prima che si raffreddasse. Quando ebbero finito, Eragon lavò la sua ciotola con la neve, poi distese le pelli rubate sul terreno. «Che cosa vuoi fare con quelle?» domandò Brom. «Non possiamo portarle con noi.» «Voglio fare una sella per Saphira.» «Mmm» disse Brom, avvicinandosi. «Sai, i draghi usavano due tipi di selle. Le prime erano dure, sagomate come una sella per cavalli. Ma per farle ci vogliono tempo e attrezzi adatti. Le altre erano più sottili, nient’altro che uno strato imbottito fra il Cavaliere e il suo drago. Si usavano quando era necessario essere rapidi e mobili, anche se non erano comode come quelle sagomate.» «Sai com’erano fatte?» disse Eragon. «Meglio: posso fartene una.» «Allora prego» disse Eragon, facendosi da parte. «D’accordo, ma sta’ attento. Un giorno potresti aver bisogno di fartela da solo.» Con il permesso di Saphira. Brom le prese le misure del collo e del torace. Poi ricavò cinque strisce da una delle pelli, e sulle altre disegnò e ritagliò una decina di sagome. Infine tagliò il resto in lunghe fettucce sottili. Usò le fettucce per cucire insieme i pezzi, ma per ogni punto servivano due buchi, ed Eragon lo aiutò a praticarli. Al posto delle borchie, usarono nodi complicati; ogni nastro di pelle era lungo più del necessario, affinchè la sella si adattasse alla dragonessa anche nei mesi a venire. La parte principale della sella era composta da tre parti identiche, cucite insieme e imbottite. Davanti era fissato un robusto cappio da infilare su una delle punte del collo di Saphira, mentre ampie strisce cucite su entrambi i lati avevano passare sotto il suo ventre per poi essere annodate. Al posto delle staffe c’era una serie di nodi scorsoi su entrambe le fasce. Una volta stretti, avrebbero fornito appoggio ai piedi di Eragon. Un’altra lunga fascia doveva issare davanti alle zampe anteriori di Saphira, divisa in due, per poi risalire e unirsi alla sella. Mentre Brom lavorava, Eragon riparò il suo zaino e sistemò le provviste. La giornata volgeva al termine quando ebbero finito. Esausto. Brom posò la sella su Saphira e controllò tutte le cinghie. Fece qualche modifica, poi la tolse, soddisfatto. «Hai fatto un ottimo lavoro» dovette ammettere Eragon. Brom chinò il capo. «Ho cercato di fare del mio meglio, dovrebbe andarti bene; la pelle è abbastanza robusta.» Non vuoi provarla? chiese Saphira. Magari domani, disse Eragon, e ripose la sella con le coperte. Adesso è troppo tardi. In verità, non aveva molta voglia di volare di nuovo, non dopo il disastroso risultato della prima volta. Prepararonouna cena veloce, semplice ma gustosa. Mentre mangiavabo. Brom guardò Eragon oltre il fuocoe chiese: «Partiremo Domani?» «Non c’è ragione per restare.» «Suppongo di no.» Si dondolò , un po’ teso. «Eragon, mi rincresce davvero per come sono andate le cose. Non avrei mai voluto che accadesse. La tua famiglia non meritava una simile tragedia. Se potessi fare qualcosa per tornare indietro, lo farei. E’ una situazione drammatica per tutti noi.» eragon rimase in silenzi, evitando lo sguardo di Brom. Il vecchio disse: «Avremo bisogno di cavalli.» «Tu, forse, ma io ho Saphira.» Brom, scosse il capo. «Non esiste cavallo al mondo che possa tenere dietro a un drago volante, e Saphira è troppo giovane per portarci entrambi. E poi sarà più sicuro se viaggiamo insieme, e a cavallo faremo prima che a piedi.» «Ma così sarà più difficile raggiungere i Ra’zac» protestò Eragon.«In sella a Saphira, potrei trovarli in un giorno o due. A cavallo ci vorrà molto di più…se mai sarà possibile rintracciarli via terra!» Brom disse lentamente: «E’ un rischio che devi correre, se vuoi che venga con te.» Eragon riflettè:«D’accordo» borbottò. «prendiamo i cavalli. Ma dovrai comprarli. Io non ho soldi, e non voglio rubare ancora è sbagliato.» «Dipende dai punti di vista» lo corresse Brom con un lieve sorriso. «Prima che ti imbarchi in questa avventura, ricorda che i tuoi nemici, i Ra’zac, sono servi del re. Saranno protetti ovunque andranno. Nessuna legge li ferma. Nelle città otterranno abbondanti provviste e incontreranno servitori ossequiosi. E ricorda che per Galbatorix niente è più importante che arruolarti o ucciderti, per quanto dubito che la notizia della tua esistenza lo abbia già raggiunto. Più a lungo riesci a eludere i Ra’zac, più disperato diverrà. Saprà che giorno per giorno tu diventerai più forte e che ogni momento che passa è un’occasione per unirti ai suoi nemici. Devi stare molto attento, perché potrai facilmente trasformarti da cacciatore in cacciato.» Eragon rimase colpito da quelle parole e restò in silenzio a pensare, rigirandosi un rametto tra le dita. «Ora basta con le parole» disse Brom. «È tardi e mi fanno male le ossa. Potremo continuare domani.» Eragon annuì e ridusse il fuoco per la notte. 16 Therinsford L’alba era grigia, spazzata da un vento tagliente. La foresta era silenziosa. Dopo una leggera colazione. Brom ed Eragon spensero il fuoco e si misero gli zaini in spalla, pronti a partire. Eragon legò l’arco e la faretra a un lato dello zaino per poterli raggiungere facilmente in caso di necessità. Saphira accettò la sella; l’avrebbe portata finché non avessero trovato i cavalli. Eragon fissò anche Zar’roc al dorso della dragonessa per poter viaggiare più leggero; per giunta, nelle sue mani, la magnifica spada non avrebbe avuto più valore di un bastone. Si era sentito al sicuro nella radura tra i rovi, ma fuori di là ogni suo movimento era intriso di cautela, Saphira si alzò e prese a volare in cerchio. La vegetazione si assottigliava via via che si avvicinavano alla fattoria. Rivedrò ancora questo posto, si disse Eragon davanti alle macerie della sua casa. Non può e non deve essere un esilio per sempre. Un giorno, quando sarà sicuro, tornerò... Drizzò le spalle e guardò a sud, verso le ignote terre barbariche. Mentre camminavano, Saphira virò a ovest, verso le montagne, e scomparve alla vista, Eragon si sentì turbato vedendola andar via. Anche senza nessuno intorno, non potevano restare insieme. La dragonessa doveva nascondersi, nel caso che avessero incontrato qualche viaggiatore. Le orme dei Ra’zac erano lievi sulla neve che si andava sciogliendo, ma Eragon non era preoccupato, Era improbabile che avessero abbandonato la strada maestra, la via più rapida per lasciare la valle, e si fossero inoltrati nei boschi. Tuttavia, una volta fuori dalla valle, la strada si diramava. Sarebbe stato difficile scoprire quale direzione avevano preso i Ra’zac. Viaggiavano in silenzio, concentrati sull’andatura. Le gambe di Eragon continuavano a sanguinare dove le ferite si erano aperte. Per distogliere la mente dal dolore, disse: «Cosa sono in grado di fare esattamente i draghi? Hai detto che sai qualcosa delle loro capacità.» Brom rise e fece un gesto in aria con la mano. Lo zaffiro dell’anello brillò. «Purtroppo si tratta di un ben misero qualcosa, in confronto a quello che mi piacerebbe sapere. Sono secoli che la gente tenta di dare una risposta alla tua domanda; perciò capisci bene che ciò che ti dirò sarà di necessità incompleto. I draghi sono sempre stati creature misteriose, anche se non per loro volontà. «Prima di rispondere alla tua domanda, però, sarà bene che ti illustri qualche principio essenziale sui draghi. Cominciare dalla metà di un argomento così complesso, senza conoscere le basi su cui si fonda, servirebbe solo a confonderti. Quindi partirò dal ciclo vitale dei draghi, e se non ti stanchi potremo proseguire oltre.» Brom gli spiegò come si accoppiano i draghi e il procedimento di schiusa delle uova. «Sai» disse. «quando un drago depone l’uovo, il piccolo all’interno è già pronto a nascere. Ma aspetta, a volte per anni, che le circostanze siano favorevoli. Quando i draghi vivevano allo stato brado nella natura, tali circostanze venivano dettate di norma dalla disponibilità di cibo. Tuttavia, una volta stretta l’alleanza con gli elfi, ogni anno essi consegnavano un certo numero di uova, di solito non più di due, ai Cavalieri. I piccoli all’interno non decidevano di mostrarsi finché la persona destinata a essere il loro Cavaliere non si trovava alla loro presenza. Non si conosce il modo in cui lo avvertivano; di solito le persone si mettevano in fila e toccavano le uova, sperando di essere scelte.» «Vuoi dire che Saphira avrebbe potuto anche non nascere davanti a me?» domandò Eragon. «È possibile, se non le fossi piaciuto.» Eragon si sentì onorato che fra tutti gli abitanti di Alagasëia la dragonessa avesse scelto lui. Si chiese per quanto tempo avesse aspettato, poi rabbrividì al pensiero di sentirsi chiuso in un uovo, immerso nel buio. Brom continuò la sua lezione. Gli spiegò che cosa mangiano i draghi, e quando. Un drago adulto dedito a una vita sedentaria, disse, può trascorrere anche mesi senza nutrirsi, ma nella stagione degli amori deve mangiare ogni settimana. Alcune piante sono in grado di curare le loro malattie, spiegò, mentre altre li fanno ammalare, Essi hanno diversi modi di prendersi cura dei loro artigli e di pulire le squame. Gli spiegò le tecniche da usare quando si attacca una sella a un drago e che cosa si deve fare se invece ci si trova a combattere contro uno di loro, a piedi, a cavallo o anche in groppa a un altro drago. Hanno il ventre corazzato, aggiunse, mentre le ascelle sono un punto debole. Eragon lo interrompeva di continuo per fare domande, e Brom sembrava lieto di rispondere. Le ore passarono senza che i due se ne accorgessero. Quando arrivò la sera, erano giunti vicino a Therinsford. Mentre il cielo si oscurava e cercavano un luogo dove accamparsi, Eragon domandò: «Chi era il Cavaliere che possedeva Zar’roc?» «Un guerriero potente» disse Brom. «che ai suoi tempi incuteva grande timore e rispetto.» «Come si chiamava?» «Questo non te lo dico» tagliò corto Brom. Eragon protestò, ma il vecchio non cedette. «Non voglio tenerti nell’ignoranza, ma ci sono informazioni che sono pericolose, e al momento servirebbero solo a distrarti. Non c’è ragione per cui io debba turbarti con certe cose finché non avrai il modo e la capacità di affrontarle. Il mio unico obiettivo è proteggerti da coloro che vorrebbero usarti per scopi malvagi.» Eragon lo guardò, furente. «Sai una cosa? Credo che tu goda a parlare per enigmi. Ho una mezza idea di lasciarti qui, perché non li sopporto più, i tuoi giochetti. Se vuoi dirmi qualcosa, allora dimmela, invece di girarci intorno!» «Calma. Tutto ti sarà svelato a tempo debito» disse Brom in tono gentile. Eragon mise il broncio, per nulla convinto, Trovarono un posto adatto a trascorrere la notte e si accamparono. Saphira arrivò quando la cena era sul fuoco. Hai avuto tempo per procurarti del cibo? le domandò Eragon. La dragonessa sbuffò divertita. Se voi due foste stati appena più lenti, avrei avuto il tempo di volare oltreoceano e di tornare. Non c’è bisogno di offenderci. Sappi che andremo molto più spediti quando avremo i cavalli. La dragonessa esalò una nuvoletta di fumo. Può darsi, ma basterà per raggiungere i Ra’zac? Hanno un vantaggio di parecchi giorni e molte leghe, E temo che sospettino di essere seguiti. Per quale altro motivo avrebbero distrutto la fattoria in maniera così brutale, se non per indurii a dar loro la caccia? Non lo so, rispose Eragon, turbato. Saphira si accucciò accanto a lui, e il ragazzo si abbandonò con piacere al suo ventre caldo. Brom si sedette dall’altro lato del falò a tagliuzzare due lunghi rametti. All’improvviso ne lanciò uno a Eragon, che lo afferrò con grande prontezza di riflessi quando quello volò sopra le fiamme crepitanti. «In guardia!» esclamò Brom, alzandosi. Eragon guardò il bastone che reggeva in mano e notò che era stato sagomato in modo da somigliare vagamente a una spada. Brom voleva combattere con lui? Che speranze aveva, quel vecchio? Se vuole che stia al suo gioco, d’accordo, ma se crede di potermi battere, avrà una grossa sorpresa. Si alzò mentre Brom aggirava il falò. Si studiarono per un momento, poi Brom si avventò contro di lui, roteando il bastone. Eragon tentò di bloccare l’assalto, ma fu troppo lento. Guai quando Brom lo colpì alle costole, e barcollò all’indietro. Senza riflettere, si scagliò in avanti, ma Brom parò facilmente il colpo. Allora mirò alla testa del vecchio, ma all’ultimo momento deviò la traiettoria del bastone, con l’intenzione di colpirlo al fianco. Il sonoro schianto di legno contro legno riecheggiò nel campo. «Improvvisazione... bravo!» esclamò Brom con occhi scintillanti. Il suo braccio si mosse fulmineo, ed Eragon avvertì un’esplosione di dolore alla testa. Crollò come un sacco vuoto, stordito. Un getto d’acqua fredda lo fece rinvenire; si alzò a sedere sputacchiando. Gli ronzava la testa; sentì una fitta al viso, e toccandosi scoprì un grumo di sangue rappreso. Brom torreggiava su di lui con una pentola di neve scipita. «Non dovevi farlo» disse Eragon infuriato, alzandosi. Gli girava la testa e si sentiva instabile. Brom inarcò un sopracciglio. «Dici? Un vero nemico non ti tratterebbe con i guanti, e nemmeno io. Dovrei forse assecondare la tua... incompetenza per farti sentire meglio? Non credo proprio.» Raccolse il bastone che Eragon aveva lasciato cadere e glielo porse. «Di nuovo, in guardia!» Eragon fissò con aria stolida il pezzo di legno, poi scosse il capo. «Lascia perdere, ne ho avuto abbastanza.» Si volse per allontanarsi quando sulla sua schiena si abbattè un colpo violento. Si girò di scatto, ringhiando. «Non voltare mai le spalle al nemico!» disse Brom. Gli lanciò il bastone e ripartì all’attacco. Eragon indietreggiò danzando intorno al fuoco, sotto l’impeto dell’assalto. «Non agitare le braccia. Piega le ginocchia» gridava Brom. Continuò a dargli istruzioni; poi si fermò per mostrare al ragazzo come effettuare una mossa particolare. «Rifalla, ma questa volta più adagiol» Ripassarono la figura, esagerando i movimenti, poi ripresero il furioso duello. Eragon imparava in fretta, ma per quanto si sforzasse, non riusciva a parare più di un paio di colpi di Brom alla volta. Quando ebbero finito, Eragon si accasciò sulle coperte con un gemito. Gli faceva male dappertutto: Brom non c’era certo andato leggero, con quel bastone. Saphira emise un lungo grugnito ratico e arricciò le labbra tanto da mostrare la sua formidabile dentatura. Che cosa ti prende? domandò Eragon irritato. Niente, rispose lei. Solo che è buffo vedere un giovane come te battuto da un vecchio. Ripetè lo stesso suono, ed Eragon avvampò quando si rese conto che quella era una risata. Nel tentativo di difendere l’orgoglio ferito, si voltò su un fianco, e di lì a poco si addormentò. Il giorno dopo si sentiva anche peggio. Aveva le braccia coperte di lividi, ed era troppo indolenzito per muoversi. Brom alzò lo sguardo dalla pappa d’avena che stava preparando per colazione e sogghignò. «Come ti senti?» Eragon rispose con un grugnito e divorò la sua razione. Si misero di nuovo in marcia, camminando svelti per arrivare a Therinsford prima di mezzogiorno. Dopo una lega, la strada si allargò e videro del fumo in lontananza. «Faresti meglio a dire a Saphira di volare avanti e di aspettarci dall’altra parte di Therinsford» disse Brom. «Deve essere molto cauta, altrimenti qualcuno la noterà.» «Perché non glielo dici tu?» lo sfidò Eragon. «È considerato disdicevole comunicare con il drago di qualcun altro.» «Non mi pare che ti sia fatto scrupoli a Carvahall.» Brom abbozzò un sorriso. «Ho fatto quello che dovevo.» Eragon lo guardò torvo, poi riferì a Saphira le istruzioni. Sta’attenta, disse lei, i servi dell’Impero possono nascondersi ovuncque. Via via che i solchi nella strada si facevano più profondi, Eragon notò nuove orme. Le fattorie più vicine dicevano che anche Therinsford non era lontano. Eccolo, infatti. Il villaggio era più grande di Carvahall, ma era stato costruito in modo improvvisato, le case allineate senza ordine preciso. «Che confusione» disse Eragon. Non riusciva a vedere il mulino di .Dempton. Baldor e Albriech avranno già mandato i loro messaggi a Roran. Comunque, Eragon non aveva alcuna voglia di affrontare il cugino. «Se non altro, è bruttissimo» commentò. L’Anora scorreva fra loro è il villaggio, attraversato da un solido ponte. Mentre si avvicinavano, da dietro un cespuglio sbucò un grassone, che sbarrò loro la strada. . Aveva la camicia troppo corta e una cintura di spago da cui strabordava un ventre sporco e flaccido. Dietro le labbra screpolateci denti radi sembravano lapidi diroccate. «Non potete passare. Questo ponte è mio. Fuori i soldi.» «Quanto?» domandò Brom in tono rassegnato. Estrasse un borsellino, e il gabelliere s’illuminò. «Cinque corone» disse con un ghigno. Eragon s’infuriò per quel prezzo esorbitante e fece per protestare, ma Brom lo zittì con un’occhiata eloquente. H pagamento fu compiuto in silenzio. L’uomo s’infilò le monete in una bisaccia che portava alla cintura. «Grazie tante» disse in tono beffardo, e si fece da parte. Brom s’incamminò, ma dopo appena un passo inciampò e si appoggiò pesantemente al braccio del grassone. «Occhio a dove metti i piedi» ringhiò l’uomo, liberandosi con uno strattone. «Mi dispiace» disse Brom, e proseguì sul ponte con Eragon. «Perché non hai tirato sul prezzo? Ti sei fatto spennare!» esclamò Eragon quando furono lontani. «Probabilmente non è nemmeno suo, quel ponte. Potevamo passare lo stesso.» «Probabilmente» assentì Brom. «E allora perché l’hai pagato?» «Perché non si può attaccar briga con tutti i pazzi del mondo. È più facile assecondarli, per poi ingannarli quando si sentono sicuri.» Brom aprì la mano, e un mucchietto di monete scintillò alla luce del sole. «Gli hai tagliato la borsa!» esclamò Eragon incredulo. Brom s’infilò il denaro in tasca e strizzò l’occhio al ragazzo. «E conteneva un bel gruzzolo. Avrebbe dovuto evitare di tenere tutto questo denaro in un posto solo.» All’improvviso udirono un ululato di angoscia dall’altro lato del fiume. «Direi che il nostro amico ha scoperto la sua perdita. Se vedi qualche sentinella, avvertimi.» Afferrò per la spalla un ragazzino di passaggio e gli chiese: «Sai dove possiamo comprare dei cavalli?» Il bambino li guardò con aria solenne, poi indicò una grande costruzione ai margini di Therinsford. «Grazie» disse Brom, lanciandogli una piccola moneta. Le doppie porte della stalla erano aperte e rivelavano due lunghe file di alloggi per i cavalli. La parete in fondo era coperta di selle, finimenti e altri utensili. Un uomo dalle braccia muscolose stava strigliando uno stallone bianco. Alzò una mano e fece loro cenno di entrare. «Che bell’animale» disse Brom. «Già. Si chiama Fiammabianca. Io invece Haberth.» Haberth tese una mano ruvida e scambiò una vigorosa stretta con Brom ed Eragon. Attese compito che i due rivelassero i propri nomi, ma quando non ebbe risposta, domandò: «Posso esservi utile?» Brom annuì. «Ci servono due cavalli e un equipaggiamento completo per entrambi. I cavalli devono essere veloci e resistenti; dobbiamo viaggiare parecchio.» Haberth riflette un istante. «Non possiedo molti animali del genere, e quelli che ho costano parecchio.» Lo stallone si agitò irrequieto; l’uomo lo tranquillizzò con qualche carezza. «Il prezzo non è importante. Voglio i migliori» disse Brom. Haberth annuì e in silenzio legò lo stallone a un palo. Andò alla parete in fondo e staccò due selle e altri attrezzi che accumulò in due pile identiche. Poi si avvicinò alle nicchie che ospitavano i cavalli e ne fece uscire due. Uno era un baio chiaro, l’altro un roano. Il baio si ribellò alla cavezza. «È alquanto vivace, ma se hai mano ferma non dovresti avere problemi» disse Haberth, porgendo la corda del baio a Brom. Brom lasciò che il cavallo gli annusasse la mano; l’animale si lasciò accarezzare il collo. «Lo prendiamo» disse, poi adocchiò il roano. «Questo invece... non saprei.» «Ha buone zampe, ti assicuro.» «Mmm... Quanto chiedi per Fiammabianca?» Haberth guardò lo stallone con orgoglio. «Preferirei non venderlo. È il miglior cavallo che abbia mai allevato... volevo farlo riprodurre per ricavarne una razza pura.» «Ma se decidessi di venderlo, quanto costerebbe?» insistette Brom. Eragon provò a posare una mano sul baio come aveva fatto Brom, ma il cavallo si ritrasse. Provò allora a raggiungerlo con la mente per rassicurarlo, e si sorprese di riuscire a sfiorare la coscienza del cavallo. Il contatto non era chiaro e preciso come con Saphira, ma poteva comunicare con il baio, entro un certo limite. Gli fece capire che era un amico. Il cavallo si calmò e lo guardò con i suoi liquidi occhi scuri. Haberth usò le dita per contare il prezzo della compravendita. «Duecento corone, non di meno» disse con un sorriso, sicuro che nessuno avrebbe sborsato una simile somma. Brom aprì il borsellino senza dire una parola e contò il denaro. «È giusto?» disse. Ci fu un lungo istante di silenzio, mentre Haberth spostava lo sguardo dallo stallone alle monete. Infine sospirò: «È tuo, ma te lo cedo a malincuore.» «Lo tratterò come fosse sangue del sangue di Gildihtor, il più grande stallone delle leggende» disse Brom. «Le tue parole mi confortano» disse Haberth, chinando il capo. Li aiutò a sellare i cavalli. Quando furono pronti a partire, disse: «Addio, E per amor di Fiammabianca, vi auguro che nessuna sventura vi colpisca.» «Non temere; baderò a lui come avresti fatto tu» promise Brom prima di allontanarsi. «Tieni» disse, porgendo le redini di Fiammabianca a Eragon. «vai dall’altra parte di Therinsford e aspetta lì.» «Perché?» fece Eragon; ma Brom si era già dileguato. Seccato, uscì da Therinsford con i due cavalli e si fermò vicino alla strada, in attesa. A sud c’era la sagoma nebbiosa dell’Utgard, che si ergeva come un gigantesco monolito alla fine della valle. La sua vetta bucava le nubi e scompariva, torreggiando sulle montagne più piccole che lo circondavano. Il suo aspetto cupo e minaccioso gli fece venire la pelle d’oca. Brom tornò presto e fece cenno a Eragon di seguirlo. Camminarono finché Therinsford non fu nascosta dagli alberi. Allora Brom disse: «I Ra’zac sono passati da questa parte. A quanto pare si sono fermati a prendere dei cavalli, come abbiamo fatto noi. Sono riuscito a trovare un uomo che li ha visti. Li ha descritti tremando e ha detto che sono partiti da Therinsford al galoppo come demoni inseguiti da un santo.» «Hanno fatto una certa impressione.» «Direi.» Eragon accarezzò il collo dei cavalli. «Quando eravamo nella stalla, ho toccato la mente del baio per caso. Non sapevo che fosse possibile.» Brom aggrottò la fronte. «È insolito che uno della tua età possieda questa capacità. La maggior parte dei Cavalieri devono esercitarsi per anni prima di comunicare con qualcosa che non sia il loro drago.» Osservò Fiammabianca con aria pensosa. Poi disse: «Togli le tue cose dallo zaino e mettile nelle bisacce, poi lega lo zaino dietro la sella.» Eragon obbedì, mentre Brom saliva in groppa a Fiammabianca. Eragon scrutò dubbioso il baio. Era tanto più piccolo di Saphira che per un momento assurdo temette che non avrebbe retto il suo peso. Con un sospiro, montò in sella. Fino a quel momento aveva cavalcato soltanto a pelo, e mai per lunghe distanze. «Alle gambe mi capiterà lo stesso di quando ho cavalcato Saphira?» domandò. «Come vanno adesso?» «Non male, ma ho paura che se cavalchiamo troppo le ferite si riapriranno.» «Andremo piano» disse Brom. Diede a Eragon qualche suggerimento, poi si avviarono a un’andatura tranquilla. Ben presto il panorama cominciò a cambiare: i campi coltivati lasciarono il posto a vaste distese selvagge. Cespugli ed erbacce costeggiavano la strada, insieme a enormi rovi in cui s’impigliavano i mantelli. Dal terreno affioravano alti macigni, grigi testimoni del loro passaggio. C’era un’atmosfera ostile nell’aria, un’animosità, una sorta di impalpabile resistenza agli intrusi. Sopra di loro, sempre più gigantesco, si stagliava l’Utgard, le pendici scoscese solcate da canyon innevati. La roccia nera della montagna assorbiva la luce come una spugna e oscurava tutta la zona attorno. Fra l’Utgard e lalinea delle montagne che formavano la parte orientale della Valle Palancar c’era un profondo crepaccio, l’unica via per uscire dalla valle. La strada portava da quella parte. . Gli zoccoli dei cavalli facevano crepitare il terreno ghiaioso. La strada si ridusse a uno stretto sentiero che aggirava la base dell’Utgard, Eragon alzò lo sguardo verso la cima e notò con sorpresa che vi si ergeva una torre con alte guglie. «Cos’è?» domandò, indicandola. Brom non alzò lo sguardo, ma rispose con voce amara e triste insieme: «Un avamposto dei Cavalieri... è lì fin dalla loro fondazione. Fu lì che si rifugiò Vrael, e dove, con l’inganno, venne scoperto e sconfitto da Galbatorix. Quando Vrael cadde, questa regione ne restò contaminata. Edoc’sil. Inespugnabile, era il nome di questo bastione, perché la montagna è così alta e ripida che nessuno può raggiungerne la vetta se non volando. Dopo la morte di Vrael, lo chiamarono Utgard, ma ha anche un altro nome. Ristvak’baen, il Luogo del Dolore. Così lo conoscevano gli ultimi Cavalieri prima che venissero uccisi dal re.» Eragon guardò la torre con timore e rispetto. Era una testimonianza concreta della gloria dei Cavalieri, pur corrosa com’era dall’inarrestabile corso del tempo. Pensò a quanto erano antichi i Cavalieri. Un’eredità di tradizioni ed eroismo che risaliva a tempi remoti pesava ora sulle sue spalle. Viaggiarono per lunghe ore intorno all’Utgard. Formava una solida parete alla loro destra quando entrarono nella gola che divideva la catena montuosa. Eragon si alzò sulle staffe, impaziente di vedere al di là della Valle Palancar: ma erano ancora troppo distanti. Attraversarono, un valico scosceso, che si snodava fra strapiombi e colline, seguendo il corso dell’Anora. Poi, con il sole basso alle spalle, superarono una cresta e videro oltre gli alberi. Eragon trattenne il fiato. Da un lato e dall’altro c’erano ancora montagne, ma sotto di loro si estendeva un’enorme pianura che si fondeva con l’orizzonte lontano. La piatta distesa aveva un uniforme colore brunicdo, di erba secca. Sulle loro teste si ricorrevano le nubi, sospinte da venti impetuosi. Capì perché Brom aveva insistito per comprare i cavalli. Avrebbero impiegato settimane, se non mesi, per coprire quella distanza a piedi. Scorse Saphira che volava, tanto in alto da poter essere scambiata per un uccello. «Aspetteremo domani per compiere la discesa» disse Brom. «Ci vorrà gran parte della giornata, perciò ci accampiamo adesso.» «Quanto ci vuole per attraversare questa landa?» domandò Eragon, ancora stupito. «Da un paio di giorni a una quindicina: dipende dalla direzione che uno prende. A parte le tribù nomadi che battono questa regione, per il resto è quasi del tutto disabitata, come il Deserto di Hadarac a est. Perciò non troveremo molti villaggi. Tuttavia a sud le pianure sono meno aride e più popolate.» Lasciarono il sentiero e smontarono sulla riva dell’Anora. Mentre toglievano le selle ai cavalli. Brom indicò il baio. «Dovresti dargli un nome.» Eragon ci pensò mentre legava il cavallo a un picchetto. «Be’, non ho niente di nobile come Fiammabianca, ma forse questo può andare.» Posò una mano sul fianco del baio e disse: «Ti chiamerai Cadoc. Era il nome di mio nonno, perciò rendigli onore.» Brom annuì in segno di approvazione, ma Eragon si sentì un po’ sciocco. Quando Saphira atterrò, lui le chiese: Che aspetto hanno le pianure? Monotono. Non ci sono altro che conigli ed erbacce da tutte le parti. Dopo la cena. Brom si alzò e gridò: «Prendi!» Eragon fece appena in tempo ad alzare il braccio per afferrare il bastone. prima che lo colpisse in testa. Si lasciò sfuggire un gemito alla prospettiva di un altro duello. «Non di nuovo» protestò, ma Brom si limitò a sorridere : a fargli un cenno con la mano. Eragon si alzò, riluttante. Presero a piroettare l’uno intorno all’altro fra urti violenti li legno contro legno, finché Eragon non si vide costretto ad arretrare, con un braccio formicolante e intorpidito per colpi dati e ricevuti. La lezione durò meno della prima, ma abbastanza a lungo perché Eragon accumulasse una nuova collezione di lividi. Quando ebbero finito il duello, scagliò via il bastone con disgusto e si allontanò dal fuoco per leccarsi le ferite. 17 Tuoni, fulmini e saette Il mattino dopo, Eragon evitò di ripensare agli ultimi avvenimenti; i ricordi erano ancora troppo dolorosi. Cercò piuttosto di concentrarsi su come scovare e uccidere i Ra’zac. Lo farò col mio arco, decise, immaginando di trafiggere con le frecce le figure avvolte nei mantelli. Si alzò a fatica; ogni movimento gli procurava fitte acute, e aveva un dito gonfio, bollente. Quando furono pronti a ripartire, montò in sella a Cadoc e disse in tono acido; «Di questo passo, mi ridurrai in poltiglia.» «Non ci andrei così pesante se non fossi convinto che sei abbastanza forte da resistere» disse Brom. «Una volta tanto, non mi dispiacerebbe se mi sottovalutassi» borbottò il ragazzo. Cadoc scalpitò irrequieto quando Saphira si avvicinò. La dragonessa scrutò il cavallo con un’espressione di vago orrore e disse: Non c’è posto dove nascondermi nelle pianure, perciò è inutile che voli tanto in alto. D’ora in poi resterò sopra dì voi. Si alzò in volo, mentre i due viaggiatori iniziavano la discesa. A tratti il sentiero scompariva, costringendoli a trovare da soli la via. A volte dovevano smontare di sella e condurre i cavalli a mano, reggendosi agli alberi per non scivolare. Il terreno disseminato di ciottoli era scivoloso e infido. La fatica li lasciò accaldati e irritati, malgrado il freddo. Intorno a mezzogiorno raggiunsero il fondo della valle e si fermarono a riposare. L’Anora curvava alla loro sinistra e proseguiva verso nord. Un vento pungente spazzava l’arida pianura, sollevando mulinelli di terra polverosa che finiva loro negli occhi. Eragon provò un senso di inquietudine davanti alla piattezza del paesaggio, privo di dune o alture. Aveva trascorso tutta la vita circondato da colline e montagne, e senza di esse si sentiva esposto, vulnerabile come un topolino sotto lo sguardo famelico di un’aquila. A valle, il sentiero si divideva in tre. Il primo ramo procedeva verso nord, in direzione di Ceunon, una delle maggiori città del nord; il secondo tagliava le pianure; il terzo portava a sud. Esaminarono tutte e tre le diramazioni in cerca di tracce dei Ra’zac, e alla fine trovarono le loro impronte che puntavano verso le praterie. «Pare che siano andati verso Yazuac» disse Brom con aria perplessa. «Dove si trova?» «A est, a quattro giorni di viaggio se tutto va bene. È un piccolo villaggio sul fiume Ninor.» Indicò l’Anora che si allontanava verso nord. «Questa è la nostra ultima possibilità di rifornirci d’acqua. Dobbiamo riempire gli otri prima di tentare di attraversare la pianura. Non ci sono altre sorgenti o corsi d’acqua fra qui e Yazuac.» Eragon sentì montare in sé l’eccitazione della caccia. Tempo qualche giorno, forse anche meno di una settimana,. e avrebbe usato le sue frecce per vendicare la morte di Garrow. E poi... Non riusciva a pensare a che cosa sarebbe potuto accadere dopo. Riempirono gli otri, fecero abbeverare i cavalli, e bevvero anche loro il più possibile. Anche Saphira si dissetò al fiume. Rinvigoriti, puntarono a est per intraprendere la traversata delle pianure. Eragon decise che sarebbe stato il vento a farlo impazzire per primo; era il colpevole di tutto ciò che lo tormentava: le labbra screpolate, la lingua secca, gli occhi lacrimosi. Le raffiche incessanti li seguirono per tutto il giorno, e la sera il vento aumentò invece di placarsi. In mancanza di un qualunque tipo di riparo, furono costretti ad accamparsi all’aperto. Eragon trovò un cespuglio secco, una pianta bassa e resistente che prosperava in condizioni estreme, e lo sradicò. Con i rami fece una piccola catasta e cercò di accenderla, ma i rametti produssero soltanto un fumo acre. Deluso, scagliò la scatola con l’acciarino a Brom. «Non ci riesco, con questo dannato vento. Vedi se ci riesci tu; altrimenti avremo una cena fredda.» Brom s’inginocchiò davanti al mucchietto di sterpi e lo guardò con aria polemica. Dispose qualche rametto in modo diverso e poi soffregò l’acciarino, provocando una cascata di scintille. Ancora fumo e nient’altro. Brom si accigliò e provò di nuovo, ma non ebbe miglior fortuna di Eragon. «Brisingr!» imprecò furente, soffregando di nuovo l’esca. All’improvviso comparvero delle fiamme, e il vecchio si ritrasse con un’espressione soddisfatta. «Ci siamo. Probabilmente covava all’interno.» Si esercitarono con le spade finte mentre il cibo cuoceva, ma erano così stanchi che smisero presto. Dopo aver mangiato, si distesero accanto a Saphira e si addormentarono confortati dal suo tepore. Lo stesso vento gelido li salutò il mattino dopo, spazzando la spaventosa desolazione. Le labbra di Eragon si erano spaccate durante la notte; ogni volta che sorrideva o parlava, si coprivano di minute goccioline di sangue. Leccarle non faceva che peggiorare le cose. Lo stesso era per Brom. Lasciarono che i cavalli bevessero dalle loro scorte d’acqua prima di montarli. La giornata trascorse monotona, in un’estenuante, ininterrotta cavalcata. Il terzo giorno Eragon si svegliò riposato. Quello, e il fatto che il vento era calato, lo mise di buonumore. Ma la sua allegria si spense quando vide che il cielo davanti a loro era nero di nubi pesanti. Brom guardò le nuvole e fece una smorfia. «Di norma non mi andrei a ficcare in una tempesta come quella, ma dato che ci colpirà qualunque cosa facciamo, credo che sia meglio fare ancora un po’ di strada.» L’aria era ancora quieta quando raggiunsero il fronte temporalesco. Mentre entravano nella sua ombra, Eragon alzò lo sguardo. L’enorme nuvola aveva una forma strana: assomigliava a una cattedrale con il vasto soffitto a volta. Con uno sforzo d’immaginazione, vide anche i pilastri, le vetrate, i banchi e i gargoyle ghignanti, Era di una bellezza selvaggia. Mentre Eragon abbassava lo sguardo, un’onda gigantesca spazzò l’erba davanti a loro e la appiattì. Gli ci volle un secondo per realizzare che l’onda era una formidabile raffica di vento. Anche Brom la vide, e incurvarono le spalle, preparandosi alla tempesta. Il fortunale era quasi su di loro quando Eragon ebbe un pensiero terribile e si voltò sulla sella, gridando sia con la voce che con la mente; «Saphira! Atterra!» Brom si fece pallido. La videro scendere in picchiata verso il terreno. Non ce la farà mai! Saphira volò dalla parte da cui erano venuti, per guadagnare tempo. Mentre la guardavano, l’ira della tempesta si abbattè su di loro come un maglio. Eragon annaspò e strinse con forza la sella, mentre un ululato selvaggio gli invadeva le orecchie. Cadoc vacillò e piantò gli zoccoli nel terreno, con la criniera che svolazzava. Il vento artigliava i vestiti di Eragon con dita invisibili, mentre l’aria si oscurava di nuvole gonfie di polvere. Il ragazzo socchiuse gli occhi, cercando Saphira. La vide atterrare pesantemente e poi accovacciarsi, affondando gli artigli nel terreno. Il vento la raggiunse mentre cominciava a chiudere le ali, e con un violento strattone le riaprì e la trascinò in aria. Per un attimo rimase, sospesa, sorretta dalla forza della tempesta. Poi il vento la fece ricadere di schianto sul dorso. Con uno sforzo sovrumano, Eragon costrinse Cadoc a voltarsi e a galoppare verso la dragonessa, spronandolo sia con i tacchi che con la mente. Saphira gridò. Cerca di restare a terra. Sto arrivando! Avvertì, un fiero sì in risposta. Mentre si avvicinavano a Saphira. Cadoc ricalcitrò; così Eragon smontò e corse da solo verso di lei. L’arco lo colpì sulla testa. Una forte raffica gli fece perdere l’equilibrio e il ragazzo volò in avanti per ricadere sul petto. Scivolò, poi si rialzò con un ringhio, ignorando i graffi profondi che gli rigavano la pelle. Saphira era a pochi metri da lui, ma Eragon non poteva avvicinarsi oltre senza rischiare di essere colpito dalle ali fluttuanti. La dragonessa lottava per richiuderle contro la tempesta furiosa. Il ragazzo corse verso la sua ala destra, deciso a trattenerla a terra, ma il vento afferrò la creatura e la fece capitombolare sopra di lui. Le aguzze punte dorsali mancarono la sua testa di un soffio. Saphira artigliò di nuovo il terreno nello sforzo di restare ancorata al terreno. Le ali ripresero a gonfiarsi, ma prima che potessero trascinarla per aria, Eragon si gettò su quella sinistra. L’ala si accartocciò e Saphira la tenne saldamente chiusa contro il corpo. Eragon volteggiò sopra la sua schiena e cadde sull’altra. Ma all’improvviso l’ala si gonfiò, mandandolo a finire a terra. Eragon attuti l’impatto della caduta rotolando, poi balzò in piedi e afferrò di nuovo l’ala. Saphira cominciò a chiuderla, e lui spinse con tutte le sue forze. Il ventò lottò contro di loro per un momento, ma con un ultimo sforzo congiunto riuscirono a vincerlo. Eragon si appoggiò a Saphira, ansante. Stai bene? La sentiva tremare, Lei impiegò un istante per rispondere. Credo... credo dì sì. Sembrava scossa. Niente di rotto... Non riuscivo a far niente; il vento non mi lasciava andare, Ero in balia delle raffiche. Con un brivido, tacque. Eragon la guardò, preoccupato. Non temere, sei al sicuro, adesso. Scorse Cadoc in lontananza, la schiena al vento. Con la mente, gli ordinò di tornare da Brom. Poi salì su Saphira, che cominciò ad arrancare lungo la strada, lottando contro la tempesta, mentre Eragon si teneva stretto al suo collo e teneva la testa bassa. Quando ebbero raggiunto Brom, il vecchio urlò sopra il vento: «È ferita?» Eragon fece un cenno di diniego e smontò. Cadoc gli trotterellò vicino con un nitrito. Mentre accarezzava la lunga guancia del baio. Brom indicò una nera cappa di pioggia che avanzava verso di loro in ondeggianti cortine grigie. «E poi, cos’altro ci aspetta?» gridò Eragon, stringendosi addosso i vestiti. Fece una smorfia quando il torrente li investì. La pioggia battente era fredda come ghiaccio; ben presto furono fradici e tremanti. I lampi squarciavano il cielo, illuminando il mondo per poi lasciarlo ripiombare nel buio. L’orizzonte era solcato da fulmini azzurrini alti miglia, seguiti da tuoni che scuotevano la terra, Era uno spettacolo straordinario, ma anche di grande pericolo. Qua e là l’erba prese fuoco per i fulmini, piccoli incendi presto estinti dalla pioggia. La furia degli elementi fu lenta a placarsi, ma con il trascorrere del giorno la tempesta si spostò altrove. Il cielo comparve di nuovo, nudo, imporporato dagli ultimi bagliori del sole morente. Il netto contrasto fra le zone in ombra e le nubi fulgide di colori attribuiva agli oggetti un nitore singolare: gli steli d’erba sembravano solidi come pilastri di marmo, le cose ordinarie assumevano una bellezza ultraterrena. Eragon aveva la sensazione di trovarsi dentro un dipinto. La terra rinvigorita e odorosa di fresco schiarì le loro menti e risollevò i loro spiriti. Saphira si stiracchiò, tese il collo e ruggì, felice. I cavalli indietreggiarono spaventati, ma Eragon e Brom sorrisero davanti alla sua esuberanza. Prima che la luce svanisse, si fermarono per la notte, scegliendo una piccola conca nel terreno. Troppo stanchi per giocare alla lotta, si addormentarono subito. 18 Yazuac, la città fantasma Per quanto fossero riusciti a riempire in parte gli otri durante la tempesta, quella mattina terminarono la loro scorta d’acqua. «Spero che stiamo andando nella direzione giusta» disse Eragon, ripiegando la sacca di pelle vuota. «perché saremo nei guai, se non raggiungiamo Yazuac oggi stesso.» Brom non sembrava preoccupato. «Ho, già viaggiato in queste lande prima d’ora. Yazuac sarà in vista prima di sera.» Eragon diede in una risatina dubbiosa. «Forse tu vedi qualcosa che io non vedo. Come fai a sapere dove siamo, quando il paesaggio è tutto uguale per leghe e leghe e leghe?» «Perché non mi faccio guidare dal paesaggio, ma dalle stelle e dal sole. Loro non ingannano mai. Forza! Rimettiamoci in marcia. È da stupidi temere, quando non c’è nulla da temere. Yazuac ci sarà.» Le sue parole si rivelarono veritiere. Fu Saphira a individuare per prima il villaggio, ma soltanto nel pomeriggio anche loro riuscirono a scorgerla come una bassa gobba scura sull’orizzonte. Yazuac era ancora molto lontana; era visibile solo perché il resto era di una piattezza uniforme. Continuando a cavalcare, notarono una grigia linea sinuosa su entrambi i lati del villaggio, che spariva in lontananza. «Il fiume Ninor» disse Brom, indicandolo. Eragon Fece fermare Cadoc. «Qualcuno scoprirà Saphira, se resta con noi. Non credi che potrebbe nascondersi mentre noi entriamo a Yazuac?» Brom si grattò il mento e guardò il villaggio.«Vedi quell’ansa del fiume? Falla aspettare lì. E’ abbastanza lontana da Yazuac perché nessuno la scopra, ma tanto vicina da poterc raggiungere in breve tempo. Noi andremo al villaggio, prenderemo ciò che ci serve e ci rivedremo più tardi.» Non mi piace, disse Saphira, dopo che Eragon le ebbe spiegato il piano. È irritante doversi sempre nascondere come un criminale. Sai che cosa succederebbe se ti vedessero. La dragonessa borbottò ancora, ma si arrese e si allontanò, sorvolando a bassa quota la pianura. I due ripresero a trottare, pensando con sollievo al cibo e all’acqua che presto avrebbero trovato. Mentre si avvicinavano alle piccole case, videro fili di fumo levarsi da una decina di comignoli, ma non c’era anima viva per le strade. Un silenzio irreale regnavasul villaggio. In un atto di tacita intesa, si fermarono davanti alla prima casa. Eragon disse brusco:«Non ci sono cani che abbaiono.» «No» «Però non vuol dire niente.» «…No.» Eragon fece una pausa.«Ma oramai qualcuno avrebbe docuto vederci.» «Sì» «E perché non escono?» Brom socchiuse gli occhi contro il riverbero del sole. «Forse hanno paura.» «Forse» disse Eragon.Tacque per qualche istante. «E se fosse una trappola? E se i Ra’zac ci stessero aspettando?» «Ci servono acqua e viveri.» «C’è sempre il Ninor.» «Ma ci mancano i viveri.» «Giusto.» Eragon si guardò intorno. «Che cosa facciamo? Entriamo?» Brom fece schioccare le redini. «Sì, ma non da sciocchi. Questo è l’ingresso principale di Yazuac. Se volessero tenderci un agguato, con ogni probabilità lo farebbero qui. Nessuno si aspetta che arriviamo da una direzione diversa.» «Dall’altra parte, allora?» chiese Eragon. Brom annuì e sguainò la spada, tenendo la nuda lama contro la sella, Eragon preparò l’arco e incoccò una freccia. Aggirarono silenziosi la città, trovarono un ingresso minore ed entrarono circospetti. Le strade erano deserte, fatta eccezione per una piccola volpe che sfrecciò spaventata al loro passaggio. Le case erano buie, e le finestre rotte davano loro un’aria sinistra. Parecchie porte erano state scardinate. I cavalli rotearono gli occhi per il nervosismo, Eragon si sentì prudere il palmo della mano, ma resistette all’impulso di grattarsi. Quando furono in vista del centro del villaggio, Eragon strinse forte l’arco e impallidì di botto. «Dei del cielo» sussurrò. Una montagna di cadaveri si ergeva avanti a loro, i corpi rigidi, i volti contratti in smorfie terribili. Gli abiti erano inzuppati di sangue, che impregnava anche il suolo lì attorno. Uomini massacrati giacevano sopra le donne che avevano cercato di proteggere, le madri tenevano ancora stretti i figli, e gli amanti che avevano tentato di fare da scudo l’uno all’altra riposavano in un gelido abbraccio di morte. Tutti erano trafitti da frecce nere. Nessuno, giovane o anziano, era stato risparmiato. Ma la visione più agghiacciante fu la lancia aguzza che svettava sulla pila di cadaveri, sulla quale era impalato il corpicino pallido di un bambino. Gli occhi di Eragon si offuscarono di lacrime. Cercò di distogliere lo sguardo, ma era come ipnotizzato da quei , volti. Fissò i loro occhi spalancati e si chiese com’era possibile che la vita li avesse abbandonati con tanta semplicità. Che significato ha la nostra esistenza se può finire così? Si sentì travolgere da un’ondata di disperazione. Dal cielo scese un’ombra nera: una cornacchia, che si appollaiò sulla punta della lancia. Fece scattare la testa in basso e i suoi occhi scrutarono avidi il cadavere del bambino. «Oh no, non ci provare» ringhiò Eragon. Tese la corda dell’arco e la liberò con una vibrazione sonora. In un’esplosione di piume, la cornacchia cadde all’indietro, il petto trafitto da una freccia. Eragon ne incoccò un’altra, ma all’improvviso lo stomaco gli si contrasse. Il ragazzo si sporse dal fianco di Cadoc per vomitare. Brom gli diede una pacca gentile sulla schiena. Quando Eragon ebbe finito, gli chiese: «Preferisci aspettarmi fuori Yazuac?» «No... resto» disse Eragon tremante, asciugandosi le labbra. Evitò di guardare lo spettacolo raccapricciante davanti a loro. «Chi può aver fatto...» Non riuscì a trovare le parole. Brom chinò il capo. «Coloro che amano il dolore e la sofferenza altrui. Hanno molte facce e indossano molte maschere, ma c’è solo un nome per loro: il Male. Non serve capire. Tutto quello che possiamo fare è compiangere e onorare le vittime.» Smontò da Fiammabianca e studiò il terreno smosso. «I Ra’zac sono passati di qui» disse piano. «ma questa non è opera loro. Questa è opera degli Urgali; la lancia appartiene a loro, È passata di qui una compagnia, forse un centinaio. È strano; conosco solo pochissimi casi in cui si siano riuniti in un tale...» S’inginocchiò a esaminare un’impronta. Lanciò un’imprecazione e tornò di corsa da Fiammabianca, che montò alla svelta. «Vai!» sibilò a denti strettì, incitando il cavallo. «Gli Urgali sono ancora qui!» Eragon piantò i talloni nei fianchi di Cadoc. Il cavallo si lanciò al galoppo per seguire Fiammabianca. Schizzarono davanti alle case, ed erano quasi ai margini di Yazuac quando Eragon avvertì di nuovo il formicolio al palmo. Con la coda dell’occhio intrawide un movimento alla sua destra, poi un pugno gigantesco lo sbalzò di sella. Volò sopra il dorso di Cadoc e urtò contro un muro, continuando a stringere l’arco per puro istinto. Stordito, senza fiato, si rialzò barcollante, premendosi una mano sul fianco. Un Urgali torreggiava su di lui, il muso deformato da un ghigno perverso. Il mostro era alto, massiccio, più grosso di una porta, con la pelle grigia e gialli occhi porcini. Muscoli possenti gli gonfiavano le braccia e il torace, coperto da una corazza troppo piccola. Portava un elmo di ferro, dal quale spuntavano le due corna da ariete che gli crescevano dalle tempie, e con un braccio reggeva uno scudo rotondo. Impugnava una spada corta e ricurva. Dietro di lui, Eragon vide Brom tirare le redini di Fiammabianca per tornare indietro. Ma il vecchio venne bloccato dalla comparsa di un secondo Urgali, armato di ascia. L’Urgali davanti a Eragon ruggì e roteò la spada con ferocia. Eragon si sottrasse ai colpi con un .urlo di terrore e sentì il sibilo della lama che gli sfiorava la guancia. Si voltò e cominciò a correre verso il centro di Yazuac, col cuore che gli batteva fortissimo. L’Urgali lo inseguì; i suoi pesanti stivali rimbombavano sul selciato. Eragon lanciò a Saphira un disperato grido di aiuto, poi si costrinse ad andare più veloce. L’Urgali guadagnava terreno, malgrado gli sforzi di Eragon; le grosse fauci si spalancarono in un muto bramito. Con l’Urgali ormai alle costole, Eragon incoccò una freccia, si volse di scatto, prese la mira e scoccò. L’Urgali tese il braccio e ricevette la freccia vibrante sullo scudo. Poi piombò su Eragon prima che avesse il tempo di incoccare ancora, e i due caddero a terra in un groviglio di membra. Eragon fu lesto a rialzarsi e corse di nuovo verso Brom, che in sella a Fiammabianca scambiava colpi feroci col suo avversario. Dove sono gli altri Urgali? si domandò frenetico. Possibile che ci siano solo questi due a Yazuac? Si udì uno schiocco secco, e Fiammabianca s’impennò con un nitrito. Brom si accasciò sulla sella, col braccio sanguinante. L’Urgali ululò di trionfo e levò l’ascia per il colpo di grazia. Un grido di belva sgorgò dalla gola di Eragon mentre caricava l’Urgali. Il mostro rimase immobile un istante, sconcertato, poi lo affrontò con una smorfia di disprezzo, roteando l’ascia. Eragon schivò il fendente e affondò le unghie nel fianco dell’Urgali, lasciandovi profondi solchi sanguinanti. Il muso del mostro divenne una maschera di rabbia. Menò un altro fendente, ma Eragon si tuffò di lato e fuggì scartando di lato. Il suo scopo era allontanare gli Urgali da Brom. S’infilò in uno stretto passaggio fra due case, ma si accorse che era un vicolo, cieco. Si volse per scappare, ma gli Urgali ormai bloccavano il passaggio. Presero ad avanzare, imprecando contro di lui con le loro voci rauche. Eragon voltò la testa da un lato e dall’altro, cercando una via d’uscita. Invano. Mentre si voltava a fronteggiare gli Urgali, gli balenarono in mente le immagini sconvolgenti viste poco prima: i cadaveri ammassati degli abitanti del villaggio, e il piccolo innocente infilzato sulla lancia, che non sarebbe mai diventato adulto. Al pensiero di quell’atroce destino, una forza bruciante, feroce, gli pervase ogni parte del corpo. Era più di un semplice desiderio di giustizia. Era il suo intero essere che si ribellava all’idea della morte, al fatto che avrebbe cessato di esistere. La forza crebbe sempre di più, finché non si sentì pronto a farla esplodere. Svanita ogni traccia di timore, Eragon si erse in rutta la sua statura. Alzò l’arco con un movimento fluido. Gli Urgali risero e levarono gli scudi. Eragon prese la mira lungo l’asta della freccia, come aveva fatto centinaia di volte, e allineò la punta con il bersaglio. L’energia dentro di lui ribolliva, incontenibile. Doveva liberarla, altrimenti l’avrebbe consumato. All’improvviso sulle labbra gli affiorò spontanea una parola. Scoccò, gridando: «Brisingr!» La freccia sibilò, sfolgorando di una crepitante luce azzurrina. Colpì il primo Urgali alla testa, e nell’aria risuonò un’esplosione. Un’azzurra onda d’urto si propagò dalla testa fracassata del mostro, uccidendo l’altro Urgali all’istante. Raggiunse Eragon prima che avesse il tempo di reagire, ma passò attravèrso di lui senza fargli male, dissolvendosi contro le case. Eragon restò immobile, ansimante, poi si guardò il palmo ghiacciato. Il gedwéy ignasia brillava come metallo incandescente, ma sotto il suo sguardo sbiadì e riprese il suo aspetto consueto. Il ragazzo chiuse il pugno, poi fu travolto da un’ondata di stanchezza. Si sentiva strano e debole, come se non avesse mangiato per giorni. Le ginocchia gli cedettero, e si accasciò contro un muro. 19 Ammonimenti Recuperate un po’ di forze, Eragon si rialzò a fatica e uscì barcollando dal vicolo, scavalcando i mostri uccisi. Poco dopo gli si affiancò Cadoc. «Bene, vedo che non sei ferito» mormorò Eragon. Abbassò lo sguardo e notò con distacco che le mani gli tremavano violentemente e che il suo corpo si muoveva a scarti. Aveva la sensazione che tutto ciò che aveva visto fosse successo a qualcun altro. Svoltato un angolo, trovò Fiammabianca con le froge dilatate e le orecchie rivolte all’indietro, nervoso, pronto a fuggire. Brom era ancora accasciato sulla sella, inerte. Eragon dilatò la mente per calmare il cavallo. Quando l’animale si fu tranquillizzato, Eragon si avvicinò per esaminare il vecchio. Sul suo braccio destro c’era un lungo taglio. La ferita sanguinava molto, ma non era profonda né ampia. Tuttavia Eragon sapeva di doverla fasciare prima che Brom perdesse troppo sangue. Accarezzò Fiammabianca per un momento, poi fece scivolare Brom dalla sella. Il peso si rivelò troppo per lui, e Brom cadde pesantemente a terra. Eragon fu sorpreso dalla propria debolezza. Un urlo di rabbia gli risuonò nella testa. Saphira scese in picchiata dal cielo e atterrò con fierezza davanti a lui, tenendo le ali ancora dispiegate. Sibilò furiosa, la sua coda frustò l’aria ed Eragon sobbalzò sotto lo schiocco. Sei ferito? gli chiese lei, la voce schiumante di collera. «No» la rassicurò il ragazzo, mentre adagiava Brom sulla schiena. La dragonessa ruggì ed esclamò: Dove sono gli artefici di questo scempio? Li farò a pezzi! Eragon indicò stancamente il vicolo. «Non serve; sono già morti.» Li hai uccisi tu? Saphira parve sorpresa. Lui annuì. «In un certo senso.» In poche parole le raccontò l’accaduto, mentre cercava nelle bisacce le fasce in cui era stata avvolta Zar’roc. Saphira commentò solenne: Sei cresciuto. Eragon sbuffò. Trovò una lunga fascia e arrotolò adagio la manica di Brom. Con poche abili mosse pulì la ferita e la fasciò stretta. Quanto vorrei essere nella Valle Palancar, disse a Saphira. Lì almeno conoscevo delle piante utili a guarire. Qui non ho idea di come aiutarlo. Raccolse la spada di Brom, la pulì e la rimise nel fodero appeso alla cintura del vecchio. Dovremmo andarcene, disse Saphira. Potrebbero esserci altri Urgali nei dintorni. Puoi portare Brom? In sella a te sarà al sicuro e potrai proteggerlo Certo, ma non voglio lasciarti da solo. D’accordo, volerai al mio fianco, ma adesso sbrighiamoci. Fissò meglio la sella sul dorso di Saphira, poi passò le braccia intorno a Brom e cercò di sollevarlo, ma di nuovo fu tradito dalla propria debolezza. Saphira... aiutami. La dragonessa protese il capo e afferrò il mantello di Brom fra i denti. Inarcò il collo e sollevò il vecchio come una gatta col suo micino; voltò la testa e lo depositò sulla sella. Eragon gli fece passare le gambe nelle staffe e lo legò. Alzò lo sguardo quando sentì il vecchio gemere e agitarsi. Brom sbattè le palpebre, stordito, e si sfiorò il capo con una mano. Guardò Eragon, preoccupato. «Saphira è arrivata in tempo?» Eragon scosse la testa. «Ti spiegherò più tardi. Hai il braccio ferito. L’ho fasciato alla meglio, ma hai bisogno di un posto sicuro per riposare.» «Sì» disse Brom, toccandosi il braccio con cautela. «Sai dov’è la mia spada? Ah, vedo che l’hai trovata.» Eragon finì di stringere le cinghie. «Ti porterà Saphira, e mi seguirete volando.» «Sei sicuro?» chiese Brom. «Posso sempre cavalcare Fiammabianca.» «Non con quel braccio. Così anche se svieni non cadrai.» Brom annuì. «È un onore.» Cinse il collo della dragonessa col braccio sano, e Saphira si alzò in volo e schizzò verso il cielo. Eragon vacillò all’indietro per lo spostamento d’aria provocato dalle sue ali e tornò dai cavalli. Legò Fiammabianca dietro Cadoc, poi lasciò Yazuac, tornò sul sentiero e si avviò verso sud. La strada attraversava un’area rocciosa, curvava a sinistra e continuava lungo la sponda del Ninor. Felci, muschi e piccoli cespugli la costeggiavano. Faceva fresco sotto gli alberi, ma Eragon non lasciò che l’aria leggera lo cullasse, infondendogli sicurezza. Si fermò brevemente per riempire gli otri e abbeverare i cavalli. Guardando a terra, notò le tracce dei Ra’zac. Se non altro, andiamo nella direzione giusta, Saphira volava in circolo sopra di lui, sempre vigile. Eragon era turbato dal fatto di aver visto soltanto due Urgali. Gli abitanti del villaggio erano stati uccisi e Yazuac saccheggiata da un’orda numerosa, ma dov’erano tutti gli altri? Forse quelli che abbiamo incontrato erano una retroguardia, oppure una trappola per eventuali inseguitori. Si soffermò a riflettere su come aveva ucciso gli Urgali. Lentamente, un’idea, una rivelazione si fece strada nella sua mente. Lui, Eragon, giovane contadino della Valle Palancar, aveva usato la magia. La magia! Era l’unica spiegazione per ciò che era accaduto. Sembrava impossibile, ma non poteva negare l’evidenza. In qualche modo sono diventato uno stregone, un mago! Ma non sapeva come usare ancora quel nuovo potere o quali fossero i suoi limiti e i suoi pericoli. Come faccio a possedere questa capacità? Era comune fra i Cavalieri? E se Brom sapeva, perché non me l’ha detto? Scosse il capo, stupito e sconcertato. Conversò con Saphira per controllare le condizioni di Brom e per condividere con lei i suoi pensieri. La dragonessa era confusa quanto lui riguardo alla magia. Saphira, puoi trovare un posto dove accamparci? Da quaggiù non riesco a vedere lontano. Mentre là dragonessa cercava, lui proseguì lungo il Ninor, . La chiamata arrivò sul far della sera. Vieni. Saphira gli inviò l’immagine di una radura isolata fra gli alberi, lungo il fiume. Eragon fece voltare i cavalli nella nuova direzione e li spinse al trotto. Con l’aiuto di Saphira fu facile trovarla, ma era così ben nascosta che dubitava che sarebbe stata notata da qualcun altro. Un piccolo falò senza fumo era già acceso quando il ragazzo entrò nella radura. Brom era seduto davanti al fuoco e studiava la ferita sul proprio braccio. Saphira era accuccìata accanto a lui, in tensione. Guardò Eragon con intensità e gli chiese: Sei sicuro di non essere ferito? Non nel corpo... ma per il resto non saprei dire. Sarei dovuta arrivare prima. Non sentirti in colpa. Tutti noi abbiamo commesso degli errori oggi. Il mio è stato quello di non starti vicino. Il ragazzo avvertì l’ondata di gratitudine della dragonessa per quel commento. Si rivolse a Brom. «Come stai?» Il vecchio si guardò il braccio. «È un brutto taglio e fa male, ma dovrebbe guarire in fretta. Mi serve una fasciatura nuova; questa non è durata quanto speravo.» Fecero bollire dell’acqua per lavare la ferita; poi il vecchio si fasciò da solo con una benda pulita e disse: «Devo mangiare, e anche tu hai l’aria di avere fame. Prima ceniamo, poi parliamo.» Quando furono sazi. Brom si accese la pipa. «Ora, credo che sia giunto il momento di dirmi che cosa è successo mentre ero privo di sensi. Sono molto curioso.» Il suo volto rifletteva i bagliori tremolanti del falò, e le sue sopracciglia folte e sporgenti si aggrottarono. Eragon si strinse nervosamente le mani e raccontò la storia in modo piano, diretto. Brom rimase in silenzio per tutto il tempo, con un’espressione imperscrutabile. Quando Eragon ebbe finito. Brom abbassò lo sguardo a terra. Per. lunghi minuti l’unico rumore fu il crepitio del fuoco. Alla fine Brom si riscosse. «Hai mai usato questo potere prima?» «No. Ne sai qualcosa?» «Qualcosa» rispose Brom, pensieroso. «A quanto pare ti devo la vita. Spero di poterti ricambiare il favore, un giorno o l’altro. Dovresti essere orgoglioso: pochi rimangono illesi nel loro primo scontro con un Urgali. Ma il modo in cui l’hai ucciso è molto pericoloso. Avresti potuto distruggere te stesso e l’intera città.» «Non ho avuto scelta» disse Eragon per difendersi. «Gli Urgali mi avevano intrappolato. Se avessi aspettato, mi avrebbero fatto a pezzi!» Brom strinse i denti sul cannello della pipa. «Non hai idea di ciò che hai fatto.» «Allora dimmelo» lo sfidò Eragon. «Ho cercato una risposta a questo mistero, ma non ci capisco niente. Che cosa è successo? Come ho fatto a usare la magia? Nessuno mi ha mai insegnato formule magiche...» Gli occhi di Brom lampeggiarono. «Infatti non è qualcosa che dovresti conoscere, né tantomeno usare!» «Be’, l’ho usata! E potrei averne ancora bisogno. Ma non ne sarò capace, se tu non mi aiuti. Cosa c’è di male? C’è forse qualche oscuro segreto che non devo apprendere finché non sarò vecchio e saggio? O invece tu non sai niente di magia...?» «Ragazzo!» ruggì Brom. «Le tue domande sono di un’insolenzà davvero intollerabile. Se sapessi che cosa stai chiedendo non saresti tanto ansioso di indagare. Non mi sfidare.» Fece una pausa, poi assunse un atteggiamento più conciliante. «Le risposte che cerchi sono molto più complicate di quanto tu possa comprendere.» Eragon protestò con foga. «È come se fossi stato gettato in un mondo con strane regole che nessuno mi spiega.» «Ti capisco» disse Brom, giocherellando con un filo d’erba. «È tardi e dovremmo dormire, ma prima ti dirò qualcosa, tanto perché tu smetta di assillarmi. Questa magia, perché di magia si tratta, ha delle regole, come il resto del mondo. Se infrangi le regole, la pena è la morte, senza eccezioni. I tuoi gesti sono limitati dalla tua forza, dalle parole che conosci e dalla tua immaginazione.» «Che cosa intendi per parole?» fece Eragon. «Ancora domande!» esclamò Brom. «Per un momento ho sperato che avessi finito. Ma hai ragione a chiedermelo. Quando hai colpito gli Urgali, hai detto qualcosa?» «Sì. Brisingr.» Il fuoco avvampò, ed Eragon rabbrividì. C’era qualcosa in quella parola che lo faceva sentire incredibilmente vivo. «Lo supponevo. Brisingr è una parola che appartiene a un’antica lingua che usavano tutti gli esseri viventi. Tuttavia col tempo è stata dimenticata, e per eoni nessuno l’ha più udita in Alagaè’sia, finché gli elfi non l’hanno portata di nuovo, venendo dal mare. La insegnarono alle altre razze, che la usarono per fare cose straordinarie. Questa lingua ha un nome per ogni cosa, se sai trovarlo.» «Ma che cosa c’entra con la magia?» lo interruppe Eragon. «Tutto! È la base del potere. La lingua descrive la vera natura delle cose, non gli aspetti superficiali, quello che tutti vedono. Per esempio, fuoco si brisingr per far fare al fuoco ciò che vuoi. Ed è quello che è successo oggi.» Eragon tacque per un istante. «Perché il fuoco era azzurro? Come mai ha fatto proprio quello che volevo, anche se ho soltanto detto fuoco?» «Il colore varia da persona a persona. Dipende da chi pronuncia la parola. E per quanto riguarda la ragione per cui il fuoco ha fatto ciò che volevi, è una questione più pratica. Quasi tutti i principianti devono sillabare esattamente Ciò che vogliono che accada. via via che acquisiscono esperienza, questo non è più necessario. Un vero maestro potrebbe dire semplicemente acqua e creare qualcosa di molto diverso, come una gemma. Tu non saresti in grado di dire come ha fatto, ma il maestro ha visto il collegamento tra acqua e la gemma, e l’ha usato come punto focale per il suo potere. La pratica è un’arte più raffinata di qualsiasi altra cosa. Quello che hai fatto era estremamente difficile.» Saphira interruppe i pensieri di Eragon. Brom è un mago! Ecco come ha fatto ad accendere il fuoco nelle pianure. Non solo conosce la magia; sa usarla! Eragon sgranò gli occhi. Hai ragione! Chiedigli del suo potere, ma attento a quello che dici. Non è saggio scherzare con coloro che possiedono queste capacità. Se è un mago o uno stregone, chissà quali potrebbero essere i motivi che lo hanno spinto a venire a vivere a Carvahall! Eragon disse, prudente:«Saphira e io ci siamo appena resi conto di una cosa. Tu sai usare la magia, non è vero? Ecco come hai fatto ad accendere il fuoco il primo giorno nelle pianure.» Brom chinò appena il capo. «Diciamo che seono un discreto esperto.» «Allora perché non hai usato la magia per combattere gli Urgali? Anzi, potrei citare diverse occasioni in cui sarebbe stata utile... avresti potuto difenderci dalla tempesta e impedire che la polvere ci finisse negli occhi, per esempio.» Dopo aver riempito ancora la pipa. Brom disse: «Per alcune semplici ragioni. Innanzitutto, non sono un Cavaliere, il che significa che persino nei tuoi momenti di maggiore debolezza tu sei più forte di me. E poi ho superato da molto il periodo della giovinezza; non sono più gagliardo come un tempo. Ogni volta che uso la magia, diventa più difficile.» Eragon abbassò gli occhi, vergognandosi. «Mi dispiace.» «Non occorre» disse Brom, spostando il braccio. «Succede a tutti.» «Dove hai imparato a usare la magia?» «Questa è una cosa che terrò per me... Ti basti sapere che imparai in una remota regione, da un maestro straordinario. Almeno potrò tramandare le sue lezioni.» Brom vuotò la pipa su un piccolo masso. «So che hai altre domande, e io risponderò, ma dovrai aspettare fino a domattina.» Si protese verso il ragazzo, gli occhi scintillanti. «Intanto ti dirò questo, per scoraggiare eventuali esperimenti: la magia ti sottrae energia come se usassi le braccia e la schiena per compierla. Ecco perché ti sei sentito stanco dopo aver ucciso gli Urgali. E perché mi sono infuriato. Hai corso un terribile rischio. Se la magia avesse avuto bisogno di più energia di quanta ne conteneva il tuo corpo, ti avrebbe ucciso. Devi usare la magia soltanto per quelle imprese che non si possono compiere in modo normale.» «Come si fa a sapere quanta energia richiede un incantesimo?» chiese Eragon, spaventato. Brom fece un gesto vago con la mano. «Di solito non si sa. Per questo motivo i maghi devono conoscere a fondo i propri limiti, e anche in quel caso vanno sempre cauti. Una volta che decidi di sprigionare la magia per un determinato scopo, non puoi richiamarla indietro, anche se capisci che ti ucciderà. Questo è un ammonimento: non provare a fare niente finché non ne saprai di più, E per stasera è tutto.» Mentre srotolavano le coperte. Saphira commentò soddisfatta: Stiamo diventando più potenti, Eragon, tutti e due. Ben presto nessuno potrà più sbarrarci la strada. Già, ma quale strada dobbiamo scegliere? Quella che ci pare, rispose lei, e si accoccolò per la notte. 20 La magia è semplice Perché credi che quei due Urgali fossero rimasti a Yazuac?» chiese Eragon, dopo che ebbero ripreso il cammino. «Non me lo spiego.» «Immagino che abbiano disertato il gruppo per saccheggiare la città. Ma la cosa strana è che per quanto ne so gli Urgali si sono riuniti in forze soltanto due o tre volte nella storia. Il fatto che’adesso lo stiano facendo di nuovo è a dir poco inquietante.» «Credi che ci siano i Ra’zac all’origine dell’attacco?» «Non lo so. La cosa migliore che possiamo fare è continuare ad allontanarci da Yazuac il più in fretta possibile. Per giunta, questa è la direzione presa dai Ra’zac: verso sud.» Eragon assentì. «Però abbiamo ancora bisogno di rifornimenti. C’è un’altra città o un villaggio vicino?» Brom scosse il capo. «No, ma Saphira può cacciare per noi, se dobbiamo sopravvivere mangiando solo carne. Questa striscia d’alberi ti può sembrare piccola, ma è piena di animali. Il fiume è l’unica fonte d’acqua nel raggio di parecchie miglia, e così gran parte degli animali delle pianure vengono qui ad abbeverarsi. Non moriremo di fame.» Eragon tacque, soddisfatto dalla risposta di Brom. Mentre cavalcavano, uccelli ciarlieri volavano intorno a loro e il fiume mormorava placido. Era un luogo rumoroso, pieno di vita ed energia, Eragon chiese: «Come ha fatto quell’Urgali a sorprenderti? È successo tutto così in fretta che non ho visto.» «Un colpo di sfortuna» borbottò Brom. «Ero in vantaggio su di lui, così ha dato un calcio a Fiammabianca. Quello stupido cavallo si è impennato e mi ha fatto perdere l’equilibrio. Così l’Urgali ha potuto colpirmi con l’ascia.» Si grattò il mento. «Immagino che tu non abbia ancora esaurito la tua scorta di domande sulla magia. Il fatto che tu l’abbia scoperta ci pone di fronte a un problema spinoso. Pochi lo sanno, ma ogni Cavaliere poteva usare la magia, anche se a diversi livelli. Essi tennero segreta questa loro capacità, anche al culmine del loro potere, perché dava loro un vantaggio sui nemici. Se tutti l’avessero saputo, trattare con la gente comune sarebbe stato difficile. Molti pensano che i poteri magici del re derivino dal fatto che è un mago, o uno stregone. Non è vero; è perché è un Cavaliere.» «Che differenza fa? Il fatto che io abbia usato la magia non mi rende automaticamente uno stregone?» «Nient’affatto! Uno stregone, come uno Spettro, usa gli spiriti per realizzare il proprio volere. Ed è una cosa completamente diversa dal tuo potere. Né sei un illusionista, i cui poteri non hanno niente a che fare con gli spiriti o i draghi. Così come non sei un fattucchiere, che usa pozioni e incantesimi.. «Il che ci riporta al punto di partenza: il problema che hai posto. I giovani Cavalieri come te seguivano un rigido periodo di addestramento per irrobustire il corpo e rafforzare il controllo della mente. Questo periodo durava parecchi mesi, a volte addirittura anni, finché il Cavaliere non veniva giudicato abbastanza responsabile da poter usare la magia. Fino ad allora, nessun allievo sapeva di possedere quei poteri. Se uno di loro scopriva la magia per caso, veniva immediatamente allontanato dagli altri per ricevere un’istruzione privata. Era un caso molto raro» aggiunse, e fece un cenno verso Eragon. «anche se nessuno aveva mai subito le tue stesse pressioni.» «E come venivano addestrati a usare la magia, alla fine?» chiese Eragon. «Non vedo come si possa insegnare una cosa del genere. Se tu avessi tentato di spiegarmela un paio di giorni fa, non avrei capito niente.» «Gli allievi venivano sottoposti a una serie di inutili esercizi ideati al solo scopo di frustrarli. Per esempio, ordinavano loro di spostare un cumulo di pietre usando soltanto i piedi, oppure di riempire d’acqua dei secchi bucati, o altre cose impossibili. Alla fine, si arrabbiavano abbastanza da usare la magia. La maggior parte delle volte funzionava. «Il che significa» proseguì Brom «che ti troverai in svantaggio, dovessi mai incontrare un nemico che ha ricevuto questo tipo di addestramento. C’è ancora qualcuno in vita che è così vecchio: il re, tanto per cominciare, e ovviamente gli elfi. Chiunque di loro potrebbe farti a pezzi con facilità.» «E allora che cosa posso fare?» «Non è il momento per un’istruzione formale, ma possiamo fare qualcosa durante il viaggio» disse Brom. «Conosco diverse tecniche a cui potrai ricorrere per sviluppare forza e controllo, ma non puoi conquistare la disciplina dei Cavalieri dal giorno alla notte. Tu» scoccò a Eragon uno sguardo divertito «dovrai seguire un corso lampo. Sarà dura al principio, ma la ricompensa sarà enorme. Ti farà piacere sapere che nessun Cavaliere della tua età ha mai usato la magia come hai fatto tu ieri con quei due Urgali.» Eragon sorrise, lusingato. «Grazie. Questa lingua di cui parli ha un nome?» Brom rise. «Certo, ma nessuno lo conosce. Sarebbe una parola di un potere incredibile, qualcosa che ti permetterebbe di controllare la lingua e coloro che la usano. Da tempo immemorabile la gente lo cerca, ma nessuno l’ha mai scoperto.» «Ancora non capisco come funziona la magia» disse Eragon. «Come faccio a usarla?» Brom aggrottò la fronte, stupito. «Non è chiaro?» «No.» Il vecchio trasse un profondo respiro e disse: «Per adoperare la magia, devi possedere un certo potere innato, che di questi tempi è molto raro nelle persone. Devi anche essere in grado di evocare questo potere con la volontà. Una volta evocato, devi usarlo o lasciarlo dissolvere. Capito? Ora, se desideri usare il potere, devi pronunciare la parola o la frase dell’antica lingua che descrive le tue intenzioni. Per esempio, se ieri non avessi detto brisingr, non sarebbe successo niente.» «Perciò sono limitato dalla mia conoscenza di questa lingua?» . «Proprio così» esclamò Brom. «E sappi che nell’usarla è impossibile mentire.» Eragon scosse il capo. «Non può essere. La gente mente sempre. I suoni dell’antica lingua non possono impedire a nessuno di farlo.» Brom inarcò un sopracciglio e disse: «Fethrblaka, eka weohnata néiat haina ono. Blaka eom iet lam.» All’improvviso un uccello volò da uh ramo e atterrò sulla sua mano. Cinguettò allegramente e guardò entrambi con i suoi occhietti rotondi. Dopo un istante Brom disse «Eitha» e l’uccello volò via. «Come ci sei riuscito?» disse Eragon, colmo di meraviglia. «Ho promesso di non fargli del male. Forse non conosceva di preciso le mie intenzioni, ma nella lingua del potere, il significato delle mie parole era evidente. L’uccello si è fidato di me perché sa quello che sanno tutti gli animali, ossia che coloro che usano questa lingua sono vincolati alla parola data.» «Anche gli elfi la parlano?» «Certo.» «Quindi non mentono mai?» «Non proprio» ammise Brom. «Loro sostengono di non farlo, e in un certo senso è vero, ma col tempo hanno perfezionato l’arte di dire una cosa e intenderne un’altra. Non sai mai qual è il loro intento, o se lo hai interpretato correttamente. Il più delle volte rivelano soltanto una parte della verità e tacciono il resto. Occorre una mente raffinata e sottile per comunicare con la loro cultura.» Eragon riflette. «Che cosa significano i nomi propri in questa lingua? Conferiscono potere?» Gli occhi di Brom s’illuminarono di compiacimento. «Per l’appunto. Coloro che parlano la lingua hanno due nomi. Il primo è per l’uso quotidiano e ha poca autorità. Ma il secondo è il loro vero nome, che condividono con poche persone fidate. C’era un tempo in cui nessuno nascondeva il proprio vero nome, ma l’epoca attuale non lo consente. Chiunque conosca il tuo vero nome ha un enorme potere su di te. È come affidare la tua vita nelle mani di qualcun altro. Tutti abbiamo un nome segreto, ma pochi sanno quale sia.» «Come si fa a scoprire il proprio vero nome?» chiese Eragon. «Gli elfi lo conoscono per istinto. Nessun altro possiede questo dono. I Cavalieri umani intraprendevano una missione per scoprirlo... oppure trovavano un elfo che lo rivelava loro, ma era un’occasione rara, perché gli elfi non sono prodighi di conoscenza» rispose Brom. «Mi piacerebbe conoscere il mio» disse Eragon, pensoso. Brom si accigliò. «Bada. Potrebbe essere una conoscenza terribile. Sapere chi sei senza illusioni o compassione è un momento di rivelazione che nessuno sperimenta restando indenne. Alcuni impazziscono davanti alla pura verità. Quasi tutti cercano di dimenticarla. Ma per quanto il nome dia potere agli altri, anche tu conquisti potere su di te, se la verità non ti spezza.» E io sono sicura che non lo farà, disse Saphira. «Eppure vorrei tanto conoscerlo» disse Eragon, risoluto. «Non ti arrendi facilmente, eh? Bene, perché soltanto gli individui decisi trovano la propria identità. Ma in questo non posso aiutarti, È una ricerca che dovrai intraprendere da solo.» Brom mosse il braccio ferito e fece una smorfia. «Perché non possiamo ricorrere alla magia per guarirti?» domandò Eragon. Brom sospirò. «Non c’è una ragione particolare... è solo che non ho preso in considerazione l’idea perché va oltre le mie forze. Probabilmente tu potresti, con la parola giusta, ma non voglio stancarti.» «Potrei risparmiarti un sacco di dolore» protestò Eragon. «Saprò sopportare» disse Brom in tono piatto. «Usare la magia per guarire una ferita richiede tanta energia quanta ne occorre perché guarisca da sola. Non voglio che ti stanchi, nei prossimi giorni. Non sei ancora in grado di tentare una cosa così difficile.» «Mmm... Se posso guarirti il braccio, potrei anche riportare in vita i morti?» La domanda colse Brom di sorpresa, ma il vecchio si affrettò a rispondere: «Ricordi quello che ho detto sui piani che possono ucciderti? Questo è uno. Ai Cavalieri era proibito di risuscitare i morti per la loro stessa incolumità. C’è un abisso oltre la vita dove la magia non significa niente. Se ti espandi in esso, la tua forza ti abbandonerà e la tua anima svanirà nelle tenebre. Maghi, stregoni e Cavalieri... in tanti hanno tentato, e sono morti su quella soglia. Limitati al possibile: tagli, lividi, magari qualche osso rotto, ma i morti mai.» Eragon aggrottò la fronte. «È tutto molto più complicato di quanto pensassi» «Proprio così!» esclamò Brom. «E se non comprendi quello che stai facendo, potresti tentare qualcosa di superiore alle tue forze e morire.» Si girò sulla sella, si abbassò di fianco e raccolse tana manciata di ciottoli dalla strada. Con un grande sforzo si raddrizzò, poi scartò tutti i sassi, tranne uno. «Vedi questo ciottolo?» «Sì.» «Prendilo.» Eragon lo prese e fissò quel sassolino insignificante. Era grigio scuro, liscio, non più grande del polpastrello del suo pollice. Ce n’erano un’infinità come quello, sulla pista. «Questo è il tuo addestramento» disse Brom. Eragon lo guardò, confuso. «Non capisco.» «Chiaro» ribattè Brom, seccato. «Ecco perché sono io che insegno a te e non viceversa. Ora smettiamola di parlare, altrimenti non concluderemo niente. Voglio che tu sollevi il sasso dal tuo palmo e lo tenga sospeso in aria il più a lungo possibile.. Le parole che devi usare sono stenr reisa. Ripetile.» «Stenr reisa.» «Bene. Coraggio, prova.» Eragon si concentrò con tutte le forze sul ciottolo, frugando la propria mente in cerca di una minima scintilla di quell’energia che lo aveva animato il giorno prima. Il sasso rimase immobile sotto i suoi occhi, mentre il ragazzo sudava, frustrato. Come dovrei fare? Alla fine incrociò le braccia e sbottò: «È impossibile.» «No» replicò Brom irritato. «Lo dico io cosa è impossibile e cosa non lo è. Datti da fare! Non arrenderti così facilmente. Riprova.» Con la fronte aggrottata, Eragon chiuse gli occhi, svuotando la mente da ogni pensiero. Trasse un profondo respiro e cominciò a esplorare! più remoti recessi della propria coscienza, cercando di scoprire il centro del suo potere. Si districò fra pensieri e ricordi finché non avvertì qualcosa di diverso... una sorta di rigonfiamento che era parte di lui, eppure non lo era. Eccitato, cominciò a scavare per vedere che cosa nascondeva. Sentì una resistenza, una specie di barriera, ma sapeva che il potere si trovava dall’altra parte. Cercò di aprire una breccia, ma invano. Sempre più infuriato, Eragon premette contro la barriera con la forza di un ariete, finché quella non andò in frantumi come un pannello di vetro inondando la sua mente di un torrente di luce. «Stenr reisa» disse, ansante. Il ciottolo si librò in aria, oscillando sul suo palmo luccicante. Lottò per tenerlo sospeso, ma il potere si affievolì e scomparve di nuovo dietro la barriera. Il ciottolo gli ricadde sulla mano con un lieve tonfo, e il suo palmo tornò normale. Si sentiva stanco, ma sorrise per il successo. «Non male, per essere la prima volta» disse Brom. «Perché la mia mano fa così? Sembra una piccola torcia.» «Nessuno lo sa per certo» ammise Brom. «I Cavalieri preferivano sempre incanalare il potere attraverso la mano marchiata dal gedwéy ignasia. Puoi anche usare l’altra mano, ma non è altrettanto facile.» Scrutò Eragon per qualche istante. «Ti comprerò dei guanti nuovi nella prossima città che incontreremo, se non è stata distrutta. Sei riuscito a tenere nascosto il tuo marchio abbastanza bene, ma sarà meglio che nessun altro lo veda. Sai, potrebbero esserci occasioni in cui non vorrai che il suo bagliore metta in guardia un nemico.» «Anche tu hai un marchio?» «No. Soltanto i Cavalieri ce l’hanno» disse Brom. «Sappi inoltre che la magia viene influenzata dalla distanza, proprio come una freccia o una lancia. Se cerchi di sollevare o spostare qualcosa a un miglio di distanza, ti ci vorrà più energia che se fosse vicino. Perciò se vedi dei nemici accorrere da una lega di distanza, falli avvicinare prima di usare la magia. E adesso torniamo al lavoro! Cerca di far librare ancora quel ciottolo.» «Ancora?» fece Eragon debolmente, pensando allo sforzo che gli era costato farlo una sola volta. «Certo! E questa volta sii più svelto.» Continuarono con gli esercizi per quasi tutto il giorno. Quando finalmente la lunga lezione giunse al termine, Eragon era stanco e di malumore. In quelle ore era arrivato a odiare il sasso e tutto il resto. Fece per buttarlo, ma Brom lo bloccò. «Non farlo. Conservalo.» Eragon lo guardò furente, e riluttante si infilò il ciottolo in tasca. «Non abbiamo ancora finito» lo avvertì Brom. «perciò non metterti comodo.» Indicò una pianticella. «Questa si chiama delois.» E cominciò a istruire Eragon sull’antica lingua, recitando parole da memorizzare: da vondr, un ramoscello dritto e sottile, a Aieàailt la stella del mattino. Quella sera duellarono intorno al fuoco, Eragon usò la mano sinistra, ma le sue capacità non ne risentirono. I giorni si susseguivano sempre secondo lo stesso schema. Per prima cosa, Eragon si sforzava di imparare le antiche parole e di governare il ciottolo. La sera si allenava con Brom al gioco delle finte spade. Dopo i fallimenti dei primi giorni, via via, senza quasi accorgersene, le cose migliorarono. Il ciottolo non tremava più quando lo sollevava; una volta padroneggiati i facili esercizi che Brom gli aveva assegnato, ne intraprese di più difficili; e nel frattempo approfondiva la conoscenza dell’antica lingua. Con l’intensificarsi degli allenamenti, Eragon acquistò sicurezza e agilità, e imparò a muoversi con la rapidità di un serpente. I suoi colpi divennero più pesanti, e il braccio non gli tremava più quando parava gli attacchi. I duelli duravano di più via via che imparava a difendersi da Brom. Quando si coricavano, Eragon non era l’unico a massaggiarsi i lividi. Saphira continuava a crescere, ma più lentamente di prima. I voli prolungati, insieme alle battute di caccia, la mantenevano sana e in forma. Era più alta dei cavalli, adesso, e più lunga. A causa delle sue dimensioni e del brillio delle sue squame, era fin troppo visibile. Brom ed Eragon erano preoccupati, ma non riuscirono a convincerla a oscurare con la polvere la sua corazza scintillante. Proseguirono verso sud, seguendo le tracce dei Ra’zac. Eragon si sentiva deluso per il fatto che, per quanto andassero spediti, i Ra’zac erano sempre in vantaggio di qualche giorno. A volte pensava di mollare tutto, ma poi trovavano qualche segno, un’impronta che rinnovava la speranza. I tre compagni non incontrarono abitazioni o borghi lungo il Ninor o nelle pianure, e viaggiarono indisturbati mentre i giorni passavano. Alla fine si avvicinarono a Daret, il primo villaggio da quando avevano lasciato Yazuac. La notte prima di raggiungere il villaggio, i sogni di Eragon furono particolarmente vividi. Vide Garrow e Roran a casa, seduti nella cucina distrutta. Gli chiesero di aiutarli a ricostruire la fattoria, ma lui scosse la testa, il cuore stretto in una morsa di struggimento. «Sto inseguendo i tuoi assassini» mormorò allo zio. Garrow lo guardò di traverso e gli disse: «Ti sembro morto?» «Non posso aiutarti» disse Eragon dolcemente, con le lacrime agli occhi. Ci fu un improvviso ruggito, e Garrow si trasformò nei Ra’zac. «Allora muori» sibilarono, e si scagliarono su di lui. Il ragazzo si svegliò in preda alla nausea e rimase lì a contemplare il lento viaggio delle stelle nel cielo nero. Andrà tutto bene, piccolo, disse Saphira. 21 Daret Daret era stato costruito sulle rive del Ninor, una posipione strategica per poter sopravvivere. Il villaggio era piccolo e selvaggio, e non videro traccia di abitanti. Eragon e Brom si avvicinarono con grande cautela, Saphira si nascose vicino alle case, questa volta: se ci fossero stati problemi, sarebbe giunta al loro fianco in pochi secondi. Entrarono a Daret più silenziosi che potevano. Brom stringeva la spada nella mano sana, lo sguardo che guizzava da un lato e dall’altro, Eragon teneva l’arco pronto mentre passavano tra le case silenziose, scambiandosi occhiate apprensive. Non mi piace, commentò Eragon rivolto a Saphira. Lei non rispose, ma il ragazzo la sentì prepararsi ad accorrere. Abbassò lo sguardo sul terreno e si sentì sollevato nel vedere orme di bambini. Ma dove sono? Brom s’irrigidì quando arrivarono al centro del villaggio e lo trovarono deserto. Il vento soffiava per la città desolata, sollevando mulinelli di sabbia. Brom fece voltare Fiammabianca. «Andiamo via. Ho un brutto presentimento.» Spronò il cavallo al galoppo, ed Eragon lo imitò con Cadoc. Non avevano percorso che un breve tratto quando dietro le case sbucarono dei carri, sbarrando loro la strada. Cadoc sbuffò e si arrestò di botto accanto a Fiammabianca. Un uomo dalla carnagione scura saltò giù dal primo carro e si parò davanti a loro, uno spadone lungo il fianco, un arco incordato in pugno. Eragon alzò il proprio arco e mirò allo straniero, che gridò: «Alt! Deponete le armi. Siete circondati da sessanta arcieri. Se fate una mossa, siete morti.» A quelle parole, dai tetti delle case si affacciarono molti uomini armati. Resta dove sei, Saphira! gridò Eragon. Sono in troppi Se vieni, ti abbatteranno. Sta’ lontana! Lei lo udì, ma Eragon non era sicuro che gli avrebbe obbedito. Si preparò a usare la magia. Devo fermare le frecce prima che colpiscano me o Brom. «Che cosa volete?» domandò Brom in tono calmo. «Perché siete qui?» ribatte l’uomo. «Per comprare provviste e conoscere le novità. Nient’altro. Stiamo andando a trovare mio cugino a Dras-Leona.» «Siete armati di tutto punto.» «Anche voi» disse Brom. «Questi sono tempi difficili.» «Vero.» L’uomo li scrutò attentamente. «Non credo che abbiate cattive intenzioni, ma girano troppi Urgali e altra feccia perché mi possa fidare solo della vostra parola.» «Ma se la nostra parola non basta, allora che cosa si fa?» replicò Brom. Gli uomini sui tetti non si erano mossi; Eragon giudicò che fossero molto disciplinati, o spaventati a morte. Sperava che fosse vera la seconda ipotesi. «Avete detto che volete soltanto delle provviste. Acconsentite a restare qui mentre vi portiamo ciò che vi occorre, per poi pagarci e andarvene immediatamente?» «Sì.» «D’accordo» disse l’uomo, e abbassò l’arco. Fece un cenno a uno degli arcieri, che balzò giù dal tetto e corse . verso di loro. «Ditegli che cosa vi serve.» Brom recitò una breve lista e aggiunse: «Inoltre, se avete un paio di guanti di riserva che possano andare bene a mio nipote, sarò lieto di comprare anche quelli.» L’arciere annuì e si dileguò. «Il mio nome è Trevor» disse l’uomo davanti a loro. «In circostanze normali vi stringerei la mano, ma poiché queste non lo sono, credo che mi terrò a distanza. Ditemi, da dove venite?» «Da nord» rispose Brom. «ma non abbiamo mai vìssuto in un posto abbastanza a lungo da chiamarlo casa. Sono stati gli Urgali a costringervi ad adottare queste misure?» «Già» disse Trevor. «e nemici ancora peggiori. Avete notizie delle altre città? Noi ne riceviamo di rado, ma sappiamo che molte sono state assaltate.» Brom si fece scuro in volto. «Vorrei non dover essere io a portarti questa notizia. Una quindicina di giorni fa siamo passati da Yazuac e l’abbiamo trovata devastata. Gli abitanti erano stati massacrati e i cadaveri ammassati in una pila. Volevamo dar loro una degna sepoltura, ma due Urgali ci hanno attaccati.» Sgomento. Trevor fece un passo indietro, con le lacrime agli occhi. «Ahimè, questo è proprio un triste giorno, Eppure non capisco come due soli Urgali abbiano potuto fare scempio di tutta Yazuac. I suoi abitanti erano combattenti valorosi... alcuni erano amici miei.» «Le tracce indicavano che un’intera banda di Urgali aveva saccheggiato la città» disse Brom. «Credo che quelli che abbiamo incontrato fossero disertori.» «Quanti erano?» Brom armeggiò con le bisacce per qualche istante. «Tanti da annientare Yazuac, ma abbastanza pochi da passare inosservati nella campagna. Direi non più di cento, e non meno di cinquanta. In qualunque caso, voi siete in pericolo.» Trevor annuì tristemente. «Dovreste prendere in considerazione l’idea di partire» continuò Brom. «Questa regione è diventata troppo pericolosa per viverci in pace.» «Lo so, ma la gente di qui si rifiuta di muoversi. Questa. è casa loro... ed è casa mia, anche se vivo qui solo da un paio d’anni... e loro la considerano più importante della vita.» Trevor lo guardò con aria seria. «Abbiamo respinto gli Urgali, uno alla volta, e questo ha dato agli abitanti una sicurezza che va al di là delle loro vere capacità. Temo che un giorno ci sveglieremo con le gole tagliate.» L’arciere uscì di corsa da una casa, con le braccia cariche di provviste. Le posò accanto ai cavalli, e Brom lo pagò. Mentre l’uomo si allontanava. Brom chiese: «Perché hanno scelto te per difendere Daret?» Trevor si strinse nelle spalle. «Per alcuni anni sono stato nell’esercito del re.» Brom rovistò fra gli oggetti, porse un paio di guanti a Eragon e infilò il resto delle provviste nelle bisacce. Eragon si infilò i guanti, stando attento a tenere il palmo rivólto verso basso, e flette le mani per saggiarli. La pelle era morbida e resistente, anche se graffiata dall’uso. «Bene» disse Brom. «come promesso, ce ne andiamo subito.» Trevor annuì. «Quando arrivate a Dras-Leona, mi fareste una cortesia? Avvertite l’Impero delle nostre disgrazie e di quelle delle altre città. Se il re non ha ancora saputo niente di tutto questo, c’è di che preoccuparsi. Se lo ha saputo, ma ha scelto di non fare niente, c’è di che preoccuparsi ugualmente.» «Porteremo il tuo messaggio. Che la tua spada resti affilata» disse Brom. «Così la tua.» I carri vennero spostati, e i due cavalcarono fuori da Daret, verso gli alberi lungo il Ninor. Eragon passò i suoi pensieri a Saphira. Stiamo tornando, È andato tutto bene. L’unica risposta della dragonessa fu un moto di rabbia. Brom si accarezzò la barba. «L’Impero è in condizioni peggiori di quanto immaginassi. Quando gli erranti sono passati per Carvahall, hanno riportato notizie di tensioni, ma non avrei mai créduto che fossero così diffuse. Con tutti questi Urgali in giro, pare che l’Impero stesso sia assediato, eppure non sono state inviate truppe. È come se al re non importasse di difendere il proprio dominio.» «È strano» convenne Eragon. Brom chinò il capo per passare sotto un ramo basso. «Hai usato i tuoi poteri mentre eravamo a Daret?» «Non c’era ragione di farlo.» «Sbagliato» disse Brom. «Avresti potuto sondare le intenzioni di Trevor. Perfino con le mie limitate capacità, io sono riuscito a farlo. Se quella gente avesse avuto davvero intenzione di ucciderci, non me ne sarei restato seduto in sella tranquillo. Tuttavia ho avvertito una ragionevole probabilità di cavarcela parlando, cosa che ho fatto.» «Come facevo a sapere che cosa pensava Trevor?» disse Eragon. «Dovrei essere capace di leggere la mente delle persone?» «Andiamo» lo canzonò Brom. «ormai dovresti conoscere la risposta. Avresti potuto scoprire le intenzioni di Trevor così come comunichi con Cadoc o Saphira. Le menti degli uomini non sono poi così diverse da quelle di un drago o di un cavallo, È una cosa semplice da fare, ma è un potere che bisogna usare con parsimonia e grande cautela. La mente di una persona è il suo ultimo santuario. Non devi mai violarlo, a meno che le circostanze non te lo impongano. I Cavalieri avevano regole molto severe al riguardo. Se venivano infrante senza giusta causa, la punizione era terribile.» «E tu puoi farlo anche se non sei un. Cavaliere?» domandò Eragon. «Come ho già detto, con l’adeguata istruzione, tutti possono comunicare con la propria mente, anche se a differenti livelli di abilità. Se anche questa sia magia... Be’, è difficile stabilirlo. È chiaro che possedere capacità magiche aiuta il processo, come anche legarsi a un drago, ma conosco parecchi che hanno imparato da solii Pensaci: puoi comunicare con ogni essere, anche se magari il contatto non è del tutto chiaro. Puoi passare tutto il giorno ad ascoltare i pensieri di un uccello o provare le sensazioni di un verme durante un acquazzone. Devo ammettere però che non ho mai trovato gli uccelli particolarmente interessanti. Ti suggerisco di cominciare con un gatto; hanno personalità davvero insolite.» Eragon si rigirò fra le mani le redini di Cadoc, riflettendo sulle implicazioni di quanto aveva detto Brom. «Ma se posso entrare nella testa di qualcuno/ questo significa che gli altri possono fare altrettanto con me? Come faccio a sapere se qualcuno mi sta spiando la mente? C’è modo di impedirlo?» Come faccio a sapere se Brom può indovinare quello che sto pensando in questo momento? «Be’ sì. Saphira non ti ha mai tenuto fuori dalla sua mente?» «È capitato» ammise Eragon. «Quando mi ha portato sulla Grande Dorsale, non riuscivo a parlarle. Non che mi stesse ignorando; credo che non mi sentisse proprio. La sua mente era circondata da mura impenetrabili.» Brom si sistemò meglio la fasciatura sul braccio, aggiustandola, verso l’alto. «Soltanto poche persone sanno capire se c’è qualcuno nella loro mente, e fra queste, soltanto pochissime riescono a impedire l’accesso. È una questione di allenamento e di modo di pensare. Grazie ai tuoi poteri magici, saprai sempre se c’è qualcuno nella tua mente. Quando te ne sarai accorto, bloccarlo sarà una semplice questione di concentrazione, per escludere tutto il resto. Per esempio, se pensi solo a un muro di mattoni, il tuo nemico troverà solo quello nella tua mente. Tuttavia occorre un’enorme quantità di energia e disciplina per bloccare a lungo qualcuno. Se sei distratto anche dalla minima cosa, il tuo muro vacillerà e il tuo avversario farà breccia nel punto debole.» «Come faccio a imparare?» disse Eragon. «C’è soltanto un modo: allenarsi, allenarsi e poi allenarsi. Immagina qualcosa e prova a pensare solo a quello, escludendo tutto il resto, il più a lungo possibile. È una capacità molto avanzata; soltanto pochi sanno padroneggiarla» disse Brom. «Non mi serve la perfezione, ma la sicurezza.» Se posso entrare nella mente di qualcuno, posso anche fargli cambiare idea? Ogni volta che scopro qualcosa di nuovo sulla magia, divento sempre più sospettoso. Quando raggiunsero Saphira, la dragonessa li sorprese facendo scattare la testa in avanti. I cavalli indietreggiarono nervosi. Saphira squadrò Eragon con occhi di ghiaccio ed emise un sordo sibilo. Eragon scoccò a Brom uno sguardo preoccupato: non aveva mai visto Saphira così arrabbiata. Le chiese: Qualcosa non va? Tu, ringhiò lei. Sei tu il problema. Eragon aggrottò la fronte e smontò da Cadoc. Non appena i suoi piedi ebbero toccato terra, Saphira gli fece lo sgambetto con la coda e lo inchiodò al suolo con una zampa. «Che cosa fai?» urlò il ragazzo, cercando di alzarsi: ma la dragonessa era troppo forte per lui. Brom li osservava attento dalla groppa di Fiammabianca. Saphira abbassò la testa fino a trovarsi faccia a faccia con Eragon. Il ragazzo si fece piccolo piccolo sotto quello sguardo implacabile. Tu! Ogni volta che sparisci dalla mia vista, ti metti nei guai. Sei come un cucciolo, che ficca il naso dappertutto. Ma che cosa succede se ficchi il naso dove non devi? Come farai a sopravvivere? Non posso aiutarti quando sono a miglia di distanza. Sono rimasta sempre nascosta per non farmi vedere, ma adesso basta! Non lo farò più, perché potrebbe costarti la pelle! Capisco perché sei sconvolta, disse Eragon, ma sono molto più grande di te e so badare a me stesso. Guarda che sei tu quella che ha bisogno di protezione. La dragonessa arricciò le labbra e fece schioccare i denti. Lo credi davvero? disse. Domani cavalcherai me e non quello stupido ronzino, altrimenti ti porterò fra le mie grìnfie. Sei o no un Cavaliere dei Draghi? Non t’importa niente di me? La domanda bruciò dentro Eragon, che abbassò lo sguardo. Sapeva che la dragonessa aveva ragione, ma aveva paura di cavalcarla. I loro voli erano stati l’impresa più dolorosa che avesse mai sopportato. «Che cosa succede?» chiese Brom. «Vuole che domani cavalchi lei» disse Eragon, sconfortato. Gli occhi di Brom scintillarono. «Be’, ora hai una sella. Tutto sommato, se volate lontani, non dovrebbero esserci problemi.» Saphira spostò rapida lo sguardo sul vecchio; poi tornò a fissare Eragon. «Ma se vieni aggredito o ti accade un incidente? Non riuscirò ad arrivare in tempo e...» Saphira premette la zampa sul suo torace con maggior forza, bloccandogli le parole in gola. È proprio questo il punto, ragazzo. Brom represse un sorriso. «Vale la pena di rischiare. Ormai è tempo che tu impari a cavalcarla. Mettiamola così: sorvolando il territorio davanti a me, potrai individuare trappole, agguati o altre sgradite sorprese.» Eragon guardò Saphira e disse: D’accordo, lo farò. Ma adesso lascia che mi alzi. Dammi la tua parola. È proprio necessario? chiese il ragazzo. La dragonessa lo fissò in silenzio. Va bene. Ti do la mia parola che domani volerò con te. Contenta? Sì. Saphira lo lasciò andare e con una spinta delle zampe spiccò il volo. Eragon avvertì un lieve brivido guardandola salire a spirale. Borbottando, tornò da Cadoc per seguire Brom. Era quasi il tramonto quando prepararono il bivacco. Come al solito, prima di cena Eragon e Brom duellarono. Nel bel mezzo della lotta, Eragon sferrò un colpo tanto violento che entrambi i bastoni si spezzarono come ramoscelli. I pezzi volarono nel buio in una nuvola di schegge. Brom gettò ciò che restava del suo bastone nel fuoco e disse: «Con questi abbiamo chiuso; butta anche il tuo. Hai imparato bene, ma di più non possiamo fare con quei poveri legni. Non possono insegnarti altro. È arrivato il momento di usare le lame.» Estrasse Zar’roc dalla sacca di Eragon e gliela porse. «Ma così ci faremo male sul serio» protestò Eragon. «No. Dimentichi ancora la magia» disse Brom. Alzò la sua spada e la fece girare, così che la luce del falò si riflette sulla lama. Posò un dito su ciascun lato della lama e si concentrò a fondo, la fronte solcata da rughe profonde. Per un momento non successe nulla, poi il vecchio esclamò «Géuloth du knìfr!» e una piccola scintilla rossa balenò fra le sue dita. Mentre la scintilla tremolava. Brom fece scorrere le dita lungo la lama della spada. Poi’ la girò e fece lo stesso dall’altro lato. La scintilla svanì nel momento stesso in cui il vecchio tolse le dita dal metallo. Brom tese la mano con il palmo rivolto verso l’alto e vi passò sopra la spada. Eragon scattò in avanti per fermarlo, ma fu troppo lento. Rimase di stucco quando Brom sorrise e gli mostrò la mano intatta. «Come hai fatto?» chiese il ragazzo. «Toccala» disse Brom. Eragon sfiorò il taglio della lama e sentì una superficie invisibile sotto le dita. La barriera era spessa un quarto di pollice e molto scivolosa. «Fa’ lo stesso su Zar’roc» gli disse Brom. «La tua protezione sarà un po’ diversa dalla mia, ma il risultato sarà lo stesso.» Insegnò a Eragon la pronuncia corretta delle parole e lo guidò nel procedimento. Dopo qualche tentativo a vuoto, finalmente Eragon riuscì a neutralizzare la potenza della lama. Spavaldo, assunse la posizione di combattimento. Prima di cominciare. Brom lo ammonì. «Queste spade non tagliano, ma possono sempre spezzare le ossa. Preferirei evitarlo: perciò non agitare troppo le braccia come fai sempre. Un colpo sul collo potrebbe rivelarsi fatale.» Eragon annuì, poi si slanciò senza preavviso. Quando Brom parò l’assalto, le spade cozzarono con fragore, sprizzando scintille. La spada era lenta e pesante per Eragon, che si era abituato a duellare con i bastoni. Incapace di brandire Zar’roc con la dovuta scioltezza, ricevette un duro colpo sul ginocchio. Alla fine, entrambi ostentavano grossi lividi, Eragon più di Brom. Guardò Zar’roc e si stupì nel notare che nella lotta non era rimasta minimamente scalfitta. 22 Con gli occhi di un drago Il mattino dopo, Eragon si svegliò tutto indolenzito, coperto di lividi violetti. Vide Brom che trascinava la sella verso Saphira sforzandosi di mascherare la propria stanchezza. Mentre Eragon preparava la colazione. Brom legò la sella sul dorso di Saphira e le bisacce di Eragon. Vuotata la scodella, Eragon prese in silenzio il suo arco e si avvicinò a Saphira. Brom disse: «Ricorda: tieni le ginocchia strette, guidala con i tuoi pensieri, e piegati in avanti il più possibile. Andrà tutto bene, se non ti farai prendere dal panico.» Eragon annuì e infilò l’arco nella custodia di pelle. Brom lo aiutò a montare in sella. Saphira attese paziente che Eragon si legasse le cinghie intorno alle gambe. Pronto? gli chiese. Eragon inspirò a fondo l’aria fresca del mattino. No, ma andiamo! Lei annuì, entusiasta. Eragon si fece coraggio mentre la dragonessa prendeva lo slancio. Le sue zampe potenti scattarono verso l’alto e l’aria sferzò il viso del ragazzo, mozzandogli il fiato. Con tre rapidi battiti d’ali, Saphira prese quota e cominciò a salire sempre più in alto. L’ultima volta che Eragon l’aveva cavalcata, Saphira aveva faticato a ogni gesto. Quel giorno invece volava serena, senza sforzo. Lui le strinse le braccia intorno al collo, mentre la dragonessa virava inclinandosi. Il fiume rimpicciolì fino a diventare una sottile linea grigia sotto di loro. Tutt’intorno fluttuavano le nuvole. Quando ebbero preso un’andatura regolare in alto sopra le pianure, gli alberi non erano ormai che minuscoli puntini. L’aria era fredda, rarefatta e limpidissima. «È meravi...» Le parole morirono in gola a Eragon quando Saphira s’inclinò bruscamente e fece un giro completo su se stessa. Terra e cielo si scambiarono di posto in un turbinio terrificante e il ragazzo ebbe un attacco di vertigini. «Non farlo più!» strillò. «Mi sembrava di cadere.» Devi farci l’abitudine. Se vengo attaccata in volo, questa è una delle manovre più semplici, rispose lei. Eragon non seppe ribattere, e si rassegnò a tenere sotto controllo lo stomaco. Saphira fece una lenta planata per avvicinarsi a terra. Anche se la pancia gli faceva le capriole a ogni sobbalzo, Eragon cominciava a divertirsi. Rilassò appena le braccia e tese il collo all’indietro per contemplare il panorama. Saphira lasciò che si godesse lo spettacolo, poi disse: Adesso ti mostro che cosa significa volare davvero. Come? fece luì. Stai tranquillo e non avere paura, disse lei. La mente di lei attirò quella di lui, risucchiandola dal corpo. Per un momento Eragon provò l’impulso di resistere; poi si arrese. La vista gli si annebbiò, e si ritrovò a guardare attraverso gli occhi della dragonessa. Tutto era distorto: i colori avevano sfumature strane ed esotiche; dominavano i blu, mentre i verdi e i rossi erano più pallidi. Eragon provò a girare la testa e il corpo, ma non ci riuscì. Si sentiva come un fantasma scivolato fuori dall’etere. Gioia pura irradiava da Saphira mentre puntava verso il cielo, esprimendo nel volo l’amore sconfinato per quella libertà speciale, la libertà di poter andare ovunque.. Quando furono molto in alto, si voltò a guardare Eragon. Lui vide se stesso aggrappato al collo di lei, con gli occhi spenti. Sentiva il corpo della dragonessa tendersi contro l’aria, pronto ad affidarsi alle correnti per salire. Tutti i muscoli di lei gli sembravano i propri. Avvertì la coda di Saphira sferzare l’aria come un gigantesco timone per correggere la rotta, e rimase sorpreso nello scoprire quanto fosse importante per lei. L’intesa tra le due creature divenne tanto forte da cancellare qualunque distinzione fra l’uno e l’altra. Ridussero l’apertura alare e caddero in picchiata, come una lancia scagliata dal cielo. La paura di precipitare questa volta non sfiorò neppure Eragon, preso com’era dall’esaltazione di Saphira. Il vento scorreva su di loro, la coda guizzava nell’aria, le menti gioivano, unite in quell’ineffabile esperienza. Anche quando si tuffarono verso il terreno, non temettero nemmeno per un istante di schiantarsi. Aprirono le ali con uno schiocco al momento giusto, frenando la picchiata con la loro forza congiunta. Puntarono verso il cielo e tracciarono un gigantesco arco nell’aria. Quando ripresero l’assetto normale, le loro menti cominciarono a dividersi. Dragonessa e ragazzo furono di nuovo due personalità distinte. Per una frazione di secondo, Eragon avvertì ad un tempo il proprio corpo e quello. di Saphira. Poi la vista gli si annebbiò di nuovo e si ritrovò seduto in sella.. dove si accasciò, senza fiato. Ci volle qualche minuto perché il suo cuore smettesse di martellare e il respiro si calmasse. Ripreso fiato, disse: È stato eccezionale! Come fai ad atterrare quando volare è così bello? Devo pur mangiare, rispose lei con una punta di divertimento. Ma sono lieta che sia piaciuto anche a te. Piaciuto? È una ben misera parola per descrivere un’esperienza simile. Sai, ora mi pento di non aver volato di più con te; non avrei mai pensato che potesse essere così. Vedi sempre tanto blu? Così sono fatta. Voleremo insieme più spesso, adesso? Sì! Ogni volta che potremo. Bene, rispose lei, soddisfatta. Si scambiarono molti pensieri mentre volavano, parlando come non facevano da settimane. Saphira gli mostrò come usava le colline e i boschi per nascondersi e come sfruttava l’ombra delle nuvole per mimetizzarsi. Perlustrarono il tragitto per Brom, un compito che si rivelò più arduo del previsto. Non potevano scorgere il sentiero finché Saphira non si abbassava, e in quel caso rischiavano di essere scoperti. Intorno a mezzogiorno, Eragon avvertì un fastidioso ronzio nelle orecchie, e si rese conto di una strana pressione nella mente. Scosse il capo, nel tentativo di liberarsene, ma la tensione si fece più forte. Gli tornarono alla memoria le parole di Brom su come una persona poteva entrare nella mente altrui, e così cercò disperatamente di sgomberare la testa. Si concentrò su una delle squame di Saphira e si costrinse a ignorare tutto il resto. La pressione si affievolì per un momento; poi tornò, più potente di prima. Una corrente improvvisa fece sbandare Saphira, ed Eragon perse la concentrazione. Prima che potesse erigere una nuova difesa, la forza irruppe. Ma invece della presenza invadente di un’altra mente, sentì soltanto queste parole: Che cosa credete di fare lassù? Scendete immediatamente. Ho trovato qualcosa d’importante. Brom? chiese Eragon. Già, rispose il vecchio, irritato. Adesso fai atterrare quella lucertola troppo cresciuta, lo sono qui... Gli inviò un’immagine della sua posizione. Eragon si affrettò a spiegare a Saphira dove andare, e la dragonessa virò verso il fiume di sotto. Nel frattempo, Eragon preparò l’arco e un certo numero di frecce. Se Brom è nei guai, sono pronto. Anch’io, disse Saphira. Eragon trovò Brom che agitava le braccia al centro di una radura. Saphira atterrò, ed Eragon smontò in. fretta, guardandosi intorno in cerca di pericoli. I cavalli erano legati a un albero ai margini della radura, ma Brom era solo, Eragon si avvicinò al vecchio e gli chiese: «Che cosa succede?» Brom si grattò il mento e borbottò una serie di imprecazioni. «Non provare mai più a bloccarmi in quel modo. Già è difficile per me raggiungerti senza dover anche lottare per farmi sentire.;» «Scusami.» Il vecchio sbuffò. «Ero più a valle, lungo il fiume, quando ho notato che le tracce dei Ra’zac erano scomparse. Sono tornato indietro finché non ho trovato il punto dove scomparivano. Guarda il terreno e dimmi che cosa vedi.» Eragon s’inginocchiò per esaminare il terreno e trovò una confusione di impronte difficili da decifrare. Numerose’ orme di Ra’zac si sovrapponevano. Eragon si disse che le tracce dovevano essere vecchie di pochi giorni. Sopra di esse c’erano lunghi solchi profondi. Sembravano familiari, ma Eragon non seppe dire perché. Si alzò, scuotendo il capo. «Non ho idea di cosa...» Poi il suo sguardo cadde su Saphira, e capì all’istante che cosa aveva lasciato quei solchi. Ogni volta che la dragonessa si alzava in volo, gli artigli delle zampe posteriori affondavano nel terreno e lo dilaniavano allo stesso modo. «Non sembra probabile, eppure l’unica spiegazione che mi viene in mente è che i Ra’zac se ne siano andati a dorso di drago. Oppure hanno uccelli giganteschi su cui sono volati in cielo. Tu hai qualche altra ipotesi?» Brom si strinse nelle spalle. «Ho sentito dire che i Ra’zac si spostano da un luogo all’altro a una velocità incredibile, ma questa è la prima volta che lo vedo con i miei occhi. Sarà impossibile trovarli, se hanno delle cavalcature volanti. Di una cosa sono sicuro però: non sono draghi. Un drago non accetterebbe mai di essere cavalcato da un Ra’zac» «Che cosa facciamo? Saphira non può seguire le loro tracce in cielo. E se anche potesse, ti lasceremmo indietro.» «Non c’è facile soluzione a questo problema» disse Brom. «Pensiamoci mentre pranziamo. Magari ci verrà un’ispirazione, tra un boccone e l’altro.» Eragon si avviò mestamente a prendere i viveri dalle bisacce. Mangiarono in silenzio, gli occhi rivolti al cielo sereno. Ancora una volta Eragon pensò a casa e si chiese che cosa stesse facendo Roran. Gli apparve la visione di una fattoria, bruciata e il dolore minacciò di travolgerlo. Che cosa farò se non trovo i Ra’zac? Quale sarà il mio scopo, allora? Potrei tornare a Carvahall raccolse un ramoscello da terra e lo spezzò in due tra le dita oppure viaggiare con Brom e continuare il mio addestramento. Eragon contemplò le pianure, sperando di riuscire ad acquietare il tumulto dei propri pensieri. Quando Brom finì di mangiare, si alzò e abbassò il cappuccio. «Ho ripassato tutti i trucchi che conosco, tutte le parole di potere che sono alla mia portata, e considerato tutte le capacità a nostra disposizione, ma ancora non riesco a trovare il modo di rintracciare i Ra’zac.» Eragon si abbandonò contro Saphira, scoraggiato. «Saphira potrebbe farsi vedere in qualche città. Questo attirerebbe i Ra’zac come mosche intorno al miele. Ma sarebbe estremamente rischioso. I Ra’zac porterebbero con sé i soldati, e il re potrebbe dimostrarsi abbastanza interessato da venire di persona, il che vorrebbe dire morte certa per te e per me.» «E dunque?» disse Eragon, allargando le braccia. Tu hai qualche idea, Saphira? No. «Dipende da te» disse Brom. «È la tua missione.» Eragon digrignò i denti con rabbia e si allontanò da Brom e da Saphira. Stava per addentrarsi fra gli alberi, quando il suo piede urtò qualcosa di duro. Sul terreno c’era una fiaschetta di metallo con una cinghia di cuoio lunga abbastanza da passare sulla spalla di qualcuno. Su di essa era impresso un simbolo d’argento che Eragon riconobbe come l’insegna dei Ra’zac. Eccitato, raccolse la fiaschetta e ne svitò il tappo. Un odore nauseabondo si sparse nell’aria, lo stesso che aveva annusato quando aveva trovato Garrow fra le macerie della loro casa. Inclinò la fiaschetta e una goccia di liquido chiaro e lucente gli cadde sul polpastrello. All’istante, il dito di Eragon bruciò come se l’avesse messo su una fiamma. Urlò e strofinò la mano sul terreno. Dopo un istante, il dolore calò, fino a diventare un sordo pulsare. Il liquido gli aveva corroso una chiazza di pelle. Scuro in volto, tornò in fretta da Brom. «Guarda che cosa ho trovato.» Brom prese la fiaschetta per esaminarla, poi versò un po’ di liquido nel tappo. Eragon fece per avvertirlo: «Attento, ti brucerà...» «La pelle, lo so» disse Brom. «Immagino che te lo sia versato sulla mano. Solo il dito? Bene, almeno hai avuto il buonsenso di non berlo. Di te non sarebbe rimasta che una pozzanghera melmosa.» «Cos’è?» domandò Eragon. «Un olio, estratto dai petali della Seithr, una pianta che cresce su una piccola isola nei freddi mari settentrionali. Allo stato naturale, quest’olio viene usato per preservare le perle; le rende lustre e resistenti. Ma se vengono pronunciate particolari parole su quest’olio, insieme a un sacrificio di sangue, esso acquista la proprietà di devastare la carne. Questa non sarebbe una caratteristica tanto particolare: esistono un’infinità di acidi in grado di dissolvere muscoli e ossa. Solo che quest’olio lascia tutto il resto intatto. Puoi immergervi qualunque cosa ed estrarla integra, a meno che non facesse parte di un animale o di un essere umano. Questo lo rende uno strumento ideale per la tortura o l’omicidio. Si può conservare nel legno, intingervi la punta di una lancia, o lasciarlo gocciolare sulle lenzuola affinchè la persona che le tocca bruci viva. Ci sono una miriade di usi per quest’olio, limitati soltanto dall’inventiva di chi lo utilizza. Le ferite che provoca sono lente a guarire, È piuttosto raro e costoso, specie in questa forma alterata.» Eragon rammentò le terribili ustioni che aveva visto sul corpo di Garrow, Ecco che cosa hanno usato su di lui, capì con orrore. «Mi chiedo perché i Ra’zac lo abbiano lasciato indietro, se è così prezioso.» «Devono averlo perso mentre volavano via.» «Ma perché non sono tornati indietro a prenderlo? Dubito che il re li perdonerà quando scoprirà questa mancanza.» «Giusto» disse Brom. «ma li perdonerebbe ancora meno se tardassero a portargli tue notizie. Sta’ sicuro che se i Ra’zac lo hanno raggiunto, il re ora conosce il tuo nome. E questo vuoi dire che dobbiamo stare molto più attenti quando entriamo in una città. Ci saranno messaggi che ti riguardano affissi in tutto l’Impero.» Eragon tacque per riflettere. «Quest’olio... quanto è raro, di preciso?» «Quanto un diamante in un porcile» rispose Brom, asciutto. Poi aggiunse, con maggiore dolcezza: «In realtà quest’olio viene usato soprattutto dai gioiellieri, ma solo da coloro che se lo possono permettere.» «Perciò esistono dei commercianti che lo vendono?» «Forse uno, al massimo due.» «Bene» disse Eragon. «Secondo te, le città costiere tengono i registri delle spedizioni?» Gli occhi di Brom s’illuminarono. «Naturalmente! Se riusciamo a controllare quei registri, scopriremo chi ha portato l’olio a sud e che direzione ha preso.» «E il registro degli acquisti dell’Impero ci dirà dove vivono i Ra’zac!» concluse Eragon. «Non so quante persone possono permettersi quest’olio, ma credo che sia difficile trovarne anche solo una che non lavori per l’Impero.» «Geniale!» esclamò Brom con un sorriso. «Vorrei averci pensato io anni fa; mi sarei risparmiato un sacco di grattacapi. La costa è disseminata di città e villaggi dove le navi possono attraccare. Suppongo che Teirm sia la località più adatta per cominciare, dato che controlla la maggior parte dei commerci.» Brom fece una pausa. «Per quanto ne so, il mio vecchio amico Jeod si è stabilito lì. Non ci vediamo da parecchi anni, ma sono sicuro che ci aiuterà, E dato che è un mercante, è possibile che abbia accesso a quei registri.» «Come arriviamo a Teirm?» «Dobbiamo procedere in direzione sudovest finché non raggiungiamo un valico sulla Grande Dorsale. Una volta superato il passo, seguiremo la costa fino a Teirm» disse Brom. Una brezza leggera gli scompigliò i capelli. «Ce la facciamo a raggiungere il passo in una settimana?» «Sicuro. Se ci allontaniamo dal Ninor verso destra, riusciremo a vedere le montagne per domani.» Eragon si avvicinò a Saphira e le montò in sella. «Ci vediamo a cena, allora.» Quando furono a una certa altezza, disse: Domani monterò Cadoc. Prima che tu possa protestare sappi che lo faccio solo perché voglio parlare con Brom. Dovresti cavalcare con lui un giorno sì e uno no. Così potrai continuare a ricevere la tua istruzione, e io avrò tempo di andare a caccia. Non ti dispiace? È necessario. Quando atterrarono, Eragon fu felice di scoprire che le gambe non gli facevano male. La sella lo aveva ben protetto dalle squame di Saphira. Eragon e Brom praticarono il loro allenamento serale, ma senza energia, perché erano entrambi preoccupati per gli eventi della giornata. Quando ebbero finito, le braccia di Eragon bruciavano per lo sforzo di sostenere il peso di Zar’roc. 23 Un intermezzo canoro Il giorno seguente, mentre cavalcavano insieme, Eragon chiese a Brom: «Com’è il mare?» «Avrai pur sentito qualche descrizione, prima» disse Brom. «Sì, ma com’è davvero?» Gli occhi di Brom si velarono, come se stesse guardando una scena lontana. «Il mare è un’emozione incarnata. Il mare ama, odia, e piange. Sfida ogni tentativo di catturarlo a parole e rifiuta ogni pastoia. Qualunque cosa tu dica di lui, c’è sempre qualcosa che ti sfuggirà. Ricordi quando ti dissi che gli elfi venivano dal mare?» «Sì.» «Sebbene vivano lontani dalla costa, conservano sempre una grande passione per l’oceano. Il rumore delle onde che si frangono, l’odore salmastro dell’aria li affascinano enormemente e hanno ispirato molte delle loro canzoni più belle. Ce n’è una che parla di questo amore, se ti va di sentirla.» «Mi piacerebbe» disse Eragon, curioso. Brom si schiarì la gola e disse; «La tradurrò dall’antica lingua meglio che potrò. Non sarà perfetta, ma forse ti darà un’idea di come suonava in origine.» Fece fermare Fiammabianca e chiuse gli occhi. Tacque per un istante, poi intonò con voce dolce: Oh, mare tentatore sotto l’azzurro cielo. la tua distesa scintillante mi brama e mi chiama. Veleggerei per sempre nel sole e nel gelo, ma c’è un’elfica fanciulla che mi ama e mi chiama. A sé mi attira con le sue trecce bionde. Ahimè, il mio cuore languefra la terra e le onde. Le parole riecheggiarono lugubri nella mente di Eragon. «Questa canzone si intitola Du Silbena Datìa ed è molto più lunga di così. Io ti ho recitato una sola strofa. Narra la triste vicenda di due innamorati. Acallamh e Nuada, che furono separati dallo struggimento per il mare. Gli elfi trovano questa storia densa di significato.» «È bellissima» disse Eragon semplicemente. Quando si fermarono per la notte, la Grande Dorsale si stagliò come un debole nastro scuro all’orizzonte. Quando arrivarono alle colline ai piedi della Grande Dorsale, cambiarono direzione e seguirono le montagne verso sud. Eragon si sentì felice di essere di nuovo vicino alle montagne; davano al mondo confortanti confini. Tre giorni dopo raggiunsero un’ampia strada segnata dai solchi lasciati dalle ruote dei carri. «Questa è la strada principale che collega la capitale. Urù’baen, e Teirm» disse Brom. «È molto battuta perché è la rotta preferita dai mercanti. Dobbiamo stare più attenti. Questo non è il periodo più movimentato dell’anno, ma qualcuno può sempre passare.» I giorni trascorsero rapidi mentre i due viaggiatori continuavano a seguire la Dorsale, cercando il valico di cui aveva parlato Brom. Eragon non poteva certo lamentarsi della noia. Quando non era impegnato ad apprendere la lingua elfica, imparava a prendersi cura di Saphira o si esercitava nella magia. Imparò anche a uccidere la selvaggina con la magia, il che risparmiava loro lunghe ore di appostamenti. Prendeva un piccolo sasso con la mano e lo scagliava contro la preda. Non falliva mai il bersaglio: i risultati dei suoi sforzi arrostivano sul fuoco ogni sera. E dopo cena. Brom ed Eragon si allenavano con le spade, e qualche volta a mani nude. Le lunghe giornate in movimento e lo strenuo lavoro liberarono il corpo del ragazzo di ogni mollezza. Le sue braccia divennero fasci di nervi; sotto la pelle abbronzata guizzavano muscoli asciutti. Mi sto indurendo, e non solo nel fisico, pensava con una certa amarezza. Quando finalmente raggiunsero il valico, si trovarono la strada tagliata da un fiume che scorreva dal passo. «Questo è il Toark» spiegò Brom. «Lo seguiremo fino al mare.» «Come facciamo» disse Eragon con una risata. «se scorre dalla Dorsale in questa direzione? Non può finire nell’oceano, a meno che non ripieghi su se stesso.» Brom rigirò l’anello d’oro attorno al dito. «In mezzo alle montagne si trova il Lago Guadoscuro. Da ciascuna estremità del lago scorre un fiume, ed entrambi si chiamano Toark. In questo momento stiamo guardando quello che va verso oriente. Scorre verso sud e attraversa la prateria fino a gettarsi nel Lago di Leona. L’altro scorre verso il mare.» Dopo due giorni sulla Grande Dorsale, raggiunsero un altopiano da cui potevano vedere il panorama nitido delle montagne. Eragon notò come la terra si appiattiva in lontananza, e brontolò pensando alle leghe che dovevano ancora percorrere. Brom tese il braccio per mostrargli qualcosa. «Laggiù, verso nord, c’è Teirm. È un’antica cittadina. Alcuni sostengono che fu lì che gli elfi sbarcarono per la prima volta in Alagasëia. La cittadella non è mai caduta, e i suoi guerrieri non sono mai stati sconfitti.» Spronò Fiammabianca e lasciò l’altopiano. La discesa attraverso le colline ai piedi dei monti durò fino a mezzogiorno del giorno dopo, quando giunsero sull’altro versante della Grande Dorsale, dove la terra ricoperta di foreste si distendeva in una pianura. Senza le montagne a nasconderla, Saphira volava rasoterra, usando dossi e avvallamenti per nascondersi. Oltre la foresta notarono un cambiamento. La campagna era coperta di morbida torba e cespugli di erica in cui i loro piedi affondavano. Il muschio ricopriva ogni pietra e ramo e costeggiava i numerosi torrenti. Pozzanghere fangose costellavano la strada dove i cavalli avevano calpestato il terreno. In breve tempo. Brom ed Eragon si ritrovarono tutti schizzati di melma. «Perché è tutto verde?» chiese Eragon. «Non hanno l’inverno, qui?» «Sì, ma la stagione è mite. La nebbia e l’umidità arrivano dal mare e mantengono tutto in vita. C’è chi lo trova di suo gradimento, ma per me è lugubre è deprimente.» Al calar della sera, si accamparono nel luogo più asciutto che riuscirono a trovare. Mentre mangiavano. Brom commentò: «Dovresti montare Cadoc finché non arriviamo a Teirm, È probabile che incontreremo altri viaggiatori, ora che abbiamo lasciato la Dorsale, ed è meglio se rimani con me. Un vecchio che viaggia da solo suscita sospetti. Con te al mio fianco, nessuno farà domande. E poi non voglio arrivare in città e incontrare qualcuno che mi ha visto da solo sulla strada, pronto a chiedersi da dove sei spuntato.» «Useremo i nostri nomi?» disse Eragon. Brom riflette un istante. «Non potremo ingannare Jeod. Lui conosce già il mio nome, e credo che possiamo fidarci a dirgli il tuo. Ma per gli altri, io sarò Neal, e tu mio nipote Evan. Se qualche volta ci sfugge lo stesso la verità, probabilmente non farà differenza, ma non voglio che i nostri nomi restino impressi a qualcuno. La gente ha la fastidiosa abitudine di ricordarsi le cose che non dovrebbe.» 24 Teirm Dopo due giorni di viaggio verso nord, verso l’oceano, Saphira fu la prima ad avvistare Teirm. Una pesante cappa di nebbia aleggiava sul terreno, impedendo a Brom ed Eragon di vedere in lontananza, finché da ovest non prese a soffiare una brezza sostenuta che dissipò il velo grigio. Eragon rimase a bocca aperta quando finalmente comparve Teirm, la cittadina bagnata dal mare scintillante, dove fiere navi erano ormeggiate con le vele imbrogliate. In lontananza si udiva il sordo fragore della risacca. La città era cinta da una muraglia bianca alta cento piedi e spessa trenta, con file di feritoie rettangolari e un camminamento in cima per i soldati e le sentinelle. La superficie liscia della muraglia era interrotta da due saracinesche di ferro, una che affacciava a ovest, sul mare, l’altra che si apriva a sud, sulla strada. Al di sopra della muraglia, addossata alla sua sezione settentrionale, si ergeva un’enorme fortezza fatta di pietre gigantesche e torrette. Nella torre più alta riluceva la lanterna di un faro. Il castello era l’unica cosa visibile al di là della fortificazione. C’erano alcuni soldati a guardia del cancello sud, ma reggevano le lance con noncuranza. «Questo è il nostro primo esame» disse Brom. «Speriamo che non abbiano ancora ricevuto nostre notizie dall’Impero e che non ci arrestino. Qualunque cosa accada, non farti prendere dal panico e non comportarti in maniera sospetta.» Eragon si rivolse a Saphira. Adesso atterra da qualche forte e nasconditi. Noi entriamo. Per andare a ficcare in naso dove non dovreste. Di nuovo, commentò lei, acida. Lo so. Ma Brom e io godiamo di certi vantaggi che la maggior parte della gente non possiede. Andrà tutto bene. Se qualcosa va storto, ti inchioderò al mio dorso e non ti lascerò più andare. Anch’io ti voglio bene. Ti legherò stretto. Eragon e Brom avanzarono verso il cancello con aria disinvolta. Sull’ingresso sventolava un vessillo giallo con la figura di un leone rampante e una mano che stringeva un giglio. Mentre si avvicinavano alla muraglia, Eragon domandò, stupito: «Quanto è grande questo posto?» «È più grande di qualunque città tu abbia mai visto» rispose Brom. Due sentinelle sorvegliavano l’ingresso a Teirm, le lance in pugno. «Nome!» disse una di loro in tono annoiato. «Io sono Neal» rispose Brom con voce arrochita, le spalle curve, un’espressione di beata idiozia sul volto. «E quest’altro chi è?» chiese la guardia. «Be’, ci stavo arrivando, È mio nipote, Evan, il figlio di mia sorella, non...» La guardia annuì impaziente. «Sì, sì, ho capito. Che cosa siete venuti a fare qui?» «Andiamo a trovare un suo vecchio amico» intervenne Eragon, adeguandosi al linguaggio spiccio. «Io lo accompagno perché magari si perde, se capite cosa intendo. Non è più tanto giovane, e ha preso un sacco di sole quando lo era. È rimasto un po’ tocco per via della febbre, sapete.» Brom dondolò la testa come un vecchio rimbambito «Mmm, passate» disse la guardia, abbassando la lancia. «Ma tu bada che il vecchio non combini qualche pasticcio.» «Oh, non temete» promise Eragon. Spronò Cadoc, e i due entrarono a Teirm. Gli zoccoli dei cavalli sul selciato facevano uno schiocco di nacchere. Una volta lontani dallo sguardo delle sentinelle. Brom raddrizzò la schiena e borbottò: «Un po’ tocco, eh?» «Non potevo lasciare a te tutto il divertimento» lo canzonò Eragon. Brom distolse lo sguardo e mormorò qualcosa fra i denti. Le case erano grigie, tristi. Piccole finestre incassate lasciavano entrare rari raggi di luce. Gli usci erano stretti, i tetti piatti, circondati da ringhiere di metallo e coperti da lastre di ardesia. Eragon notò che le case più vicine alla muraglia di Teirm erano le più basse, mentre diventavano più alte via via che si procedeva verso l’interno. Quelle vicine alla fortezza erano le più alte, ma sempre insignifi canti rispetto alla sua mole. «Questo posto sembra pronto alla guerra» commentò Eragon. Brom annuì. «La storia dì Teirm è un susseguirsi di attacchi da parte dei pirati, degli Urgali e di altri nemici. Questa città è stata a lungo il crocevia di intensi commerci, e c’è sempre battaglia, dove si accumulano tante ricchezze. Gli abitanti sono stati costretti a prendere misure straordinarie per difendersi. E aggiungi il fatto che Galbatorix ha mandato i suoi soldati per aiutarli a difendere la città.» «Perché certe case sono più alte?» «Guarda la fortezza» disse Brom, indicandola. «Da lassù si ha una vista completa di Teirm. Se qualcuno riuscisse ad aprire una breccia nella muraglia esterna, sui tetti verrebbero disposti gli arcieri. Poiché le case davanti, accanto alla muraglia, sono più basse, gli uomini più indietro potrebbero scoccare tranquillamente i loro dardi, senza paura di colpire i compagni, E se il nemico riuscisse a impossessarsi delle prime case e disporvi i propri arcieri, sarebbe uno scherzo abbatterli dall’alto.» «Non ho mai visto una fortezza progettata in questo modo» disse Eragon, affascinato. «Sì, ma questo accadde solo dopo che Teirm fu quasi rasa al suolo da un’incursione pirata» disse Brom. Al loro passaggio, la gente li osservava incuriosita, ma senza eccessivo interesse. In confronto a come ci hanno accolti a Darei, qui ci ricevono a braccia aperte. Forse Teirm è sfuggita all’attenzione degli Urgali, pensò Eragon. Ma cambiò subito parere quando un.uomo di corporatura robusta li superò, con una lunga spada appesa alla cintura. Altri piccoli indizi alludevano a tempi turbolenti: non c’erano bambini che giocavano per strada, la gente aveva l’espressione torva e molte case erano deserte, con le erbacce che crescevano dalle fessure nei cortili lastricati. «Pare che se la passino male» disse Eragon. «È uguale dappertutto» disse Brom, cupo. «Dobbiamo trovare Jeod.» Guidarono i cavalli verso una taverna dall’altro lato della strada e li legarono ai pali di posta. «La Castagna Verde... splendido» mormorò Brom, osservando l’insegna sbiadita che pendeva sulle loro teste. Entrarono. Il locale era squallido e aveva ben poco di rassicurante. Il fuoco languiva nel caminetto, ma nessuno si prendeva la briga di aggiungere altra legna. I pochi avventori seduti negli angoli tenevano lo sguardo fisso sui propri boccali con espressione triste. Un uomo a cui mancavano due dita era seduto a un tavolo lontano e studiava i propri moncherini deformi. L’oste aveva una smorfia amara sulle labbra e teneva in mano un bicchiere che puliva in modo ossessivo, malgrado fosse rotto. Brom si appoggiò al bancone e chiese: «Sai dove posso trovare un uomo che si chiama Jeod?» Eragon, al suo fianco, giocherellava con la punta dell’arco che teneva a tracolla. Ma si sarebbe sentito più sicuro se l’avesse potuto impugnare. L’oste si rivolse loro a voce molto alta. «E perché dovrei sapere una cosa del genere? Non è che sto dietro a tutti gli zotici di questo posto dimenticato dagli dei!» Eragon si fece piccolo piccolo quando tutti gli sguardi si appuntarono su di loro. Brom continuò a parlare in tono tranquillo. «Forse queste potrebbero aiutarti a ricordare?» disse, e fece scivolare alcune monete sul banco. L’uomo si illuminò e posò il bicchiere. «Può darsi» disse, abbassando la voce. «ma la mia memoria ha bisogno di un’altra spintarella.» Brom si accigliò, ma fece comparire altre monete sul banco. L’oste si succhiò l’interno della guancia, incerto. «D’accordo» disse alla fine, e tese una mano verso il denaro. Prima che potesse toccarlo, l’uomo senza due dita esclamò dal tavolo: «Garetti, cosa diamine credi di fare? Chiunque sa dirgli dove abita Jeod. Perché chiedi soldi per questo?» Brom si affrettò a rimettere le monete nella bisaccia. Gareth scoccò un’occhiata velenosa all’uomo seduto al tavolo, poi volse la schiena ai due viaggiatori e riprese il bicchiere. Brom si avvicinò allo straniero e disse: «Grazie. Mi chiamo Neal. Lui è Evan.» L’uomo li salutò sollevando il boccale. «Martin, e ovviamente quello è Gareth.» La sua voce era bassa e roca. Martin indicò un paio di sedie vuote. «Prego, sedetevi. Fatemi compagnia.» Eragon prese una sedia e la sistemò in modo da dare le spalle al muro e il viso alla porta. Martin inarcò un sopracciglio, ma non fece commenti. «Mi hai appena fatto risparmiare qualche corona» disse Brom. «Non c’è di che. Ma non prendertela con Gareth, gli affari non vanno molto bene di recente.» Martin si grattò il mento. «Jeod vive nel quartiere ovest della città, vicino ad Angela, l’erborista. Dovete trattare affari con lui?» «Più o meno» rispose Brom. «Be’, non credo sia interessato a comprare niente; qualche giorno fa ha perso un’altra nave.» Brom soppesò la notizia con interesse. «Che cosa è successo? Sono stati gli Urgali?» «No» rispose Martin. «Non si vedono da quasi un anno. Se ne sono andati via da questa regione, diretti a sudest, pare. Ma non sono loro il problema. La maggior parte dei nostri commerci avviene via mare, come di certo saprete. Be’...» S’interruppe per bere un sorso dal boccale. «... Da diversi mesi qualcuno ha cominciato ad attaccare le nostre navi. Non sono i soliti pirati, perché vengono abbordate solo quelle che trasportano le merci dì certi mercanti. Jeod è uno di loro. La cosa si è fatta tanto grave che nessun comandante accetta più di trasportare le loro merci, il che ha reso la vita piuttosto difficile da queste parti, specie perché alcuni di loro tengono le redini dei più grossi giri di affari dell’Impero. Sono stati costretti a spedire le merci via terra, ma i costi sono altissimi, e certe carovane non arrivano nemmeno a destinazione.» «Hai idea di chi siano i responsabili? Devono esserci dei testimoni» disse Brom. Martin scosse la testa. «Nessuno è sopravvissuto agli attacchi. Le navi salpano, e poi scompaiono; nessuno è mai tornato.» Si protese verso di loro è disse in tono confidenziale: «I marinai dicono che si tratta di stregoneria.» Annuì e ammiccò, poi si appoggiò di nuovo allo schienale della sedia. Brom parve preoccupato a quelle parole. «E tu che cosa ne pensi?» Martin si strinse nelle spalle. «Non lo so. E non credo che lo saprò mai, a meno che non sia tanto sfortunato da trovarmi imbarcato su una di quelle navi catturate.» «Sei un marinaio?» domandò Eragon. «No» disse Martin sbuffando. «Ti sembro uno di quelli? I comandanti mi ingaggiano per difendere le loro navi dai pirati. E quella lurida feccia non è molto attiva, di recente. Comunque, è sempre un buon lavoro.» «Piuttosto pericoloso» commentò Brom. Martin alzò di nuovo le spalle e finì di bere la sua birra. Brom ed Eragon se ne andarono, diretti verso il quartiere ovest della città, decisamente una delle più belle zone di Teirm. Le case erano pulite, grandi e ricche di decori. La gente nelle vie vestiva elegante e camminava con sussiego. Eragon provò la netta sensazione di essere fuori luogo. 25 Un vecchio amico Il negozio dell’erborista aveva un’insegna allegra, facile da riconoscere. Sulla soglia era seduta una donnetta minuta, con una massa di riccioli scuri. In una mano teneva una rana, e con l’altra scriveva. Eragon immaginò che dovesse trattarsi di Angela, l’erborista. Su entrambi i lati della bottega c’era una casa. «Quale sarà?» chiese a Brom. Brom studiò le case, poi disse: «Scopriamolo.» Si avvicinò alla donna e chiese con cortesia: «Potresti dirmi in quale casa abita Jeod?» «Certo.» La donna continuò a scrivere. «Ti spiacerebbe dircelo?» «No.» Tacque di nuovo, ma la sua penna si muoveva più veloce che mai. La rana sulla sua mano gracidò e li guardò con occhi malevoli. Brom ed Eragon attesero perplessi, ma la donna non disse altro. Eragon era sul punto di sbottare, quando Angela alzò lo sguardo. «Certo che non mi dispiace! Tutto quello che dovete fare è chiedere. La vostra prima domanda era se potevo dirvelo, e la seconda se mi dispiaceva dirvelo. Ma non mi avete posto la domanda diretta.» «Allora lascia che te lo chieda nel modo giusto» disse Brom con un sorriso. «Qual è la casa di Jeod? E perché tieni in mano una rana?» «Ora sì che ci siamo» disse lei, scherzosa. «Jeod abita nella casa di destra. E quanto alla rana, in realtà è un rospo. Sto cercando di dimostrare che i rospi non esistono... che sono soltanto rane.» «Come fanno i rospi a non esistere se ne tieni uno in jnano in questo momento?» s’intromise Eragon. «E poi, a che cosa serve provare che esistono soltanto le rane?» La donna scosse la testa con veemenza; i riccioli scuri dondolarono. «No, no, non capisci. Se provo che i rospi non esistono, allora questa è una rana e non è mai stato un rospo. Quindi, il rospo che vedi ora non esiste. Inoltre» aggiunse, alzando l’indice sottile. «se posso provare che esistono soltanto le rane, allora i rospi non potranno fare mai niente di male... come far cadere i denti, provocare verruche, avvelenare o uccidere le persone. E le streghe non potranno usare i loro malvagi sortilegi perché ovviamente non troveranno nessun rospo da usare.» «Capisco» disse Brom in tono cordiale. «Sembra molto interessante, e mi piacerebbe saperne di più, ma dobbiamo parlare con Jeod.» «Certo» disse la donna, e li congedò con un cenno della mano per poi ricominciare a scrivere. Quando furono lontani dalle, orecchie dell’erborista, Eragon disse: «È suonata!» «Forse» commentò Brom. «ma chi può dirlo? Magari finirà con lo scoprire qualcosa di utile, perciò non giudicare, E se i rospi fossero davvero soltanto rane?» «Già, e le mie scarpe sono d’oro» ribattè Eragon. Si fermarono davanti a una porta con un batacchio di ferro lavorato e la soglia di marmo. Brom bussò tre volte. Nessuno rispose. Eragon si sentì uno stupido. «Forse è la casa sbagliata. Proviamo quell’altra.» Brom lo ignorò e bussò di nuovo, con più forza. Ancora nessuna risposta. Eragon si volse esasperato, poi sentì qualcuno accorrere. Una giovane donna con la carnagione pallida e i capelli biondi socchiuse la porta. I suoi occhi erano gonfi come se stesse piangendo, ma la sua voce era ferma. «Desiderate?» «Jeod vive qui?» domandò Brom con gentilezza. La donna fece un lieve cenno col capo. «Sì, è mio marito. Vi aspettava?» Continuava a tenere la porta socchiusa. «No, ma abbiamo bisogno di parlargli» disse Brom. «È molto occupato.» «Veniamo da molto lontano. Dobbiamo assolutamente vederlo.» Il volto della donna s’indurì. «È occupato.» Brom era chiaramente seccato, ma il suo tono rimase cortese. «Bene, visto che non può riceverci, mia signora, potresti dargli un messaggio da parte mia?» La donna strinse le labbra, poi annuì. «Digli che un suo vecchio amico, di Gil’ead lo aspetta fuori la porta.» La donna non nascose la sua diffidenza, ma disse: «Va bene» e richiuse la porta di colpo. Eragon udì i suoi passi allontanarsi. «Che sgarbata» commentò. «Tieni per te le tue opinioni» lo rimbeccò Brom. «e non dire niente. Lascia parlare me.» Incrociò le braccia, tamburellando le dita sui gomiti. Eragon chiuse la bocca e distolse lo sguardo. La porta si spalancò all’improvviso, e uscì un uomo alto. I suoi abiti costosi erano sgualciti, i capelli grigi spettinati, e il suo volto era cupo, la fronte bassa solcata da una lunga cicatrice. Alla vista dei due, sgranò gli occhi e si appoggiò allo stipite della porta, ammutolito. La sua bocca si aprì e si chiuse un paio di volte, come un pesce che annaspa. Poi, con voce sommessa e incredula, disse: «Brom...?» Brom si portò l’indice alle labbra e tese una mano per afferrare il braccio dell’uomo. «È bello rivederti, Jeod! Sono lieto che la memoria non ti abbia tradito, ma non usare quel nome. Nessuno deve sapere che sono qui.» Jeod si guardò intorno, ancora spaventato. «Credevo che fossi morto» sussurrò. «Che cosa ti è successo? Perché non mi hai fatto più sapere nulla?» «Ti spiegherò tutto. C’è un posto dove possiamo parlare liberamente?» Jeod esitò, spostando lo sguardo da Brom a Eragon e viceversa, il volto una maschera indecifrabile. Infine disse: «Non possiamo parlare qui, ma se aspettate un momento.. vi accompagnerò dove potremo farlo.» «Bene» disse Brom. Jeod annuì e svanì dentro la casa. Chissà se riuscirò a sapere qualcosa di più sul passato di Brom, pensò Eragon. Quando Jeod.riapparve, c’era uno stocco al suo fianco. Indossava un giubbetto ricamato e un cappello piumato. Brom lo squadrò con occhio critico, e Jeod scrollò le spalle, imbarazzato. Li condusse attraverso Teirm, verso la fortezza. Eragon camminava dietro i due uomini, portando i cavalli per la cavezza. Jeod indicò la loro destinazione. «Risthart, il signore di Teirm, ha decretato che tutti i mercanti e i commercianti debbono condurre i propri affari nel suo castello. Anche se la maggior parte di noi svolge i propri affari da qualche altra parte, dobbiamo pur sempre affittare delle stanze qui. È un’assurdità, lo so, ma accettiamo per tenercelo buono. Nessuno potrà origliare la nostra conversazione; le mura sono molto spesse.» Varcarono l’ingresso principale della fortezza ed entrarono nel maschio. Jeod si diresse verso una porta laterale e indicò un anello di ferro. «Puoi legare i cavalli lì. Nessuno li disturberà.» Dopo che Fiammabianca e Cadoc furono sistemati, Jeod aprì la porta con una chiave di ferro e li fece entrare. La porta dava su un. lungo corridoio illuminato da fiaccole inserite nei supporti lungo i muri. Eragon rimase sorpreso dal freddo e dall’umidità che dilagavano lì dentro. Quando toccò una parete, le sue dita scivolarono su uno strato viscido. Rabbrividì. Jeod prese una fiaccola dal suo supporto e li scortò lungo il corridoio. Si fermarono davanti a una massiccia porta di legno. L’aprì e li invitò a entrare in una stanza con una pelle d’orso sul pavimento, poltrone imbottite e scaffali colmi di libri rilegati in pelle. Jeod accatastò della legna nel caminetto, poi vi infilò sotto la fiaccola. Il fuoco attecchì subito. «Dunque, vecchio mio, adesso devi spiegarmi parecchie cose.» Il volto di Brom s’increspò di rughe nel sorridere. «Chi sarebbe il vecchio? L’ultima volta che ti ho visto, i tuoi capelli non erano grigi. Adesso sembrano ciuffi spelacchiati di un teschio in decomposizione.» «E tu sei lo stesso di vent’anni fa. Il tempo sembra averti preservato come un vecchio bisbetico solo perché tu possa infliggere le tue interminabili lezioni di saggezza a ogni nuova generazione. E comunque ora basta con i complimenti! Raccontami la tua storia. Una cosa in cui sei sempre stato bravo» disse Jeod, impaziente. Eragon drizzò le orecchie e attese avido il racconto di Brom. Brom si mise comodo in una poltrona ed estrasse la sua pipa. Soffiò lentamente un anello di fumo che diventò verde, guizzò nel caminetto e scomparve su per la canna fumaria. «Ricordi quello che stavamo facendo a Gil’ead?» «Naturalmente» disse Jeod. «Difficile dimenticare quel genere di cose.» «Un eufemismo, però vero» disse Brom asciutto. «Quando siamo stati... separati, non sono più riuscito a trovarti. In quel trambusto scovai una piccola camera. Non c’era niente di particolare, solo casse e scatole, ma tanto per curiosità cominciai a frugare in giro. La fortuna mi fu benigna, poiché trovai proprio quello che stavamo cercando.» Sul volto di Jeod si dipinse un’espressione di assoluto stupore. «A quel punto non potevo più aspettarti. Potevano scoprirmi da un momento all’altro, e tutto sarebbe andato perduto. Mi camuffai alla meglio e lasciai la città di nascosto per andare da...» Brom esitò e scoccò un’occhiata furtiva a Eragon. Poi disse: «... dai nostri amici. Lo conservarono in una grotta per sicurezza e mi fecero promettere che mi sarei preso cura di chiunque l’avesse ricevuto. Ma fino al giorno in cui fossero state necessarie le mie prestazioni, dovevo scomparire. Nessuno doveva sapere che ero vivo, nemmeno tu. Mi è costato molto darti quel dolore. Perciò andai a nord e mi nascosi a Carvahall.» Eragon serrò la mascella, infuriato con Brom che continuava a bella posta a tenerlo all’oscuro di tante cose. Jeod aggrottò la fronte e disse: «Allora i nostri... amici hanno sempre saputo che eri vivo?» «Sì.» Jeod sospirò. «Immagino che sia stato necessario questo espediente, ma vorrei che me l’avessero detto. Carvahall non è a nord, sull’altro versante della Grande Dorsale?» Brom fece sì con la testa. Per la prima vota, Jeod parve accorgersi di Eragon. I suoi occhi grigi lo scrutarono attenti. Inarcò un sopracciglio e disse: «Allora presumo che adesso tu stia onorando il tuo compito.» Brom scosse la testa. «No, non è così semplice. Qualche tempo fa è stato rubato, almeno è quello che credo, perché non ho saputo nulla dai nostri amici, e sospetto che i loro messaggeri siano caduti in un’imboscata. Così ho deciso di indagare per conto mio. Eragon andava nella mia stessa direzione e così stiamo viaggiando in compagnia da un po’.» Jeod era perplesso. «Ma se non avevano inviato messaggi, come facevi a sapere che era...» Brom si affrettò a interromperlo, dicendo: «Lo zio di Eragon è stato ucciso dai Ra’zac. Gli hanno bruciato la casa e lui si è salvato per un soffio. Merita di vendicarsi, ma ci hanno lasciati senza tracce da seguire, e così abbiamo bisogno di aiuto per trovarli.» Il volto di Jeod si schiarì. «Capisco.,. Ma perché siete venuti qui? Io non so dove potrebbero nascondersi i Ra’zac, e coloro che lo sanno non ve lo direbbero mai.» Brom si alzò e s’infilò una mano sotto il mantello. Estrasse la fiaschetta dei Ra’zac. La lanciò a Jeod. «Contiene olio di Seithr, del tipo pericoloso. È dei Ra’zac. L’hanno persa lungo il cammino e noi l’abbiamo trovata. Dobbiamo controllare i registri delle spedizioni di Teirm per poter risalire ai compratori dell’olio. In questo modo troveremo il covo dei Ra’zac» Il volto di Jeod s’increspò di rughe mentre rifletteva. Indicò i libri sugli scaffali. «Vedi quelli? Sono tutti i registri dei miei commerci. Soltanto dei miei. Vi state imbarcando in un’impresa che richiederà mesi per essere portata a termine. Ma c’è un problema più grosso. I registri che cerchi sono conservati nel castello, ma solo Brand, amministratore di Risthart, li può consultare. I commercianti come me non hanno il permesso di maneggiarli perché temono che potremmo falsificare i conti, frodando l’Impero delle sue preziose tasse.» «A questo penserò io al momento opportuno» disse Brom. «Ma dobbiamo riposare per qualche giorno prima di poter decidere come procedere.» Jeod sorrise. «In questo posso aiutarvi. La mia casa è la vostra casa, naturalmente. Usate altri nomi, qui in città?» «Sì» disse Brom. «Io sono Neal, e il ragazzo è Evan.» «Eragon» mormorò Jeod pensoso. «Hai un nome singolare. Sono ben pochi coloro che portano il nome del primo Cavaliere. Nella mia vita ho letto soltanto di tre che si chiamavano così.» Eragon si stupì che Jeod conoscesse l’origine del suo nome. Brom guardò Eragon. «Mi faresti la gentilezza di andare a controllare i cavalli? Temo che Fiammabianca non sia stato legato bene.» Stanno cercando di nascondermi qualcosa. Non appena esco di qui, cominceranno a parlarne. Eragon si alzò di scatto dalla poltrona e uscì dalla camera a grandi passi, sbattendo la porta alle sue spalle. Fiammabianca non si era mosso; il nodo che lo teneva legato all’anello era perfetto. Prese ad accarezzare il collo dei cavalli e appoggiò la schiena al muro del castello. Non è giusto, si lamentò. Se solo potessi sentire ciò che stanno dicendo. Si raddrizzò di colpo, elettrizzato. Una volta Brom gli aveva insegnato certe parole che acuivano l’udito. L’orecchio fino non è proprio quello che desidero, ma dovrei essere in grado di formulare quelle parole. In fin dei conti, pensa a che cosa posso fare con brisingr! Si concentrò intensamente per richiamare il potere. Una volta evocato, mormorò: «Thverr stenr un atra eka hórna!» e intrise ogni parola di strenua volontà. Mentre sentiva il potere fluire dentro di sé, udì un debole sussurro nelle orecchie ma nient’altro. Deluso, si appoggiò di nuovo al muro, poi trasalì quando sentì Jeod che diceva: «... e ormai sono quasi otto anni che lo faccio.» Eragon si guardò intorno. Non c’era nessuno, tranne un gruppetto di guardie radunate nell’angolo opposto del maschio. Con un gran sorriso, si lasciò scivolare a terra e chiuse gli occhi. «Non mi sarei mai aspettato che diventassi un mercante» disse Brom. «Dopo tutti quegli anni che hai passato sui libri, E aver trovato il passaggio in quel modo! Come mai. hai deciso di dedicarti al commercio invece di restare uno studioso?» «Dopo Gil’ead, non ho più avuto voglia di restare seduto in stanze ammuffite a leggere pergamene. Ho deciso di aiutare Ajihad come meglio potevo, ma non sono un guerriero. Anche mio padre era un mercante: dovresti ricordarlo. Mi ha aiutato a cominciare. Tuttavia i miei commerci non sono altro che un paravento per rifornire il Surda.» «Ma mi pare di capire che le cose vanno male» disse Brom. «Già: di recente nessuna spedizione è andata a buon fine, e Tronjheim è a corto di rifornimenti. In qualche modo l’Impero, o almeno credo che siano loro, ha scoperto chi tra noi lavora per aiutare Tronjheim, Eppure non sono del tutto convinto che si tratti dell’Impero. Non si vedono soldati. Non capisco. Può darsi che Galbatorix abbia assoldato dei mercenari per ostacolarci.» «Ho saputo che hai perduto una nave di recente.» «L’ultima che possedevo» spiegò Jeod in tono amareggiato. «Ogni uomo imbarcato era coraggioso e leale. Dubito che li rivedrò ancora... L’unica possibilità che mi rimane è inviare delle carovane nel Surda o a Gil’ead, ma so per certo che non arriverebbero mai, per quante guardie mettessi di scorta. Oppure potrei prendere a nolo la nave di qualcun altro. Ma nessuno vuole trasportare le mie merci, adesso.» «Quanti mercanti ti aiutano?» domandò Brom. «Oh, diversi, lungo tutta la costa. Tutti sono afflitti dagli stessi problemi. So che cosa stai pensando; più di una notte sono rimasto sveglio io stesso a pensarci. Ma non posso sopportare l’idea di un traditore con tanto potere e tante conoscenze. Se ce n’è uno, allora siamo tutti in pericolo. Dovresti tornare a Tronjheim.» «E portare lì Eragon?» lo interruppe Brom. «Lo farebbero a pezzi. È il posto peggiore, adesso. Magari fra qualche mese, o perché no, un anno. Te lo immagini, come reagirebbero i nani? E poi tutti cercherebbero di influenzarlo, soprattutto Islanzadi. Lui e Saphira non sarebbero al sicuro a Tronjheim, almeno finché non li faccio passare per il tuatha du orothrim.» Nani! pensò Eragon eccitato. Dove si trova questa Tronjehim? E perché ha parlato a Jeod di Saphira? Non avrebbe dovuto farlo senza prima chiedermelo! «Eppure ho la sensazione che abbiano bisogno del tuo potere e della tua saggezza.» «Saggezza» sbuffò Brom. «Sono soltanto un vecchio bisbetico, come hai detto prima.» «Molti non sarebbero d’accordo.» «Lascia perdere. Non devo spiegazioni a nessuno. No. Ajihad dovrà cavarsela senza di me. Quello che faccio adesso è molto più importante. Ma l’ipotesi che esista un traditore solleva gravi questioni. Mi chiedo se è per questo che l’Impero sapeva dove...» La sua voce si spense. «E io mi chiedo perché nessuno si è messo in comunicazione con me» disse Jeod. «Magari ci hanno provato. Ma se c’è un traditore...» Brom fece una pausa. «Devo mandare un messaggio ad Ajihad. Hai un uomo fidato?» «Credo» disse Jeod. «Dipende da dove deve andare.» «Non lo so» disse Brom. «Sono rimasto isolato per così tanto tempo che i miei contatti probabilmente sono morti o si sono dimenticati di me. Puoi mandarlo da chiunque riceva le tue spedizioni?» «Sì, ma sarà rischioso.» «E che cosa non lo è di questi tempi? Quando può partire?» «Domattina. Lo manderò a Gil’ead. Sarà più rapido» disse Jeod. «Che cosa puoi dargli per convincere Ajihad che sei tu a mandarlo?» «Tieni, dagli il mio anello. E digli che se lo perde, gli strapperò il fegato con le mie mani. Mi è stato donato dalla regina in persona.» «Vecchio bisbetico» disse Jeod. Brom borbottò e rimase in silenzio per un po’. «Faremmo meglio ad andare a cercare Eragon» disse infine. «Mi preoccupo quando è da solo. Quel ragazzo ha l’innaturale tendenza a trovarsi ovunque ci siano dei guai.» «E ti sorprende?» «Non proprio.» Eragon udì rumore di poltrone spostate. Ritrasse la mente e aprì gli occhi. Ricapitoliamo disse fra sé. Jeod e altri mercanti sono nei guai perché aiutano delle persone non amate dall’Impero. Brom ha trovato qualcosa a Gil’ead ed è andato a Carvahall per nascondersi. Che cosa poteva essere di così importante da lasciare che il suo amico lo credesse morto per quasi vent’anni? Ha parlato di una regina... ma non ci sano regine nei regni conosciuti... e di nani, che, come mi ha detto lui, sono scomparsi sottoterra da secoli. Voleva delle risposte! Ma non poteva affrontare Brom e rischiare di compromettere la missione. No, avrebbe aspettato fino a quando non fossero partiti da Teirm, e poi avrebbe insistito finché il vecchio non gli avesse rivelato tutti i suoi segreti. I pensieri di Eragon stavano ancora turbinando quando la porta si apri. «I cavalli stanno bene?» disse Brom. «Benissimo» rispose Eragon. Slegarono i cavalli e lasciarono il castello. Mentre rientravano in città, Brom disse: «Dunque, Jeod, alla fine ti sei sposato. E con un’adorabile giovane donna» aggiunse ammiccando. «Congratulazioni.» Jeod non parve contento del complimento. Incurvò le spalle, gli occhi bassi. «Non so se questo momento sia adatto alle congratulazioni. Helen non è felice.» «Perché? Cosa vuole?» disse Brom. «Il solito» disse Jeod con una scrollata di spalle rassegnata. «Una bella casa, figli sani, cibo sulla mensa, e una gradevole compagnia. Ma il problema è che viene da una famiglia ricca; suo padre ha investito molto nei miei commerci. Se continuo a subire queste perdite, non ci sarà più abbastanza denaro da consentirle la vita cui è abituata.» Jeod tacque per un attimo, poi riprese: «Ma questi sono problemi miei, non vostri. Un buon padrone di casa non dovrebbe mai affliggere gli ospiti con le sue disgrazie. Mentre siete a casa mia, non permetterò che niente vi disturbi, se non uno stomaco troppo pieno.» «Ti ringrazio» disse Brom. »Apprezziamo la tua ospitalità. È da tempo che non godiamo di certe comodità, nel nostro viaggio. Sai dove possiamo trovare una bottega che non sia troppo cara? Tutto questo cavalcare ha consumato i nostri abiti.» «Certo, questo è il mio lavoro» disse Jeod, illuminandosi. Parlò animatamente di prezzi e di negozi finché non furono in vista della sua casa. Allora disse: «Vi dispiace se andiamo a mangiare da qualche altra parte? Non credo sia opportuno farvi entrare adesso.» «Come ritieni sia meglio. disse Brom. Jeod parve sollevato. «Grazie. Potete lasciare i cavalli nella mia stalla.» Fecero come aveva suggerito, e poi lo seguirono fino a una grande taverna. Al contrario della Castagna Verde, questa era pulita, rumorosa e affollata di gente chiassosa. Quando arrivò il cibo, un maialino da latte ripieno, Eragon addentò affamato la carne, ma gustò soprattutto il contorno di patate, carote, rape e mele dolci. Era tanto tempo che mangiava solo selvaggina. Indugiarono davanti al pasto per ore, mentre Brom e Jeod si scambiavano racconti. A Eragon non dispiacque. Era al caldo, un allegro motivetto risuonava in sottofondo, e c’era abbondanza di cibo. Il parlottio vivace della taverna lo cullava. Quando alla fine uscirono dalla taverna, il sole era vicino all’orizzonte. «Voi due andate avanti; io devo controllare una cosa» disse Eragon. Voleva vedere Saphira e assicurarsi che fosse ben nascosta. Brom annuì con aria assente. «Sta’ attento. E non metterci troppo.» «Aspetta» disse Jeod. «Hai intenzione di uscire da Teirm?» Eragon esitò, poi assentì. «Allora fa’ in modo di rientrare prima di sera, perché chiudono i cancelli, e le guardie non ti faranno rientrare se non al mattino.» «Non farò tardi» promise Eragon. Si volse e corse lungo una via laterale che portava verso la muraglia di Teirm. Una volta uscito dalla città, respirò a fondo l’aria fresca. Saphira! chiamò. Dove sei? Lei lo guidò lontano dalla strada, ai piedi di una rupe muscosa circondata di aceri, Eragon vide la dragonessa fare capolino dagli alberi in cima e la salutò. Come faccio a salire lassù? Se trovi una radura, vengo a prenderti. No, disse lui, osservando la rupe, non sarà necessario. Mi arrampico io. È troppo pericoloso. E tu ti preoccupi troppo. Lascia che mi diverta un po’. Eragon si sfilò i guanti e cominciò ad arrampicarsi. Gli piacevano le sfide fisiche. Trovò parecchi appigli che gli facilitarono l’ascesa e in breve tempo superò le chiome degli alberi. A metà strada, si fermò per riprendere fiato. Una volta recuperate le forze, tese il braccio per afferrare l’appiglio successivo, ma si accorse di non arrivarci. Si guardò intorno in cerca di una fessura o una sporgenza dove posare la mano, ma non ne trovò. Allora provò a tornare indietro, ma l’ultimo punto in cui aveva poggiato i piedi era troppo lontano. Saphira lo fissava senza battere ciglio. Eragon si arrese e disse: Forse mi serve un aiuto. È colpa tua. Sì! Lo so. Allora, mi aiuti o no? Se non ci fossi stata io, ti saresti trovato in una gran brutta situazione. Eragon sgranò gli ocelli. Smettila. Sicuro. In fin dei conti, come può un semplice drago dire a un uomo come te cosa fare? Dovrei limitarmi a lodare la tua straordinaria capacità di trovare l’unico vicolo cieco. Perché se avessi cominciato qualche metro più in là, avresti trovato il sentiero per salire. Avvicinò il muso, scrutandolo con i grandi occhi chiari. D’accordo! Ho fatto un errore. Adesso, per favore, mi aiuti? la implorò. La dragonessa ritrasse la testa oltre il bordo della rupe. Dopo un momento, Eragon chiamò: «Saphira!» Sopra di lui non c’erano che alberi fruscianti. «Saphira! Torna qui!» ruggì. Con uno schianto fragoroso. Saphira uscì dal folto degli alberi, librandosi a mezz’aria. Volò verso Eragon come un pipistrello enorme e gli afferrò la camicia con gli artigli, graffiandogli la schiena. Lui lasciò la presa sulla roccia, mentre lei lo sollevava. Dopo un breve volo, lo depose con delicatezza in cima alla rupe e sfilò gli artigli dalla camicia. Pazzo che non sei altro, commentò Saphira bonaria. Eragon contemplò il panorama. La rupe offriva una vista perfetta su tutto il circondario, specie sull’oceano spumeggiante, e anche protezione da occhi indiscreti. Soltanto gli uccelli avrebbero visto Saphira lì. Era il luogo ideale. C’è da fidarsi dell’amico di Brom? chiese Saphira. Non lo so. Eragon le raccontò gli eventi della giornata. Ci sono forze intorno a noi di cui non siamo consapevoli. A volte mi chiedo se possiamo mai capire le vere ragioni che muovono le persone che ci circondano. Sembra che tutti abbiano dei segreti. Così va il mondo. Ignora ogni facile deduzione e confida nella natura di ciascuno. Brom è buono. Non intende farci del male. Non dobbiamo temere i suoi piani. Lo spero, disse lui, studiandosi le mani. Questa ricerca dei Ra’zac attraverso gli scritti è uno strano rnodo di rintracciarli, commentò lei. Non si potrebbe ricorrere alla magia per controllare i registri senza entrare nella stanza? Non ne sono sicuro. Bisognerebbe combinare la parola vedere con la parola distanza... o magari luce e distanza. Comunque sìa, mi pare piuttosto difficile. Chiederò a Brom. Buona idea. Cadde un quieto silenzio.Sai, potremmo restare a Teirm per un po’. La risposta di Saphira fu tagliente. E come sempre, io sarò costretta ad aspettare lontano. Non è così che volevo che andasse. Ben presto torneremo a viaggiare insieme. Che quel giorno possa arrivare presto. Eragon sorrise e la abbracciò. Notò allora che la luce svaniva rapida. Devo andare, altrimenti mi chiudono fuori falla città. Domani va’ a caccia, e la sera tornerò a trovarti. La dragonessa dispiegò le ali. Vieni, ti porto giù. Eragon montò sul suo dorso squamoso e si resse forte, mentre lei si lanciava giù dalla rupe, sfiorava gli alberi e atterrava su una collinetta. Eragon la ringraziò e prese a correre verso Teirm, Arrivò in vista della saracinesca proprio mentre questa cominciava ad abbassarsi. Urlando di aspettare, corse a perdifiato e s’infilò sotto il portale di ferro qualche istante prima che si sigillasse con un tonfo. «Appena in tempo» osservò una delle guardie. «Non accadrà più» disse Eragon, piegandosi in due per riprendere fiato. Si addentrò nella città buia, in cerca della casa di Jeod. Una lanterna era appesa fuori dalla porta, come un faro. Bussò. Un florido maggiordomo gli venne ad aprire e lo accompagnò dentro senza una parola. Le pareti di pietra erano tappezzate di arazzi. Tappeti arabescati coprivano a tratti il lucido pavimento di legno, che rifletteva la luce emanata da tre lampadari d’oro. Il fumo delle candele si allargava nell’aria e si raccoglieva contro il soffitto. «Da questa parte, signore. H vostro amico è nello studio.» Passarono davanti a decine di porte, finché il maggiordomo non ne aprì una che dava sullo studio. Le pareti erano tappezzate di libri. Ma a differenza di quelli della stanza di Jeod nella cittadella, questi erano di ogni forma e dimensione. Un caminetto colmo di ciocchi ardenti riscaldava l’ambiente. Brom e Jeod erano seduti davanti a una scrivania ovale, a chiacchierare amabilmente. Brom alzò la pipa e disse con.voce gioviale: «Ah, eccoti, finalmente. Ci stavamo preoccupando. Com’è andata la passeggiata?» Chissà cosa l’ha messo di buonumore. Perché non mi ha chiesto come sta Saphira? «Bene, ma per poco le guardie non mi chiudevano fuori dalla città, E Teirm è enorme. Ho fatto molta fatica a trovare questa casa.» Jeod ridacchiò. «Aspetta di vedere Dras-Leona. Gil’ead, o magari Kuasta, e questa piccola città costiera non ti sembrerà più tanto grande. Ma qui mi piace. Quando non piove. Teirm è davvero incantevole.» Eragon si rivolse a Brom. «Sai quanto dovremo restare?» Brom alzò le mani. «Difficile a dirsi. Dipende. Dobbiamo arrivare ai registri e non sappiamo quanto tempo ci metteremo a trovare quello che cerchiamo. Dovremo collaborare tutti: è un’impresa immane. Domani parlerò con Brand per sapere se ci permette di consultarli.» «Non credo che potrò esserti d’aiuto» disse Eragon, spostando il peso da una gamba all’altra con evidente imbarazzo. «Perché no?» fece Brom. «Ci sarà parecchio lavoro per te.» Eragon chinò il capo. «Non so leggere.» Brom lo guardò, allibito. «Vuoi dire che Garrow non ti ha mai insegnato?» «Perché, lui sapeva leggere?» disse Eragon, sconcertato. Jeod li osservava con interesse. «Certo che sapeva leggere» sbuffò Brom. «Quel mulo testardo... ma che cosa credeva di fare? Avrei dovuto capirlo. Probabilmente lo considerava un lusso superfluo.» Brom si accigliò, tirandosi la barba con rabbia. «Questo rallenta i miei piani, ma non è un danno irreparabile. Mi basterà insegnarti a leggere. Non ci vorrà molto, se ti impegni sul serio.» Eragon sospirò. Di solito le lezioni di Brom erano rigorose ed estenuanti. Ancora un mucchio di informazioni da apprendere! «Suppongo che sia una cosa necessaria» disse in tono rassegnato. «Vedrai, ti piacerà. C’è tanto da imparare sui libri e sulle pergamene» disse Jeod. Indicò le pareti. «Questi libri sono i miei amici, i miei compagni. Mi fanno ridere, piangere, e danno un senso alla mia vita.» «Sembra affascinante» ammise Eragon. «Lo studioso che torna a galla, eh?» disse Brom. Jeod scrollò le spalle. «Non più. Temo di essermi trasformato in un bibliofilo.» «Un che?» domandò Eragon. «Uno che ama i libri» gli spiegò Jeod. Poi riprese a conversare con Brom. Annoiato, Eragon cominciò a esaminare gli scaffali. Un elegante volume dalle borchie d’oro catturò la sua attenzione. Lo sfilò dallo scaffale e lo guardò incuriosito. Era rilegato in pelle nera, su cui erano incise misteriose rune. Eragon fece scorrere le dita sulla copertina e ne assaporò la fredda levigatezza. Dentro, le lettere erano stampa te in lucido inchiostro rossiccio. Mentre sfogliava le pagine, l’occhio gli cadde su una colonna di scrittura diversa dal resto. Le parole erano lunghe e scorrevoli, tutte linee leggiadre e punte aguzze. Eragon portò il libro a Brom. «Cos’è?» domandò, indicando la strana scrittura. Brom esaminò la pagina da vicino e inarcò un sopracciglio, sorpreso. «Jeod, vedo che hai ampliato la tua collezione Dove l’hai preso? Non ne vedo uno da secoli.» Jeod tese il collo per vedere il libro. «Ah, sì, il Domia abr Wyrda. Passò un uomo da queste parti qualche anno fa, e cercò di venderlo a un commerciante del porto. Per fortuna mi trovavo anch’io lì, e riuscii a salvare il libro, oltre che il collo di quell’uomo. Non aveva idea di quello che aveva tra le mani.» «È strano, Eragon, che tu abbia preso proprio questo volume, il Dominio del Fato» disse Brom. «Di tutti gli oggetti di questa casa, probabilmente è il più prezioso. Contiene la storia completa di Alagasëia, da prima dell’arrivo degli elfi fino a qualche decennio fa. Il libro è molto raro ed è il migliore nel suo genere. Quando fu scritto, l’Impero lo giudicò blasfemo e mandò al rogo l’autore. Heslant il Monaco. Non credevo che ne esistessero ancora delle copie. La scrittura di cui mi hai chiesto appartiene all’antica lingua.» «E cosa dice?» domandò Eragon. Brom impiegò qualche minuto per decifrare le righe. «È un brano di un poema elfico che narra degli anni in cui si combattè contro i draghi. Qui descrive uno dei loro re. Ceranthor, che si lancia in battaglia. Gli elfi amano questo poema e lo recitano spesso, anche se ci vogliono tre interi giorni per farlo, così da non ripetere gli errori del passato. A volte lo cantano in modo così sublime che anche le pietre si mettono a piangere.» Eragon tornò alla sua sedia, tenendo il libro con delicatezza, È sorprendente che un uomo morto possa parlare ancora alla gente attraverso queste pagine. Finché questo libro sopravvive, anche le sue idee vivranno. Chissà se contiene informazioni sui Ra’zac. Continuò a sfogliare il libro,mentre Brom e Jeod chiacchieravano.Le ore passavano e Eragon cominciò a sonnecchiare. Mosso a pietà per la sua stanchezza, Jeod congedò i suoi ospiti. «Il maggiordomo vi mostrerà le vostre stanze» Salendo le scale, il domestico disse: «Se avete bisogno di qualcosa, tirate il cordone di fianco a l letto.» Si fermò davanti a tre porte, s’inchinò e scomparve. Mentre Brom entrava nella camera a destra, Eragon lo chiamò. «Posso parlarti?» «Lo hai appena fatto. A ogni modo entra pure.» Eragon si chiuse la porta alle spalle. «Saphira e io abbiamo avuto un’idea. C’è un …» Brom lo interruppe con un gesto della mano, poi tirò le tende della finestra. «Quando parli di certe cose, controlla prima che non ci siano orecchie indiscrete in ascolto.» «Scusa» disse Eragon, rimproverandosi per l’imprudenza. «Stavo dicendo, esiste un modo per evocare l’immagine di qualcosa che non puoi vedere?» Brom si sedette sul bordo del letto.«Quella di cui parli si chiama cristallomanzia. E’ un tipo di divinazione possibile ed estremamente utile in determinate circostanze, ma presenta uno svantaggio. Puoi divinare soltanto persone, luoghi e cose che hai già visto. Per esempio se volessi vedere i Ra’zac, ci riusciresti, ma non vedresti il luogo in cui si trovano. E ci sono anche altri problemi. Diciamo che vuoi divinare la pagina di un libro che hai già visto. Potresti vederla solo se il libro fosse aperto a quella pagina. Se il libro fosse chiuso mentre tenti di vederlo con la cristallomanzia, la pagina ti apparirebe tutta nera.» «Perché non si possono divinare oggetti che uno non ha visto?» domandò Eragon, affascinato dalle enormi potenzialità della cristallomanzia, malgradi i suoi limiti. Chissà se posso divinare qualcosa a leghe di distanza e usare la magia per influire su ciò che sta accadendo lì. «Perché» rispose Brom paziente «per usare la cristallomanzia devi conoscere quello che stai guardando e dove dirigere il tuo potere. Per esempio, se un estraneo ti venisse descritto anche nei minimi particolari, ti sarebbe comunque impossibile vederlo, per non parlare dell’ambiente e delle cose che lo circondano. Devi conoscere ciò che vuoi divinare prima di poterlo divinare. Ho risposto alla tua domanda?» Eragon prese qualche secondo per pensare. «Ma come si fa? Si evoca l’immagine nell’aria?» «Di solito no» disse Brom, scuotendo la testa canuta. «Questo richiede molta più energia che proiettarla su una superficie riflettente come l’acqua o uno specchio. Alcuni Cavalieri viaggiavano in lungo e in largo, cercando di vedere il più possibile. Così, quando scoppiava una guerra o si verificava qualche altro tipo di calamità, erano in grado di divinare qualunque evento si svolgesse nei confini di Alagasëia.» «Posso provarci?» disse Eragon. Brom lo fissò con aria severa. «No, non adesso. Sei stanco e questa pratica richiede molta energia. Ti insegnerò le parole, ma devi promettermi che stanotte non farai alcun tentativo. E comunque preferirei che tu aspettassi finché non lasciamo Teirm. Ho tante altre cose da insegnarti.» Eragon sorrise. «Prometto.» «D’accordo, allora.» Brom si protese verso di lui e gli sussurrò all’orecchio: «Draumr kópa.» Eragon impiegò un istante per imparare le parole. «Magari dopo aver lasciato Teirm posso provare a vedere Roran. Vorrei sapere che cosa sta facendo. Temo che i Ra’zac lo inseguano.» «Non ho intenzione di spaventarti, ma è più che probabile» disse Brom. «Anche se Roran non c’era mentre i Ra’zac battevano Carvahall, sono sicuro che hanno fatto domande su di lui. Chissà, può darsi che l’abbiano incontrato mentre erano a Therinsford. A ogni buon conto, dubito che la loro curiosità sia stata soddisfatta. Tu sei ancora uccel di bosco, in fin dei conti, e il re probabilmente li ha minacciati di atroci punizioni se non ti trovano. Se le loro ricerche continuano ad andare a vuoto, credo che torneranno indietro per interrogare Roran. È solo questione di tempo.» «Ma se questo è vero, l’unico modo per salvare Roran è far sapere ai Ra’zac dove mi trovo: così inseguiranno me invece di lui.» «No, nemmeno questo funzionerebbe. Non stai usando il cervello» lo rimproverò Brom. «Se non riesci a capire i tuoi nemici, come puoi aspettarti di anticipare le loro mosse? Anche se tu rivelassi la tua posizione, i Ra’zac darebbero lo stesso la caccia a Roran. E sai perché?» Eragon pensò a ogni possibilità. «Be’, se resto nascosto abbastanza a lungo da innervosirli, cattureranno Roran per costringermi a uscire allo scoperto. E se questo non funziona, lo uccideranno solo per farmi soffrire. E se divento un nemico pubblico dell’Impero, potrebbero usarlo come esca per catturarmi. E se mi incontro con Roran e loro lo scoprono, lo tortureranno per scoprire il mio nascondiglio.» «Bravo. Così la situazione è posta nei giusti termini» disse Brom. «Ma allora qual è la soluzione? Non posso permettere che lo uccidano!» Brom intrecciò le dita. «La soluzione mi pare ovvia. Roran dovrà imparare a difendersi da solo. Magari può suonarti spietato, ma come hai detto tu stesso, non puoi rischiare di incontrarti con lui. Forse non te lo ricordi... all’epoca deliravi… ma quando siamo partiti da Carvahall, ti dissi di aver lasciato una lettera di avvertimento per Roran perché non fosse del tutto impreparato al pericolo. Se ha un briciolo di buon senso, quando i Ra’zac si faranno di nuovo vedere a Carvahall, seguirà il mio consiglio e fuggirà.» «Non mi piace» disse Eragon in tono mesto. «Già, ma dimentichi una cosa.» «Cosa?» «C’è una nota positiva in tutto questo. Il re non può permettersi di lasciare in circolazione un Cavaliere che non sia sotto il suo controllo. Galbatorix è l’unico Cavaliere vivo, oltre a te, ma credo che gli piacerebbe averne un altro al suo servizio. Prima di uccidere te o Roran, ti proporrà di servirlo. Purtroppo, se mai riuscisse ad avvicinarsi abbastanza da farti questa offerta, ormai sarebbe troppo tardi per te per rifiutare e restare vivo.» «E la chiami una nota positiva!» «È l’unica cosa che può proteggere Roran. Finché il re non sa da che parte stai, non rischierà di allontanarti da sé facendo del male a tuo cugino. Tienilo bene a mente. I Ra’zac hanno ucciso Garrow, ma credo che sia stata una decisione sventata, presa in modo arbitrario. Da ciò che conosco di Galbatorix, non avrebbe mai approvato un atto simile, a meno di non averne un tornaconto.» «Ma come farò a respingere la proposta del re se mi troverò sotto minaccia di morte?» disse Eragon, pungente. Brom sospirò. Si avvicinò a un tavolino e immerse le dita in un bacile d’acqua di rose. «Galbatorix vuole che tu scelga di aiutarlo. Altrimenti sei più che inutile per lui. Perciò la domanda è questa: se mai ti dovessi trovare di fronte a questa scelta, sarai disposto a morire per ciò in cui credi? Perché questo è l’unico modo che avrai di rifiutarti.» La domanda rimase senza risposta. Alla fine Brom disse: «È un arduo dilemma, a cui non potrai rispondere finché non ti troverai ad affrontarlo. Rammenta che molte persone sono morte per le proprie convinzioni; succede spesso. Il vero coraggio consiste nel vivere e soffrire per ciò in cui credi.» 26 L’indovina e il gatto mannaro Eragon si svegliò tardi, la mattina dopo. Si vestì, si lavò il viso nel bacile, poi inclinò lo specchio per ravviarsi i capelli. Qualcosa nella sua immagine riflessa lo bloccò con le mani a mezz’aria. Si avvicinò per vedere meglio e notò che il proprio volto era cambiato da quando era fuggito da Carvahall, poco tempo prima. Le rotondità della fanciullezza erano scomparse, cancellate dalle fatiche del viaggio e dell’addestramento. Gli zigomi erano più pronunciati, la linea della mascella più marcata. Intorno agli occhi aveva ombre scure che gli conferivano un’aria selvaggia, aliena. Tenne lo specchio a distanza di braccio, e il suo volto riprese il suo aspetto normale: eppure pareva non appartenergli. Turbato, si mise l’arco e la faretra a tracolla e uscì dalla camera. Prima di arrivare in fondo al corridoio, il maggiordomo gli andò incontro e disse: «Signore. Neal e il mio padrone sono usciti presto stamattina, diretti al castello. Hanno detto di fare ciò che desiderate quest’oggi, perché non torneranno che stasera.» Eragon lo ringraziò per il messaggio e decise di andare subito a esplorare Teirm. Vagò per ore nelle vie, entrando in ogni bottega che colpiva la sua fantasia e chiacchierando con varie persone. Alla fine, la pancia e le tasche vuote lo costrinsero a prendere la via del ritorno a casa di Jeod. Quando arrivo nella strada dove abitava il mercante, sì fermò davanti alla porta dell’erborista. Era un luogo insolito per una bottega. Tutti gli altri negozi si trovavano lungo le mura della città, e non stipati come quello fra due imponenti edifici del quartiere elegante. Provò a spiare dalle finestre, ma la vista era ostruita da un fitto groviglio di piante all’interno. Incuriosito, entrò. Sulle prime non vide niente perché il negozio era buio, ma poi i suoi occhi si abituarono alla fioca luce verdastra che filtrava dalle finestre. Un uccello variopinto dalla lunga coda piumata e dal lungo becco aguzzo lo guardò torvo da una gabbia appesa vicino alla finestra. Le pareti erano coperte di piante; dal soffitto pendeva una moltitudine di rampicanti tra cui s’intrawedeva a stento un vecchio candelabro, mentre sul pavimento era posato un grosso vaso con un fiore giallo. Mortai, pestelli e ciotole di metallo di varie dimensioni affollavano il lungo bancone, insieme a una sfera di cristallo trasparente, grossa quanto la testa di Eragon. Il ragazzo si avvicinò al banco, attento a evitare complicati macchinari, casse di pietre, pile di pergamene e altri oggetti che non riconobbe. La parete alle spalle del banco era tappezzata di cassetti, alcuni non più grandi del suo dito mignolo, altri tanto ampi da contenere un barile. In alto, fra gli scaffali, c’era uno spazio vuoto. Un paio di occhi rossi balenarono all’improvviso da quell’anfratto buio, e un grosso gatto altero balzò sul bancone. Il suo corpo era asciutto, con spalle possenti e zampe enormi. Il muso a triangolo era circondato da un’ispida criniera; le orecchie a punta terminavano con due folti ciuffi neri, e sul labbro di sotto sporgevano due candide zanne. Nell’insieme, non assomigliava a nessun gatto che Eragon avesse mai visto. L’animale lo squadrò con occhi penetranti, poi agitò la coda, soddisfatto. D’impulso, Eragon dilatò la mente e toccò la coscienza del gatto. Con delicatezza, sfiorò i suoi pensieri nel tentativo di fargli capire che era un amico. Non devi. Eragon si guardò intorno allarmato. Il gatto lo ignorò e si leccò una zampa, Saphira. Dove sei? chiese. Nessuno rispose. Perplesso, si protese sul banco e tese una mano verso quella che sembrava una bacchetta di legno. Fossi in te non lo farei. Smettila di burlarti di me, Saphira, ribattè aspramente, e prese la bacchetta. Una violenta scossa elettrica gli esplose nel corpo mandandolo a gambe all’aria sul pavimento. Il dolore si attenuò, pian piano, lasciandolo boccheggiante. Il gatto balzò giù e lo guardò. Non sei tanto furbo, per essere un Cavaliere dei Draghi. Eppure ti avevo avvertito. Sei tu che parli! esclamò Eragon. Il gatto sbadigliò, si stiracchiò e prese a girellare per il negozio, aggirando con grazia gli ostacoli, Chi altri, sennò? Ma sei solo un gatto! osservò Eragon. Il gatto miagolò irritato e si volse. Gli saltò sul petto e si accoccolò, fissandolo con gli occhi scintillanti. Eragon cercò di alzarsi a sedere, ma il gatto ringhiò, mostrando i denti, ti sembro come gli altri gatti? No… E allora che cosa ti fa pensare che lo sia? Eragon fece per dire qualcosa, ma la creatura gli conficcò le unghie nel petto. Ovviamente la tua educazione presenta gravi lacune. Per tua informazione, io sono un gatto mannaro. Non siamo rimasti in molti, ma credo che perfino un contadinotto come te dovrebbe aver sentito parlare di noi. Non sapevo che foste veri, disse Eragon, affascinato. Un gatto mannaro! Era proprio fortunato. I gatti mannari comparivano ai margini di molte leggende, creature solitarie che in rare occasioni elargivano saggi consigli. Se le leggende erano vere, essi avevano poteri magici, vivevano più a lungo degli esseri umani, e sapevano molto più di quanto non dicessero. Il gatto mannaro sbatté le palpebre pigramente. L’esistenza non dipende dalla conoscenza. Io non sapevo che tu esistessi finché non sei piombato in negozio a interrompere il mio sonnellino. Ma questo non significa che tu non fossi vero prima di svegliarmi. Eragon si smarrì nel ragionamento. Mi dispiace di averti disturbato. Mi sarei svegliato comunque, disse il gatto. Saltò sul bancone e si leccò una zampa. Se fossi in te, non continuerei a tenere in mano quella bacchetta. Fra qualche secondo ti fulminerà di nuovo. Eragon si affrettò a rimetterla dove l’aveva trovata. Cos’è? Un manufatto comune e insignificante, al contrario di me. A cosa serve? Non l’hai capito da solo? Il gatto mannaro finì di pulirsi le zampe, si stiracchiò di nuovo, e con un balzo tornò nella sua cuccia sullo scaffale. Si accoccolò con le zampe sotto il petto e chiuse gli occhi, facendo le fusa. Aspetta, disse Eragon. Come ti chiami? Il gatto mannaro aprì uno degli occhi a mandorla. Ho molti nomi. Se vuoi sapere il mio vero nome, dovrai cercare da qualche altra parte. L’occhio si chiuse. Eragon si arrese e si volse per andarsene. Comunque, puoi chiamarmi Solembum. Grazie, disse Eragon serio. Le fusa di Solembum si fecero più sonore. La porta del negozio si aprì, lasciando entrare un fascio di luce. Comparve Angela, con una sacca di tela piena di piante. I suoi occhi fissarono Solembum per qualche istante e la sua espressione parve sconcertata. «Dice che vi siete parlati.» «Anche tu puoi parlargli?» chiese Eragon. La donna fece un gesto d’impazienza. «Naturale: solo che questo non sempre vuol dire che mi risponda.» Posò le piante sul bancone, poi lo aggirò e fronteggiò Eragon. «Gli sei simpatico. Ed è un fatto insolito. Solembum di solito non si fa nemmeno vedere dai clienti. Sai, dice che da qui a qualche anno ti dimostrerai una promessa.» «Grazie.» «È un gran complimento, detto da lui. Sei soltanto la terza persona che è entrata qui con cui ha parlato. La prima fu una donna, tanti anni fa; il secondo un mendicante cieco; e adesso tu. Ma non tengo un negozio solo per chiacchierare. Desideri qualcosa? O sei venuto solo a dare un’occhiata?» «Solo per un’occhiata» disse Eragon, pensando ancora al gatto marinaro. «Non credo che mi servano le erbe.» «Non è l’unica cosa di cui mi occupo» disse Angela con un sorriso. «Gli stupidi riccastri mi pagano per avere pozioni d’amore e cose del genere. Non ho mai detto che funzionano, ma per qualche ragione quelli tornano sempre. Però non.credo che tu voglia quelle porcherie. Vuoi che ti predica il futuro? Faccio anche questo, per le stupide riccastre.» Eragon scoppiò a ridere. «No, temo che il mio futuro sia imprevedibile. E non ho soldi.» Angela scoccò una strana occhiata a Solembum. «Credo...» Indicò la sfera di cristallo sul banco. «Questa è solo uno specchietto per le allodole, in realtà non serve a niente. Ma ho... Aspetta qui, torno subito.» E scomparve nel retrobottega. Tornò trafelata con un sacchetto di pelle che posò sul banco. «Non le uso da tanto di quel tempo che mi ero quasi dimenticata dove le avevo messe. Adesso siediti qui davanti e ti mostrerò perché mi prendo tanto disturbo.» Eragon spostò uno sgabello e si sedette. Gli occhi di Solembum rosseggiavano dal buio spazio fra i cassetti. Angela aprì il sacchetto e ne rovesciò il contenuto su di un pezzo di stoffa che aveva spiegato sul banco. Erano piccole ossa, poco più grandi di un dito, con incisi simboli e rune. «Queste» disse lei, sfiorandole con delicatezza. «sono ossa dì zampa di drago. Non chiedermi dove le ho prese, perché tanto non te lo dico. Al contrario delle foglie di té, delle sfere di cristallo, o anche dei tarocchi, possiedono un vero potere. Non mentono mai, anche se capire ciò che dicono è complicato. Se lo desideri, le lancerò per leggerti il futuro. Sappi però che conoscere il proprio destino può essere una cosa terribile. Devi essere sicuro della tua decisione.» Eragon guardò le ossa con un brivido di terrore. Questi sono i resti di ciò che un tempo era un simile di Saphira. Conoscere il proprio destino... Come faccio a prendere una decisione quando non so che cosa mi aspetta e se mi piacerà? L’ignoranza è una vera benedizione. «Perché me lo hai proposto?» chiese. «Per via di Solembum. Può essere stato scortese, ma il fatto che ti abbia parlato ti rende speciale. Lui è un gatto marinaro, in fin dei conti. Proposi la stessa cosa anche agli altri due che parlarono con lui, ma soltanto la donna accettò. Si chiamava Selena. Ah, ma quanto se ne pentì. Il suo destino era triste e doloroso. Non credo che ci abbia creduto... non subito, almeno.» Eragon si sentì travolgere da un’intensa emozione e gli vennero le lacrime agli occhi. «Selena» mormorò fra sé. Il nome di sua madre, Era lei? Il suo destino era così orribile da indurla ad abbandonarmi? «Ti ricordi qualcosa della predizione?» domandò con un vuoto allo stomaco. . Angela scosse il capo e sospirò. «È passato tanto di quel tempo che i dettagli si sono dissolti nella mia memoria, che non è più buona come una volta. D’altro canto, non ti direi mai quello che ricordo. La mia predizione era per lei e lei soltanto, Era triste, però; non scorderò mai la sua espressione.» Eragon chiuse gli occhi per arginare il flusso di emozioni. «Perché ti lamenti della tua memoria?» domandò, per distrarsi. «Non sei tanto vecchia.» Sulle guance di Angela comparvero due fossette. «Sono lusingata, ma non farti ingannare; sono molto più vecchia di quanto non sembri. L’aspetto giovanile lo devo alle erbe che mangio nei tempi di magra.» Eragon sorrise e trasse un lungo respiro. Se era mia madre ed è riuscita a sopportare il fardello della conoscenza del proprio destino, farò altrettanto. «Lancia le ossa per me» disse, in tono solenne. Il volto di Angela divenne serio, mentre raccoglieva le ossa in tutte e due le mani. Chiuse gli occhi e le sue labbra si mossero in un mormorio silente. Poi esclamò a gran voce: «Manin! Wyrda! Hugin!» e gettò le ossa sul panno. Caddero l’una sull’altra, scintillando nella debole luce. Le parole risuonavano nelle orecchie di Eragon; aveva riconosciuto l’antica lingua e si rese conto con apprensione che per usarle a scopi magici. Angela doveva essere una maga. Non aveva mentito; era una vera indovina. I minuti passarono lentamente mentre la donna leggeva le ossa. Infine. Angela si ritrasse ed emise un lungo sospiro. Si asciugò la fronte e prese un otre di vino sotto il bancone. «Ne vuoi un po’?» gli chiese. Eragon fece di no con la testa. Lei si strinse nelle spalle e bevve un lungo sorso. «Questa» disse, pulendosi la bocca col dorso della mano «è la lettura più difficile che mi sia mai capitata. Avevi ragione. Il tuo futuro è impossibile da prevedere. Non ho mai conosciuto nessuno con un destino così intricato e oscuro. Tuttavia, forse qualcosa ti posso dire.» Solembum balzò sul bancone e si accoccolò a guardare entrambi. Eragon strinse i pugni mentre Angela gli indica-va un osso. «Cominciamo da qui» disse. «perché è il più facile da comprendere.» Il simbolo sull’osso era una lunga linea orizzontale con un cerchio sopra. «Eternità o lunga vita» disse Angela in tono sommesso. «Questa è la prima volta che lo vedo comparire nel futuro di qualcuno. Di solito vengono fuori il pioppo o l’olmo, che indicano entrambi che la persona vivrà un normale ciclo di anni. Se questo significa che vivrai per sempre o soltanto che avrai una vita straordinariamente lunga, non so dirtelo. Comunque sia, sta’ sicuro che ti aspettano ancora moltissimi anni.» Non è una sorpresa... sono un Cavaliere, pensò Eragon. Angela gli avrebbe detto soltanto cose che lui già sapeva? «Adesso le ossa diventano più difficili da decifrare, perché si sono mescolate in modo strano.» Angela ne toccò tre. «Il tortuoso cammino, il fulmine guizzante e il veliero sono caduti insieme... in uno schema che non ho mai visto personalmente, solo sentito descrivere. Il tortuoso cammino rappresenta le molteplici scelte che dovrai affrontare in futuro, alcune già adesso. Vedo grandi battaglie infuriare intorno a te, alcune per la tua stessa salvezza. Vedo i gran-di poteri di questa terra lottare per controllare la tua volontà e il tuo destino. Innumerevoli possibili futuri ti attendono, ciascuno denso di sangue e di conflitti, ma uno solo ti porterà la felicità e la pace. Attento a non smarrire la strada, poiché tu sei uno dei pochi davvero liberi di scegliere il proprio destino. Questa libertà è un dono, ma anche una responsabilità più pesante di una catena.» Poi il suo volto si fece triste. «Eppure, come a contrasta-re tutto questo, c’è il fulmine guizzante. E’un presagio terribile. Un oscuro evento incombe, ma di che tipo non lo so. Parte di esso risiede in una morte, una morte imminente che ti causerà un enorme dolore. Ma il resto riguarda un grande viaggio. Osserva bene quest’osso. Guarda come la sua estremità poggia su quello con il veliero. È impossibile sbagliarsi. Il tuo destino sarà quello di lasciare questa terra per sempre. Dove finirai non lo so, ma non vivrai più in Alagasëia, È inevitabile. Accadrà anche se cercherai di evitarlo.» Le sue parole lo spaventarono. Un’altra morte... chi dovrò perdere adesso? La sua mente corse subito a Roran. Poi pensò alla sua terra d’origine. Che cosa potrà indurmi a partire? E dove andrò? Se ci sono altre terre al di là dell’oceano oppure a est, soltanto gli elfi le conoscono. Angela si massaggiò le tempie e trasse un profondo respiro. «Quest’altro osso è più facile da interpretare, ed è anche più piacevole.» Eragon lo guardò e vide un bocciolo di rosa racchiuso in un falce di luna. Angela sorrise e disse: «Nel tuo futuro c’è una grande storia d’amore, straordinaria, come suggerisce la luna, che è un simbolo magico, e forte abbastanza da travalicare gli imperi. Non so dirti se questa passione avrà un epilogo felice, ma il tuo amore sarà di nobile stirpe. È potente, saggia e bella oltre ogni dire.» Di nobile stirpe, pensò Eragon sorpreso. Com’è possibile? Io non sono più nobile del più povero dei contadini. «Per quanto riguarda le ultime due ossa, l’albero e la radice di biancospino, che sono messi a croce,mi rincresce dirlo… potrebbero significare soltanto altri problemi... ma il tradimento è evidente, E verrà da qualcuno dentro la tua famiglia.» «Roran non lo farebbe mai!» esclamò Eragon risentito. «Non lo so» disse Angela prudente. «Ma le ossa non mentono, ed è questo che dicono.» Il tarlo del dubbio prese a insinuarsi nella mente di Eragon, che tentò di ignorarlo. Che motivo avrebbe avuto Roran di tradirlo? Angela gli posò una mano sulla spalla per confortarlo e gli offrì di nuovo il vino. Questa volta Eragon accettò e bevve. Si sentì subito meglio. «A conti fatti, chissà, la morte potrebbe non essere tanto male» scherzò nervosamente. Roran un traditore? Non può accadere! Non accadrà! «Può darsi» disse Angela solenne, poi mitigò il tono con una risatina leggera. «Ma non dovresti angosciarti per ciò che deve ancora succedere. L’unico modo in cui il futuro può danneggiarci è dandoci dei pensieri. Ti garantisco che ti sentirai meglio quando uscirai di nuovo alla luce del sole.» «Speriamo.» Purtroppo, pensò Eragon con amarezza, niente di quello che ha dettò avrà un senso finché non sarà accaduto. Se accadrà, si corresse. «Hai usato parole di potere» commentò a voce alta. Gli occhi di Angela scintillarono. «Che cosa darei per vedere come si svolgerà il resto della tua vita. Sai parlare ai gatti marinari, conosci l’antica lingua, e hai un futuro a dir poco affascinante. E poi sono pochi i giovanotti al verde e con gli abiti logori che possono sperare di essere amati da una nobildonna. Chi sei?» Eragon si rese conto che il gatto marinaro non aveva detto ad Angela che lui era un Cavaliere. Stava per dire “Evan”, ma poi cambiò idea e disse semplicemente: «Eragon.» Angela inarcò le sopracciglia. «È quello che sei o il tuo nome?» «Entrambi» rispose Eragon con un lieve sorriso, pensando al primo Cavaliere da cui veniva il suo nome. «Sono sempre più curiosa di vedere come si svolgerà la tua vita. Chi è il vecchio con cui stavi ieri?» Eragon decise che un altro nome non poteva far danno. «Si chiama Brom.» Angela scoppiò in una risata sonora, piegandosi in due. Si asciugò gli occhi e bevve un sorso di vino, poi contenne a stento un altro attacco di ilarità. Alla fine, ansimando per riprendere fiato, riuscì a dire: «Oh... lui! Non ne avevo idea!» «Che cosa significa?» domandò Eragon. «Scusa, non prendertela» disse Angela, cercando di ricomporsi. «È solo che... Be’, è famoso fra quelli che esercitano la mia professione. Temo che il destino, o se preferisci il futuro, di quel povero diavolo sia una specie di burla fra noi.» «Non insultarlo! È l’uomo migliore che si possa conoscere!» reagì Eragon. «Calma, calma» borbottò Angela, divertita. «Lo so. Se ci incontreremo di nuovo, te ne parlerò. Ma nel frattempo dovresti...» S’interruppe quando Solembum s’insinuò fra di loro e prese a fissare Eragon. Sì? Disse Eragon irritato. Ascolta bene le due cose che ho da dirti. Quando giungerà il momento e ti servirà un’arma, guarda sotto le radici dell’albero di Menoa. Poi, quando tutto ti sembrerà perduto e il tuo potere non basterà, vai alla rocca di Kuthian e pronuncia il tuo nome per schiudere la Volta delle Anime. Prima che Eragon avesse il tempo di chiedere a Solembum che cosa volesse dire, il gatto marinaro si allontanò facendo ondeggiare con grazia la coda. Angela inclinò la testa da un lato; i boccoli bruni le ombreggiavano la fronte. «Non so che cosa ti ha detto, e non lo voglio sapere. Ha parlato a te e soltanto a te. Non raccontarlo a nessuno.» «Credo di dover andare» disse Eragon scosso. «Se vuoi» disse Angela, sorridendo di nuovo. «Per me puoi restare finché ti pare, soprattutto se compri un po’ delle mie erbe. Ma vai, se lo desideri; sono sicura che ti abbiamo dato abbastanza notizie da rifletterci per un po’.» «Già.» Eragon si affrettò alla porta. «Grazie per avermi letto il futuro.» Credo. «Non c’è di che» rispose Angela, sempre sorridente. Eragon uscì dal negozio e si fermò sulla strada, socchiudendo gli occhi per riabituarsi alla luce. Passarono parecchi minuti prima che riuscisse a ripensare con calma a quanto aveva appreso. Cominciò a camminare, a passi ignari ma sempre più veloci, finché non si ritrovò a correre fuori da Teirm, verso il nascondiglio di Saphira. La chiamò dalla base della rupe. Dopo un minuto la dragonessa planò su di lui, lo afferrò al volo e risalì in cima alla rupe. Una volta tornato a terra, Eragon le raccontò quello che era successo nella bottega dell’erborista. E così, concluse, immagino che Brom abbia ragione: sembra che mi trovi sempre dove ci sono guai. Dovresti tenere a mente quello che ti ha detto il gatto mannaro. È importante. Che cosa ne sai? domandò lui, curioso. Non ne sono sicura, ma i nomi che ha usato suonano potenti. Kuthian, disse lei, assaporando la parola. No, non dovremmo dimenticare quello che ha detto. Credi che dovremmo dirlo a Brom? È una tua scelta, ma pensa una cosa: lui non ha il diritto di conoscere il tuo futur.. Raccontargli di Solembum e delle sue parole solleverebbe domande a cui potresti non voler rispondere. E se decidi di chiedergli soltanto che cosa significano quelle parole. Brom potrebbe voler sapere dove le hai sentite. Credi di potergli mentire in modo convincente? No, ammise Eragon. Forse non gli dirò niente. Eppure ho l’impressione che siano cose troppo importanti per tenerle nascoste. Continuarono a parlare di tutto quanto nel dettaglio, con minuzia, tra domande e risposte, e alla fine rimasero in silenzio a guardare gli alberi fino al tramonto. Eragon tornò di corsa a Teirm e bussò subito alla porta di Jeod. «Neal è tornato?» chiese al maggiordomo. «Sì, signore. Credo che si trovi nello studio, adesso.» «Grazie» disse Eragon. Si avviò verso la stanza e fece capolino dalla porta. Brom era seduto davanti al fuoco, intento a fumare la pipa. «Com’è andata?» chiese Eragon. «Un fiasco totale» ringhiò Brom, la pipa stretta fra i denti. «Hai parlato con Brand?» «Non è servito a niente. L’amministratore dei commerci è il peggior burocrate che abbia mai incontrato. Si attiene scrupolosamente a ogni minima regola, godendo nel crearne di nuove se solo possono provocare problemi ad altri, e allo stesso tempo è convinto di far bene.» «Vuoi dire che non ci lascerà guardare i registri?» disse Eragon.. «Già!» sbottò Brom, esasperato. «Non c’è stato niente da fare. Pensa che ha rifiutato perfino un sostanzioso omaggio in denaro. Credevo che non avrei mai conosciuto un nobile incorruttibile. Adesso che l’ho incontrato, ho scoperto che preferisco quando sono degli avidi bastardi.» Sbuffò con violenza il fumo della pipa e si lanciò in una sfilza d’imprecazioni. Quando parve aver ripreso la calma, Eragon osò chiedere: «E adesso?» «Adesso passerò tutta la prossima settimana a insegnarti a leggere.» «D’accordo, ma dopo?» Un ghigno affiorò sulle labbra di Brom. «Dopo, faremo a Brand una gran brutta sorpresa.» Eragon insistette per conoscere i dettagli, ma Brom si rifiutò di aggiungere altro. La cena ebbe luogo in una sontuosa sala da pranzo. Jeod sedette a capotavola, sua moglie Helen all’estremità opposta. Brom ed Eragon presero posto fra loro, una posizione che Eragon ritenne pericolosa, a giudicare dall’espressione arcigna della padrona di casa. Ai suoi lati c’erano delle sedie vuote, ma questo almeno lo proteggeva dagli sguardi furenti della donna. La cena fu servita in silenzio, e Jeod ed Helen cominciarono a mangiare senza dire una parola, Eragon li imitò, pensando: Ho partecipato a pranzi più allegri dopo un funerale. Ricordò le volte che gli era successo a Carvahall: lì almeno la tristezza era giustificata. Qui invece la situazione era diversa, ma per tutta la cena si sentì bersaglio della collera repressa di Helen. 27 Letture e complotti Brom scrisse una runa sulla pergamena con un carboncino, poi la mostrò a Eragon. «Questa è la lettera A» disse. «Imparala.» Così Eragon iniziò la sua carriera di letterato. Era difficile, strana e impegnativa, ma gli piaceva. Non avendo niente di meglio da fare e con un valido seppur qualche volta impaziente maestro, i suoi progressi furono enormi. Tutti i giorni Eragon si alzava presto, faceva colazione in cucina e poi andava nello studio per le lezioni, dove imparava il suono delle lettere e le regole della scrittura. Arrivò al punto che quando chiudeva gli occhi, lettere e parole gli davanzano dietro le palpebre. In quel periodo non pensò ad altro. Prima di cena, lui e Brom andavano dietro la casa di Jeod per l’addestramento. I domestici, insieme a una piccola folla di bambini curiosi, li andavano a vedere. Poi, se restava tempo, Eragon si chiudeva in camera sua con le tende ben tirate a esercitarsi nella magia. Il suo unico cruccio era Saphira. Andava a trovarla ogni sera, ma per entrambi il tempo che passavano insieme non bastava. Durante la giornata, Saphira si allontanava di parecchie leghe in cerca di cibo; non poteva cacciare vicino a Teirm per non destare sospetti. Eragon faceva il possibile per lei, ma sapeva che l’unica soluzione per la sua solitudine e la fame era partire al più presto da Teirm. Ogni giorno in città arrivavano notizie sempre più nere. I mercanti di passaggio parlavano di terribili attacchi lungo la costa. Si diceva che parecchi personaggi influenti fossero scomparsi da casa durante la notte, per essere ritrovati massacrati la mattina dopo. Eragon udì spesso Brom e Jeod parlarne sottovoce, ma si interrompevano sempre quando compariva lui. Passò in fretta una settimana. Le capacità di Eragon erano rudimentali, ma sapeva leggere intere pagine senza chiedere l’aiuto di Brom. Leggeva adagio, certo che col tempo sarebbe andato più veloce. Brom lo incoraggiava. «Non importa, andrà benissimo per quello che ho in mente.» Era pomeriggio quando Brom convocò Jeod ed Eragon nello studio. Brom fece un cenno al ragazzo. «Ora che sei in grado di aiutarci, è tempo di agire.» «Qual è il tuo piano?» domandò Eragon. Sul volto di Brom si dipinse un sorriso feroce. Jeod gemette. «Conosco quello sguardo: significa guai.» «Andiamo, non esagerare» disse Brom. «D’accordo, ecco cosa faremo...» Partiremo stanotte, o al più tardi domattina, disse Eragon a Saphira dalla sua stanza. Non me l’aspettavo. Sei sicuro che non ti succederà niente? Eragon si strinse nelle spalle. Non lo so. Magari finiremo per fuggire da Teirm con i soldati alle calcagna. Avvertì la preoccupazione della dragonessa e cercò di rassicurarla. Andrà tutto, bene. Brom e io sappiamo usare la magia, e siamo dei bravi combattenti. Si distese sul letto a fissare il soffitto. Gli tremavano le mani e aveva un nodo in gola. Mentre il sonno lo coglieva, si sentì pervadere da una profonda confusione. Non voglio lasciare Teirm, si scoprì a pensare. Il periodo che ho trascorso qui è stato... quasi normale. Che cosa non darei per mettere di nuovo radici, restare qui e vivere come tutti gli altri. Poi un altro pensiero lo colse. Ma non posso, se voglio, restare con Saphira. Non posso. La sua coscienza fu invasa dai sogni, che la guidarono a proprio capriccio A volte Eragon gridò di paura; altre rise di gusto. Poi qualcosa cambiò, come se avesse aperto gli occhi, e fece il sogno più vivido che gli fosse mai capitato. Vide una giovane donna, sofferente, incatenata in una cella fredda e buia. Un raggio di luna filtrò fra le sbarre di un’alta finestrella e le illuminò il viso. Una lacrima, una sola, le cadde lungo la guancia come un diamante liquido. Eragon si svegliò di soprassalto e si scoprì scosso da violenti singhiozzi. Poi ricadde in un sonno tormentato. 28 Ladri al castello Eragon si svegliò in un bagno di luce dorata. I raggi rossi e arancio del sole morente entravano nella stanza, inondando il letto di un dolce tepore. Non aveva alcuna voglia di muoversi e rimase in un quieto dormiveglia finché la luce non si ritrasse, e lui sentì freddo. Il sole si tuffò oltre l’orizzonte, dipingendo il mare e il cielo di colori stupefacenti. È quasi l’ora! Si alzò e indossò il farsetto sulla camicia, annodando bene i lacci. Poi si mise l’arco e la faretra a tracolla, ma lasciò Zar’roc nella camera: la spada lo avrebbe impacciato, e ancora non si sentiva pronto a usarla. Se doveva bloccare qualcuno, preferiva farlo con la magia o una freccia. Attese impaziente nella sua camera finché la luce non svanì. Scrollò le spalle per far aderire meglio la faretra alla schiena e uscì nel corridoio, dove lo raggiunse Brom, armato di spada e bastone. Jeod, giubba nera e calzoni al ginocchio, li aspettava fuori. Alla cintura portava un elegante stocco e una bisaccia di pelle. Brom adocchiò lo stocco e osservò: «Quel pungolo è troppo sottile per un vero duello. Che cosa farai se qualcuno ti insegue con uno spadone o una flamberga?» «Sii realistico» disse Jeod. «Nessuna delle guardie ha una flamberga. Per giunta, questo pungolo è molto più veloce di uno spadone.» Brom alzò le spalle. «Il collo è tuo...» S’incamminarono con fare disinvolto, cercando di evitare soldati e sentinelle. Eragon era teso e il cuore gli batteva all’impazzata. Quando passarono davanti al negozio di Angela, con la coda dell’occhio colse un rapido movimento sul tetto. Si volse, ma non vide.nessuno. La mano gli formicolava. Alzò di nuovo lo sguardo, ma il tetto era deserto. Brom li condusse lungo la muraglia esterna di Teirm. Il tempo di raggiungere il castello, e il cielo si era fatto nero. A Eragon le mura invalicabili della fortezza diedero i brividi. Sarebbe stato orribile venire rinchiusi lì dentro. Jeod si pose alla testa del gruppo e si avvicinò al cancello, sforzandosi di avere un’aria tranquilla. Bussò forte e aspettò. Si aprì una piccola griglia da cui si affacciò una guardia dall’espressione arcigna. «Sì?» grugnì soltanto, Eragon sentì una zaffata di rum. «Dobbiamo entrare» disse Jeod. La guardia squadrò meglio Jeod. «Perrrché?» «Il ragazzo ha lasciato una cosa importante nel mio studio, e devo recuperarla subito.» Eragon chinò il capo con aria contrita. La guardia aggrottò la fronte, chiaramente smaniosa di tornare alla sua bottiglia. «Ah, scerto» biascicò, gesticolando. «Ma dategli una bella sciuonata da parrrte mia.» «Lo farò» disse Jeod, mentre la guardia apriva una piccola porta ritagliata nel cancello. Entrarono nel maschio, e Brom lanciò alla guardia qualche moneta. «Grascie» borbottò l’uomo, allontanandosi con passo malfermo. Non appena se ne fu andato, Eragon sfilò l’arco dalla custodia e lo incordò. Jeod li guidò in fretta verso l’ala principale del castello, le orecchie pronte a cogliere il minimo rumore di soldati di pattuglia. Davanti alla sala dei registri. Brom provò ad aprire la porta, ma era chiusa a chiave. Appoggiò la mano sulla porta e mormorò una parola che Eragon non riconobbe. La porta si schiuse con un lieve scatto metallico. Brom afferrò una torcia dalla parete e i tre entrarono, richiudendosi la porta alle spalle. Si ritrovarono in una stanza quadrata gremita di file di scaffali pieni di rotoli di pergamena. Sulla parete di fondo c’era una finestra con le sbarre. Jeod si addentrò nella foresta di scaffali, facendo scorrere lo sguardo sulle pergamene. «Quaggiù» chiamò gli altri. «Questi sono i registri degli ultimi cinque anni. Si può risalire alla data dal sigillo di ceralacca nell’angolo.» «E adesso che cosa facciamo?» disse Eragon, sollevato di essere arrivato fino a lì senza che li avessero scoperti. «Cominciamo dall’alto e scendiamo» disse Jeod. «Alcuni registri contengono solo le entrate provenienti dalle tasse. Possiamo ignorarli. Cerca qualunque cosa che menzioni l’olio di Seithr.» Estrasse dalla bisaccia un pezzo di pergamena, una bottiglietta di inchiostro e una penna. «Così possiamo annotare quello che troviamo» spiegò.Brom raccolse una bracciata di pergamene dalla cima dello scaffale e le depose a terra. Si sedette e cominciò a srotolare la prima. Eragon si unì a lui, prendendo una posizione che gli consentisse di controllare la porta. Il noioso lavoro si rivelò particolarmente complicato per lui: la scrittura minuta era diversa dalle lettere che Brom gli aveva insegnato. Cercando solo i nomi delle navi che battevano le aree settentrionali, riuscirono a eliminare diversi rotoli. Ma anche in quel modo procedevano a rilento, annotando ogni spedizione di olio di Seithr che scoprivano. C’era silenzio all’esterno, a parte le grida cadenzate del sorvegliante notturno. All’improvviso Eragon si sentì formicolare la nuca. Cercò di continuare a lavorare, ma la strana sensazione permaneva. Irritato, alzò lo sguardo e trasalì quando vide un ragazzino appollaiato sul davanzale. Aveva gli occhi a mandorla e una ghirlanda di agrifoglio intrecciata nei capelli neri e ricciuti. Ti serve aiuto? disse una voce nella sua testa. Sgranò gli occhi per la sorpresa. Sembrava la voce di Solembum. Sei tu? domandò incredulo. Sono qualcun altro? Eragon deglutì e si concentrò sulla pergamena. Se gli occhi non m’ingannano, sì. Il ragazzo sorrise, rivelando denti aguzzi. Quello che sembro non cambia quello che sono. Non crederai che mi chiamino gatto mannaro per niente, no? Che cosa ci fai qui? domandò Eragon. Il gatto mannaro piegò la testa da un lato, come per decidere se la domanda meritava una risposta. Questo dipende da quello che ci fai tu, qui. Se stai leggendo questi registri tanto per divertirti, allora suppongo che la mia visita sia inutile. Ma se quello che stai facendo è illegale e non vuoi essere scoperto, allora potrei essere qui per avvertirti che la guardia che avete corrotto ha appena parlato di voi con il suo sostituto e che il secondo ufficiale dell’Impero ha mandato dei soldati a cercarvi. Grazie di avermelo detto, disse Eragon. Ti ho detto qualcosa? Immagino di sì, E ti suggerisco di farne buon uso. Il ragazzo si alzò e si gettò indietro i capelli scarmigliati, Eragon gli domandò in fretta: Che cosa volevi dire l’ultima volta quando hai parlato dell’albero e della volta? Precisamente quello che ho detto. Eragon.cercò di chiedere altro, ma il gatto mannaro svanì oltre la finestra. A voce alta il ragazzo annunciò; «I soldati ci stanno cercando.» «Come lo sai?» chiese Brom incuriosito. «Ho sentito. Il sostituto della guardia ha appena mandato degli uomini a cercarci. Dobbiamo andarcene in fretta. Probabilmente hanno già scoperto che l’ufficio di Jeod è vuoto.» «Sei sicuro?» domandò Jeod. «Sì!» esclamò Eragon impaziente. «Stanno arrivando.» Brom sfilò un altro rotolo dallo scaffale. «Non importa. Dobbiamo finire adesso!» Lavorarono come forsennati per il minuto seguente, scorrendo i registri il più in fretta possibile. Quando ebbero finito con l’ultimo rotolo. Brom lo infilò al suo posto nello scaffale; Jeod ripose pergamena, inchiostro e penna nella bisaccia, ed Eragon prese la torcia. Corsero fuori dalla sala e si chiusero la porta alle spalle. In quel momento udirono i passi pesanti dei soldati in fondo al corridoio. Stavano per andarsene quando Brom mormorò fra i denti: «Dannazione! Non ho chiuso a chiave.» Appoggiò la mano sulla porta; la serratura scattò nello stesso momento in cui tre soldati armati comparvero. «Altolà! Allontanatevi da quella porta!» gridò uno di loro. Brom si fece da parte, assumendo un’espressione sorpresa. I tre soldati marciarono verso di loro. Il più alto chiese: «Perché volevate entrare nella sala dei registri?» Eragon strinse forte l’arco, pronto a scappare. «Temo che ci siamo persi.» La tensione nella voce di Jeod era evidente. Una goccia di sudore gli colò dalla tempia. Il soldato lo fissò sospettoso. «Controlla la sala» ordinò a uno degli altri. Eragon trattenne il fiato mentre il soldato provava invano ad aprire la porta e la tempestava di pugni. «La porta è chiusa a chiave, signore.» Il capo si grattò il mento. «D’accordo, allora. Non so che cosa avevate in mente di fare, ma dato che la porta è chiusa, immagino che siate liberi di andare. Seguiteci.» I soldati li circondarono e li scortarono nel maschio. Non posso crederci, pensò Eragon. Ci stanno aiutando a uscire! Davanti al cancello principale, il soldato indicò e disse: «Adesso uscite e andatevene. Vi osserveremo. Se dovete tornare indietro, fatelo domattina.» «Ma certo» promise Jeod. Eragon sentì gli occhi delle guardie incollati alle loro schiene mentre si affrettavano a lasciare il castello. Nel momento in cui i cancelli si chiusero dietro di loro, un ghigno di trionfo gli si stampò sul volto e fece un balzo di gioia. Brom gli scoccò un’occhiataccia di ammonimento. «Cammina come al solito. Avrai modo di festeggiare a casa.» Mortificato, Eragon assunse un fare contegnoso, anche se dentro si sentiva fremere di energia. Una volta al sicuro nello studio della casa di Jeod, esclamò: «Ce l’abbiamo fatta!» «Sì, ma adesso dobbiamo scoprire se il gioco è valso la candela» disse Brom, Jeod prese una mappa di Alagasëia e la dispiegò sulla scrivania. Sulla sinistra della mappa l’oceano si estendeva verso l’ignoto occidente. Lungo la costa cresceva la Grande Dorsale, un’immensa catena di montagne. Il Deserto di Hadarac riempiva tutto lo spazio al centro, con la parte più a est vuota. In quel vuoto, da qualche parte, si nascondevano i Varden. A sud c’era il Surda, un piccolo paese che si era separato dall’Impero dopo la caduta dei Cavalieri. Eragon sapeva che il Surda appoggiava in segreto i Varden. Oltre il confine orientale del Surda si ergeva una catena di monti chiamati Beor. Eragon li aveva sentiti nominare molto spesso nei racconti: si diceva che fossero alti dieci volte quelli della Grande Dorsale, ma in cuor suo era convinto che fosse un’esagerazione. A est dei Beor, la mappa era vuota. Al largo delle coste del Surda sorgevano cinque isole: Nía. Parlim. Uden. Illium e Beirland. Nia era poco più grande di uno scoglio, ma su Beirland, la più estesa, sorgeva una piccola città. Risalendo verso Teirm, si incontrava un isolotto frastagliato chiamato Dente di Squalo. E ancora più a nord c’era un’isola enorme a forma di mano tozza. Eragon la riconobbe senza nemmeno leggerne il nome: Vroengard, l’antica dimora dei Cavalieri, un tempo luogo glorioso, ora soltanto un guscio vuoto e saccheggiato, abitato da strane creature. Al centro di Vroengard c’era la città abbandonata di Dora Areaba. Carvahall era un puntino in cima alla Valle Palancar. Alla stessa altezza, ma dall’altra parte delle pianure, si estendeva la foresta Du Weldenvarden. Come nel caso dei Monti Beor, la sua estremità orientale non era mappata. Alcune zone del margine occidentale della Du Weldenvarden mostravano insediamenti, ma il suo cuore restava misterioso e inesplorato. La foresta era un luogo più ostile della Dorsale; i pochi che avevano osato sfidare i suoi recessi ne erano riemersi fuori di senno, oppure non erano tornati affatto. Eragon rabbrividì quando vide Urú’baen al centro dell’Impero. Il re Galbatorix governava da lì con il suo drago nero, Shruikan, al fianco. Eragon posò un dito su Urû’baen. «I Ra’zac di sicuro hanno un nascondiglio qui.» «Faresti meglio a sperare che non sia il loro solo rifugio» disse Brom in tono piatto. «Altrimenti non potrai mai avvicinarli.» Con la mano rugosa spianò meglio la mappa crepitante. Jeod estrasse dalla bisaccia la pergamena e disse: «Da quello che ho letto sui registri, ci sono state delle spedizioni di olio di Seithr verso ciascuna città importante dell’Impero negli ultimi cinque anni. Apparentemente potrebbero essere state tutte ordinazioni da parte di gioiellieri facoltosi. Temo che non potremo restringere la lista senza altre informazioni.» Brom fece scorrere l’indice sulla mappa. «Credo che qualche città la possiamo eliminare. I Ra’zac devono viaggiare dove ordina il re, e sono sicuro che li tiene piuttosto impegnati. Perciò se devono essere pronti a partire in qualsiasi momento per una qualsiasi destinazione, l’unico luogo ragionevole dove stabilire la propria base dev’essere un crocevia da dove possano facilmente raggiungere ogni luogo del paese.» Eccitato, prese a misurare la stanza a grandi passi. «Inoltre deve essere un posto dove sono frequenti gli scambi commerciali, affinchè ogni richiesta insolita, cibo speciale per le loro cavalcature, per esempio, passi inosservata.» «Mi pare logico» disse Jeod con un cenno del capo. «A questo punto possiamo tralasciare la maggior parte delle città settentrionali. Le uniche città importanti sono Teirm. Gil’ead e Ceunon. So che non si trovano a Teirm, e dubito che l’olio sia stato spedito lungo la costa fino a Narda: è troppo piccola. Ceunon è troppo isolata. Rimane Gil’ead.» «I Ra’zac potrebbero nascondersi lì» ammise Brom. «Sarebbe una beffa.» «Già» commentò Jeod debolmente. «E le città del sud?» disse Eragon. «Be’» rispose Jeod. «ovviamente c’è Urù’baen, ma è una destinazione poco probabile. Se qualcuno della corte di Galbatorix dovesse morire a causa dell’olio di Seithr, sarebbe fin troppo facile per un conte o qualche altro lord scoprire che l’Impero ne sta acquistando grossi quantitativi. Questo lascia spazio a molte altre città, ciascuna delle quali potrebbe essere quella che cerchiamo.» «Sì» disse Eragon. «ma l’olio non è stato inviato a tutte. La pergamena elenca solo Kuasta. Dras- Leona. Arughia e Belatona. Kuasta non va bene per i Ra’zac: è sulla costa, e circondata dalle montagne. Arughia è isolata come Ceunon, pur essendo un centro di scambi commerciali. Restano Belatona e Dras-Leona, che sono piuttosto vicine. Delle due, credo che Dras-Leona sia la più probabile. È più grande e ha una posizione migliore.» «Ed è da lì che passano tutte le merci dell’Impero, prima o poi, comprese quelle provenienti da Teirm» disse Jeod. «Sì, potrebbe essere un buon nascondiglio per i Ra’zac.» «Dunque... Dras-Léona» disse Brom. Si mise seduto e si accese la pipa. «Che cosa dicono i registri?» Jeod consultò la pergamena. «Ecco qui. All’inizio dell’anno sono state effettuate tre spedizioni di olio di Seithr a Dras-Leona. Ciascuna spedizione è a solo due settimane di distanza dall’altra, e i registri dicono che sono state tutte fatte dallo stesso mercante. La stessa cosa è successa l’anno scorso e l’anno prima ancora. Dubito che un gioielliere, o anche un gruppo, possieda abbastanza denaro per tutto quest’olio.» «E Gil’ead?» chiese Brom, inarcando un sopracciglio. «Non ha lo stesso accesso al resto dell’Impero. E poi» aggiunse Jeod, tamburellando le dita sulla pergamena «ha ricevuto soltanto due spedizioni di olio negli ultimi anni.» Si interruppe un momento per riflettere, poi disse: «E poi credo che ci stiamo dimenticando una cosa…l’Helgrind.» Brom annuì. «Già, i Cancelli della Morte. Sono anni che non ci penso più. Hai ragione. Dras-Leona è perfetta per Ra’zac. Allora, immagino che sia deciso: sarà lì che andremo.» Eragon si sedette di colpo, così svuotato di emozioni da non chiedere nemmeno che cosa fosse l’Helgrind. Pensavo che sarei stato felice di riprendere la caccia. Invece è come se si fosse aperto un abisso davanti a me. Dras-Leona! È così lontana... La pergamena crepitò mentre Jeod arrotolava con cura la mappa. La porse a Brom e disse: «Temo che ne avrai bisogno. Le tue spedizioni spesso ti portano in regioni remote e oscure.» Brom accettò la mappa con un cenno del capo. Jeod gli diede una pacca sulla spalla. «Mi pare strano che tu parta senza di me. Il mio cuore desidera partire, ma il resto mi rammenta la mia età e le mie responsabilità.» «Lo so» disse Brom. «Tu hai una vita a Teirm. È tempo che la nuova generazione raccolga l’eredità. Hai fatto la tua parte; sii felice.» «E tu?» disse Jeod. «La strada non finisce mai per te?» Un’amara risata affiorò sulle labbra di Brom. «Ne comincio a intravvedere la fine, ma non per il momento.» Spense la pipa, e i tre si ritirarono nelle loro stanze, sfiniti. Prima di addormentarsi, Eragon chiamò Saphira e le raccontò le avventure della notte. 29 Un errore fatale Al mattino, Eragon e Brom andarono a recuperare i bagagli nella stalla e si prepararono alla partenza, Jeod salutò Brom mentre Helen li osservava dalla porta. Con uno sguardo solenne, i due si scambiarono una stretta di mano. «Mi mancherai, vecchio» disse Jeod. «Anche tu» rispose Brom, confuso. Inchinò la testa canuta e si rivolse a Helen. «Grazie per la tua ospitalità; sei stata molto gentile.» La donna avvampò. Eragon si disse che pareva sul punto di sferrargli uno schiaffo. Brom proseguì, imperturbabile. «Hai un bravo marito; abbi cura di lui. Esistono ben pochi uomini dotati del suo stesso coraggio e della sua determinazione. Ma perfino lui non può affrontare i tempi difficili senza il sostegno di chi ama.» S’inchinò di nuovo e disse cortesemente; «È solo un suggerimento, mia signora.». Eragon notò l’ombra dell’indignazione e del dolore attraversare il volto di Helen. I suoi occhi lampeggiarono mentre chiudeva la porta di botto. Jeod sospirò e si passò una mano fra i capelli. Eragon lo ringraziò per l’aiuto e montò in sella a Cadoc. Scambiati gli ultimi saluti, lui e Brom si allontanarono. Al cancello sud di Teirm, le guardie li fecero passare senza degnarli di una seconda occhiata. Mentre varcavano la gigantesca muraglia, Eragon colse un movimento nell’ombra. Solembum era accucciato a terra e dimenava la coda. Gli occhi insondabili del gatto marinaro li seguirono. Mentre la città rimpiccioliva alle loro spalle, Eragon chiese: «Sai niente dei gatti marinari?» Brom parve sorpreso. «Perché questa improvvisa curiosità?» «Ho sentito qualcuno che ne parlava in città. Non sono veri, giusto?» disse Eragon, fingendo di non sapere nulla sull’argomento. «Diciamo di sì. Durante gli anni di gloria dei Cavalieri, erano famosi quanto i draghi. I re e gli elfi li tenevano per compagnia, anche se i gatti marinari erano liberi di fare quello che volevano. Si è sempre saputo poco di loro. Temo che la loro razza si sia praticamente estinta, ormai.» «Sapevano usare la magia?» disse Eragon. «Non si sa, ma certo è che potevano fare cose insolite. Sembrava che sapessero sempre che cosa succedeva e in un modo o nell’altro si intromettevano.» Brom si rialzò il cappuccio per ripararsi dal vento tagliente. «Che cos’è l’Helgrind?» chiese ancora Eragon dopo un, minuto di silenzio. «Lo vedrai quando arriveremo a Dras-Leona.» Quando Teirm scomparve dietro di loro, Eragon dilatò la mente e chiamò: Saphira! La forza del suo grido mentale fu così potente che Cadoc appiattì le orecchie, disturbato. Saphira rispose e gli venne incontro volando a tutta velocità, Eragon e Brom videro una sagoma scura sbucare da una nuvola, accompagnata da un sordo boato, quando Saphira dispiegò le ali. Il sole splendeva dietro le sottili membrane, rendendole translucide ed evidenziando il reticolo di vene scure. La dragonessa atterrò in un turbine. Eragon lanciò le redini di Cadoc a Brom. «Ci vediamo a pranzo.» Brom annuì, ma sembrava preoccupato. «Divertiti» disse, poi guardò Saphira e sorrise. «Mi fa piacere rivederti.» Anche a me. Eragon balzò sulle spalle di Saphira e si tenne stretto mentre lei spiccava il volo. Reggiti forte, disse a Eragon. Con il vento di coda, Saphira sfrecciò verso l’alto e con un sonoro ruggito di gioia fece un giro completo su se stessa. Eragon urlò eccitato e allargò le braccia nel vento, stringendo solo le gambe. Non sapevo di potermi reggere senza sella durante le tue evoluzioni, disse, con un sorriso di pura gioia. Nemmeno io, ammise lei, ridendo in quel suo modo strano. Eragon l’abbracciò forte e insieme volarono diritti, padroni del cielo. A mezzogiorno Eragon aveva le gambe doloranti per aver cavalcato senza sella, e le mani e il volto intorpiditi dal gelo. Le squame di Saphira erano calde al tatto, ma lei non poteva fare niente per impedire che lui sentisse freddo. Quando atterrarono per il pranzo, Eragon s’infilò le mani sotto le ascelle e trovò un posto al sole dove sedersi. Mentre lui e Brom mangiavano, Eragon chiese a Saphira: Ti dispiace se vado un po’ su Cadoc? Aveva deciso di fare altre domande a Brom sul suo passato. No, ma raccontami tutto quello che dice. Eragon non fu sorpreso che Saphira conoscesse i suoi piani. Era impossibile nasconderle qualcosa, quando erano legati attraverso la mente. Finito di mangiare, la dragonessa volò via ed Eragon cavalcò accanto a Brom sulla pista. Dopo un po’, rallentò l’andatura e disse: «Devo parlarti. Volevo farlo quando siamo arrivati a Teirm, ma poi ho deciso di aspettare un momento migliore. Adesso.» «Di che cosa?» disse Brom. Eragon tacque un istante. «Ci sono un sacco di cose che non capisco. Per esempio, chi sono i tuoi amici, e perché ti nascondevi a Carvahall? Ti ho affidato la mia vita, ecco perché viaggio ancora con te, ma devo saperne di più su chi sei e che cosa fai. Cos’hai rubato a Gil’ead, e che cos’è il tuatha du orothrim che devi farmi passare? Credo di meritare una spiegazione, dopo tutto quello che è successo.» «Hai origliato le nostre conversazioni.» «Soltanto una volta.» «Vedo che devi ancora imparare le buone maniere» disse Brom accigliato, lisciandosi la barba. «Che cosa ti fa pensare che tu c’entri qualcosa?» «Niente, in realtà» disse Eragon, stringendosi nelle spalle. «Solo che è una strana coincidenza che tu fossi nascosto a Carvahall quando ho trovato l’uovo di Saphira e che sapessi tante cose sui draghi. Più ci penso, meno mi sembra un caso, E ci.sono altri indizi che al momento ho ignorato, ma che adesso che ci ripenso mi sembrano importanti. Come il fatto che tu sapessi dei Ra’zac e del motivo per cui sono fuggiti quando ti sei avvicinato. E non posso fare a meno di chiedermi se hai qualcosa a che fare con la comparsa dell’uovo di Saphira. Ci sono troppe cose che non ci hai detto, e Saphira e io non possiamo permetterci di ignorare cose che potrebbero rivelarsi pericolose.» Rughe profonde si disegnarono sulla fronte di Brom, mentre il vecchio tirava le redini per fermare Fiammabianca. «Non vuoi aspettare?» disse. Eragon scosse il capo, ostinato. Brom sospirò. «Non sarebbe un problema se tu non fossi così diffidente, ma immagino che in quel caso non varrebbe la pena di dedicarti il mio tempo.» Eragon non seppe se considerarlo un complimento. Brom si accese la pipa e soffiò una nuvoletta di fumo. «Risponderò alle tue domande» disse. «ma devi capire che non posso rivelarti tutto.» Eragon fece per protestare, ma Brom gli fece cenno di non interromperlo. «Non è per capriccio che tengo per me certe informazioni, ma perché non voglio rivelare segreti che non mi appartengono. Ci sono altre storie intrecciate a questa. Dovrai parlare con gli altri esseri coinvolti per sapere il resto.» «D’accordo. Raccontami quello che puoi» disse Eragon. «Sei sicuro?» gli chiese Brom. «Ci sono validi motivi dietro la mia reticenza. Ho cercato di proteggerti da forze che ti avrebbero dilaniato. Una volta che le avrai conosciute e avrai saputo quali sono i loro scopi, non avrai mai più l’opportunità di vivere tranquillamente. Dovrai scegliere da che parte stare e resistere. Allora, vuoi ancora sapere?» «Non posso vivere nell’ignoranza» disse Eragon in tono sommesso. «Un meritevole intento... Va bene. C’è una guerra in corso fra i Varden e l’Impero, in Alagaësia. Il loro conflitto tuttavia travalica i meri limiti di uno scontro d’armi. Sono invischiati in una titanica lotta per il potere. E questa lotta è imperniata su di te.» «Me?» esclamò Eragon, incredulo. «È impossibile. Io non c’entro niente con nessuno dei due.» «Non ancora» disse Brom. «ma la tua stessa esistenza è il fulcro della loro guerra. I Varden e l’Impero non combattono per il controllo di questa terra o del suo popolo. Il loro obiettivo è controllare la prossima generazione, di Cavalieri, di cui tu sei il primo. Chiunque controlli i nuovi Cavalieri, diventerà il padrone incontrastato di Alagaësia.» Eragon tacque per riflettere sulle affermazioni di Brom Gli sembrava incomprensibile che tante persone fossero interessate a lui e a Saphira. Nessuno, oltre a Brom, lo aveva mai considerato importante. L’idea che l’Impero e i Varden combattessero per lui era troppo astratta per afferrarla del tutto. Prese a dar voce alle sue obiezioni. «Ma tutti i Cavalieri furono uccisi tranne i Rinnegati, che si unirono a Galbatorix. E per quanto ne so, anche loro sono morti, ormai. E a Carvahall tu mi hai detto che nessuno sa se ci sono draghi in Alagaësia.» «Ho mentito sui draghi» disse Brom semplicemente. «Anche se i Cavalieri sono scomparsi, restano ancora tre uova di drago, tutte in possesso di Galbatorix. In realtà ne ha due, dato che Saphira è nata. Il re rubò le tre uova durante l’ultima grande battaglia contro i Cavalieri.» «E così potrebbero esserci presto altri due nuovi Cavalieri, entrambi fedeli al re?» disse Eragon, avvilito. «Già» rispose Brom. «In questo momento è in atto una feroce battaglia contro il tempo. Galbatorix sta cercando disperatamente di trovare le persone per cui le uova si schiuderanno, mentre i Varden impiegano ogni mezzo per uccidere i suoi candidati o rubare le uova.» . «Ma l’uovo di Saphira da dove viene? Come hanno fatto a sottrarlo al re?. E perché tu sai tutte queste cose?» incalzò Eragon. «Quante domande» rise Brom, una risata amara. «C’è un altro capitolo che riguarda tutto questo, che si svolse molto prima che tu nascessi. Quando io ero più giovane, ma forse non altrettanto saggio. Odiavo l’Impero, per ragioni che non svelerò, e volevo danneggiarlo a ogni costo. Il mio fervore mi condusse da uno studioso, Jeod, che affermava di aver scoperto un libro che mostrava un passaggio segreto per entrare nel castello di Galbatorix. Subito accompagnai Jeod dai Varden, che sono i miei amici, come li chiami tu, e loro si impegnarono a rubare le uova.» I Varden! «Tuttavia qualcosa andò storto, e il nostro ladro riuscì a prenderne soltanto uno. Per qualche motivo fuggì con esso e non tornò dai Varden. Quando non si trovarono né lui né l’uovo, Jeod e io fummo mandati a cercarlo.» Lo sguardo di Brom si perse nel vuoto e la sua voce assunse un tono curioso. «Quello fu l’inizio di una delle più grandi ricerche nella storia. Eravamo in competizione con i Ra’zac e Morzan, l’ultimo dei Rinnegati e il più scaltro servitore del re.» «Morzan!» lo interuppe Eragon. «Ma fu lui a tradire i Cavalieri!» Ed era successo tantissimo tempo prima! Morzan doveva essere decrepito. Ricordare quanto vivevano i Cavalieri lo turbò. «E allora?» disse Brom, inarcando un sopracciglio. «Sì, era vecchio, ma ancora forte e crudele. Fu uno dei primi seguaci del re e di gran lunga il più fedele. E poiché tra noi scorreva già cattivo sangue, la ricerca dell’uovo si trasformò in uno scontro personale. Quando venne individuato a Gil’ead, ini precipitai in città e combattei contro Morzan per impossessarmene. Fu un duello senza esclusione di colpi, ma alla fine lo uccisi. Durante lo scontro, mi separai da Jeod. Non c’era tempo per cercarlo, così presi l’uovo e lo portai dai Varden, che mi chiesero di addestrare chiunque fosse diventato il nuovo Cavaliere. Acconsentii e decisi di nascondermi a Carvahall, dov’ero stato altre volte prima, finché i Varden non si fossero messi in contatto con me. Cosa che non è successa.» «Come ha fatto l’uovo di Saphira a comparire sulla Grande Dorsale? Al re fu rubato un altro uovo?» domandò Eragon. Brom borbottò. «Poco probabile. Il re pose le altre due uova sotto una sorveglianza così stretta che sarebbe stato un suicidio tentare di rubarle. No, Saphira è stata presa ai Varden, e credo di sapere come. Per proteggere l’uovo, il suo guardiano deve aver cercato di mandarmelo con la magia. «I Varden non mi hanno cercato per spiegarmi come avevano perso l’uovo: quindi sospetto che i loro messaggeri siano stati intercettati dall’Impero e che i Ra’zac abbiano preso il loro posto. Immagino che non vedessero l’ora di acciuffarmi, dato che ho mandato a monte i loro piani.» «Perciò i Ra’zac non sapevano di me quando sono arrivati a Carvahall» disse Eragon perplesso. «Giusto» replicò Brom. «è se quell’imbecille di Sloan avesse tenuto il becco chiuso, non avrebbero mai saputo di te e gli eventi avrebbero preso un’altra piega. In un certo senso, ti devo la vita. Se i Ra’zac non avessero cominciato a cercarti, avrebbero tentato di cogliermi alla sprovvista, e quella sarebbe stata la fine di Brom il cantastorie. L’unica ragione per cui sono scappati è che io da solo sono più forte di due di loro, specie di giorno. Dovevano aver progettato di drogarmi durante la notte, per poi interrogarmi a proposito dell’uovo.» «Hai mandato un messaggio ai Varden che parla di me?» «Sì. E sono sicuro che vogliono che ti porti da loro il più presto possibile.» «Ma tu non lo. farai, vero?» Brom scosse il capo. «No, non lo farò.» «Perché no? Rifugiarsi dai Varden dovrebbe essere più sicuro che dare la caccia ai Ra’zac, specie per un novellino come me.» Brom sospirò e guardò Eragon con affetto. «I Varden sono un popolo pericoloso. Se andiamo da loro, resteremo invischiati nella loro politica e nelle loro macchinazioni. I loro capi ti manderebbero in missione solo per puntiglio, anche se tu non fossi abbastanza forte. Voglio che tu sia ben preparato prima di avvicinarti ai Varden. Almeno, mentre inseguiamo i Ra’zac, non devo preoccuparmi che qualcuno ti avveleni l’acqua. È il minore tra i due mali. E poi» aggiunse con un sorriso «l’addestramento ti fa bene. Il tuatha du orothrim è solo un livello di istruzione. Ti aiuterò a trovare i Ra’zac, e forse anche a ucciderli, perché sono miei nemici quanto tuoi. Ma poi dovrai fare una scelta.» «Ossia?» disse Eragon, guardingo. «Se unirti ai Varden o meno» disse Brom. «Se uccidi i Ra’zac, gli unici modi per sfuggire all’ira di Galbatorix sono cercare la protezione dei Varden, rifugiarti nel Surda, o implorare la pietà del re e unirti alle sue forze. Anche se non uccidi i Ra’zac, alla fine dovrai lo stesso fare una scelta.» Eragon sapeva che il miglior modo per salvaguardare la propria vita era unirsi ai Varden, ma non voleva trascorrere tutta l’esistenza a combattere l’Impero come loro. Meditò sui commenti di Brom, cercando di considerarli in ogni possibile aspetto. «Ancora non mi hai spiegato come mai sai tante cose sui draghi.» «Non l’ho fatto, vero?» disse Brom con un sorriso ironico. «Per questo dovrai aspettare un altro momento.» Perché io? si chiese Eragon. Che cosa lo rendeva così speciale da predestinarlo come Cavaliere? «Hai mai conosciuto mia madre?» domandò all’improvviso. Lo sguardo di Brom si fece grave. «Sì.» «E com’era?» Il vecchio sospirò. «Era una donna ricca di orgoglio e dignità, come Garrow. Purtroppo furono proprio queste virtù la causa della sua rovina, e tuttavia i suoi maggiori pregi... Accorreva sempre in aiuto dei poveri e dei meno fortunati, senza badare alle proprie condizioni.» «La conoscevi bene?» chiese Eragon, sorpreso. «Abbastanza bene da sentirne la mancanza quando scomparve.» Cullato dal trotto di Cadoc, Eragon ricordò quando pensava che Brom fosse soltanto un vecchio scorbutico, bravo à raccontare storie. Per la prima volta si rese conto di quanto era stato ignorante. Riferì a Saphira quello che aveva appreso. La dragonessa rimase affascinata dalle rivelazioni di Brom, e disgustata al pensiero di essere stata una proprietà di Galbatorix. Alla fine disse: Non sei contento di non essere rimasto a Carvahall? Pensa a quante avventure interessanti ti saresti perso! Eragon finse un borbottio di esasperazione. Quando si fermarono per la sera, Eragon andò in cerca di acqua mentre Brom preparava la cena. Si inoltrò fra gli alberi in cerca di un ruscello o una sorgente. L’aria era umida e fredda, e si strofinò le mani per riscaldarsi. Trovò un torrente a una certa distanza dall’accampamento, si accovacciò sulla sponda e osservò l’acqua che scorreva frangendosi sulle rocce. Immerse le mani nella gelida acqua di montagna; le dita gli si intorpidirono subito. A lei non importa di noi, o di nessuno, pensò. Rabbrividì e si alzò. Un’impronta insolita sulla sponda opposta del torrente catturò la sua attenzione. Aveva una forma strana ed era molto grande. Incuriosito, saltò oltre il torrente su una lastra di roccia, ma nel toccare terra il piede gli scivolò su una chiazza di muschio umido. Si afferrò a un ramo per sorreggersi, ma il ramo si spezzò e lui protese la mano per attutire la caduta. Tutto il suo peso gravò di colpo sul polso destro, che si ruppe con uno schiocco terribile. Un dolore lancinante gli trafisse il braccio. Mormorò una serie di imprecazioni a denti stretti per impedirsi di urlare. Accecato dal dolore, si rannicchiò sul terreno, tenendosi il polso, Eragon! fu il grido allarmato di Saphira. Che cosa ti è successo? Ho il polso rotto... una cosa stupida... sono caduto Arrivo, disse Saphira. No… posso farcela. Non... venire. Gli alberi sono troppo fitti per... le tue ali. Lei gli mandò una breve immagine di se stessa che schiantava gli alberi della foresta per andarlo a prendere, poi disse: Sbrigati. Eragon si alzò a fatica, gemendo. L’impronta, a poca distanza da lui, era molto profonda e mostrava i buchi lasciati dagli stivali chiodati. All’istante Eragon rammentò le impronte che aveva visto intorno alla catasta di corpi a Yazuac. «Urgali» esclamò orripilato, col desiderio di avere Zar’roc con sé; non poteva usare l’arco con una mano sola. Levò il capo e gridò con la mente: Saphira! Gli Urgali! Proteggi Brom! Balzò di nuovo oltre il ruscello per tornare all’accampamento, con il coltello da caccia in pugno. Vedeva nemici dietro ogni albero e cespuglio. Spero che almeno sia un solo Urgali. Piombò nell’accampamento e fece appena in tempo ad abbassarsi quando la coda di Saphira tagliò l’aria sopra di lui. «Fermati! Sono io» urlò. Scusa, disse Saphira, le ali chiuse davanti a sé come un muro. «Scusa?» ringhiò Eragon, correndo verso di lei. «Avresti potuto uccidermi! Dov’è Brom?» «Sono qui» gracchiò la voce di Brom da dietro le ali di Saphira. «Di’ a questa idiota della tua dragonessa di liberarmi; a me non da retta.» «Lascialo andare!» disse Eragon esasperato. «Ma non gli hai detto niente?» No, rispose lei imbarazzata. Tu mi hai detto solo di proteggerlo. Levò le ali e Brom uscì con aria imbronciata. «Ho trovato un’impronta di Urgali. Ed è fresca.» Il volto di Brom si fece serio. «Sella i cavalli. Ce ne andiamo.» Spense il fuoco, ma Eragon non si mosse. «Che cosa ti è successo al braccio?» «Mi sono rotto il polso» rispose il ragazzo, vacillando. Brom lanciò un’imprecazione e sellò Cadoc per lui. Aiutò Eragon a salire in groppa e disse: «Dobbiamo steccarti il braccio appena possibile. Nel frattempo, cerca di non muovere il polso.» Eragon afferrò saldamente le redini con la sinistra. Brom si rivolse a Saphira: «È quasi buio; faresti meglio a volare sopra di noi. Se arrivano gli Urgali, ci penseranno due volte prima di attaccarci con te nelle vicinanze.» Sarà meglio per loro, altrimenti non penseranno mai più, ribattè Saphira mentre spiccava il volo. La luce sbiadiva in fretta, e i cavalli erano stanchi, ma i due viaggiatori li spronavano senza posa. Il polso di Eragon, gonfio e rosso, continuava a pulsare. A un miglio dall’accampamento. Brom si fermò. «Ascolta» disse. Eragon udì un corno da caccia risuonare in lontananza. Seguì un silenzio agghiacciante. «Devono aver scoperto dove eravamo» disse Brom. «e probabilmente hanno visto anche le tracce di Saphira. Ora ci inseguiranno. Non è nella loro natura farsi sfuggire una preda.» Poi suonarono altri due comi, più vicini, questa volta. Eragon rabbrividì. «La nostra unica possibilità è fuggire al galoppo» disse Brom. Levò la testa al cielo e il suo volto sbiancò per lo sforzo di chiamare Saphira. La dragonessa piombò dal cielo notturno e atterrò. «Lascia Cadoc e va’ con lei. Sarai più al sicuro» ordinò Brom. «E tu?» protestò Eragon. «Non ti preoccupare per me. Vai!» Privo di energie per discutere, Eragon montò su Saphira, mentre Brom lanciava Fiammabianca. al galoppo, insieme a Cadoc. Saphira volava sopra di lui. Eragon si reggeva a Saphira meglio che poteva; faceva una smorfia ogni volta che i suoi movimenti gli davano una scossa al polso. I corni suonarono vicinissimi, e fu invaso da una nuova ondata di terrore. Brom si precipitò nel sottobosco, esortando al massimo i cavalli. I corni squillarono dietro di lui, poi tacquero. I minuti passarono. Dove sono gli Urgali? si chiese. Eragon. A un tratto udì un debole suono in lontananza. Sospirò di sollievo, abbandonandosi sul collo di Saphira, mentre sotto di loro Brom rallentava il galoppo forsennato. C’è mancato poco, disse Eragon. Già, ma non possiamo fermarci finché... Saphira fu interrotta da uno squillo di corno proprio sotto di loro, Eragon trasalì sorpreso, e Brom riprese la sua frenetica ritirata. Urgali cornuti, gridando con voci rauche, galoppavano di gran carriera sulla pista, guadagnando terreno. Erano quasi in vista di Brom; il vecchio non sarebbe riuscito a seminarli. Dobbiamo fare qualcosa! esclamò Eragon. Che cosa? Atterra davanti agli Urgali! Sei impazzito? ruggì Saphira, sbigottita. Atterra! So quello che faccio, disse Eragon. Non c’è tempo per inventarci qualcos’altro. Stanno per raggiungere Brom! Come vuoi,. Saphira si spinse oltre gli Urgali, poi virò, preparandosi ad atterrare sul sentiero. Eragon si concentrò per raggiungere il cuore del suo potere e avvertì la familiare barriera che lo separava dalla magia Aspettò ancora prima di infrangerla. Avvertì un muscolo del collo contrarsi. Mentre gli Urgali accorciavano la distanza, Eragon gridò: «Ora!» Saphira dispiegò le ali di colpo e atterrò sul sentiero in una nuvola di polvere e ciottoli. Gli Urgali gridarono allarmati e strattonarono le redini dei cavalli. Gli animali si arrestarono all’istante e andarono a urtare l’uno contro l’altro; tuttavia gli Urgali riuscirono rapidamente a districarsi per affrontare Saphira ad armi snudate, Erano dodici, dodici orribili, creature dal ghigno brutale. Eragon si chiese come mai non fuggissero. Aveva creduto che alla vista di Saphira se la sarebbero data a gambe. Perché aspettano? Vogliono attaccarci o no? Rimase di stucco quando l’Urgali più grosso si fece avanti e biascicò: «Il nostro padrone desidera parlare con te, umano!» Il mostro parlava con un forte accento gutturale. È una trappola, lo ammonì Saphira prima che Eragon dicesse qualcosa. Non starli a sentire. Almeno fammi scoprire che cosa ha da dire, ragionò lui, incuriosito, ma in guardia. «Chi è il tuo padrone?» domandò. L’Urgali rise beffardo. «Uno di bassa lega come te non è degno di conoscere il suo nome. Egli domina il cielo e la terra. Per lui tu non sei altro che un’insulsa formica. Tuttavia ha deciso che devi essere portato al suo cospetto vivo. Ritieniti onorato di aver ricevuto una tale notizia!» «Non verrò mai con voi o con un altro dei miei nemici!» dichiarò Eragon, ripensando a Yazuac. «Che serviate uno Spettro, un altro Urgali o qualche mostro deforme di cui non ho mai sentito parlare, non ho alcuna intenzione di parlare con lui.» «Grave errore» ringhiò l’Urgali, mostrando i denti. «Non c’è modo di sfuggirgli. Alla fine ti troverai comunque davanti al nostro padrone. Se resisti, colmerà i tuoi giorni di dolore.» Eragon si chiese chi avesse il potere di portare gli Urgali sotto tin’unica bandiera. C’era forse una terza potenza sconosciuta nel territorio, oltre all’Impero e ai Varden? «Tieniti pure la tua offerta e di’ al tuo padrone che mi auguro che i corvi si mangino presto le sue viscere!» Un brontolio di rabbia si diffuse fra gli Urgali; il loro capo ululò, digrignando i denti. «Allora ti trascineremo da lui con la forza!» A un suo cenno, gli Urgali si avventarono su Saphira. Eragon levò la mano destra e gridò: «Jierda!» No! esclamò Saphira, troppo tardi, però. I mostri esitarono vedendo il palmo di Eragon rifulgere. Lampi di luce guizzarono dalla sua mano e colpirono ciascuno dei mostri al ventre. Gli Urgali vennero scagliati in aria e scaraventati contro gli alberi; poi ricaddero inerti al suolo. Improvvisamente prosciugato di ogni energia, Eragon scivolò dal dorso di Saphira. Si sentiva la mente annebbiata. Quando Saphira si chinò su di lui, si rese conto che forse si era spinto troppo oltre. L’energia necessaria a respingere dodici Urgali era enorme. Fu invaso dal panico, mentre lottava per restare sveglio. Ai margini del suo campo visivo scorse uno degli Urgali rimettersi in piedi a fatica, la spada in pugno. Eragon cercò di avvertire Saphira, ma era troppo debole. No... pensò debolmente. L’Urgali strisciò alle spalle di Saphira finché non superò la sua coda, pronto ad affondarle la spada nel collo. No!... Saphira si volse di scatto e ruggì selvaggiamente. I suoi artigli colpirono con una rapidità straordinaria. Sangue zampillò dappertutto, mentre le due metà del corpo del mostro cadevano a terra, separate. Saphira fece schioccare le fauci soddisfatta e tornò da Eragon. Circondò con delicatezza il suo busto con le zampe insanguinate, poi ringhiò e spiccò il volo. La notte lo avvolse in un manto nero, fatto di dolore. Il rumore ipnotico del battito d’ali di Saphira lo fece cadere in una sorta di trance: su, giù; su, giù; su, giù… Quando Saphira finalmente atterrò, Eragon si rese conto a stento che Brom parlava con lei. Non capì che cosa dicevano, ma dovevano aver preso una decisione, perché Saphira si levò di nuovo in volo. Dal torpore scivolò nel sonno, che lo fasciò come una morbida coperta. 30 Una visione perfetta Eragon si mosse sotto le coperte, riluttante ad aprire gli occhi. Continuò a sonnecchiare qualche altro istante, poi lo folgorò un pensiero... Come sono arrivato qui? Confuso, si avvolse nelle coltri e sentì qualcosa di duro sul braccio destro. Provò a muovere il polso. Una fitta lancinante gli si propagò lungo il braccio. Gli Urgali! Alzò la schiena di scatto. Era in una piccola radura deserta, tranne che per un falò da campo su cui bolliva una pentola di stufato. Uno scoiattolo squittì dall’alto di un ramo. L’arco e la faretra erano adagiati di fianco alle coperte. Strinse i denti e cercò di alzarsi, con tutti i muscoli doloranti e indeboliti. Il braccio dolorante era immobilizzato da una pesante stecca. Dove sono tutti? si chiese avvilito. Provò a chiamare Saphira, ma con suo grande allarme si accorse di non sentirla. Affamato come non mai, mangiò lo stufato in quattro e quattr’otto; non ancora sazio, cercò le bisacce, sperando, di trovarvi un pezzo di pane. Ma nella radura non c’erano né le bisacce né i cavalli. Sono sicuro che c’è un buon motivo per questo, pensò, sopprimendo un senso di crescente inquietudine. Girellò per la radura, poi tornò al suo giaciglio e arrotolò le coperte; non aveva niente da fare, così si sedette con la schiena contro un albero a contemplare le nuvole. Le ore passarono, ma Brom e Saphira non tornavano. Spero che non sia successo niente. Mentre il pomeriggio avanzava, Eragon cominciò ad annoiarsi e decise di esplorare la foresta. Quando si sentì stanco, si riposò sotto un abete addossato a un grosso macigno con una cavità al centro, dove si era raccolta la rugiada della notte. Eragon guardò l’acqua limpida e pensò alle istruzioni di Brom sulla cristallomanzia. Forse posso vedere dov’è Saphira. Brom ha detto che per usare la cristallomanzia ci vuole molta energia; ma io sono più forte di lui... Inspirò a fondo e chiuse gli occhi. Evocò un’immagine mentale di Saphira, la più realistica che poteva: uno sforzo che risultò più impegnativo del previsto. Poi disse: «Draumr kópa!» e guardò l’acqua. La sua superficie divenne completamente piatta, come ghiacciata da una forza invisibile. I riflessi scomparvero e l’acqua si fece trasparente: su di essa brillava l’immagine di Saphira. Intorno a lei non c’era che un candore assoluto, ma Eragon capì che stava volando. Brom le montava sul dorso, la barba al vento, la spada sulle ginocchia. Eragon lasciò che l’immagine sbiadisse, sfinito. Almeno sono al sicuro. Si concesse qualche minuto per recuperare le forze, poi si sporse ancora sull’acqua. Roran, come stai? Nella mente vedeva chiaramente il cugino. D’impulso, fece ricorso alla magia e pronunciò le parole magiche. L’acqua tornò immobile, poi l’immagine si formò sulla sua superficie. Comparve Roran, seduto su una sedia invisibile; come nel caso di Saphira, anche intorno a lui non c’era che uno spazio bianco. C’erano rughe disegnate sul volto di Roran: assomigliava a Garrow più che mai. Eragon trattenne l’immagine più a lungo che poté. È a Therinsford? Comunque si trova in un luogo che non ho mai visto. Lo sforzo di usare la magia gli aveva imperlato la fronte di sudore. Sospirò e per un lungo istante fu lieto di resta-re seduto. Poi lo attraversò un pensiero assurdo. E se cercassi di divinare qualcosa che ho creato con la mia immaginazione oppure ho visto in sogno? Sorrise. Forse mi verrebbe mostrata la mia stessa coscienza. Era un’idea troppo allettante per abbandonarla. Si protese ancora una volta sull’acqua. Allora, che cosa posso divinare? Prese in considerazione qualche immagine, ma le scartò tutte quando rammentò il sogno della donna nella cella. Rievocò la scena nella mente, pronunciò le parole e guardò l’acqua attentamente. Attese, ma non accadde nulla. Deluso, stava quasi per abbandonare la magia, quando un nero turbinio coprì la superficie dell’acqua. L’immagine di una candela solitària tremolò nel buio; la sua luce rivelò le pareti di pietra di una cella. La donna del sogno era rannicchiata su un pagliericcio, in un angolo. Alzò la testa; i lunghi capelli neri ricaddero indietro e i suoi occhi si posarono su Eragon. Lui s’impietrì, come ipnotizzato dalla forza di quello sguardo. Si sentì scorrere un brivido lungo la schiena. Poi la donna tremò e crollò, inerte. L’acqua tornò limpida, Eragon si rialzò, ansante. «Non è possibile.» Quella donna non può essere vera; io, l’ho soltanto sognata! Come faceva a sapere che la stavo guardando? E come posso aver divinato una cella che non conosco? Scosse il capo, chiedendosi se altri suoi sogni erano in realtà visioni. Il battito ritmico delle ali di Saphira interruppe il corso dei suoi pensieri. Tornò in fretta alla radura e vi giunse proprio mentre Saphira atterrava. Brom cavalcava sul suo dorso, come Eragon aveva visto, ma la sua spada era insanguinata. Il volto del vecchio era teso; la barba era macchiata di sangue. «Cos’è successo?» lo interrogò Eragon, temendo che fosse ferito. «Cos’è successo?» ruggì il vecchio. «Sono andato a rimediare il danno che hai fatto!» Agitò in alto la spada, che tracciò in aria un arco di goccioline rosse. «Ma lo sai che cos’hai combinato con quel tuo trucchetto? Lo sai, eh?» «Ho impedito agli Urgali di catturarti» disse Eragon, con un vuoto allo stomaco. «Già» ringhiò Brom. «ma quella tua bella esibizione di magia ti ha quasi ucciso! Hai dormito per due giorni. C’erano dodici Urgali. Dodici! Ma questo non ti ha impedito di provare a spedirli fino a Teirm, vero? Ma che cosa ti diceva quella testa? Scagliare un sasso contro ciascuna di quelle zucche sarebbe stata la cosa più intelligente da fare. Ma no, tu hai preferito stordirli perché poi potessero scappare. Ho passato questi due giorni a cercare di rintracciarli. Perfino con l’aiuto di Saphira, tre sono fuggiti!» «Non volevo ucciderli» mormorò Eragon, facendosi piccolo piccolo. «Non mi pare sia stato un problema, a Yazuac.» «Ma lì non ho avuto scelta, e non sapevo controllare la magia. Questa volta mi è sembrato troppo... estremo.» «Estremo!» gridò Brom. «Non c’è niente di estremo quando il tuo avversario non mostra la tua stessa pietà. E poi perché, perché ti sei fatto vedere?» «Tu avevi detto che avevano trovato le impronte di Saphira. A quel punto che differenza faceva se mi vedevano?» ribattè Eragon, sulla difensiva. Brom conficcò la spada nel terreno con un moto di stizza. «Ho detto che probabilmente le avevano trovate. Non lo sapevamo per certo. Forse credevano di essere sulle tracce di qualche viaggiatore disperso. Ma adesso che cosa penseranno? Insomma, sei atterrato davanti a loro! E dato che li hai lasciati vivi, adesso batteranno la campagna raccontando l’episodio a destra e a manca! L’Impero lo verrà a sapere di sicuro!» Alzò le mani al cielo. «Dopo questo, non meriti di essere chiamato Cavaliere, ragazzino.» Brom sfilò la spada dal terreno e si avvicinò al fuoco. Prese uno straccio da sotto il mantello e cominciò a pulire la lama con gesti bruschi. Eragon era confuso. Provò a chiedere consiglio a Saphira, ma l’unica risposta che ottenne fu: Parla con lui. Esitante, Eragon fece un passo verso il falò e disse: «Servirebbe se chiedessi scusa?» Brom sospirò e rinfoderò la spada. «No. Le tue scuse non possono cambiare quello che è successo.» Puntò l’indice contro il petto di Eragon. «Hai fatto una scelta terribile, che avrebbe potuto avere conseguenze gravissime. Non ultimo il fatto che sei quasi morto. Morto, capisci? Da adesso in poi devi pensare. C’è un buon motivo per cui siamo nati con in testa un cervello, e non un buco.» Eragon annuì, imbarazzato. «Ma forse non è così male come pensi» disse. «Gli Urgali già sapevano di me. Avevano l’ordine di catturarmi.» Brom sgranò gli occhi, sbalordito. «Già, non è male come pensavo. È peggio! Saphira mi ha detto che hai parlato con.gli Urgali, ma a questo non ha accennato.» Eragon si affrettò a riferire il dialogo nei minimi dettagli. «E così adesso hanno una sorta di capo, eh?» disse Brom. Eragon annuì. . «E tu hai pensato bene di sfidare il suo volere, insultarlo e attaccare i suoi uomini» commentò Brom, scuotendo la testa. «Non immaginavo che potesse andar peggio. Se gli Urgali fossero stati uccisi, il tuo sgarbo sarebbe passato inosservato. Ma adesso sarà impossibile ignorarlo. Complimenti: ti sei appena fatto nemico uno degli esseri più potenti di Alagasëia.» «D’accordo, ho commesso un errore» disse Eragon, avvilito. «Proprio così» replicò Brom secco, gli occhi che lampeggiavano. «Non solo, ma così dovrò preoccuparmi anche di chi sia questo fantomatico capo degli Urgali.» Eragon rabbrividì e chiese in tono sommesso: «E adesso?» Ci fu una pausa inquietante. alt tuo braccio ci metterà almeno un paio di settimane a guarire. Approfitteremo di questo periodo per ficcarti un po’ di sale in zucca. Immagino che in parte sia colpa mia. Ti ho insegnato come fare le cose, ma non quando è opportuno farle. Ci vuole discrezione, una qualità di cui è chiaro che manchi. Tutta la magia di Alagaèsia non ti servirà se non sai quando usarla.» «Ma andiamo lo stesso a Dras-Leona?» chiese Eragon. Brom roteò gli occhi. «Certo. Continueremo a seguire i Ra’zac, ma se anche li trovassimo, con quel braccio ferito non potresti far nulla.» Cominciò a togliere la sella da Saphira. Ti senti in grado di cavalcare?» «Si.» «Bene, allora oggi faremo ancora qualche miglio.» «Dove sono Cadoc e Fiammabianca?. Brom indicò in lontananza. «Li ho lasciati legati poco lontano, dove c’era erba.» Eragon si preparò a partire e seguì Brom fino ai cavalli. Saphira si rivolse a lui. Se mi avessi spiegato che cosa intendevi fare, tutto questo non sarebbe successo. Ti avrei detto che non uccidere gli Urgali era una pessima idea. Ho acconsentito a fare ciò che mi chiedevi solo perché pensavo che fossi ragionevole! Non voglio parlarne. Come vuoi, tagliò corto lei. Lungo la strada, ogni buca o asperità che incontravano gli zoccoli del cavallo echeggiava nel corpo di Eragon, che stringeva i denti dal dolore. Se fosse stato solo, si sarebbe fermato; ma con Brom accanto a lui, non osava lamentarsi. Per giunta, Brom cominciò a impegnarlo in complicate strategie teoriche che vedevano in scena gli Urgali, la magia e Saphira. Le battaglie immaginarie furono molte e varie. A volte erano compresi anche altri draghi o uno Spettro. Eragon scoprì che si potevano torturare il corpo e la mente al tempo stesso. Sbagliò la maggior parte delle risposte e cominciò a sentirsi sempre più incapace. Quando sostarono per la notte. Brom borbottò, accigliato: «Bell’inizio.» Eragon sapeva di averlo deluso. 31 Maestro di scherma Il giorno dopo fu più facile per entrambi. Eragon si sentiva meglio e fu in grado di rispondere in maniera corretta a molte più domande. Dopo un esercizio particolarmente difficile, Eragon disse a Brom della visione che aveva avuto. Il vecchio si accarezzò la barba. «Dici che la donna era prigioniera?» «Sì.» «Hai visto il suo volto?» domandò Brom con crescente interesse. «Non bene. La luce era poca, eppure posso dire che era bellissima. E strano; non ho fatto fatica a scorgere i suoi occhi. E lei mi ha guardato.» Brom scrollò la testa. «Per quanto ne so, è impossibile che qualcuno sappia di essere divinato.» «Hai idea di chi possa essere?» chiese Eragon, sorpreso dal tono di desiderio nella sua stessa voce. «Non proprio» ammise Brom. «Fossi costretto, immagino che potrei anche azzardare qualche ipotesi, ma nessuna mi sembra probabile. Il sogno che mi hai raccontato è davvero singolare. A quanto pare sei riuscito a divinare nel sonno qualcosa che non hai mai visto dal vero... e senza nemmeno pronunciare le parole di potere. I sogni a volte toccano il regno degli spiriti, ma in questo caso è diverso.» «Allora per comprendere non ci resta che cercare la donna in ogni prigione o segreta» scherzò Eragon, benché in cuor suo non pensasse che l’idea fosse così assurda. Brom rise e continuarono a cavalcare. Il severo addestramento che Brom impartiva a Eragon riempì quasi ogni ora, e i giorni lentamente si fondevano in settimane. Per via della stecca al braccio, Eragon fu costretto a usare la sinistra quando si esercitavano nei duelli, e ben presto divenne abile quanto lo era con la mano destra. Nel tempo che impiegarono per riattraversare la Grande Dorsale e arrivare nelle pianure, in Alagasëia era giunta la primavera con il suo carico di fiori. Gli alberi ancora privi di foglie erano rossi di bacche e nuovi fili d’erba cominciavano a spuntare fra gli steli secchi dell’anno prima. Gli uccelli tornarono dalla migrazione invernale per accoppiarsi e fare i nidi. I viaggiatori seguirono il fiume Toark in direzione sudest, costeggiando la Grande Dorsale. Numerosi affluenti da entrambe le parti andavano a ingrossare il suo corso. Quando il fiume superò la lega di ampiezza. Brom indicò gli isolotti di sabbia che affioravano dalle acque. «Ormai siamo vicini al Lago di Leona» disse. «Mancano appena due leghe.» «Credi che arriveremo prima di notte?» domandò Eragon. «Possiamo provarci.» Il crepuscolo rese difficile seguire la pista, ma il mormorio del fiume al loro fianco li guidava. Quando sorse la luna, il pallido disco rischiarò il panorama che avevano davanti. Il Lago di Leona sembrava una lamina d’argento posata sul terreno. Era così calmo e liscio da non sembrare nemmeno liquido. A parte una striscia brillante di riflesso lunare sulla superficie, era impossibile distinguerlo dal suolo. Saphira era sulla riva rocciosa e agitava le ali per asciugarle. Eragon la salutò, e lei rispose: L’acqua è deliziosa... fresca, trasparente, profonda. Magari farò un tuffo domani, disse lui. Si accamparono vicino a un boschetto e andarono a dormire presto. All’alba, Eragon si alzò in fretta, desideroso di vedere il lago di giorno: una distesa d’acqua, punteggiata di creste bianche dove soffiava il vento. Urlò eccitato e corse verso la riva. Saphira, dove sei? Divertiamoci un po’! Nel momento in cui Eragon le salì in groppa, la dragonessa si alzò in volo sull’acqua. Puntarono verso il cielo tracciando un ampio cerchio sul lago, ma anche da quell’altezza la riva opposta non era visibile. Ti andrebbe di fare un bagno? le chiese Eragon senza pensarci troppo. Saphira sogghignò, scoprendo le zanne lucenti. Tieniti forte! Immobilizzo le ali e si tuffò in picchiata, sfiorando le creste di schiuma con gli artigli. L’acqua brillava al sole mentre la sorvolavano. Eragon strillò, ancora più eccitato. Poi Saphira chiuse le ali e s’immerse nel lago, la testa e il collo diritti come una lancia. L’acqua colpì Eragon come un muro di ghiaccio, mozzandogli il respiro; e per poco non fu disarcionato. Si tenne stretto mentre la dragonessa nuotava in superficie. Fendeva l’acqua con rapidi colpi di zampa che scagliavano spruzzi scintillanti verso il cielo. Eragon annaspò e scrollò la testa mentre Saphira scivolava sul lago usando la coda come timone. Pronto? Eragon annuì e trasse un profondo respiro, avvinghiandosi al suo collo. Questa volta scivolarono dolcemente sott’acqua. Attraverso il liquido limpidissimo si poteva vedere a iarde di distanza. Saphira piroettò e serpeggiò in fantastiche evoluzioni, guizzando nell’acqua come un’anguilla. Eragon aveva la sensazione di cavalcare un leggendario serpente marino. Proprio mentre i suoi polmoni cominciavano ad avere sete d’aria, Saphira inarcò il dorso e puntò la testa verso l’alto. Un’aureola di goccioline li circonfuse quando la dragonessa balzò fuori dall’acqua, dispiegando le ali. Con due potenti battiti, salì alta nel cielo. È stato fantastico, esclamò Eragon. Già, disse Saphira allegramente. Però è un peccato che tu non riesca a trattenere il fiato più a lungo. Non posso farci niente, disse lui, strizzandosi i capelli. Aveva i vestiti fradici e il vento delle ali di Saphira lo faceva gelare. Strattonò la stecca; il polso gli prudeva. Una volta che fu asciutto, Eragon e Brom sellarono i cavalli e cominciarono ad aggirare il Lago di Leona con rinnovato spirito, mentre Saphira entrava e usciva dall’acqua, giocosa. Prima di cena, Eragon fece il solito incantesimo per ricoprire la lama di Zar’roc in preparazione al duello. Né lui né Brom attaccarono, ciascuno in attesa della prima mossa dell’altro. Eragon si guardò intorno in cerca di qualcosa che potesse dargli un vantaggio. Un rametto vicino al fuoco attirò la sua attenzione. Il ragazzo si chinò rapido, prese il rametto e lo scagliò contro Brom. La steccatura gli impedì di compiere un gesto rapido e fluido, e Brom evitò facilmente il pezzo di legno. Il vecchio si avventò contro di lui, mulinando la spada. Eragon si piegò in avanti mentre la lama sibilava sopra la sua testa. Emise un ringhio e si avventò con ferocia su Brom. I due caddero a terra avvinghiati, ciascuno deciso a sovrastare l’avversario. Eragon rotolò su un fianco e spazzò il terreno con Zar’roc, mirando agli stinchi di Brom. Brom parò il colpo con l’elsa della sua spada e balzò in piedi. Anche Eragon si alzò, e si voltò di scatto per attaccare di nuovo, tracciando in aria un complicato arabesco con la spada. Dall’urto delle lame sprizzarono scintille. Brom parava ogni colpo, il volto contratto per la concentrazione. Eragon intuì che si stava stancando. Continuarono a scambiarsi colpi incessanti, nel tentativo di aprire una breccia nelle difese dell’altro. Poi Eragon sentì che qualcosa stava cambiando. A ogni colpo guadagnava vantaggio; le parate di Brom si facevano più lente e il vecchio perdeva terreno, Eragon respinse con disinvoltura un fendente e notò le vene che pulsavano sulla fronte del vecchio, i tendini del collo tesi nello sforzo. In un impeto di nuova fiducia, fece roteare Zar’roc più veloce che mai, tessendo una ragnatela d’acciaio intorno alla spada di Brom. Con un’esplosione di energia, premette la propria lama di piatto contro la guardia di Brom e gli fece volare via la spada. Prima che Brom potesse reagire, Eragon gli puntò Zar’roc alla gola. Rimasero immobili, ansanti, la punta rossa della spada appoggiata sulla clavicola di Brom, Eragon abbassò lentamente il braccio e indietreggiò, Era la prima volta che sconfiggeva Brom senza ricorrere a qualche trucco. Brom raccolse la spada e la rinfoderò. Ancora col fiato corto, disse: «Per oggi abbiamo finito.» «Ma abbiamo appena cominciato» disse Eragon, perplesso. Brom scosse la il capo. «Non posso insegnarti altro sull’arte della scherma. Di tutti i combattenti che ho incontrato, soltanto tre avrebbero potuto sconfiggermi così, ma dubito che ci sarebbero riusciti con la sinistra.» Sorrise, afflitto. «Forse non sono più giovane come un tempo, ma so ancora riconoscere uno spadaccino di raro talento.» «Questo significa che non ci alleneremo più ogni sera?» chiese Eragon. «Oh, nemmeno per sogno» rispose Brom, ridendo. «Ma possiamo prendercela con un po’ più di calma, adesso. Non sarà più così importante se saltiamo una sera ogni tanto.» Si asciugò la fronte. «Ricorda, però, una cosa. Se mai avrai La sventura di combattere contro un elfo, che sia maschio o femmina, addestrato o meno, aspettati di perdere. Gli elfi insieme ai draghi e ad altre creature magiche, sono molto più forti di quanto non intendesse la natura. Perfino l’elfo più debole potrebbe sconfiggerti con facilità. Lo stesso vale per i Ra’zac... Non sono umani e si stancano molto meno in fretta di noi.» «Ma non c’è. un modo per essere loro pari?» chiese Eragon, sedendosi a gambe incrociate al fianco di Saphira. Hai duellato bene, disse lei, Eragon sorrise. Brom si sedette e scrollò le spalle. «Qualche modo c’è, ma in questo momento non è alla tua portata. La magia ti permetterà di sconfiggere molti avversari, ma non i più potenti. Per quelli ti servirà l’aiuto di Saphira, oltre a una discreta dose di fortuna. Ricorda: quando le creature magiche usano la magia, possono fare cose che potrebbero uccidere un umano, grazie alle loro capacità.» «Come si fa a combattere con la magia?» chiese Eragon. «Che vuoi dire?» «Insomma» disse il ragazzo, appoggiandosi su un gomito. «e se venissi attaccato da uno Spettro? Come faccio a respingere la sua magia? La maggior parte degli incantesimi hanno effetto immediato, il che rende impossibile reagire in tempo. E se anche potessi, come farei ad annullare la magia di un nemico? A quanto pare, dovrei conoscere le intenzioni del mio avversario prima che agisca.» Fece una pausa. «Non riesco a capire come si fa. Chiunque attacchi per primo è destinato a vincere.» Brom sospirò. «Ciò di cui stai parlando, un duello magico, per così dire, è estremamente pericoloso. Non ti sei mai chiesto come abbia fatto Galbatorix a sconfiggere tutti i Cavalieri con l’aiuto di appena una decina di traditori?» «Non ci ho mai pensato» ammise Eragon. «Ci sono molti modi. Alcuni li apprenderai in seguito, ma il punto fondamentale è che Galbatorix era ed è tuttora un maestro nell’insinuarsi nella mente altrui. Vedi, in un duello magico ci sono regole severe che i contendenti devono osservare: altrimenti moriranno entrambi. Tanto per cominciare, nessuno usa la magia finché uno dei duellanti non ottiene l’accesso alla mente dell’altro.» Saphira circondò Eragon con la coda e chiese: Perché aspettare? Quando l’avversario capisce che lo stai attaccando, è già troppo tardi perché possa reagire, Eragon ripetè la domanda ad alta voce. Brom scosse il capo. «No, non funziona così. Se all’improvviso usassi il mio potere contro di te, Eragon, tu moriresti di sicuro, ma nel brevissimo lasso di tempo prima di soccombere avresti comunque modo di reagire. Perciò, a meno che uno dei duellanti non abbia desiderio di morire, nessuna delle due parti attacca finché uno non ha infranto le difese dell’altro.» «E poi che cosa succede?» lo interrogò Eragon. Brom si strinse nelle spalle e disse: «Una volta entrato nella mente del tuo nemico, ti sarà facile anticipare quello che farà e prevenirlo. Ma anche con questo vantaggio è possibile perdere, se non sai come contrastare gli incantesimi.» Riempì la pipa e l’accese. «E questo richiede una capacità di pensiero straordinariamente veloce. Prima di poterti difendere, devi comprendere l’esatta natura delle forze dirette contro di te. Se vieni attaccato con il calore, devi capire se sarà sotto forma di aria, fuoco, luce o qualche altro mezzo. Soltanto quando lo avrai capito potrai combattere la magia, per esempio, raffreddando il materiale incandescente.» «Sembra difficile.» «Infatti lo è» confermò Brom. Un filo di fumo si levò dalla sua pipa. «Di rado qualcuno riesce a sopravvivere a un duello simile per più di qualche istante. L’enorme quantità di energia e di perizia necessarie condanna chiunque non abbia ricevuto il dovuto addestramento a una fine rapida. Quando avrai fatto progressi, comincerò a insegnarti i metodi necessari. Nel frattempo, se mai dovessi trovarti coinvolto in un duello di magia, ti consiglio di fuggire a gambe levate.» 32 Dras-Leona. La fangosa Si fermarono per pranzare a Fasaloft, un grazioso, animato villaggio arroccato su un’altura in riva al lago. Mentre mangiavano nella sala comune dell’ostello, Eragon porse l’orecchio ai vari pettegolezzi e si rincuorò nel non sentire voci su di lui e Saphira. La pista, ormai una vera e propria strada, era peggiorata negli ultimi due giorni. Le ruote dei carri e gli zoccoli di ferro dei cavalli avevano devastato il terreno, rendendo molti tratti impraticabili. Un aumento nel flusso dei viaggiatori aveva costretto Saphira a nascondersi di giorno per poi raggiungere Eragon e Brom di notte. Per giorni e giorni viaggiarono verso sud costeggiando il Lago di Leona. Eragon cominciò a chiedersi se sarebbero mai riusciti ad aggirarlo, e fu lieto quando incontrarono finalmente degli uomini che dissero che Dras-Leona si trovava a solo a un giorno di cavallo. La mattina dopo, Eragon si svegliò di buon’ora. Le sue dita formicolavano per l’ansia al pensiero di trovare finalmente i Ra’zac. Dovete stare attenti, voi due, disse Saphira. I Ra’zac potrebbero aver disposto delle spie in attesa di viaggiatori che corrispondano alla vostra descrizione. Faremo del nostro meglio per non destare sospetti, la rassicurò Eragon. La dragonessa abbassò il muso fino a incrociare il suo sguardo. Può darsi, ma ricorda che non potrò proteggerti come ho fatto con gli Urgali Sarò troppo lontana per venirti in aiuto, e non sopravviverei a lungo in quelle minuscole vie che la tua razza ama costruire. Segui i consigli di Bromi è un uomo saggio. Lo so, rispose Eragon in tono grave. Andrai con Brom dai Varden? Una volta eliminati i Ra’zac, vorrà portarti con sé da loro, E dato che Galbatorix sarà infuriato per la morte dei Ra’zac, forse quella sarà la cosa migliore che possiamo fare. Eragon si massaggiò le braccia. Non voglio combattere l’Impero per sempre come i Varden. La vita non è soltanto una guerra costante. Ci sarà tempo per rifletterci quando i Ra’zac saranno morti. Non esserne troppo sicuro, lo ammonì lei; poi andò a nascondersi fino alla notte. La strada era affollata di contadini che portavano le loro merci al mercato di Dras-Leona. Brom ed Eragon furono costretti a rallentare l’andatura dei cavalli e ad aspettare dietro i carri che ostruivano la strada. Scorsero del fumo in lontananza verso mezzogiorno, ma passò un’altra lega prima che la città fosse visibile. Al contrario di Teirm, una città progettata a tavolino. Dras-Leona era un confuso ammasso di edifici cresciuto sulla sponda del Lago di Leona. Le vie strette e tortuose erano soffocate da costruzioni cadenti, e il cuore della città era circondato da un muro giallastro e sporco, intonacato di fango. Parecchie miglia a est sorgeva una montagna di roccia nuda, che squarciava il cielo con guglie e pilastri svettanti come alberi di una tenebrosa nave da incubo. Le pareti quasi verticali sorgevano dal terreno come un frammento frastagliato d’osso della terra. Brom la indicò. «Quello è l’Helgrind. È la ragione per cui Dras-Leona fu fondata in origine. La gente ne è affascinata, anche se è un luogo malsano e maligno.» Poi fece un gesto verso le mura della città. «Per prima cosa dovremmo andare in centro.» Mentre cavalcavano lungo la strada per Dras-Leona, Eragon si accorse che l’edificio più alto della città era una cattedrale che torreggiava oltre le mura. Era straordinariamente somigliante al Monte Helgrind, soprattutto quando i suoi archi e i pinnacoli sfaccettati catturavano la luce. «Chi venerano?» chiese. Brom fece una smorfia. «Le loro preghiere vanno all’Helgrind. É una religione crudele, la loro. Bevono sangue umano e fanno sacrifici di carne. I loro sacerdoti spesso sono mutilati perché credono che più ossa e carne si offrono, meno si è aggrappati alle cose del mondo mortale. Trascorrono gran parte del tempo a discutere su quale dei tre picchi dell’Helgrind sia il più alto e importante e se il quarto, il più basso, debba essere incluso nelle loro preghiere.» «E’ orribile» esclamò Eragon con un brivido. «Già» disse Brom in tono cupo. «ma non dirlo davanti a un credente. Perderesti subito una mano per espiare.» Davanti agli enormi cancelli di Dras-Leona, condussero i cavalli attraverso la calca. Ai lati dei cancelli erano schierati dieci soldati che di tanto in tanto fermavano la gente per un controllo; ma Brom ed Eragon passarono senza intoppi. Le case dentro la città erano alte e strette, per compensare la mancanza di spazio. Quelle vicino alle mura esterne condividevano con esse. una parete. La maggior parte degli edifici incombevano sulle viette tortuose coprendo il cielo, tanto da rendere difficile stabilire se fosse notte o giorno. Quasi tutti erano fatti di scuro legno grezzo, un colore che contribuiva a rabbuiare la città. Le strade erano sudicie e nell’aria aleggiava un odore di fogna. Un gruppetto di bambini laceri correva fra le case, litigando per un pezzo di pane. Mendicanti deformi erano accovacciati davanti all’ingresso, a chiedere l’elemosina. I loro monotoni, acuti lamenti erano come un coro di dannati. Non trattiamo così nemmeno gli animali, pensò Eragon, lo sguardo traboccante di rabbia. «Non mi piace questo posto» disse, ribellandosi alla vista. «Le cose migliorano più avanti» disse Brom. «Ora dobbiamo trovare una locanda ed elaborare una strategia. Dras-Leona ptiò rivelarsi un luogo pericoloso perfino per i più accorti. Non voglio restare per la strada più del necessario.» Si addentrarono nella città, lasciandosi alle spalle lo squallido ingresso. Mentre attraversavano le zone più ricche di Dras-Leona, Eragon si chiese: Come fanno costoro a vivere nel lusso quando a pochi passi da loro regna la miseria più nera? Trovarono alloggio al Globo d’Orò, una locanda a buon mercato ma decorosa. Nella stanza che fu loro assegnata c’erano un lettuccio addossato a una parete, un tavolino traballante e un catino sbeccato. Eragon gettò uno sguardo al materasso e disse: «Io dormo sul pavimento. Probabilmente in quel.coso ci sono abbastanza cimici da mangiarmi vivo.». «D’accordo, io non ho intenzione di privarle di un lauto banchetto» disse Brom, lasciando cadere le borse sul letto, Eragon posò le proprie sul pavimento ed estrasse l’arco. «E adesso?» chiese. «Adesso troviamo qualcosa da mettere sotto i denti e poi ce ne andremo a dormire. Domani cominceremo a cercare i Ra’zac.» Prima di uscire dalla camera. Brom ammonì il ragazzo. «Qualunque cosa succeda, tieni la bocca cucita. Se ci scoprono, dovremo filarcela alla svelta.» Il cibo della locanda era appena commestibile, ma la birra era squisita. Quando tornarono barcollanti in camera, Eragon si sentiva la testa piacevolmente brilla. Srotolò le sue coperte sul pavimento e ci s’infilò sotto con piacere, mentre Brom piombava sul letto, Poco prima di. addormentarsi, Eragon cercò Saphira. Resteremo qui per qualche giorno, ma non quanto siamo stati a Teirm. Quando avremo scoperto dove sono i Ra’zac, dovrai aiutarci a prenderli. Ne parliamo domattina. In questo momento non ho la mente lucida, Sei ubriaco, fu il commento accusatorio. Eragon ci pensò un attimo e dovette convenire che Saphira aveva ragione. La disapprovazione della dragonessa era evidente, ma si limitò a dire: Non ti invidio per come ti sentirai domani. Tu no, gemette Eragon, ma Brom sì. Ha bevuto almeno il doppio di me. 33 Tracce d’olio Che cosa mi è preso? si domandò Eragon la mattina dopo. La testa gli pulsava dolorosamente e si sentiva la lingua gonfia, formicolante. Quando un topo grattò le tavole di legno del sottotetto, Eragon fece una smorfia: il dolore gli trafisse le tempie. Come ti senti? lo canzonò Saphira. Eragon la ignorò. . Un istante dopo. Brom caracollò giù dal letto con un grugnito. Tuffò la testa nell’acqua fredda del bacile, poi uscì dalla stanza, Eragon si affrettò a seguirlo nel corridoio. «Dove vai?» gli chiese. «A riprendermi.» «Vengo anch’io.» Davanti al bancone, Eragon scoprì che il metodo di Brom per riprendersi consisteva nell’alternare té bollente e acqua ghiacciata, il tutto innaffiato infine da una discreta dose di brandy. Quando tornarono in camera, Eragon scoprì di sentirsi meglio. Brom allacciò il fodero della spada alla cintura e si lisciò le pieghe del mantello. «La prima cosa è fare qualche domanda discreta ma precisa. Voglio scoprire dove è stato consegnato l’olio di Seithr qui a Dras-Leona, e poi dove è stato trasportato. Con ogni probabilità, nel trasporto sono stati coinvolti dei soldati o degli operai. Dobbiamo trovarli e farne parlare uno.» Uscirono dal Globo d’Oro e andarono in cerca di magazzini dove l’olio poteva essere stato consegnato. Vicino al centro di Dras-Leona, le strade prendevano a inerpicarsi verso un palazzo di lucido granito, costruito su un’altura perché dominasse tutti gli altri edifici, tranne la cattedrale. I due viaggiatori salirono verso l’edificio. Il cortile era un mosaico di madreperla, e le mura erano in parte intarsiate d’oro. C’erano nicchie che ospitavano statue nere, che nelle gelide mani reggevano bastoncini d’incenso fumanti. Soldati appostati ogni quattro iarde scrutavano con attenzione i passanti. «Chi ci abita?» chiese Eragon, colmo di meraviglia. «Marcus Tábor, il governatore della città. Risponde soltanto al re e alla propria coscienza, che non è stata molto attiva di recente» disse Brom. Camminarono intorno al palazzo, osservando le ricche dimore ornate di alti cancelli che le circondavano. Arrivati a mezzogiorno, non avevano ancora scoperto niente di interessante, perciò si fermarono per il pranzo. «Questa città è troppo grande per setacciarla insieme» disse Brom. «Tu cerca per conto tuo. Ci rivediamo al Globo d’Oro al tramonto.» Da sotto le sopracciglia cespugliose scoccò un’occhiata intensa al ragazzo. «Confido che non farai niente di stupido.» «Lo prometto» disse Eragon. Brom gli diede qualche moneta e poi si allontanò nella direzione opposta. Per il resto della giornata, Eragon parlò con bottegai e operai, cercando di mostrarsi iI più possibile cordiale e innocente. Le sue domande lo portarono da un capo all’altro della città, ma nessuno sembrava sapere niente dell’olio. Ovunque andasse, la cattedrale torreggiava cupa su di lui. Era impossibile sfuggire all’ombra incombente dei suoi pinnacoli. Infine trovò un uomo che aveva aiutato a scaricare l’olio di Seithr e che ricordava in quale magazzino era stato portato. Eragon, pieno d’eccitazione, andò a vedere l’edificio, poi tornò al Globo d’Oro. Passò oltre un’ora prima del ritorno di Brom. «Scoperto niente?» gli chiese Eragon. Il vecchio, affaticato, si passò una mano tra i capelli bianchi. «Ho appreso parecchie cose interessanti oggi, non ultimo il fatto che Galbatorix farà visita a Dras-Leona questa settimana.» . «Che cosa?» esclamò Eragon. Brom appoggiò le spalle al muro, la fronte solcata da rughe profonde. «Pare che Tàbor si sia preso un po’ troppe libertà col suo potere, e quindi Galbatorix ha deciso di venire a dargli una lezione di umiltà, È la prima volta che il re lascia Urù’baen da oltre dieci anni.» «Credi che sappia di noi?» fece Eragon. «Ovvio che sa di noi, ma sono convinto che non conosca la nostra posizione. Altrimenti saremmo già prigionieri dei Ra’zac. Comunque significa che qualunque cosa decidiamo di fare riguardo ai Ra’zac, dobbiamo agire prima dell’arrivo di Galbatorix, È meglio tenersi il più possibile alla larga da lui. L’unica cosa a nostro favore è la conferma che i Ra’zac sono qui per prepararsi alla sua visita.» «Voglio prendere i Ra’zac» disse Eragon con i pugni stretti. «ma non se vuoi dire combattere il re. Probabilmente mi farebbe a pezzi.» Brom parve divertito. «Molto bene: prudenza. Hai ragione: non avresti, una sola possibilità contro Galbatorix. E adesso dimmi che cosa sei venuto a sapere quest’oggi. Potrebbe confermare quello che ho sentito io.» Eragon si strinse nelle spalle. «Più che altro un sacco di chiacchiere inutili.Però ho parlato con un uomo che sapeva dov’è stato portato l’olio. Si tratta di un vecchio magazzino. A parte questo, non ho scoperto altro.» «La mia giornata è stata più fruttuosa della tua, a quanto pare. Mi è stata detta la stessa cosa, e così sono andato al magazzino e ho parlato con gli operai. Non ci ho messo molto a scoprire che le casse di olio di Seithr vengono sempre inviate dal magazzino a palazzo.» «E poi sei tornato qui» concluse Eragon. «No! Non mi interrompere. Poi sono andato a palazzo e mi sono fatto invitare negli alloggi dei servitori, presentandomi come un bardo. Per diverse ore ho vagato intrattenendo le cameriere e gli altri con canti e poesie, e facendo domande.» Brom riempì lentamente di tabacco la pipa. «È sorprendente quante cose sanno i servitori. Lo sapevi che uno dei conti ha ben tre amanti, e che vivono tutte nella stessa ala del palazzo?» Scrollò il capo e si accese la pipa. «Ma a parte questi affascinanti pettegolezzi, mi è stato riferito per caso dove viene portato l’olio quando esce da palazzo.» «Ovvero...?» intervenne Eragon, impaziente.. Brom soffiò un anello di fumo con esasperante lentezza. «Fuori città, è ovvio. Ogni luna piena, due schiavi vengo-no inviati ai piedi dell’Helgrind con provviste per un mese. Ogni volta che l’olio di Seithr arriva a Dras-Leona, lo portano insieme alle provviste. E gli schiavi non tornano più. L’unica volta che qualcuno li ha seguiti, questo qualcuno è scomparso.» «Credevo che i Cavalieri avessero abolito la tratta degli schiavi» disse Eragon. «È così, ma purtroppo è tornata a prosperare sotto il regno di Galbatorix.» «E così i Ra’zac si nascondono sull’Helgrind» disse Eragon, pensando alla montagna di nuda roccia. «Lì o nei dintorni.» «Se sono sull’Helgrind, allora due sono le cose: o si nascondono dentro di esso, protetti da una massiccia porta di pietra, oppure sulla vetta, dove soltanto le loro cavalcature alate o Saphira possono arrivare. In ogni caso, il loro rifugio sarà senza dubbio ben mascherato.» Tacque un istante per riflettere. «Se Saphira e io voliamo intorno all’Helgrind, i Ra’zac ci vedranno di sicuro... per non par-lare di tutti gli abitanti di Dras-Leona.» «È un problema» convenne Brom. Eragon aggrottò la fronte. «E se prendessimo il posto dei due schiavi? Non manca molto alla luna piena. Sarebbe un’occasione perfetta per avvicinarci ai Ra’zac.» Brom si lisciò la barba, pensoso. «Mi pare rischioso. Se gli schiavi vengono uccisi a distanza, saremo nei guai. Non possiamo far nulla ai Ra’zac se non sono in vista.» «Ma non siamo nemmeno certi che gli schiavi vengano uccisi» ribatte Eragon. «Io sono sicuro di sì» disse Brom in tono grave. Poi i suoi occhi scintillarono, e soffiò un altro anello di fumo. «Tuttavia è un’idea interessante... Se lo facciamo con Saphira nascosta nelle vicinanze e un...» Non concluse la frase. «Potrebbe funzionare, ma dovremo muoverci in fretta. Con il re che sta arrivando, non ci resta molto tempo.» «Non dovremmo andare all’Helgrind a dare un’occhiata? Sarebbe opportuno studiare il territorio alla luce del giorno per non essere sorpresi da un agguato» disse Eragon. Brom fece scorrere le dita sul bastone. «Questo si può fare. Domani tornerò a palazzo e cercherò il modo di prendere il posto degli schiavi. Devo stare attento a non destare sospetti, però, perché la corte pullula di spie.» «Non ci posso credere; abbiamo davvero trovato i Ra’zac» disse Eragon in tono sommesso. Nella mente gli balenarono le immagini dello zio morto e della fattoria bruciata. Serrò la mascella. «La parte più dura deve ancora arrivare, però sì, finora siamo stati bravi» disse Brom. «Se la fortuna ci assiste, potrai presto ottenere la tua vendetta e i Varden saranno liberati da un pericoloso nemico. Quello che accadrà dopo dipende da te.» Eragon aprì la mente e riferì trionfante a Saphira: Abbiamo trovato il covo dei Ra’zac! Dove? Il ragazzo le spiegò in breve quello che avevano scoperto, l’Helgrind, borbottò lei. Quale luogo più adatto... Eragon assentì. Quando avremo finito, magari potremmo tornare a Carvahall È questo che vuoi? sbottò lei, improvvisamente acida. Tornare alla tua vecchia vita? Lo sai che nulla sarà più come prima, perciò smettila di struggerti. A un certo punto dovrai pure decidere qual è il tuo scopo. Vuoi nasconderti per il resto dei tuoi giorni, o vuoi aiutare i Varden? Queste sono le uniche possibilità che ti restano, a meno che non desideri unirti alle forze di Galbatorix, còsa che non accetterò mai e poi mai. Eragon rispose con dolcezza: Se devo scegliere, unirò il mio destino a quello dei Varden, lo sai. Già, ma qualche volta ti fa bene ripeterlo a te, stesso, E con questo lo lasciò a riflettere sulle sue parole. 34 Gli adoratori dell’Helgrind Al risveglio, Eragon si ritrovò solo nella stanza. Scarabocchiato col carboncino sulla parete c’era scritto: Eragon, vado via per qualche ora. I soldi per il cibo sono sotto il materasso. Fatti un giro in città, divertiti, ma non farti notare!      Brom P.S. Stai alla larga dal palazzo, e non andare da nessuna parte senza l’arco! Tienilo sempre pronto. Eragon cancellò il messaggio e recuperò le monete sotto il letto. Si mise l’arco a tracolla, pensando: Quanto vorrei non dover andare sempre in giro armato. Uscì dal Globo d’Oro e vagò per le strade, fermandosi a osservare qualunque cosa attirasse la sua attenzione. C’erano molte botteghe interessanti, ma nessuna quanto l’erboristeria di Angela a Teirm. A volte lanciava occhiate oblique alle case scure e inquietanti, desiderando di trovarsi fuori dalle mura della città. Quando gli venne fame, si comprò una fetta di formaggio e una pagnotta e mangiò seduto sul bordo di un marciapiede. Più tardi, in un quartiere lontano dal cuore di Dras-Leona, udì un banditore d’aste che elencava una lista di prezzi. Incuriosito, si incamminò verso la voce e sbucò in uno spiazzo fra due edifici. C’erano dieci uomini in piedi su un palco alto tre piedi. Radunata davanti a loro c’era una folla di gente con ricchi vestiti, colorata e turbolenta. Chissà cosa vendono, si chiese Eragon. Il banditore terminò il suo elenco e con un gesto chiamò un giovane a farsi avanti. L’uomo arrancò goffamente, i polsi e le caviglie trattenuti da pesanti catene. «Ed ecco il nostro primo articolo» proclamò il banditore. «Un giovane maschio sano proveniente dal Deserto di Hadarac, catturato il mese scorso, in eccellenti condizioni. Guardate queste braccia e queste gambe: è forte come un bue! Sarebbe perfetto come scudiero. Ma se non vi fidate, usatelo come uomo di fatica. A parer mio, signore e signori, sarebbe uno spreco, È sveglio, se riuscite a insegnargli una lingua civile!» La folla scoppiò a ridere, ed Eragon strinse i denti, infuriato. Le sue labbra cominciarono a formulare una parola che avrebbe liberato lo schiavo, e il suo braccio, da poco privo della steccatura, si levò. Il marchio sul palmo prese a rifulgere. Stava per usare la magia, quando lo folgorò un pensiero. Non ce la farà mai! Lo schiavo sarebbe stato catturato ancor prima di raggiungere le mura della città. Eragon non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, se avesse tentato di aiutarlo. Abbassò il braccio e imprecò sottovoce. Pensa, prima di agire! È così che ti sei ficcato nei guai con gli Urgali. Guardò impotente lo schiavo che veniva venduto a un uomo alto, col naso aquilino. Poi toccò a una bambina minuscola: non poteva avere più di sei anni e venne strappata dalle braccia della madre in lacrime. Mentre il banditore cominciava l’asta, Eragon si costrinse ad andar via, teso e infuriato. Percorse diversi isolati prima di non sentire più quel pianto disperato. Quanto vorrei che in questo momento un ladro cercasse di strapparmi la borsa, pensò amaramente, con la voglia di sfogare la sua rabbia. Frustrato, scagliò un pugno contro un muro vicino, scorticandosi le nocche. Questo è il genere di cose che potrei impedire se combattessi contro l’Impero, si disse. Con Saphira al mio fianco, potrei liberare quegli schiavi Mi sono stati concessi poteri speciali; sarei un egoista se non li usassi a beneficio degli altri. Se non lo faccio, non merito di essere un Cavaliere. Immerso nei suoi pensieri, si accorse di essere davanti alla cattedrale soltanto quando la vide di fronte a sé. Le sue guglie contorte erano coperte di statue e volute; dalle grondaie si affacciavano ghignanti gargoyle. Bestie fantastiche affollavano le mura, mentre re ed eroi marciavano lungo i bordi più bassi, paralizzati nel gelo del marmo. Archivolti e vetrate istoriate costeggiavano i fianchi della cattedrale, insieme a pilastri di varie misure. Una torretta solitaria sormontava l’edificio come l’albero maestro di un vascello. Incassato nell’ombra della facciata c’era un portale di ferro intarsiato di scritte d’argento che Eragon riconobbe come l’antica lingua. Cercò di decifrarle come poteva: O tu che varchi questa soglia, rammenta la tua caducità e dimentica l’attaccamento alle cose che ami. L’intera costruzione gli fece correre un brivido lungo la schiena. C’era qualcosa di minaccioso in essa, come se fosse un predatore acquattato nella città, in attesa della prossima vittima. Un’ampia scalinata portava all’ingresso. Eragon si avviò con passo solenne lungo i gradini, e si fermò davanti al portale. Chissà se posso entrare. Con un lieve senso di colpa, spinse il battente. La porta si aprì docile, scivolando su cardini ben oliati. Fece un passo ed entrò. Il silenzio di una tomba dimenticata riempiva la cattedrale deserta. L’aria era fredda e asciutta. Le pareti spoglie si innalzavano fino a un soffitto a volta che fece sentire Eragon non più grande di una formica. Le vetrate che illustravano scene di rabbia, odio e rimorso squarciavano le pareti, mentre raggi di luce spettrale bagnavano i banchi di granito, lasciando il resto in ombra. Le mani di Eragon avevano un colorito azzurregnolo. Fra le vetrate c’erano alte statue dagli occhi fissi e pallidi. Ricambiò il loro sguardo severo, poi si avviò lentamente per la navata centrale, temendo di disturbare la quiete. Il rumore ovattato dei suoi stivali di cuoio sul pavimento di pietra levigata sembrava una serie di esplosioni. L’altare era una grande lastra di pietra priva di qualsiasi ornamento. Un solitario raggio di luce pioveva su di esso, illuminando il sottile turbinio dorato della polvere sospesa. Dietro l’altare, le canne di un organo a vento bucavano il soffitto e si esponevano agli elementi. L’aveva sentito raccontare: lo strumento suonava la sua musica solo quando una tempesta si abbatteva su Dras- Leona. Per rispetto, Eragon s’inginocchiò davanti all’altare e chinò il capo. Non pregò alcuna divinità, ma rese omaggio alla cattedrale. Le sue pietre trasudavano la sofferenza di cui erano state testimoni, in netto contrasto con le sgradevoli, pompose cerimonie che tra esse avvenivano. Era un luogo ostile, gelido, nudo. In quell’atmosfera fredda, però, si coglieva un barlume di eternità e forse dei poteri in essa racchiusi. Eragon chinò di nuovo il capo e si alzò. Calmo e solenne, mormorò a se stesso parole nell’antica lingua; poi si voltò per uscire. S’impietrì. Il suo cuore fece un balzo nel petto e prese a martellare come un tamburo. Sulla soglia della cattedrale c’erano i Ra’zac, e lo, guardavano intenti. Avevano le spade sguainate, le lame mortifere accese di una luce cremisi. Il Ra’zac più piccolo emise un sibilo roco, ma nessuno dei due si mosse. Eragon sentì montare la collera. Aveva inseguito i Ra’zac per così tante settimane che il dolore per il loro gesto scellerato si era sopito dentro di lui. Ma la vendetta era a portata di mano. La sua ira esplose come un vulcano, alimentata dalla furia repressa per la scena degli schiavi. Dalle sue labbra uscì un ruggito che echeggiò come un rombo di tuono mentre impugnava l’arco. Con destrezza, incoccò una freccia e la scagliò, seguita subito da altre due. I Ra’zac schivarono i dardi con rapidità disumana, poi corsero sibilando lungo il passaggio fra i banchi, i mantelli che fluttuavano come ali di corvo. Eragon fece per prendere un’altra freccia quando la prudenza gli fermò la mano. Se sapevano dove trovarmi, allora anche Brom è in pericolo! Devo avvertirlo! In quel momento, con suo sommo orrore, Eragon vide entrare nella cattedrale un folto drappello di soldati, mentre altri si affollavano all’esterno, oltre il portale. Guardò con odio i Ra’zac che correvano verso di lui, poi si volse in cerca di una via di fuga. Notò un vestibolo alla sinistra dell’altare. Sfrecciò sotto l’arco e imboccò un corridoio che portava nella sagrestia. Il rumore dei passi dei Ra’zac alle sue spalle gli fece accelerare il passo, finché non si ritrovò davanti a una porta chiusa. La prese a pugni e calci nel tentativo di aprirla, ma il legno era troppo robusto. I Ra’zac lo avevano quasi raggiunto. In preda al panico, inspirò a fondo e urlò: «Jierda!» Con un lampo, la porta si infranse e cadde di schianto. Eragon la scavalcò con un balzo e riprese a correre. Attraversò una serie di stanze, spaventando un gruppo di sacerdoti che gli gridarono invettive. La campana della sagrestia suonò l’allarme. Eragon piombò nella cucina, dove c’erano due monaci, e infine varcò una porticina secondaria che dava su di un giardino. Con sgomento si accorse che tutt’intorno correva un alto muro di mattoni senza alcun appiglio, e che non c’erano altre uscite. Eragon si voltò per riprendere la fuga, ma udì un sibilo sordo quando i Ra’zac spalancarono la porta con una spallata. Disperato, corse verso il muro. La magia non gli sarebbe stata di alcun aiuto: se l’avesse usata per aprire una breccia nel muro, poi sarebbe stato troppo stanco per fuggire. Saltò. Perfino con le braccia tese al massimo, soltanto le sue dita riuscirono ad arrivare al bordo del muro, mentre il resto del corpo urtò contro i duri mattoni, mozzandogli il fiato. Rimase aggrappato e ansante, sforzandosi di non cedere. Sentì i Ra’zac che setacciavano il giardino, spostandosi veloci e nervosi come segugi che fiutano la preda. Eragon li sentì avvicinarsi e si issò sulle braccia. Le spalle gli urlarono di dolore, ma riuscì ad arrivare in cima, e si lasciò cadere dall’altra parte. Inciampò, riprese l’equilibrio e si precipitò in un vicolo nel momento in cui i Ra’zac scavalcavano il muro con un balzo. Concentrato, Eragon infuse maggiore energia nella corsa. Corse per oltre un miglio prima di avere il coraggio di fermarsi a riprendere fiato. Non del tutto certo di aver seminato gli inseguitori, trovò un mercato affollato e si nascose sotto un carro. Come hanno fatto a trovarmi? si chiese, ansimando. Non potevano sapere dov’ero... a meno che non sia successo qualcosa a Brom! Raggiunse Saphira con la mente e le disse: I Ra’zac mi hanno trovato. Siamo tutti in pericolo! Cerca Brom e assicurati che stia bene. Mettilo in guardia e digli che ci incontreremo alla locanda. E sta’ pronta a volare lì il più in fretta possibile. Forse ci servirà il tuo aiuto per fuggire. La dragonessa tacque per qualche istante, poi disse: Brom verrà alla locanda. Non ti fermare: sei in grave pericolo! «Come se non lo sapessi» borbottò Eragon, rotolando fuori da sotto il carro. Tornò di corsa al Globo d’Oro, fece in fretta i bagagli, sellò i cavalli e li condusse sulla strada. Brom arrivò poco dopo, scuro in volto, il bastone in pugno. Salì in groppa a Fiammabianca e disse: «Che cosa è successo?» «Ero nella cattedrale quando i Ra’zac sono sbucati dal nulla» rispose Eragon, montando su Cadoc. «Sono tornato più in fretta che potevo, ma potrebbero arrivare qui da un momento all’altro. Saphira ci raggiungerà non appena saremo fuori da Dras-Leona.» «Dobbiamo uscire dalle mura della città prima che chiudano i cancelli... se non l’hanno già fatto» disse Brom. «Altrimenti sarà, impossibile fuggire. Qualunque cosa accada, stammi incollato.» Eragon si irrigidì quando vide marciare in fondo alla strada un plotone in uniforme. Brom lanciò un’imprecazione e sferzò Fiammabianca con le redini, spronandolo al galoppo. Eragon si chinò sul dorso di Cadoc e lo seguì a ruota. Durante la corsa selvaggia e disperata, più di una volta furono sul punto di scontrarsi, mentre piombavano fra la gente che affollava le strade e scartavano all’improvviso per evitarla, diretti verso le mura della città. Quando alla fine giunsero in vista dei cancelli, Eragon tirò le redini di Cadoc, sgomento. I cancelli erano già chiusi per metà, e una doppia fila di picchieri era schierata a sbarrar loro la strada. «Ci faranno a pezzi!» gridò. «Dobbiamo tentare» disse Brom in tono severo. «Io mi occuperò dei soldati, ma tu devi tenere aperti i cancelli.» Eragon annuì, strinse i denti e affondò i talloni nei fianchi di Cadoc. Galopparono verso i soldati, che abbassarono le picche contro i cavalli, puntellandole sul terreno. I cavalli nitrirono di paura, ma Brom ed Eragon riuscirono a non perdere il controllo. Eragon sentì i soldati gridare, ma concentrò la sua attenzione sui cancelli che si chiudevano a poco a poco. Mentre si avvicinava alle picche acuminate. Brom alzò una mano e parlò. Le parole colpirono con precisione: i soldati caddero ai lati dei cancelli come se avessero tagliato loro le gambe. Il varco fra i battenti si rimpiccioliva ogni istante di più. Sperando che lo sforzo non fosse troppo per lui, Eragon evocò il proprio potere e gridò: «Du grind huildr!» I cancelli furono scossi da una sorda vibrazione metallica e si fermarono. La folla e le guardie ammutolirono, guardando la scena sbigottite. In un gran fragore di zoccoli. Brom ed Eragon galopparono oltre i cancelli. Non appena furono fuori dalle mura di Dras-Leona, Eragon lasciò andare i cancelli, che si chiusero con un fragoroso rimbombo, Il ragazzo. vacillò per la stanchezza improvvisa, ma riuscì a reggersi in sella. Brom gli scoccò uno sguardo preoccupato. La loro fuga proseguì attraverso la campagna di Dras-Leona, mentre dall’interno della città si udivano squillare le trombe di allarme. Saphira li aspettava poco lontano, nascosta in un boschetto. I suoi occhi lampeggia-vano, la coda guizzava da un lato e dall’altro. «Va’, monta su di lei» disse Brom. «E questa volta resta in aria, qualunque cosa mi accada. Andrò a sud. Vola vicino, tanto non ha più importanza se qualcuno scorge Saphira.» Eragon si affrettò a salire in groppa alla dragonessa. Mentre il terre-no si allontanava sotto i suoi piedi, Eragon guardò Bron galoppare lungo la strada. Stai bene? gli chiese la dragonessa. Si, rispose Eragon. Ma solo perché abbiamo avuto la fortuna dalla nostra, Saphira soffiò uno sbuffo di fumo dalle narici. Tutto il tempo che abbiamo impiegato per cercare i Ra’zac è stato inutile. Lo so, disse lui, abbandonando la testa sul suo collo squamoso. Se i Ra’zac fossero stati da soli, sarei rimasto a combattere. Ma con tutti quei soldati al loro fianco, era impossibile! Ma lo sai che adesso si farà un gran parlare di noi? Non è stata di certo una fuga sommessa. Ora sfuggire alle grinfie dell’Impero sarà più difficile che mai Eragon notò nella voce dì Saphira una strana sfumatura nervosa a cui non era abituato. Lo so. Volavano bassi e veloci sulla strada. Il Lago di Leona rimpicciolì alle loro spalle; il paesaggio divenne, arido e roccioso, punteggiato da arbusti spinosi e alti cactus. Il cielo si andava riempiendo di nubi. In lontananza balenavano i lampi. Quando il vento prese a ululare, Saphira planò accanto a Brom. Il vecchio fermò i cavalli e chiese; «Che cosa succede?» «Il vento è troppo forte.» «Non mi pare» obiettò Brom. «Lassù sì» ribatte Eragon, indicando il cielo. Brom imprecò a denti stretti e gli passò le redini di Cadoc. Ripresero a trottare, con Saphira che li seguiva a piedi, anche se sul terreno aveva difficoltà a tenere il passo con i cavalli. La tempesta crebbe d’intensità, sollevando mulinelli di sabbia che vorticavano come dervisci. I due si avvolsero sciarpe attorno, alla testa per proteggersi gli occhi dalla polvere. Il mantello di Brom volava nel vento, la sua barba schioccava come una frusta animata di vita propria. La pioggia avrebbe peggiorato la situazione, ma Eragon sperò che cadesse in fretta, in modo da cancellare le loro tracce. Ben presto il buio li costrinse a fermarsi. Con le sole stelle come guida, lasciarono la strada e si accamparono fra due grossi massi. Era troppo pericoloso accendere un falò, così consumarono una cena fredda mentre Saphira li riparava dal vento. Dopo quel pasto frugale, Eragon chiese all’improvviso: «Come hanno fatto a trovarci?» Brom fece per accendersi la pipa, ma ci ripensò e la mise in tasca. «Uno dei servi del palazzo mi aveva avvertito che c’erano delle spie fra loro. In qualche modo Tàbor deve aver saputo di me e delle mie domande... e da lui la notizia è arrivata ai Ra’zac.» «Non possiamo tornare a Dras-Leona, vero?» disse Eragon. Brom scosse la testa. «No, almeno per qualche anno.» Eragon si tenne la testa fra le mani. «Allora dobbiamo attirare i Ra’zac fuori dalla città? Se facciamo in modo che vedano Saphira, accorreranno in gran fretta.» «Già, con una cinquantina di soldati al seguito» disse Brom. «Senti, non è il momento di discuterne adesso. Ora come ora l’importante è restare vivi. Questa notte sarà la più pericolosa, perché i Ra’zac ci daranno la caccia nel buio, ossia quando sono più forti. Dobbiamo montare di guardia a turno fino a domattina.» «Giusto» disse Eragon, e si alzò. Esitò e socchiuse gli occhi; gli era parso di vedere un movimento, una macchia di colore nel buio fitto che li circondava. Si allontanò di qualche passo per vedere meglio. «Cosa c’è?» domandò Brom, srotolando le coperte. Eragon; scrutò le tenebre, poi si voltò. «Non lo so. Mi è sembrato di vedere qualcosa. Dev’essere stato un uccello.» Un dolore lancinante lo trafisse alla nuca, mentre Saphira ruggiva. Poi cadde a terra privo di sensi. 35 La vendetta dei Ra’zac Un sordo pulsare alla testa svegliò Eragon. Ogni volta che affluiva sangue al cervello, era una nuova ondata di dolore. Socchiuse gli occhi e fece una smorfia; gli vennero le lacrime agli occhi mentre guardava la luce di una lanterna. Battè le palpebre e distolse lo sguardo. Quando cercò di alzarsi a sedere, si rese conto di avere le mani legate dietro la schiena. Si voltò, intorpidito, e vide le braccia di Brom. Si sentì sollevato scoprendo che erano legati insieme. Perché? Si sforzò di capire l’origine del suo sollievo. Loro non si sarebbero presi la briga di legare un morto! Ma loro chi? Girò ancora di più la testa, poi si fermò quando un paio di stivali neri entrò nel suo campo visivo. Eragon alzò la testa e si ritrovò a guardare il muso rincagnato di un Ra’zac. Lo percorse un brivido di terrore. Fece appello alla magia e stava per formulare una parola che avrebbe ucciso i suoi aguzzini, ma poi si interruppe, perplesso. Non riusciva a ricordarla. Deluso, ritentò, ma soltanto per lasciarsela sfuggire ancora. Torreggiando su di lui, il Ra’zac ghignò gelido. «La droga funziona, a quanto pare. Bene, così non ci darai fassstidio.» Eragon udì un tintinnio metallico alla sua sinistra. Si voltò e vide con sgomento che il secondo Ra’zac stava infilando una museruola sulla testa di Saphira. La dragonessa aveva le ali legate lungo i fianchi da pesanti catene nere, e alle zampe aveva ceppi robusti. Eragon provò a chiamarla: invano. «Sssi è messa a collaborare quando abbiamo minacciato di ucciderti» sibilò il Ra’zac. Accovacciato davanti alla lanterna, cominciò a rovistare nelle borse di Eragon, esaminando e scartando parecchi oggetti, finché non trovò Zar’roc. «Ma guarda che bella ssspada ha quesssto marmocchio. Credo che la terrò io.» Si protese verso il prigioniero e ringhiò. «O magari, ssse ti comporti bene, il nossstro padrone potrebbe permetterti di lucidargliela.» Il suo alito umidiccio sapeva di carne in putrefazione. Rigirò la spada fra le mani e si lasciò sfuggire un grido quando vide il simbolo sul fodero. Il suo compagno accorse. Insieme scrutarono la spada, sibilando, facendo schioccare la lingua. Alla fine si rivolsero a Eragon. «Ssservirai molto bene il nostro padrone.» Eragon costrinse la lingua impastata a formare le parole: «Se lo farò, vi ucciderò.» I due ridacchiarono. «Oh no.. noi sssiamo troppo preziosi, mentre tu sssei... sssuperfluo.» Saphira emise un ringhio cupo e sbuffò fumo dalle narici. I Ra’zac non le badarono. La loro attenzione fu sviata da un gemito di Brom. Il vecchio rotolò su un fianco. Uno dei Ra’zac lo afferrò per la camicia e lo sollevò in aria senza sforzo. «Si sssta riprendendo.» «Dagliene ancora.» «Uccidiamolo e basssta» disse il Ra’zac più basso. «Ci ha già dato troppi problemi.» Quello più alto fece scorrere le dita sulla propria spada. «Buona idea. Sssolo che le istruzioni del re sssono di tenerli in vita.» «Possiamo sssempre dire che è rimasto uccissso quando li abbiamo catturati.» «E lui?» disse l’altro, puntando la spada verso Eragon. «Ssse poi parla?» Il compagno rise ed estrasse un pugnale. «Non ossserà.» Ci fu un lungo silenzio, e infine: «D’accordo.» Trascinarono Brom al centro dell’accampamento e lo spinsero in ginocchio. Brom si accasciò su un fianco. Eragon osservava la scena con terrore crescente. Devo liberarmi! Strattonò le funi, ma erano troppo robuste per spezzarle. «Sssmettila!» disse il Ra’zac più alto, pungolandolo con la spada. Poi annusò l’aria: sembrava che qualcosa lo turbasse. L’altro Ra’zac.ringhiò, tirò indietro la testa di Brom e fece per tagliargli la gola nuda. Proprio in quel momento si udì un fruscio sibilante, seguito dall’urlo del Ra’zac. Dalla spalla gli sporgeva una freccia. Il Ra’zac più vicino a Eragon si abbassò di colpo, schivando per un pelo una seconda freccia. Avanzò carponi.verso il compagno ferito; i due guardarono torvi le tenebre, sibilando infuriati. Non mossero un dito per fermare Brom quando questi si rialzò a fatica, intontito. «Sta’ giù!» gridò Eragon. Brom barcollò, poi cominciò ad avanzare verso il ragazzo. Mentre altre frecce saettavano per il campo, scoccate da invisibili arcieri, i Ra’zac si. rifugiarono dietro alcuni massi. Ci fu una breve tregua, poi altri dardi arrivarono dalla direzione opposta. Colti di sorpresa, i Ra’zac reagirono al rallentatore. I loro mantelli furono perforati in diversi punti, e una freccia vagante si andò a seppellire nel braccio di uno. Con un grido selvaggio, il Ra’zac più basso fuggì verso la strada, sferrando un calcio malevolo al fianco di Eragon mentre passava. Il compagno esitò, poi raccolse il pugnale da terra e lo seguì. Mentre lasciava l’accampamento, scagliò il pugnale contro Eragon. Una strana luce risplendette negli occhi di Brom. Si gettò davanti a Eragon, la bocca socchiusa in un ringhio muto. Il pugnale lo colpì con un tonfo sommesso, e il vecchio crollò riverso a terra. La testa gli ricadde di lato. «No!» gridò Eragon, nonostante il dolore al fianco che lo costringeva a restare piegato in due. Udì dei passi.. ma i suoi occhi si chiusero e perse di nuovo i sensi. 36 Murtagh Per lungo tempo Eragon fu consapevole soltanto del dolore lancinante al fianco. Ogni respiro una pugnalata, come se fosse stato colpito lui, e non Brom. Aveva perso il senso del tempo: non sapeva dire se fossero passate settimane, o soltanto pochi minuti. Quando alla fine tornò in sé, aprì gli occhi su un fuoco che ardeva a qualche metro di distanza. Aveva ancora le mani legate, ma l’effetto della droga doveva essere finito perché riusciva a pensare di nuovo con lucidità. Saphira, sei ferita? No, ma tu e Brom sì. La dragonessa era china su Eragon, le ali distese a proteggerlo. Saphira, non sei stata tu ad accendere il fuoco, vero? E non puoi esserti liberata da sola da quelle catene. No. Come pensavo. Eragon si alzò sulle ginocchia e vide un giovane uomo seduto dall’altra parte del fuoco. Lo straniero, che indossava logori abiti da viaggio, emanava un’aura tranquilla, rassicurante. Tra le mani reggeva un arco; al suo fianco un lungo spadone a una mano e mezza. In grembo aveva un corno bianco filigranato d’argento, e da uno stivale gli spuntava il manico di un pugnale. Il suo viso serio e gli occhi penetranti erano incorniciati da una massa di ricci castani. Sembrava di qualche anno più grande di Eragon, ed era appena più alto. Alle sue spalle era legato un cavallo grigio da battaglia. Lo straniero studiava Saphira, circospetto. «Chi sei?» chiese Eragon, respirando a fatica. Le mani dell’uomo strinsero l’arco. «Mi chiamo Murtagh.» La sua voce era bassa e controllata, ma venata d’emozione. Eragon si fece passare le mani sotto le gambe, per averle davanti a sé. Strinse i denti quando il fianco gli mandò una fitta di dolore. «Perché ci hai aiutati?» «I Ra’zac non sono soltanto nemici vostri. Li stavo seguendo.» «Sai chi sono?» «Sì.» Eragon si concentrò sulle funi che gli legavano i polsi ed evocò il potere magico, ma all’ultimo istante esitò, sentendo lo sguardo di Murtagh su di sé. Infine decise che non gli importava. «Jierda!» borbottò. Le funi gli caddero recise dai polsi, e lui si massaggiò le mani per far circolare il sangue. Murtagh emise un fischio d’ammirazione. Eragon si fece forza e provò ad alzarsi, ma il dolore alle costole lo trattenne, e ricadde indietro, respirando a fatica tra i denti serrati. Murtagh fece per aiutarlo, ma Saphira lo fermò con un ringhio. «Ti avrei aiutato anche prima, ma quel tuo drago non mi ha permesso di avvicinarmi.» «Si chiama Saphira» precisò Eragon. Lascialo venire! Non posso farcela da solo. In fondo ci ha salvato la vita. Saphira emise un altro ringhio, ma chiuse le ali e si ritrasse, Murtagh la guardò deciso e si fece avanti. Afferrò il braccio di Eragon e piano piano lo aiutò a mettersi in piedi. Eragon lanciò un grido di dolore, e sarebbe caduto senza il sostegno del giovane uomo. Si avvicinarono al fuoco, dove Brom era disteso. «Come sta?» chiese Eragon. «Male» rispose Murtagh, e lo aiutò ad accoccolarsi per terra. «Il coltello gli è penetrato fra le costole. Potrai dedicarti a lui fra un minuto, ma adesso è meglio controllare che cosa ti ha fatto quel Ra’zac.» Lo aiutò a sfilarsi la camicia. «Oh!» «Già» assentì Eragon debolmente. Sul fianco sinistro si estendeva un brutto livido violaceo. La pelle, rossa e gonfia, era lacerata in diversi punti, Murtagh appoggiò una mano sul livido ed esercitò una lieve pressione. Eragon. strillò, e Saphira diede in un ringhio di ammonimento. Murtagh le scoccò un’occhiata esitante, poi prese una coperta. «Credo che ti sia rotto qualche costola. Difficile a dirsi, ma almeno due, se non di più. Sei fortunato a non sputare sangue.» Strappò la coperta in tante fasce con cui bendò il torace di Eragon. Eragon si rimise la camicia. «Già... fortunato.» Trasse un breve respiro, si avvicinò a Brom e vide che Murtagh gli aveva tagliato la tunica per fasciargli la ferita. Con dita tremanti, in ginocchio accanto al vecchio, cominciò a svolgere la benda. «Sarebbe meglio non farlo» gli disse Murtagh. «O si dissanguerà a morte.» Eragon lo ignorò e scoprì la ferita. Era piccola e sottile, ma molto profonda. Il sangue sgorgava a fiotti. Come aveva imparato quando Garrow era stato ferito, un colpo inflitto dai Ra’zac era lento a guarire. Si tolse i guanti, mentre con la mente si affannava a cercare le parole guaritrici che Brom gli aveva insegnato. Aiutami, Saphira, supplicò. Sono troppo debole per farcela da solo. Saphira si accoccolò accanto a lui, fissando lo sguardo su Brom. Sono qui, Eragon. Quando la mente di lei si fuse con la sua, Eragon avvertì una nuova ondata di energia nel corpo. Evocò i loro poteri congiunti e si concentrò sulle parole. La sua mano, sospesa sulla ferita, tremava. «Waise heill!» esclamò. Il suo palmo luccicò, e la pelle di Brom si rimarginò come se non fosse mai stata intaccata, Murtagh osservò la scena con muto stupore. Accadde tutto in pochi istanti. Quando il bagliore svanì, Eragon si sedette, sentendosi male. Non l’avevamo mai fatto prima, disse. Saphira annuì. Insieme possiamo evocare incantesimi che da soli ci sarebbero impossibili. Murtagh osservò il fianco di Brom e chiese: «È guarito del tutto?» «Posso solo curare ciò che sta in superficie. Non ne so abbastanza per guarire i danni interni. Adesso dipende da lui. Io ho fatto tutto quello che era in mio potere.» Eragon chiuse gli occhi per un momento e mormorò debolmente: «Mi... mi sento la testa fra le nuvole.» «Probabilmente hai bisogno di mangiare qualcosa» disse Murtagh. «Ti preparo una zuppa.» Mentre Murtagh cucinava, Eragon lo osservò, domandandosi chi fosse. La sua spada e il suo arco erano di squisita fattura, come anche il corno. O era un ladro, o una persona ricca... molto ricca. Perché dava la caccia ai Ra’zac? Come sono diventati suoi nemici? Forse lavora per i Varden? Murtagh gli porse una scodella di zuppa. Eragon ne assaggiò un cucchiaio, e poi chiese: «Quanto tempo è passato da quando i Ra’zac sono fuggiti?» «Un paio d’ore.» «Allora dobbiamo andarcene prima che tornino con i rinforzi.» «Tu forse sei in grado di viaggiare» disse Murtagh, poi indicò Brom. «ma lui no. Non ci si alza per fare una cavalcata dopo aver ricevuto una pugnalata alle costole.» Se riusciamo a fare una barella, puoi portare Brom fra i tuoi artigli come hai fatto con Garrow? chiese Eragon a Saphira. Sì, ma l’atterraggio sarà difficile. Tentiamo comunque. Eragon si rivolse a Murtagh. «Lo può portare Saphira, ma dobbiamo costruire una barella. Ci pensi tu? lo non ne ho la forza.» «Aspetta qui.» Murtagh si allontanò dall’accampamento con la spada sguainata, Eragon zoppicò fino alle bisacce e raccolse l’arco da dove l’avevano gettato i Ra’zac. Lo incordò, trovò la faretra, e infine recuperò Zar’roc, che giaceva nell’ombra. Poi prese una coperta per la barella. Murtagh tornò con due rami che posò paralleli sul terreno. In mezzo legò la coperta, e alla fine depose con cautela Brom sulla barella improvvisata, legandolo con altre funi. Saphira afferrò i due rami tra gli artigli e spiccò il volo. «Non avrei mai pensato di vedere una cosa simile» commentò Murtagh con uno strano tono di voce. Mentre Saphira svaniva nel cielo scuro, Eragon si avvicinò a Cadoc e montò a fatica in sella. «Grazie di averci aiutati. Adesso faresti meglio ad andartene. Allontanati da noi il più in fretta possibile. Sarai in pericolo, se l’Impero ti scopre con noi. Non possiamo proteggerti, e io non voglio cheti accada nulla di male per causa nostra.» «Bel discorsetto, non c’è che dire» dichiarò Murtagh, spegnendo il fuoco. «ma dove andrete? Conosci un posto nelle vicinanze dove potrete stare al sicuro?» «No» ammise Eragon. Gli occhi di Murtagh scintillarono, mentre faceva scorrere le dita sull’elsa della spada. «In questo caso, credo che vi accompagnerò finché non sarete fuori pericolo. Per parte mia, non ho niente di meglio da fare; anzi, se resto con voi ho maggiori probabilità di incontrare i Ra’zac che se fossi da solo. Accadono cose interessanti, intorno a un Cavaliere.» Eragon esitò, indeciso se accettare aiuto da uno sconosciuto. Capiva di essere troppo debole per cavarsela da solo. Se Murtagh si rivelasse indegno di fiducia, Saphira potrà sempre cacciarlo via. «D’accordo, unisciti a noi, se vuoi.» Murtagh annuì e montò sul suo cavallo da guerra. Eragon prese le redini di Fiammabianca, e insieme si allontanarono dall’accampamento, inoltrandosi nella natura selvaggia. La falce di luna alta nel cielo spandeva una luce fioca, che, Eragon lo sapeva, avrebbe soltanto aiutato i Ra’zac a rintracciarli. Avrebbe voluto fare altre domande allo straniero, ma rimase in silenzio, risparmiando energie per la cavalcata. All’approssimarsi dell’alba, Saphira disse: Dobbiamo fermarci. Ho le ali stanche e Brom ha bisogno di cure. Ho scoperto un buon posto dove riposarci, a circa due miglia da dove vi trovate. La trovarono accucciata ai piedi di un cumulo di arenaria che sorgeva dal terreno come una grande collina. Le sue pendici erano perforate da cavità di varie misure, e tutt’intorno erano disseminate gobbe simili. Saphira sembrava compiaciuta. Ho scoperto una caverna impossibile da scorgere da terra. E abbastanza grande da ospitarci tutti, compresi i cavalli. Seguitemi. Si voltò e cominciò a risalire la china, gli artigli che affondavano facilmente nella pietra arenaria. I cavalli erano invece in difficoltà, perché gli zoccoli scivolavano. Eragon e Murtagh dovettero tirare e spingere gli animali per quasi un’ora prima di raggiungere il nascondiglio. La caverna era lunga una trentina di metri e larga venti, eppure aveva un ingresso molto piccolo che la proteggeva dalle intemperie e da occhi indiscreti. Il fondo era inghiottito dalle tenebre, che rivestivano le pareti come arazzi di soffice velluto nero. «Perfetto» disse Murtagh. «Raccolgo la legna per il fuoco.» Eragon corse da Brom. Saphira lo aveva posato su una piccola sporgenza di roccia, verso il fondo. Eragon prese la mano abbandonata di Brom e scrutò angosciato il suo volto rugoso. Dopo qualche minuto, sospirò e tornò al falò che Murtagh aveva acceso. Mangiarono in silenzio, poi provarono a dare un po’ d’acqua a Brom, che però non bevve. Sfiniti, distesero a terra le coperte e si addormentarono. 37 L’addio di un Cavaliere Svegliati, Eragon. Il ragazzo si agitò nel sonno e borbottò. Mi serve il tuo aiuto. Qualcosa non va Eragon ignorò la voce e provò a riaddormentarsi. Svegliati! Lasciami in pace, si lamentò. Eragon! La grotta fu squassata da un potente ruggito. Eragon si alzò di scatto, cercando a tentoni il suo arco, Saphira era accucciata su Brom, che era rotolato giù dalla cornice di roccia e si stava agitando per terra. Il suo volto era contratto in una smorfia, i pugni serrati, Eragon accorse, temendo il peggio. «Aiutami a tenerlo fermo. Finirà per farsi male!» gridò a Murtagh, mentre cingeva le braccia di Brom. Gli spasmi del vecchio gli procuravano dolorose fitte al costato. Insieme riuscirono a trattenere Brom finché le convulsioni non furono finite. Poi lo ridistesero con cautela sulla roccia. Eragon toccò la fronte di Brom. La sua pelle era così bollente che il calore si avvertiva perfino a un paio di pollici di distanza. «Portami dell’acqua e un panno» disse, preoccupato. Murtagh eseguì, ed Eragon fece al vecchio delle spugnature fredde per abbassare la febbre. Nel silenzio della caverna, notò che fuori si era fatto giorno. Quanto abbiamo dormito? chiese a Saphira. Un bel po’. Ho vegliato io su Brom, È stato tranquillo fino a un attimo fa, quando ha cominciato ad agitarsi. Ti ho svegliato quando è caduto. Eragon si stiracchiò, soffocando a stento un gemito quando le costole scricchiolarono. All’improvviso si sentì afferrare la spalla da una mano. Gli occhi di Brom erano spalancati e vitrei, fissi su di lui. «Tu!» gracchiò. «Portami l’otre del vino!» «Brom!» esclamò Eragon, lieto di sentirlo parlare. «Non dovresti bere vino; ti farà stare peggio.» «Portamelo ragazzo... portamelo e basta» sospirò Brom. La sua mano scivolò dalla spalla di Eragon. «Torno subito. Aspetta.» Eragon corse alle bisacce e le frugò freneticamente. «Non riesco a trovarlo!» gridò, guardandosi intorno disperato. «Tieni, prendi il mio» disse Murtagh, e gli porse un otre di pelle. Eragon lo prese e tornò da Brom. «Ho il vino» disse, inginocchiandosi, Murtagh si spostò verso l’imboccatura della grotta per lasciarli da soli. Le parole di Brom erano deboli e confuse. «Bene...» Levò il braccio a fatica. «Ora... lavami la mano destra col vino.» «Cosa,..» cominciò a chiedere Eragon. «Non discutere! Non ho tempo.» Sconcertato, Eragon stappò l’otre e versò il vino sul palmo di Brom. Lo strofinò sulla pelle del vecchio, passandoglielo fra le dita e sul dorso. «Ancora» gli ordinò Brom con voce rauca. Eragon obbedì e continuò a strofinare vigorosamenete la mano, da cui prese a colare una sorta di tintura marrone. Si fermò di colpo, a bocca aperta per lo stupore: sul palmo di Brom era comparso il gedwèy ignasia. «Sei un Cavaliere?» disse incredulo.Un sorriso dolente affiorò sulle labbra del vecchio. «Tanto tempo fa... ma non più. Quando ero giovane... più giovane di te adesso, fui scelto... scelto dai Cavalieri stessi per unirmi alle loro schiere. Durante l’addestramento, feci amicizia con un altro novizio... Morzan, prima che diventasse un Rinnegato.» Eragon si lasciò sfuggire un’esclamazione di meraviglia: erano passati più di cento anni. «Ma poi lui ci tradì consegnandoci a Galbatorix.., e nella battaglia di Dorù Areaba, la città di Vroengard, il mio giovane drago rimase ucciso. Si chiamava... Saphira.» «Perché non me l’hai detto prima?» chiese Eragon in tono sommesso. Brom rise. «Perché... non ce n’era motivo.» Si fermò. Il suo respiro era affannato, le mani contratte. «Sono vecchio, Eragon... tanto vecchio. Sebbene il mio drago sia morto, ho vissuto più a lungo del previsto. Tu non sai che cosa significa raggiungere la mia età, guardarsi indietro e rendersi conto di non ricordarsi quasi niente; e poi guardare avanti e sapere che ti aspettano ancora molti anni da vivere... Dopo tutto questo tempo, ancora piango la mia Saphira... e odio Galbatorix per quello che mi ha fatto.» I suoi occhi febbricitanti fissarono Eragon con tenacia mentre diceva: «Non lasciare che questo accada anche a te. Mai! Proteggi Saphira con la tua vita, perché senza di lei non vale la pena di vivere.» «Non devi parlare così. Non le accadrà niente» protestò Eragon, addolorato. Brom volse la testa di lato. «Forse sto vaneggiando.» Il suo sguardo vagò cieco su Murtagh, poi tornò a posarsi su Eragon. La sua voce divenne all’improvviso potente. «Eragon! Non manca molto ormai. È…è una ferita crudele, la mia; sto perdendo le forze e non posso far nulla per combatterla… Ma prima di lasciarti, vuoi accettare la mia benedizione?» «Andrà tutto bene» mormorò Eragon, con le lacrime agli occhi. «Non parlare. Riposati.» «Devo farlo... così vanno le cose. Dunque, vuoi ricevere la mia benedizione?» Eragon chinò il capo e annuì, sopraffatto. Brom gli posò una mano tremante sulla fronte. «Allora eccola. Che gli anni a venire possano darti ogni felicità.» Fece cenno al ragazzo di avvicinarsi ancora, e sottovoce sussurrò sette parole nell’antica lingua, spiegandogli poi il loro significato. « È tutto quello che posso lasciarti... Usale solo in caso di grave necessità.» Brom rivolse gli occhi vitrei al soffitto della grotta. «Per me è giunto il momento» mormorò «di affrontare la più grande avventura di tutte...» Piangendo, Eragon gli prese la mano, confortandolo come meglio poteva. La sua veglia fu costante e ininterrotta; non si alzò nemmeno per mangiare o bere. Col passare delle ore, un grigio pallore si diffuse sul volto di Brom, e i suoi occhi lentamente si spensero. Le sue mani erano sempre più fredde; l’aria intorno a lui si fece malsana. Impotente, Eragon non poté far altro che guardare la vendetta dei Ra’zac che si compiva. La sera era giovane e le ombre lunghe quando Brom si irrigidì all’improvviso. Eragon gridò più volte il suo nome e chiamò Murtagh al suo fianco, ma non poterono far niente. Mentre un silenzio glaciale calava sulla grotta, gli occhi di Brom incrociarono quelli di Eragon. Sul volto del vecchio comparve un’espressione soddisfatta, e dalle labbra gli sfuggì l’ultimo soffio di vita. E così morì Brom il cantastorie. Con dita tremanti, Eragon chiuse gli occhi di Brom e si alzò. Saphira, alle sue spalle, levò la testa al cielo ed emise un ruggito di dolore, seguito da ululati lamentosi. Le guance di Eragon furono rigate da molte lacrime, mentre si sentiva travolgere da un immane senso di perdita. Tirò su col naso e disse, solenne: «Dobbiamo seppellirlo.» «Potrebbero vederci» osservò Murtagh. «Non m’importa!» Murtagh esitò, poi sollevò il corpo di Brom e lo portò fuori dalla grotta, insieme alla sua spada e al suo bastone, Saphira li seguì. «Lassù» disse Eragon, indicando la cima della collina di arenaria. «Non possiamo scavare una fossa nella pietra» obiettò Murtagh. «Io posso farlo.» Eragon si arrampicò sul liscio pendio, malgrado il dolore al costato. Una volta in cima, Murtagh depose il corpo di Brom sulla roccia. Eragon si asciugò gli occhi e concentrò lo sguardo sulla pietra. Fece un gesto con la mano e disse: «Moi stenr!» La roccia s’increspò in piccole onde concentriche, come se fosse liquida, creando al centro una fossa grande quanto un corpo umano. Plasmando l’arenaria come se fosse argilla umida, Eragon eresse una barriera tutt’intorno, alta fino alla cintola. Deposero Brom nella cavità insieme alla sua spada e al suo bastone. Poi Eragon fece un passo indietro, e di nuovo modellò la roccia con la magia. L’arenaria si chiuse sul volto immobile di Brom e si fuse innalzandosi fino a formare un’alta guglia frastagliata. Come ultimo omaggio, Eragon incise delle rune nella pietra: Qui giace Brom Che fu un Cavaliere E come un padre Per me. Che il suo nome possa vivere Per sempre nella gloria. Poi chinò il capo e diede sfogo a tutto il suo dolore. Rimase immobile come una statua vivente fino all’arrivo del buio, quando la terra perse ogni colore. Quella notte sognò ancora la donna prigioniera. Capì subito che c’era qualcosa che non andava. Il respiro della donna era irregolare, e lei tremava, ma se fosse per il freddo o il dolore, non seppe dirlo. Nel buio della cella, l’unica cosa chiaramente illuminata era la sua mano, che pendeva dal bordo della branda. Un liquido scuro le gocciolava dalla punta delle dita. Eragon sapeva che era sangue. 38 Il sepolcro di diamante Eragon si svegliò con gli occhi che gli bruciavano e il corpo indolenzito. La caverna era deserta, cavalli a parte. La barella era scomparsa; non restava alcuna traccia di Brom. Si alzò e si andò a sedere all’ingresso, sulla roccia porosa. E così Angela l’indovina aveva ragione... c’era una morte nel mio futuro, pensò, contemplando il paesaggio con sguardo vacuo. Il sole color topazio già diffondeva il suo calore intenso nel primo mattino. Una lacrima, una sola gli rotolò sul volto impassibile e svanì al sole, lasciandogli una riga di sale sulla pelle. Chiuse gli occhi e assaporò il calore, svuotando la mente. Con un dito grattò pigramente la pietra arenaria, e quando guardò si accorse di aver scritto: Perché io? Murtagh lo trovò ancora lì seduto, quando ore dopo tornò alla caverna portando un paio di lepri. Senza dire una parola, si sedette vicino a lui. «Come stai?» gli chiese dopo un po’. «Malissimo.» Murtagh lo guardò pensieroso. «Credi di riuscire a riprenderti?» Eragon si strinse nelle spalle. Dopo qualche minuto di silenzio, Murtagh gli disse: «Mi dispiace chiedertelo in un momento simile, ma devo sapere... Il tuo Brom è quel Brom? Quello che rubò un uovo di drago al re, lo cercò in tutto l’Impero e uccise Morzan in duello? Ti ho sentito fare il suo nome, e ho letto l’iscrizione che hai lasciato sulla sua tomba, ma devo saperlo per certo. Era lui?» «Sì» rispose Eragon con un filo di voce. Murtagh era turbato. «Come sai queste cose? Parli di segreti ignoti ai più, insegui i Ra’zac e sei comparso proprio quando avevamo bisogno di te. Sei uno dei Varden?» Gli occhi di Murtagh divennero due fosse imperscrutabili. «Sono in fuga, come te.» Un dolore compresso trapelava dalle sue parole. «Non appartengo né ai Varden né all’Impero. E non servo nessuno se non me stesso. Quanto a salvare voi, devo ammettere che avevo sentito parlare di un nuovo Cavaliere e ho pensato che seguendo i Ra’zac avrei potuto scoprire se le voci erano vere.» «Credevo che volessi uccidere i Ra’zac» disse Eragon. Murtagh sorrise appena. «Infatti: ma se l’avessi fatto, non ti avrei mai conosciuto.» Ma Brom sarebbe ancora vivo... Quanto vorrei che fosse qui. Lui saprebbe se mi posso fidare di Murtagh. Eragon rammentò come Brom aveva avvertito le intenzioni di Trevor a Daret, e si chiese se lui era in grado di fare lo stesso con Murtagh. Provò a sondare la coscienza dell’uomo, ma si trovò davanti a una massiccia parete di ferro. Cercò di aggirarla, ma tutta la mente di Murtagh era fortificata. Come ha imparato a farlo? Brom ha detto che pochissime persone riescono a impedire a qualcuno di entrare nella loro mente senza un adeguato addestramento. E allora, dove Murtagh ha appreso questa capacità? Con il cuore triste e vuoto, Eragon chiese: «Dov’è Saphira?» «Non lo so» rispose Murtagh. «Mi ha seguito per un po’ mentre cacciavo, poi si è allontanata da sola, in volo. Non la vedo da prima di mezzogiorno.» Eragon si alzò e tornò nella grotta. Murtagh lo seguì. «Che cosa pensi di fare adesso?» «Sono indeciso.» E non ci voglio nemmeno pensare. Arrotolò le coperte e le legò sulle bisacce di Cadoc. Le costole gli facevano male, Murtagh si dedicò a cucinare le lepri. Mentre Eragon metteva le sue cose nelle bisacce, scoprì Zar’roc. Il fodero rosso riluceva brillante. Estrasse la spada. La soppesò. Non aveva mai portato Zar’roc al fianco né l’aveva mai usata in combattimento - tranne quando lui e Brom si addestravano - perché non voleva che la gente la vedesse. Adesso questo non era più un problema. I Ra’zac erano sembrati sorpresi e spaventati dalla spada: una ragione più che valida per mostrarla. Con un brivido, si tolse l’arco da tracolla e legò Zar’roc alla cintura. Da questo momento in poi, vivrò con la spada. Che il mondo veda chi sono. Non ho paura. Sono un Cavaliere in piena regola, adesso. Frugò nelle borse di Brom, ma trovò soltanto indumenti, qualche oggetto personale e un sacchetto di monete. Prese la mappa di Alagasëia, ripose le borse e si accovacciò davanti al fuoco. Murtagh alzò lo sguardo dalle lepri che stava scuoiando e strinse gli occhi. «Quella spada. Posso vederla?» domandò, pulendosi le mani. Eragon esitò, restio a separarsi dalla spada anche per un solo istante; poi annuì, Murtagh esaminò il simbolo sulla lama con attenzione. Il suo volto si adombrò. «Dove l’hai presa?» «Me l’ha data Brom. Perché?» Murtagh gli restituì la spada con fare brusco e incrociò le braccia, accigliato. Aveva il respiro pesante. «Quella spada» disse con voce densa di emozione «un tempo era nota almeno quanto il suo proprietario. L’ultimo Cavaliere a possederla fu Morzan, un uomo spietato e brutale. Credevo che fossi un nemico dell’Impero, e invece eccoti qui a portare una delle spade di quei maledetti Rinnegati!» Eragòn guardò Zar’roc, sconcertato. Capì che Brom doveva averla sottratta a Morzan dopo che avevano combattuto a Gil’ead. «Brom non mi ha mai detto da dove veniva» disse con onestà. «Non avevo idea che fosse di Morzan.» «Non te l’ha mai detto?» fece Murtagh, con una sfumatura di scetticismo nella voce. «Strano. Non riesco a pensare a un motivo per cui te lo debba aver tenuto nascosto.» «Nemmeno io. Ma a dire il vero aveva molti segreti.» Eragon si sentiva a disagio, ora che sapeva di possedere la spada dell’uomo che aveva tradito i Cavalieri per Galbatorix. Questa lama deve aver ucciso molti Cavalieri ai suoi tempi, pensò con orrore, E peggio, anche draghi! «Comunque sia, ho intenzione di tenerla. Non ho una spada tutta mia. Finché non ne avrò una, userò Zar’roc.» Murtagh rabbrividì sentendo pronunciare quel nome. «Come vuoi» disse, e riprese a spellare le lepri, a occhi bassi. Quando fu pronto, Eragon mangiò lentamente, anche se aveva fame. Il cibo caldo lo fece sentire meglio. Mentre grattavano il fondo delle scodelle, disse; «Devo vendere il mio cavallo.» «Perché non quello di Brom?» fece Murtagh. Sembrava aver dimenticato il malumore di poco prima. «Fiammabianca? Perché Brom ha promesso di prendersi cura di lui, e dato che... non c’è più, me ne occuperò io.» Murtagh posò la scodella in grembo. «Se è questo che vuoi, credo che troveremo un compratore in qualche città o in villaggio.» «Troveremo?» Murtagh gli scoccò un’occhiata eloquente. «Non puoi restare ancora a lungo. Se i Ra’zac sono qui intorno, la tomba di Brom sarà come un faro per loro.» Eragon non ci aveva pensato. «E le tue costole ci metteranno del tempo a guarire. So che sei in grado di difenderti con la magia, ma hai bisogno di un compagno che sollevi gli oggetti pesanti e usi una spada. Ti sto chiedendo di viaggiare con te, almeno per un po’. Ma devo avvertirti, l’Impero mi sta cercando. Potrebbe scorrere del sangue.» Eragon rise debolmente e si ritrovò a piangere, tanto faceva male. Ripreso fiato, disse: «Non m’importa se tutto l’esercito ti sta cercando. Hai ragione. Mi serve aiuto. Sarò felice di averti come compagno, ma devo prima parlarne con Saphira. Però anch’io devo avvertirti che Galbatorix potrebbe mandare l’intero esercito a cercare me. Non sarai più al sicuro con me e Saphira di quanto non lo saresti da solo.» «Questo lo so» disse Murtagh con un ghigno. «Ma è lo stesso.» «Bene.» Eragon gli sorrise, grato. Mentre parlavano, Saphira entrò nella caverna e salutò Eragon. Era contenta di vederlo, ma nei suoi pensieri e nelle sue parole c’era una profonda tristezza. Appoggiò la grande testa azzurra sul pavimento e domandò: Stai bene? Non tanto. Mi manca il vecchio. Anche a me... Non ho mai sospettato che fosse un Cavaliere.Brom!. Era davvero vecchio... vecchio quanto i Rinnegati. Tutto quello che mi ha insegnato sulla magìa deve averlo imparato dai Cavalieri. Saphira si agitò appena. Io ho saputo chi era dal momento stesso in cui mi ha toccato, alla fattoria. E non me l’hai detto? Perché? Perché lui mi chiese di non farlo, rispose lei semplicemente. Eragon decise di non farlo diventare un problema. Saphira non aveva avuto intenzione di ferirlo. Brom aveva molti segreti, le disse, e le spiegò di Zar’roc e della reazione : di Murtagh. Ora capisco perché Brom non mi raccontò delle orìgini di Zar’roc quando me la diede. Se l’avesse fatto, probabilmente sarei fuggito da lui alla prima occasione. Non faresti male a sbarazzarti di quella spada, disse la dragonessa con orrore. So che è un’arma impareggiabile, ma per te sarebbe meglio una spada normale, piuttosto che lo scannatoio di Morzan. Può darsi. Saphira, dove prosegue il nostro cammino? Murtagh sì è offerto dì accompagnarci. Non conosco il suo passato, ma mi sembra onesto. Secondo te è tempo di andare dai Varden? Però non so come trovarli Brom nonce l’ha mai detto. A me sì, disse Saphira. Eragon si adombrò. Perché ti ha confidato tutte queste cose e a me no? Le squame di lei rasparono sull’arida roccia quando si alzò sopra di lui, gli occhi profondi. Dopo essere partiti da Teirm e aver subito l’attacco degli Urgali. Brom mi confidò parecchie cose. Ce ne sono.alcune che terrò ancora per me, finché non sarà necessario svelarle. Era preoccupato di morire e di quello che sarebbe potuto accaderti Mi fece il nome di un uomo. Dormand, che vive a Gil’ead. Luì può aiutarci a trovare i Varden. Brom voleva anche che sapessi che di tutta la popolazione di Alagasëia era convinto che infossi il più dotato per ricevere l’eredità dei Cavalieri. Gli occhi di Eragon si riempirono di lacrime. Era l’elogio più bello che avesse mai ricevuto da Brom. Una responsabilità che porterò con onore. Bene. Allora andiamo a Gil’ead, dichiarò Eragon, sentendo tornare in sé il senso della propria missione. E Murtagh? Credi che potremmo portarlo con noi? Gli dobbiamo la vita, disse Saphira. Ma anche se non fosse così, comunque ci ha visti. È meglio tenerlo d’occhio perché non dia all’Impero la nostra posizione e la nostra descrizione, spontaneamente o costretto. Eragon fu d’accordo con lei; poi le raccontò il sogno. Ciò che ho visto mi ha turbato. Sento che il suo tempo sta per scadere; presto le accadrà qualcosa di terribile. È in pericolo mortale, ne sono convinto, ma non so come trovarla! Potrebbe essere ovunque. Che cosa dice il tuo cuore? domandò Saphira. Il mio cuore è morto da tempo, disse Eragon con una punta di nero sarcasmo. Ma credo che dovremmo andare verso nord, a Gil’ead. Se abbiamo fortuna, in una delle città o dei villaggi che incontreremo lungo la strada -potremmo trovare la donna. Temo che il prossimo sogno mi mostrerà la sua tomba. Non posso sopportarlo. Perché? Non lo so, disse lui, stringendosi nelle spalle. È solo che quando la vedo, sento che è preziosa e che non deve morire... È molto strano, Saphira aprì l’enorme bocca e rise sommessamente, le zanne scintillanti. Che cosa c’è? domandò Eragon risentito. Lei scosse il testone e si allontanò in silenzio. Eragon borbottò fra sé, poi andò da Murtagh a riferirgli la decisione presa, Murtagh disse; «Se trovate questo Dormand e poi andate dai Varden, allora vi lascio. Per me incontrare i Varden sarebbe pericoloso quando entrare a Urù’baen disarmato con una fanfara che annuncia il mio arrivo.» «Non occorre separaci subito» disse Eragon. «È una lunga strada, fino a Gil’ead.» La sua voce s’incrinò appena, e il ragazzo guardò il sole, socchiudendo gli occhi, per distrarsi. «Dovremmo partire prima che il giorno invecchi troppo.» «Ti senti in grado di viaggiare?» gli chiese Murtagh, aggrottando la fronte. «Devo fare qualcosa, altrimenti impazzisco» rispose Eragon in tono brusco. «Lavorare di spada, esercitarmi con la magia o restare seduto a oziare non mi sembrano valide alternative in questo momento: quindi scelgo di viaggiare.» Spensero il fuoco, fecero i bagagli e condussero i cavalli fuori dalla grotta. Eragon porse le redini di Cadoc e Fiammabianca a Murtagh, dicendo: «Va’ avanti. Io scendo subito.» Murtagh intraprese la lenta discesa lungo il pendio scivoloso. 39 La cattura Cavalcare era un vero tormento per Eragon: le costole rotte gli impedivano di procedere spedito, e se cercava di trarre un respiro un po’ più profondo, il dolore diventava lancinante. Nonostante tutto, non voleva fermarsi. Saphira volava basso, la mente legata con quella del ragazzo per consolarlo e infondergli forza. Murtagh cavalcava deciso sul suo stallone, a cui era legato Cadoc, che seguiva docile il passo del superbo animale. Eragon osservò il grigio destriero per qualche minuto. «Hai un cavallo magnifico. Come si chiama?» «Tornac, come l’uomo che mi ha insegnato a combattere.» Murtagh diede una pacca affettuosa sul fianco dell’animale. «Mi è stato dato quando non era che un puledro. È impossibile trovare in tutta Alagasëia un animale più coraggioso e intelligente di lui, tranne Saphira, s’intende.» «È una bestia straordinaria» commentò Eragon, ammirato. Murtagh rise. «Sì, ma Fiammabianca è il cavallo più simile a lui che abbia mai visto.» Coprirono una breve distanza quel giorno, eppure Eragon era contento di essere di nuovo in marcia. Gli teneva la mente lontana da pensieri più torbidi. Stavano attraversando un territorio selvaggio. La strada per Dras-Leona era a parecchie leghe di distanza, alla loro sinistra. Volevano lasciare un ampio margine nell’aggirare la città per puntare verso Gil’ead, che si trovava poco più a sud di Carvahall. Vendettero Cadoc in un piccolo villaggio. Mentre il cavallo veniva portato via dal nuovo proprietario, Eragon si infilò in tasca le poche monete guadagnate con aria avvilita. Era difficile separarsi da Cadoc dopo aver attraversato mezza Alagaësia e aver seminato gli Urgali in groppa all’animale. Le giornate si susseguirono senza avvenimenti degni di nota, mentre il piccolo gruppo viaggiava isolato. Eragon scoprì con piacere che lui e Murtagh condividevano diversi interessi; trascorsero lunghe ore a discutere di caccia e tiro con l’arco, Tuttavia c’era un argomento che entrambi evitavano di toccare: il loro passato. Eragon non spiegò come aveva trovato Saphira, conosciuto Brom o da dove veniva. Dal canto suo, Murtagh era altrettanto laconico sulla ragione per cui l’Impero gli dava la caccia. Era un tacito accordo che comunque funzionava. Eppure, grazie alla stretta vicinanza, fu inevitabile che apprendessero qualcosa l’uno dell’altro. Eragon rimase affascinato dalla familiarità che Murtagh aveva con gli intrighi di palazzo e la politica dell’Impero. Sembrava conoscere le mosse di ogni nobile e cortigiano e saperne valutare l’impatto sugli altri. Eragon ascoltava con attenzione, senza riuscire a liberarsi da un vago senso d’inquietudine e sospetto, La prima settimana trascorse senza tracce dei Ra’zac, e per un po’ di timori di Eragon si acquietarono; malgrado questo, la notte continuavano ad alternarsi nei turni di guardia, Eragon si era aspettato di incontrare Urgali sulla via per Gil’ead, ma nemmeno di quei mostri trovarono tracce. Credevo che queste terre desolate pullulassero di Urgali, si disse. Ma non sarò io a lamentarmi se hanno scelto di andare da qualche altra parte. Non sognò più la donna. E anche se provò a divinarla con la cristallomanzia, vide soltanto una cella vuota. Ogni volta che passavano per un villaggio o una città, chiedeva sempre se c’era una prigione. In quel caso, si travestiva e andava a controllare, ma non l’aveva ancora trovata. I suoi travestimenti divennero sempre più complicati quando notò gli editti con il suo nome e la sua descrizione, che promettevano una lauta ricompensa per chi avesse contribuito alla sua cattura, affissi in diverse città. Il viaggio verso nord li costrinse a passare vicino alla capitale. Urù’baen, Era una regione molto popolata, il che rendeva arduo passare inosservati. Drappelli di soldati pattugliavano le strade e sorvegliavano i ponti. Impiegarono parecchi giorni, giorni di tensione e scatti di nervosismo, per aggirare la capitale. Una volta superata senza intoppi Urù’baen, si ritrovarono ai margini di una vasta pianura. Era la stessa che Eragon aveva attraversato dopo aver lasciato la Valle Palancar; solo che ora si trovava sul lato opposto. Proseguirono lungo il perimetro della pianura, sempre diretti a nord, seguendo il corso del fiume Ramr. Il sedicesimo compleanno di Eragon cadde in quel periodo. A Carvahall ci sarebbero stati grandi festeggiamenti per celebrare il suo ingresso nell’età adulta, ma nella natura selvaggia non ne parlò neppure con Murtagh. A quasi sei mesi di età, Saphira era molto più grande. Le sue ali erano enormi e robuste: ogni pollice di esse era necessario per sollevare il suo corpo muscoloso e le ossa pesanti. Le zanne che sporgevano dalle sue labbra erano grosse quanto il pugno di Eragon, e le punte affilate come Zar’roc. E finalmente arrivò il giorno in cui Eragon si tolse le bende dal fianco. Le sue costole erano del tutto guarite; gli era rimasta solo una piccola cicatrice dove lo stivale del Ra’zac gli aveva lacerato la pelle. Sotto gli occhi di Saphira, si stiracchiò piano, e quando non avvertì alcun dolore allungò le membra con più forza e fletté i muscoli, compiaciuto. In altri tempi avrebbe sorriso, ma dopo la morte di Brom accadeva molto di rado. Si infilò di nuovo la tunica e si avvicinò al piccolo fuoco da campo che avevano acceso. Murtagh era seduto, intento a tagliuzzare un pezzo di legno. Eragon estrasse Zar’roc dal fodero. Murtagh si irrigidì, ma il suo volto rimase calmo. «Adesso che ho ripreso le forze, ti andrebbe di allenarti con me?» gli chiese Eragon. Murtagh depose il pezzo di legno. «Con le spade? Così ci faremo del male.» «Dammi la tua arma» disse Eragon. Murtagh esitò, poi gli porse lo spadone. Eragon ne smussò il taglio con la magia, come Brom gli aveva insegnato. Mentre Murtagh esaminava l’arma, Eragon disse: «La farò tornare come prima quando avremo finito.» Murtagh controllò l’equilibrio della sua lama. Soddisfatto, rispose: «D’accordo.» Eragon gettò lo stesso incantesimo su Zar’roc, assunse la posizione di attacco e si slanciò, mirando alla spalla di Murtagh. Le loro spade s’incrociarono a mezz’aria. Eragon si liberò con grazia e fece un allungo che Murtagh schivò, balzando di lato. È veloce, pensò Eragon. Duellarono con impegno, ciascuno nel tentativo di indurre l’altro alla resa. Dopo uno scambio particolarmente accanito, Murtagh scoppiò a ridere. Non solo era evidente che nessuno dei due riusciva ad avere un vantaggio sull’altro, ma erano così uguali da stancarsi allo stesso ritmo. Riconoscendo la destrezza dell’altro con un mutuo sorriso, continuarono a duellare fino ad avere le braccia a pezzi e la schiena striata di sudore. Alla fine Eragon dichiarò: «Basta così!» Murtagh si fermò di colpo e sedette a terra di schianto, ansante, Eragon lo imitò, stringendosi il petto per l’affanno. Nessuno dei duelli con Brom era stato così feroce. Mentre riprendeva fiato, Murtagh esclamò: «Mi sorprendi! Ho studiato scherma tutta la vita, ma non ho mai incontrato nessuno come te. Se volessi, potresti diventare maestro di scherma del re.» «Anche tu non te la cavi male» osservò Eragon, ancora col fiato grosso. «L’uomo che ti ha insegnato. Tornac, potrebbe fare una fortuna se aprisse una scuola di scherma. Verrebbe gente da ogni parte di Alagasëia per imparare da lui.» «È morto» disse Murtagh asciutto. «Mi dispiace.» E così allenarsi tutte le sere divenne un’abitudine per loro, una consuetudine che li aiutava a tenersi in forma come un paio di lame gemelle. Con il recupero della salute, Eragon riprese anche a esercitarci con la magia, Murtagh lo osservava incuriosito e ben presto rivelò una sorprendente conoscenza di come funzionava, anche se gli mancavano i dettagli precisi e non sapeva usarla. Ogni volta che Eragon si esercitava a parlare l’antica lingua, lui ascoltava in silenzio, chiedendo di tanto in tanto il significato di qualche parola. Alla periferia di Gil’ead fermarono i cavalli fianco a fianco. Avevano impiegato quasi un mese per raggiungerla, durante il quale la primavera aveva cancellato le ultime tracce dell’inverno. Eragon si era sentito cambiare durante il viaggio: era diventato più forte e calmo. Pensava ancora a Brom e ne parlava con Saphira, ma la maggior parte del tempo cercava di non risvegliare dolorosi ricordi. Da lontano videro che la città era un luogo aspro e barbaro, tutto case di legno e cani feroci. Al centro sorgeva una fortezza di pietra costruita in modo approssimativo. L’aria era offuscata da volute di fumo azzurrognolo. Il luogo sembrava più una stazione di posta che una vera città. Cinque miglia dietro di essa si intravvedeva la nebbiosa sagoma del Lago Isenstar. Decisero di accamparsi a due miglia dalla città, per sicurezza. Mentre la cena cuoceva lentamente sul fuoco, Murtagh disse: «Non ritengo opportuno che vada tu a Gil’ead.» «Perché no? So travestirmi bene» disse Eragon. «e credo che quel Dormand voglia vedere. il gedwey ignasia per assicurarsi che io sia un vero Cavaliere.» «Può darsi» disse Murtagh. «ma l’Impero vuole te molto più di quanto non voglia me. Se mi catturano, posso sempre provare a fuggire. Se catturano te, ti porteranno dal re, dove verrai condannato a morte lenta per tortura... a meno che non accetti di servirlo. Per giunta. Gil’ead è una delle più grandi guarnigioni dell’esercito: quelle che vedi non sono abitazioni civili, ma caserme. Entrare in città sarebbe come offrirti al re su un piatto d’argento.» Eragon chiese a Saphira la sua opinione. La dragonessa gli avvolse la coda intorno alle gambe e si accoccolò accanto a lui. Non devi chiederlo a me; mi pare che il suo ragionamento fili. Ci sono cose che posso dirgli, cose che serviranno a convincere Dormand a dargli la sua fiducia. E poi ha ragione: se qualcuno deve rischiare di essere catturato, quello è Murtagh, perché riuscirebbe a sopravvivere. Eragon si accigliò. Non mi piace l’idea di metterlo in pericolo a causa nostra. «D’accordo» disse a malincuore. «Ma se qualcosa va storto, ti vengo a cercare.» Murtagh scoppiò a ridere. «L’ideale per una bella leggenda da tramandare: il Cavaliere solitario che sfidò l’intero esercito del re.» Ridacchiò ancora e si alzò. «C’è niente che dovrei sapere prima di andare?» «Non possiamo riposare e aspettare domattina?» chiese Eragon, riluttante. «Perché? Più a lungo restiamo qui, maggiori sono le probabilità che ci scoprano. Se questo Dormand è in grado di portarti dai Varden, allora dobbiamo trovarlo il più presto possibile. Nessuno di noi due dovrebbe restare attorno a Gil’ead per più di un paio di giorni.» Le sue labbra proferiscono sagge parole, commentò Saphira. Disse a Eragon che cos’era necessario riferire a Dormand, e il ragazzo ripetè l’informazione a Murtagh. «Bene» disse Murtagh, sistemandosi la spada al fianco. «A meno che non sorgano problemi, sarò di ritorno fra un paio d’ore. Mi raccomando, lasciami qualcosa da mangiare.» E con un cenno di saluto montò in sella a Tornac e si allontanò. Eragon si sedette accanto al fuoco, tamburellando nervosamente sul pomello di Zar’roc. Le ore passarono, ma Murtagh non tornava. Eragon cominciò a camminare intorno al falò, Zar’roc in pugno, mentre Saphira scoccava continue occhiate a Gil’ead, sempre più ombrosa. Soltanto i suoi occhi si muovevano. Nessuno di loro dava voce alle proprie preoccupazioni, anche se Eragon si era lentamente preparato a partire, nel caso che un drappello di soldati fosse uscito dalla città diretto verso il campo. Guarda, disse Saphira all’improvviso. Eragon si volse di scatto verso Gil’ead, in allarme. Vide in lontananza un uomo a cavallo che si allontanava in fretta dalla città, galoppando verso l’accampamento. Non mi piace, disse, montando in groppa a Saphira. Tieniti pronta a volare. Sono pronta a ben altro. Mentre il cavaliere si avvicinava, Eragon riconobbe Murtagh, chino sul collo di Tornac. Nessuno pareva inseguirlo, eppure non rallentò l’andatura forsennata. Piombò nel campo e saltò giù dal destriero, sguainando la spada. «Che cosa succede?» chiese Eragon. Murtagh era sconvolto. «Mi ha seguito qualcuno da Gil’ead?» «Non abbiamo visto nessuno.» «Bene. Fammi prima mangiare, poi ti spiego. Sto morendo di fame.» Afferrò una scodella e divorò la cena di gusto. Dopo i primi rapidi bocconi, disse a bocca piena: «Dormand ha accettato di incontrarci domattina all’alba, fuori Gil’ead. Se sarà sicuro che sei davvero un Cavaliere e che non gli abbiamo teso una trappola, vi accompagnerà dai Varden.» «Dove dovremmo incontrarci?» chiese Eragon. Murtagh indicò a est. «Su una piccola collina al di là della strada.» «Adesso mi racconti che cosa è successo?» Murtagh prese un’altra cucchiaiata dalla scodella. «Niente di straordinario, ma proprio per questo una cosa mortalmente pericolosa: qualcuno che mi conosce mi ha visto per la strada. L’unica cosa che potevo fare era fuggire, Ma era già troppo tardi: mi ha riconosciuto.» Un evento increscioso, ma Eragon non riusciva a capire fino a che punto pericoloso. «Dato che non conosco questa persona, ti chiedo; lo dirà a qualcuno?» Murtagh rise amaro. «Se lo conoscessi, non mi faresti questa domanda. Ha la bocca grande quanto un forno, e sempre aperta per vomitare qualunque cosa gli passi per la testa. La domanda non è se lo dirà a qualcuno, ma a chi lo dirà. Se la notizia raggiunge le orecchie sbagliate, saremo nei guai.» «Dubito che i soldati vengano a cercarti di notte» osservò Eragon. «Almeno possiamo contare sul fatto che saremo al sicuro fino a domattina, e a quel punto, se tutto va bene, saremo già in. viaggio con Dormand.» Murtagh scosse il capo. «No, andrete solo voi. Come ho già detto, io dai Varden non vengo.» Eragon lo guardò, addolorato. Voleva che Murtagh restasse; erano diventati amici durante il viaggio, e non sopportava l’idea di separarsi da lui. Fece per protestare, ma Saphira gli diede un corpetto col muso e disse: Aspetta domattina. Adesso non è il momento. D’accordo, disse lui, incupito. Parlarono finché le stelle furono alte nel cielo, poi si addormentarono mentre Saphira faceva il primo turno di guardia. Eragon si destò due ore prima dell’alba, col palmo che gli formicolava. Tutto era tranquillo e silenzioso, ma qualcosa lo turbava, come un prurito della mente. Si legò Zar’roc alla cintura e si alzò. Attento a non fare nessun rumore. Saphira lo guardò curiosa, i grandi occhi splendenti. Cosa c’è? chiese. Non lo so, rispose lui. Non vedeva niente di strano. Saphira fiutò l’aria, sibilò e alzò di poco la testa. Sento odore di cavalli nelle vicinanze, ma non si muovono. Emanano un puzzo disgustoso che non riconosco. Eragon strisciò accanto a Murtagh e lo chiamò posandogli una mano sulla spalla. Murtagh si svegliò di soprassalto, sfilò un pugnale da sotto le coperte, poi guardò Eragon con aria interrogativa. Eragon gli fece cenno di restare in silenzio e bisbigliò; «Ci sono dei cavalli qui intorno.» Murtagh sguainò la spada senza dire una parola. Si disposero ciascuno su un lato di Saphira, pronti a difendersi. Mentre aspettavano, la stella del mattino sorse a est. Uno scoiattolo squittì. Poi un improvviso ringhio alle spalle fece voltare Eragon di scatto, con la spada alta. Un grosso Urgali era comparso ai bordi del campo, impugnando un piccone dalla punta malevola. Da dove sono sbucati? Non abbiamo visto le loro tracce da nessuna parte! Pensò Eragon. L’Urgali ruggì e agitò la sua arma, ma non si slanciò all’attacco. «Brisingr!» ululò Eragon, e lo colpì con la magia. Il muso del mostro si trasformò in una maschera di terrore mentre esplodeva in un lampo di luce azzurra. Il sangue schizzò addosso a Eragon, e una massa scura volò in aria. Alle sue spalle, Saphira lanciò un ululato di allarme e s’impennò, Eragon si voltò. Mentre era occupato con il primo Urgali, un gruppo di mostri gli si era avvicinato di lato. Ci sono cascato come uno sciocco! L’acciaio cozzò con violenza mentre Murtagh attaccava gli Urgali. Eragon cercò di unirsi a lui, ma venne bloccato da altri quattro mostri. Il primo tentò un affondo di spada contro la sua spalla. Eragon schivò il colpo e uccise l’Urgali con la magia. Ne sgozzò un altro con Zar’roc, piroettò su se stesso e ne uccise un terzo colpendolo al cuore. Il quarto gli si avventò contro roteando una pesante mazza. Eragon lo vide arrivare e cercò di alzare la spada per parare la mazza, ma fu di un secondo troppo lento. Mentre l’arma si abbatteva sulla sua testa, gridò: «Vola, Saphira!» Un lampo accecante, e perse i sensi. 40 Du Sùndavar Freohr La prima cosa che Eragon notò fu che si trovava al caldo e all’asciutto, le guance premute contro una stoffa ruvida, e che non aveva le mani legate. Si mosse con cautela, ma passò qualche minuto prima che fosse in grado di alzarsi e studiare il luogo che lo ospitava. Era seduto in una cella, su un tavolaccio di legno, stretto e gibboso. In una delle pareti, in alto, era incassata una finestrella chiusa da una grata. La porta di ferro aveva anch’essa una piccola grata nella metà più alta. Quando si mosse, Eragon sentì strisce di sangue rappreso crepitargli sul volto. Gli ci volle un istante per ricordare che non era suo. La testa gli faceva un male terribile, come c’era da aspettarsi visto il colpo ricevuto, e la mente era stranamente annebbiata. Provò a usare la magia, ma non riusciva a concentrarsi abbastanza da ricordare qualche antica parola. Devono avermi drogato, decise infine. Si alzò con un gemito, avvertendo la mancanza del peso familiare di Zar’roc al suo fianco, e arrancò verso la finestrella. Se stava in punta di piedi, riusciva a vedere fuori. I suoi occhi impiegarono qualche secondo per abituarsi all’intensa luce esterna. La finestra era al livello del suolo. Una strada piena di gente indaffarata correva lungo la parete della sua cella, oltre la quale c’erano file di identiche costruzioni di legno. Sentendosi debole, Eragon si lasciò scivolare a terra e fissò il pavimento con occhi vuoti. Quello che aveva visto fuori lo turbava, ma non sapeva perché. Maledicendo la scarsa lucidità mentale, reclinò indietro la testa e cercò di schiarirsi la mente. Un uomo entrò nella cella e appoggiò sul tavolaccio un vassoio con del cibo e una brocca d’acqua. Gentile da parte sua! pensò, sorridendo. Assaggiò un paio di cucchiaiate dell’insipida zuppa di cavoli e pane secco, ma riuscì a stento a trattenerla nello stomaco. Avrei voluto qualcosa di meglio, si lamentò, abbandonando il cucchiaio. All’improvviso capì. che cosa non andava. Sono stato catturato da un branco di Urgali, non da uomini! Come sono finito qui? La sua mente stordita si arrovellò senza venire a capo di niente. Archiviò la scoperta in attesa di quando avrebbe saputo che cosa farne. Si sedette sullo scomodo giaciglio, lo sguardo perso nel vuoto. Qualche ora più tardi gli portarono di nuovo da mangiare. Proprio quando stavo cominciando ad avere fame, pensò a fatica. Questa volta riuscì a ingoiare il cibo senza farsi venire la nausea. Quando ebbe finito, ritenne opportuno concedersi un sonnellino. In fondo, lì c’era soltanto un letto: che cos’altro poteva fare? La sua mente prese ad andare alla deriva, mentre il sonno lo accoglieva nel suo abbraccio. Poi si udì il clangore metallico di un cancello che si apriva da qualche parte, seguito da uno scalpiccio pesante di stivali sul pavimento di pietra, Il rumore divenne sempre più forte finché non gli parve di avere in testa qualcuno che picchiava contro una pentola. Perché non mi lasciano in pace? borbottò fra sé. Una torpida curiosità prese il sopravvento sulla stanchezza, e si costrinse ad andare alla porta per spiare dalla finestrella, battendo le palpebre come un gufo. Vide un ampio corridoio largo una decina di metri. Sulla parete opposta si aprivano celle identiche alla sua. Una colonna di soldati marciava nel corridoio, le spade sguainate. Indossavano armature identiche; i volti avevano la stessa espressione arcigna, e i piedi calpestavano il pavimento con la stessa meccanica precisione, senza mai perdere il ritmo. Il suono era ipnotico. Un’impressionante dimostrazione di potenza. Eragon osservò i soldati finché non cominciò ad annoiarsi. Proprio allora notò un’interruzione nella colonna. Portata a braccia da due massicci individui c’era una donna priva di sensi. I lunghi capelli corvini le coprivano il viso, malgrado una fascia di pelle le cingesse la testa per tenere indietro le ciocche ondulate. Indossava un paio di pantaloni e una casacca di pelle. Intorno alla vita snella portava una cintura lucente, da cui pendeva sul fianco destro un fodero vuoto. Stivali alti al ginocchio le avvolgevano i polpacci e i piccoli piedi. La sua testa ciondolò da una parte. Eragon trattenne il fiato, come se avesse ricevuto un pugno allo stomaco. Era la donna dei suoi sogni. Il suo volto affilato era perfetto come un dipinto. Il mento rotondo, gli zigomi alti e le lunghe ciglia le davano un’aria esotica. L’unica pecca nella sua bellezza era un graffio lungo la guancia; malgrado questo, era la donna più bella che avesse mai visto. Il sangue di Eragon ribollì nel guardarla. Qualcosa si agitò in lui, qualcosa che non aveva mai sentito prima. Era come un’ossessione, solo più forte: una follia febbrile. Poi i capelli della donna si scostarono dal viso, rivelando le orecchie appuntite. Un brivido gli corse lungo la schiena. Era un’elfa. I soldati continuarono a marciare, sottraendola al suo sguardo. Dietro di lei veniva un uomo alto e fiero, con un mantello di zibellino che si agitava alle sue spalle. Il suo volto era di un pallore mortale; i capelli erano rossi. Rossi come il sangue. Quando passò davanti alla cella di Eragon, l’uomo voltò la testa e lo fissò con occhi che parevano braci ardenti. Il labbro di sopra si arricciò in un ghigno crudele, svelando denti appuntiti. Eragon indietreggiò. Sapeva che cos’era quell’uomo. Uno Spettro... Il cielo mi assista, uno Spettro. Il corteo proseguì, e lo Spettro scomparve. Eragon si accasciò sul pavimento, stringendosi le gambe al petto. Perfino confuso com’era, sapeva che la presenza di uno Spettro voleva dire che il Male imperversaya nel territorio di Alagasëia. Ogni volta che comparivano, li seguiva una scia di sangue. Che cosa ci fa qui uno Spettro? I soldati avrebbero dovuto ucciderlo all’istante! Poi i suoi pensieri tornarono alla fanciulla elfica, e di nuovo fu colto da una strana emozione. Devo fuggire. Ma con la mente annebbiata, la sua determinazione svanì presto. Si distese di nuovo sul tavolaccio. Quando il corridoio tornò silenzioso. Eragon era già addormentato. Non appena aprì gli occhi, capì che c’era qualcosa di diverso. Gli era più facile pensare; si rese conto di essere a Gil’ead. Hanno commesso un errore; l’effetto della droga si dissolvel Speranzoso, provò a chiamare Saphira e a usare la magia, ma entrambe le cose si rivelarono ancora fuori dalla sua portata. Si sentì stringere il cuore nel chiedersi se lei e Murtagh ce l’avevano fatta. Si stiracchiò e guardò fuori dalla finestrella. La città si stava appena risvegliando; la strada era deserta, fatta eccezione per due mendicanti. Tese una mano verso la brocca dell’acqua, meditando sull’elfa e sullo Spettro. Stava per bere quando si accorse che l’acqua aveva uno strano odore, come se contenesse qualche goccia di un acre profumo. Con una smorfia, posò di nuovo la brocca a terra. La droga dev’essere nell’acqua, e anche nel cibo! Ricordò che quando i Ra’zac lo avevano drogato, gli ci erano volute ore per riprendersi. Se riesco a non bere e a non mangiare abbastanza a lungo, dovrei essere in grado di usare la magia. Allora potrò liberare l’elfa. Il pensiero lo fece sorridere. Si sedette in un angolo a sognare come poteva fare. Il corpulento carceriere entrò nella cella un’ora dopo, con un vassoio di cibo. Eragon aspettò che se andasse, poi portò il vassoio alla finestra. Il pasto era composto soltanto da pane, formaggio e cipolla, ma l’odore gli fece brontolare lo stomaco dalla fame. Rassegnandosi a ima giornata di digiuno, gettò il cibo fuori dalla finestra, sulla strada, sperando che nessuno lo notasse. Eragon cercò così di annullare gli effetti della droga. Aveva difficoltà a concentrarsi per più di qualche secondo, ma col progredire della giornata, la sua acutezza mentale aumentò. Cominciò a ricordare molte parole antiche, anche se non succedeva niente quando le pronunciava. Avrebbe voluto gridare per la delusione. Quando gli fu portato il pranzo, lo gettò fuori dalla finestra come aveva fatto con la colazione. La fame era forte, ma era la mancanza di acqua a pesargli di più. Si sentiva la gola secca. Pensieri di acqua fresca e dolce lo torturavano, e ogni respiro gli prosciugava le mucose. Malgrado tutto, si costrinse a ignorare la brocca. Un trambusto nel corridoio lo distolse dal suo disagio. Un uomo discuteva ad alta voce: «Non potete entrare! Gli ordini sono chiari: nessuno può vederlo!» «Sul serio? E sarai tu a fermarmi, capitano?» intervenne una voce melliflua. «No... ma il re...» fu l’esitante risposta. «Mi occuperò io del re» lo interruppe l’altro. «E adesso apri la porta.» Dopo un breve silenzio, Eragon sentì scattare la serratura della sua cella. Cercò di assumere un’espressione assente. Devo comportarmi come se non capissi che cosa succede. Non posso mostrare sorpresa, qualunque cosa mi dica costui. La porta si aprì. Gli mancò il fiato quando si ritrovò faccia a faccia con lo Spettro. Era come guardare una maschera di morte o un teschio levigato, ricoperto di pelle sottile per dargli una parvenza di vita. «Salute a te» disse lo Spettro con un sorriso gelido, mostrando i denti aguzzi. «È molto tempo che aspetto di incontrarti.» «Chi…chi sei?» chiese Eragon, fingendo di incespicare nelle parole. «Nessuno d’importante» rispose lo Spettro, gli occhi rossicci illuminati da una minaccia controllata. Si sedette facendo svolazzare il mantello. «I1 mio nome non conta nulla per uno nella tua posizione. E comunque non vorrebbe dire niente per te. È il tuo che m’interessa. Chi sei?» La domanda era stata posta con una certa innocenza, ma Eragon capì che celava una trappola, anche se non sapeva di che tipo. Finse di arrovellarsi sulla domanda per qualche minuto, poi lentamente disse: «Non ne sono sicuro… Mi chiamo Eragon, ma questo non è ciò che sono, giusto?» Le labbra sottili dello Spettro si tesero in un sorriso maligno. «Giusto, non lo è. Hai una mente interessante, mio giovane Cavaliere.» Si protese verso di lui. La pelle della sua fronte era sottile, translucida. «A quanto pare devo essere più diretto. Come ti chiami?» ««Era…» «No! Non questo.» Lo Spettro lo interruppe con un gesto della mano. «Non ne hai un altro, uno che usi di rado?» Vuole il mio vero nome per potermi controllare! si rese conto Eragon. Ma non posso dirglielo, Non lo so nemmeno io. Pensò in fretta, in cerca di un inganno che potesse coprire la sua ignoranza. E se lo inventassi? Esitò, temendo di tradirsi, poi si affrettò a creare un nome che avrebbe superato la prova. Stava per pronunciarlo, quando decise di rischiare e di tentare di spaventare lo Spettro. Spostò qualche lettera, annuì con fare sciocco e disse: «Brom me lo ha detto, una volta, Era...» La pausa durò qualche secondo, poi il suo volto s’illuminò quando finse di ricordare. «Era Du Sùndavar Freohr.» Che significava quasi letteralmente “Morte delle Ombre”. Un cupo gelo calò sulla cella mentre lo Spettro restava seduto immobile, gli occhi velati. Sembrava immerso nei suoi pensieri, a riflettere su ciò che aveva appena appreso, Eragon si chiese se aveva osato troppo. Attese che lo Spettro lo guardasse di nuovo prima di chiedere con aria ingenua: «Perché sei qui?» Lo Spettro lo guardò con sussiego e sorrise. «Per esultare, è ovvio. A che cosa serve la vittoria se uno non può rallegrarsene?» Ostentava sicurezza, ma sembrava turbato, come se i suoi piani fossero stati sconvolti. Si alzò all’improvviso. «Devo occuparmi di certe questioni, ma mentre sono via farai meglio a riflettere su chi hai intenzione di servire: un Cavaliere che ha tradito il tuo stesso ordine, o un mio simile, esperto in arti oscure. Quando arriverà il momento di scegliere, non ci saranno vie di mezzo.» Si voltò per andarsene, poi gettò un’occhiata alla brocca d’acqua e il suo volto s’indurì come granito. «Capitano!» urlò. Un uomo dalle spalle larghe accorse nella cella, la spada in pugno. «Che cosa succede, signore?» domandò allarmato. «Metti via quel giocattolo, capitano» gli intimò lo Spettro. Annuì verso Eragon e disse, con voce mortalmente calma: «Il ragazzo non ha bevuto l’acqua. Perché?» «Ho parlato con il sorvegliante prima. Ogni piatto è stato ripulito fino in fondo.» «Molto bene» disse lo Spettro, tranquillizzato. «Ma assicurati che ricominci a bere.» Si protese verso il capitano e gli mormorò qualcosa nell’orecchio. Eragon colse le ultime parole. «... una dose in più, per non sbagliare.» Il capitano annuì. Lo Spettro riportò la sua attenzione su Eragon. «Parleremo di nuovo domani quando non avrò così fretta. Sai, coltivo un interesse particolare per i nomi. Mi farà un enorme piacere discutere del tuo in maggiori dettagli.» Il modo in cui lo disse suscitò in Eragon una sensazione di scoraggiamento. Una volta che se ne furono andati, si distese sul tavolaccio e chiuse gli occhi. Le lezioni di Brom si stavano rivelando molto, utili in quel frangente; si affidò a loro per allontanare il panico e tranquillizzarsi. Mi è stato insegnato; devo solo metterlo a frutto. I suoi pensieri vennero interrotti da un rumore di passi in avvicinamento. Teso, andò alla porta e vide due soldati trascinare l’elfa lungo il corridoio. Quando non riuscì più a vederla, Eragon si accovacciò a terra e tentò di usare di nuovo la magia. Imprecò quando non ci riuscì. Allora si affacciò a guardare la città e digrignò i denti. Era appena pomeriggio. Inspirò a fondo e cercò di aspettare, paziente. 41 I prigionieri prendono il volo Era buio nella cella quando Eragon si alzò a sedere di scatto, elettrizzato. La nebbia mentale si era dissolta! Da ore ormai avvertiva la magia ai margini della coscienza, ma ogni volta che aveva provato a usarla, non era successo niente. Gli occhi raggianti di energia nervosa, strinse i pugni e disse: «Nagz reisa!» Con uno svolazzo, la coperta del suo giaciglio si sollevò e si appallottolò formando un fagotto, che cadde a terra con un soffice tonfo. Eragon si alzò, al colmo dell’eccitazione. Si sentiva debole a causa del digiuno forzato, ma l’euforia superava la fame. Adesso proviamo sul serio. Dilatò la mente e tastò la serratura della porta. Invece di provare a romperla, si limitò ad azionarne i meccanismi interni. La porta si schiuse con uno scatto metallico. Quando aveva usato la magia per uccidere gli Urgali a Yazuac, era arrivato al punto di consumare quasi tutte le energie, ma da allora era diventato molto più forte. Quello che un tempo lo stremava, ora gli procurava soltanto un lieve senso di spossatezza. Fece un timido passo nel corridoio. Devo trovare Zar’roc e l’elfa. Dev’essere in una di queste celle, via non c’è il tempo di controllarle tutte, E Zar’roc, lo Spettro deve averla con sé. Si accorse di avere ancora la mente piuttosto confusa. Perché sono qui? Potrei fuggire subito, se tornassi dentro la cella e aprissi la finestra con la magia. Ma poi non sarei in grado di salvare l’elfa... Saphira, dove sei? Ho bisogno del tuo aiuto. Si rimproverà in silenzio per non averla chiamata prima. Avrebbe dovuto farlo non appena era rientrato in possesso del suo potere. La sua risposta arrivò con sorprendente prontezza, Eragon! Sono su Gil’ead. Non fare niente. Murtagh sta arrivando, Cosa... Un pesante scalpiccio lo interruppe. Si volse e si acquattò nell’ombra, mentre una squadra di sei soldati marciava nel corridoio. Si fermarono di colpo, gli occhi che guizzavano da Eragon alla porta della cella aperta. Impallidirono. Bene, sanno chi sono. Forse riuscirò a spaventarli così da non dover combattere. «Carica!» gridò uno dei soldati, lanciandosi all’attacco. Gli altri sguainarono le spade e lo seguirono di corsa. Era pura follia combattere contro sei uomini disarmato e debole, ma il pensiero dell’elfa lo fece restare al suo posto. Non poteva abbandonarla. Senza sapere se lo sforzo lo avrebbe lasciato in piedi, evocò il potere e alzò la mano, con il gedwey ignasia che riluceva. Gli occhi dei soldati tradirono la paura, ma erano guerrieri incalliti e non rallentarono. Mentre Eragon apriva la bocca per pronunciare le parole fatali, si udì un fruscio, un lampo di movimento. Uno degli uomini crollò a terra, la schiena trafitta da una freccia. Altri due vennero colpiti prima che qualcuno capisse che cosa stava succedendo. In fondo al corridoio, da dove erano entrati i soldati, c’era un uomo barbuto, vestito di stracci, con un arco in pugno. Sul pavimento ai suoi piedi c’era una stampella, che evidentemente non serviva più, dato che l’uomo se ne stava ben piantato sulle gambe, in perfetto equilibrio. I tre soldati rimasti si volsero per affrontare la nuova minaccia. Eragon approfittò della confusione. «Thrysta!» esclamò. Uno degli uomini si portò le mani al petto e cadde, Eragon barcollò quando la magia reclamò il suo pegno. Un altro soldato cadde, colpito al collo da una freccia. «Non ucciderlo!» gridò Eragon, vedendo che il suo soccorritore stava prendendo la mira contro l’ultimo soldato. L’uomo barbuto abbassò l’arco. Eragon si concentrò sul soldato davanti a sé. L’uomo aveva l’affanno, e gli occhi spalancati. Aveva capito che gli veniva risparmiata la vita. «Hai visto che cosa posso fare» disse Eragon in tono aspro.. «Se non rispondi alle mie domande, il resto della tua vita passerà fra atroci tormenti. Dov’è la mia spada? Il fodero e la lama sono rossi. E qual è la cella dell’elfa?» L’uomo strinse le labbra. Il palmo di Eragon rosseggiò minaccioso mentre il ragazzo evocava la magia. «Risposta errata» commentò severo. «Lo sai quanto dolore provoca un granello di sabbia incandescente affondato nello stomaco? Specie quando non si raffredda per almeno una ventina di anni e nel frattempo si scava la strada fino ai piedi? Quando alla fine uscirà dal tuo corpo, sarai vecchio.» Fece una pausa a effetto. «A meno che tu non mi dica quello che voglio.» Il soldato sgranò gli occhi, ma rimase in silenzio. Eragon grattò una manciata di terra dal pavimento e osservò in tono piatto: «È un po’ più di un granello di sabbia, ma consolati: brucerà più in fretta. Certo, lascerà un bel buco.» A queste parole, il terriccio cominciò a rosseggiare incandescente, senza però scottargli la mano. «D’accordo, ma non mettermelo nello stomaco!» strillò il soldato. «L’elfa è rinchiusa nell’ultima cella a sinistra! Non so niente della tua spada, ma probabilmente si trova nell’armeria di sopra. È lì che tengono tutte le armi.» Eragon annuì, poi mormorò: «Slytha.» Il soldato rovesciò gli occhi all’indietro e cadde come un sacco vuoto. «L’hai ucciso?» Eragon guardò lo straniero che era a pochi passi da lui. Strinse gli occhi nel tentativo di vedere oltre la. Barba. «Murtagh! Sei tu?» esclamò. «Sì» rispose Murtagh, scostando per un istante la barba finta dal volto rasato. « non voglio che mi vedano in volto. L’hai ucciso?» «No, sta dormendo, Come sei riuscito a entrare?» «Non c’è tempo per le spiegazioni, Dobbiamo salire prima che qualcuno ci scopra, Fra pochi minuti ci verrà offerta una via di fuga che sarà meglio non mancare.» «Non hai sentito quello che ho detto?» chiese Eragon, indicando il soldato svenuto. «C’è un’elfa prigioniera in una delle celle, L’ho vista! Dobbiamo salvarla. Mi serve il tuo aiuto.» «Un’elfa...!» Murtagh si affrettò lungo il corridoio, borbottando: «È un errore. Dovremmo fuggire finché siamo in tempo.» Si fermò davanti alla cella che il soldato aveva indicato ed estrasse un anello di chiavi da sotto il mantello lacero. «L’ho preso a una delle guardie» disse. Eragon gli fece cenno di passargli le chiavi. Murtagh si strinse nelle spalle e gliele diede. Eragon trovò quella giusta e aprì la porta. Un solitario raggio di luna entrava dalla finestra, illuminando il volto d’argento freddo dell’elfa. Lei lo guardò, tesa come una molla pronta a scattare. Teneva la testa alta, con il portamento di una regina. I suoi occhi verde scuro, quasi neri, un po’ obliqui come quelli di un gatto, si posarono su Eragon. Lui si sentì percorrere da un brivido. I loro sguardi si saldarono per un momento, poi l’elfa vacillò e cadde senza un suono. Eragon fece appena in tempo a sostenerla prima che toccasse terra, Era sorprendentemente leggera. La circondava un aroma di aghi di pino appena spiccati. Murtagh entrò nella cella. «È bellissima!» «Ma ferita.» «Ci occuperemo di lei più tardi. Ti senti abbastanza forte da portarla?» Eragon scosse il capo. «Allora lo farò io» disse Murtagh, issandosi l’elfa su una spalla. «E adesso, di sopra!» Porse a Eragon un pugnale, poi corsero indietro lungo il corridoio disseminato di cadaveri. Correndo con il prezioso fardello, Murtagh condusse Eragon a una scala di pietre sgrossate in fondo al corridoio. Mentre salivano, Eragon disse: «Come facciamo a uscire senza essere notati?» «Non verremo notati» grugnì Murtagh. Questo non alleviò affatto i timori di Eragon. Drizzò le orecchie, preoccupato di sentire soldati in avvicinamento, temendo quel che sarebbe potuto succedere se avessero incontrato lo Spettro. In cima alle scale c’era un ampio refettorio gremito di tavoli di legno. Le pareti erano tappezzate di scudi, e il soffitto di legno era un reticolo di travi curve, Murtagh depose l’elfa su un tavolo e guardò il soffitto con aria preoccupata. «Puoi parlare con Saphira da parte mia?» . «Sì.» «Dille di aspettare altri cinque minuti.» Si udirono delle grida in lontananza. Un drappello di soldati passò marciando davanti alla soglia del refettorio. Eragon strinse le labbra per la tensione. «Qualunque cosa tu abbia in mente di fare, ho paura che non ci resti molto tempo.» «Tu diglielo, e non farti vedere» tagliò corto Murtagh, allontanandosi in fretta. Mentre Eragon trasmetteva il messaggio, si allarmò sentendo salire le scale. Lottando contro la fame e la stanchezza, trascinò l’elfa giù dal tavolo e si nascose lì sotto con lei. Trattenne il fiato, stringendo con forza il pugnale. Nella sala entrarono dieci soldati. L’attraversarono di corsa, controllando soltanto sotto un paio di tavoli, e continuarono per la loro strada. Eragon si appoggiò alla zampa del tavolo, sospirando di sollievo. La tregua lo rese all’improvviso consapevole della fame e della gola riarsa. Un boccale e un piatto di cibo lasciato a metà dall’altra parte della sala attirarono la sua attenzione. Eragon schizzò come un fulmine dal suo nascondiglio, afferrò il cibo e tornò sotto il tavolo. Nel boccale c’era della birra ambrata che bevve in due rapidi sorsi. Si sentì pervadere dal sollievo mentre il liquido fresco gli scorreva lungo la gola, alleviando l’arsura. Trattenne un rutto prima di avventarsi con ingordigia sul pane. Murtagh tornò con Zar’roc, uno strano arco e un’elegante spada senza fodero, Murtagh porse Zar’roc a Eragon. «Ho trovato l’altra spada e l’arco nell’armeria. Non ho mai visto armi come queste prima d’ora, perciò ho pensato che appartenessero all’elfa.» «Vediamo» disse Eragon, la bocca piena di pane. La spada, leggera e affusolata, con un guardamano a croce le cui estremità terminavano a punta, entrava perfettamente nel fodero dell’elfa. Non c’era modo di stabilire se l’arco fosse suo, ma era così finemente sagomato che Eragon dubitava che potesse appartenere a qualcun altro. «E adesso?» domandò, addentando, ancora il pane. «Non possiamo restare qui per sempre. Prima o poi i soldati ci scopriranno.» «Adesso» disse Murtagh, incoccando una freccia sul proprio arco «aspettiamo. Come ho detto, la nostra fuga è stata organizzata.» «Non capisci; c’è uno Spettro qui intorno! Se ci scopre, siamo spacciati.» «Uno Spettro!» esclamò Murtagh. «In questo caso, di’ a Saphira di venire subito. Dovevamo aspettare fino al cambio della guardia, ma adesso ogni istante che passa siamo sempre più in pericolo.» Eragon riferì il messaggio, trattenendo a stento le domande per non distrarre la dragonessa. «Hai sconvolto i piani fuggendo da solo» brontolò Murtagh, senza allontanare lo sguardo dall’ingresso del refettorio. Eragon sorrise. «Allora avrei dovuto aspettare. Ma il tuo tempismo è stato perfetto. Non sarei mai stato in grado nemmeno di strisciare, dopo, se avessi dovuto combattere tutti quei soldati solo con la magia.» «Lieto di esserti stato d’aiuto» ribatte Murtagh. S’irrigidì, mentre udivano degli uomini che correvano.. «Speriamo soltanto che lo Spettro non ci trovi.» Una risatina glaciale echeggiò nella sala. «Temo che sia un po’ troppo tardi per questo.» Murtagh ed Eragon si volsero di scatto. In fondo al refettorio era comparso lo Spettro, solo. Reggeva una pallida spada, con un graffio sottile sulla lama. Sganciò il fermaglio che gli chiudeva il mantello e quello si afflosciò a terra, scoprendo un corpo snello e asciutto come quello di un corridore. Ma Eragon rammentava gli ammonimenti di Brom: l’aspetto di uno Spettro era ingannevole, poiché loro erano molto più forti di un essere umano. «Ebbene, mio giovane Cavaliere, che ne dici di misurarti con me?» ghignò lo Spettro. «Non avrei dovuto fidarmi del capitano quando mi disse che avevi mangiato tutto il tuo cibo. Non farò di nuovo lo stesso errore.» «Ci penso io, a lui» disse Murtagh, posando l’arco per sguainare la spada. «No» disse Eragon tra i denti. «Lui mi vuole vivo, di te non gli importa. Lo tratterrò per un po’, ma tu faresti meglio a trovare il modo di uscire di qui.» «E sia» disse Murtagh. «Non dovrai trattenerlo per molto.» «Lo spero proprio» rispose Eragon, cupo. Estrasse Zar’roc e avanzò lentamente. La lama rossa scintillava sotto la luce delle torce infisse alle pareti. Gli occhi dello Spettro ardevano come tizzoni. Rise sommessamente. «Credi davvero di potermi sconfiggere. Du Sùndavar Freohr? Che nome ridicolo. Mi sarei aspettato qualcosa di più appassionante da parte tua, ma suppongo che sia il massimo che tu sia riuscito a trovare.» Eragon non accettò la provocazione. Scrutò il volto dello Spettro con attenzione, in cerca di un battito di ciglia, una smorfia delle labbra, qualcosa che gli suggerisse la prossima mossa dell’avversario. Non posso usare la magia perché lui farebbe lo stesso. Deve credere di poter vincere senza farvi ricorso... il che probabilmente è vero. Prima che uno dei due potesse fare un gesto, il soffitto tremò con un boato, e prese a cadere una nuvola di polvere che colorò tutto di grigio, mentre pezzi di legno si schiantavano sul pavimento. Dal tetto provenivano grida e stridore di metallo. Temendo di essere colpito dalla pioggia di detriti, Eragon alzò gli occhi. Lo Spettro approfittò della sua distrazione e attaccò. Eragon riuscì per un soffio a levare Zar’roc per parare un colpo diretto al costato. Le lame cozzarono con un fragore che gli fece sbattere i denti e formicolare il braccio. Accidenti, se è forte! Impugnò Zar’roc con entrambe le mani e facendo appello a tutte le sue forze menò un fendente verso la testa dello Spettro. Lo Spettro lo parò senza difficoltà, roteando la spada con una rapidità che Eragon pensava impossibile. Sopra di loro continuavano a levarsi strida terribili, come una punta di ferro passata su una pietra. Tre lunghe crepe si aprirono nel soffitto. Qualche tegola cadde nella sala. Eragon le ignorò, anche quando una si schiantò a poca distanza dai suoi piedi. Per quanto fosse stato addestrato da un maestro di scherma come Brom, e si fosse allenato con Murtagh, che era un’abile spadaccino, non si era mai trovato così in difficoltà. Lo Spettro stava giocando con lui. Eragon indietreggiò verso Murtagh, con le braccia che tremavano a ogni colpo dello Spettro, e quei colpi diventavano sempre più potenti. Non aveva più la forza di ricorrere alla magia, nemmeno se lo avesse voluto. Poi, con una sprezzante torsione del polso, lo Spettro fece volare via Zar’roc dalle mani di Eragon. L’impatto lo gettò in ginocchio, e lì rimase, ansante. Il fragore sul tetto era più forte che mai. Qualunque cosa fosse, si stava avvicinando. Lo Spettro abbassò lo sguardo su di lui con aria sdegnosa. «Potresti essere un pezzo importante nella partita che si sta giocando, ma mi hai deluso. Se gli altri Cavalieri erano altrettanto deboli, devono aver controllato l’Impero soltanto grazie al loro numero.» Eragon guardò in alto e scosse il capo. Aveva capito il piano di Murtagh, Saphìra, adesso sì che sarebbe il momento buono. «No, dimentichi qualcosa.» «E che cosa, di grazia?» domandò lo Spettro, beffardo. Una potente vibrazione scosse l’aria, mentre un frammento di soffitto si staccava a rivelare il cielo notturno. «I draghi!» ruggì Eragon per superare il frastuono, e si gettò di lato fuori dalla portata dello Spettro. Lo Spettro ringhiò di rabbia, roteando la spada con ferocia assoluta. Lo mancò e tentò un affondo. La sua espressione maligna si mutò in sorpresa, mentre una delle frecce di Murtagh gli attraversava una spalla. Lo Spettro rise e spezzò la freccia con due dita. «Devi fare di meglio, se hai intenzione di fermarmi.» La freccia seguente lo colpì tra gli occhi. Lo Spettro ululò di dolore e si contorse, coprendosi il volto. La sua pelle divenne grigia. Intorno a lui si formò un alone di nebbia che oscurò la sua figura. Si udì un grido raccapricciante; poi la nebbia svanì. Dove un secondo prima c’era lo Spettro, non restavano altro che il mantello e pochi abiti sparsi. «L’hai ucciso!» esclamò Eragon. Conosceva soltanto due eroi della leggenda che erano sopravvissuti uccidendo uno Spettro. «Non ne sarei così convinto» disse Murtagh. Un uomo gridò: «Guardate! E caduto. Prendiamoli!». Soldati armati di reti e lance si riversarono nel refettorio da entrambe le porte. Eragon e Murtagh indietreggiarono fino al muro, trascinando con loro l’elfa. Gli uomini si disposero a semicerchio intorno a loro. In quel momento, Saphira infilò la testa nello squarcio del soffitto e ruggì. Afferrò il bordo dell’apertura con i potenti artigli e staccò un altro vasto spicchio di soffitto. Tre soldati fuggirono, ma gli altri mantennero la posizione. Annunciata da un fragore assordante, la trave centrale del soffitto si spezzò e cadde in una pioggia di pesanti frammenti. I soldati si dispersero, confusi, cercando di schivare i mortali detriti. Eragon e Murtagh si appiattirono contro la parete per evitarli. Saphira ruggì ancora, e i soldati se la diedero a gambe, calpestandosi a vicenda in una fuga disperata. Con un ultimo sforzo titanico, Saphira divelse ciò che restava del soffitto prima di saltare nella sala ad ali raccolte. Atterrò su un tavolo, che si schiantò sotto il suo peso. Urlando di gioia, Eragon le gettò le braccia al collo. Lei mormorò felice: Mi sei mancato, ragazzo. Anche tu. C’è qualcun altro con noi. Puoi portarci in tre? Naturale, disse lei, sgomberando a calci i tavoli e le travi spezzate per creare uno spazio da dove prendere il volo. Murtagh ed Eragon andarono a prendere l’elfa. Saphira sibilò di sorpresa quando la vide. Un elfa! Già, ed è la donna che ho visto in sogno, disse Eragon, chinandosi per raccogliere Zar’roc. Aiutò Murtagh a legare l’elfa sulla sella, poi entrambi montarono sulla dragonessa. Ho sentito combattere sul tetto. C’erano degli uomini? C’erano, ma ora non più. Siete pronti? Sì. Saphira balzò e uscì attraverso lo squarcio nel tetto della fortezza, dove giacevano i corpi dei soldati sbaragliati. «Guardate!» disse Murtagh, indicando una fila di arcieri schierati su una torre dall’altra parte del refettorio. «Saphira, devi alzarti subito. Ora!» gridò Eragon. La dragonessa dispiegò le ali, corse verso il margine della costruzione e si diede la spinta facendo leva sulle zampe possenti. Il peso del suo carico la fece precipitare paurosamente. Mentre tentava di riprendere quota, Eragon sentì lo schiocco sonoro delle corde degli archi. Un nugolo di frecce volò verso di loro nell’oscurità. Saphira ruggì di dolore quando fu colpita e s’inclinò bruscamente a sinistra per evitare la seconda raffica. Altre frecce forarono il cielo, ma la notte li protesse dai dardi mortali. Sconvolto, Eragon si chinò sul collo di Saphira. Dove sei ferita? Mi hanno trafitto le ali... ma una delle frecce non è passata del tutto. È ancora conficcata. Il suo respiro si era fatto affannoso, difficile. Quanto lontano riesci a portarci? Lontano abbastanza. Eragon abbracciò forte l’elfa.mentre sorvolavano Gil’ead, poi si lasciarono la città alle spalle e virarono a est, puntando verso il cielo notturno. 42 Un guerriero e un guaritore Saphira si abbassò per atterrare in una radura sulla cima di una collina, e distese le ali sul terreno, Eragon la sentì tremare sotto di sé. Non avevano percorso più di mezza lega da Gil’ead. Legati con le cavezze a due tronchi d’albero c’erano Fiammabianca e Tornac, che sbuffarono nervosi all’arrivo di Saphira, Eragon si lasciò scivolare a terra per occuparsi subito delle ferite di Saphira, mentre Murtagh preparava i cavalli, Non potendo vedere bene al buio, Eragon fece scorrere le mani sulle ali della dragonessa. Trovò tre punti in cui le frecce avevano trapassato la sottile membrana, lasciando fori sanguinanti larghi quanto il suo pollice. Mancava anche un pezzetto di pelle dal bordo dell’ala sinistra. La dragonessa rabbrividì al contatto. Eragon curò le ferite con le parole dell’antica lingua. Poi si occupò della freccia ancora incastrata in uno dei possenti muscoli dell’ala. La punta della freccia sbucava dalla parte sottostante, da dove gocciolava sangue caldo. Eragon chiamò Murtagh e gli diede alcune istruzioni. «Tienile ferma l’ala. Devo togliere questa freccia.» Gli mostrò dove mettere le mani. Sentirai dolore, avvertì Saphira, ma finirò presto, Cerca di non muoverti... potresti farci del male, La dragonessa tese il collo e afferrò con le zanne poderose un giovane alberello. Con uno strattone lo sradicò dal terreno e lo strinse forte tra le fauci. Sono pronta. Bene, disse Eragon. «Tienila» mormorò a Murtagh, poi spezzò la punta della freccia. Cercando di non provocare altri danni, sfilò rapidamente l’asta dal corpo di Saphira. Nel momento in cui la freccia uscì dal muscolo, la dragonessa gettò indietro la testa e mugolò. L’ala ebbe uno spasmo involontario e colpì Murtagh sotto il mento, mandandolo a terra. Con un ringhio, Saphira scosse l’albero, spruzzando terriccio dappertutto prima di scagliarlo lontano. Dopo aver fatto rimarginare la ferita con altre parole magiche, Eragon aiutò Murtagh ad alzarsi. «Mi ha colto alla sprovvista» ammise Murtagh, massaggiandosi la mascella già livida. Scusami. «Non voleva farti del male» lo rassicurò Eragon, poi guardò l’elfa ancora priva di sensi. Dovrai portarla ancora per un po’, disse a Saphira. Non possiamo trasportarla a cavallo perché ci rallenterebbe. Volare dovrebbe riuscirti più facile, ora che non hai più la freccia. Saphira chinò la testa. Lo farò. Grazie, disse Eragon, e l’abbracciò forte. Quello che hai fatto è straordinario. Non lo dimenticherò mai. Gli occhi della dragonessa si addolcirono. Adesso devo andare. Eragon fece qualche passo indietro e Saphira prese il volò, sollevando un turbine d’aria che fece fluttuare i capelli dell’elfa. Eragon corse da Fiammabianca, montò in sella e si allontanò al galoppo con Murtagh. Mentre cavalcavano, Eragon cercò di ricordare quello sapeva sugli elfi. Vivevano a lungo, era un fatto noto, ma non sapeva quanto. Parlavano l’antica lingua, e molti sapevano usare la magia. Dopo la caduta dei Cavalieri, gli elfi si erano ritirati in isolamento. Da allora, nessuno li aveva più visti nei territori dell’Impero. Allora perché lei è qui adesso? E come ha fatto l’Impero a catturarla? Se sa usare la magia, probabilmente l’hanno drogata come hanno fatto con me. Viaggiarono tutta la notte, senza fermarsi nemmeno quando la stanchezza cominciò a rallentarli. Continuarono malgrado gli occhi che bruciavano e i movimenti rigidi. Dietro di loro, schiere di uomini a cavallo con le fiaccole in mano battevano i dintorni di Gil’ead in cerca dei fuggitivi. Dopo molte ore di viaggio nell’oscurità, l’alba cominciò a rischiarare il cielo. In tacito accordo, Eragon e Murtagh fermarono i cavalli. «Dobbiamo accamparci» disse Eragon, sfinito. «Devo dormire... che ci prendano o no.» «Sono d’accordo» disse Murtagh, strofinandosi gli occhi. «Di’ a Saphira di atterrare e le andremo incontro.» Seguirono le istruzioni della dragonessa e la trovarono intenta a bere in un corso d’acqua ai piedi di una piccola rupe, l’elfa ancora inerte sulla sella. Saphira li accolse con un mugolio di gioia. Murtagh aiutò Eragon a sollevare l’elfa dalla groppa di Saphira per adagiarla a terra. Poi si accasciarono contro la parete di roccia, esausti. Saphira esaminò l’elfa, incuriosita. Mi chiedo come mai non si sia ancora svegliata. Sono passate ore da quando abbiamo lasciato Gil’ead. Chissà che cosa le hanno fatto, rispose Eragon cupo. Murtagh seguì il loro sguardo. «A quanto ne so, lei è il primo elfo che il re. abbia catturato. È da quando si sono ritirati in isolamento che il re li cerca senza successo... finora. Quindi o il re ha trovato il loro nascondiglio, oppure l’elfa è stata catturata per caso. Propendo per questa seconda ipotesi. Se avesse scoperto il loro rifugio, il re avrebbe dichiarato guerra e inviato tutto l’esercito. Dato che questo non è successo, la domanda è: gli uomini di Galbatorix sono riusciti a farsi dire da lei dove si trovano i suoi simili prima che la salvassimo?» «Non lo sapremo finché non avrà ripreso i sensi. Ma adesso raccontami che cosa è successo dopo che mi hanno catturato. Come sono finito a Gil’ead?» «Gli Urgali lavorano per l’Impero» disse Murtagh senza tanti preamboli, spingendo indietro i capelli con la mano. «E a quanto pare, anche lo Spettro. Saphira e io abbiamo visto gli Urgali consegnarti a lui... anche se al momento non sapevo chi fosse…e a un gruppo di soldati. Sono stati loro a portarti a Gil’ead.» È vero, confermò Saphira, accoccolandosi vicino a loro. La mente di Eragon tornò a quando aveva parlato con gli Urgali a Teirm, e al “padrone” che avevano menzionato. Volevano dire il re! Ho insultato l’uomo più potente di Alagaè’sia! comprese, intimorito. Poi rammentò l’orrore del massacro di Yazuac, e una sensazione di rabbia e di nausea crebbe dentro di lui. Gli Urgali hanno eseguito gli ordini di Galbatorix! Perché avrebbe commesso una simile atrocità contro i propri sudditi? Perché è malvagio, rispose Saphira in tono piatto. Furioso, Eragon esclamò; «Questo vuoi dire guerra! Quando i popoli dell’Impero lo sapranno, si ribelleranno per schierarsi con i Varden.» Murtagh posò il mento su una mano. «Anche se venissero a sapere di questa infamia, pochi si unirebbero ai Varden. Con gli Urgali ai suoi ordini, il re possiede abbastanza guerrieri da chiudere i confini dell’Impero e mantenere il controllo; non importa quanto il popolo gli sia ostile. Con questo regno del terrore, sarà in grado di manipolare l’Impero a suo piacimento. E per quanto la gente possa odiarlo, potrà sempre essere convinta di avere un nemico in comune con lui.» «E chi potrebbe essere?» domandò Eragon, confuso. «Gli elfi e i Varden. Diffondendo le giuste chiacchiere, verranno ritratti come i più odiosi mostri di Alagasëia...nemici che aspettano di impossessarsi delle loro terre e delle loro ricchezze. L’Impero potrebbe addirittura arrivare a dire che gli Urgali sono stati mal giudicati e che sono veri amici, alleati contro questi terribili nemici. Mi chiedo soltanto che cosa il re abbia promesso loro in cambio di questi servigi.» «Non funzionerebbe» disse Eragon, scuotendo il capo. «Chi si lascerebbe imbrogliare da un’assurdità come questa? Per giunta, perché il re vorrebbe una cosa del genere? Il potere è già suo.» «Ma la sua autorità viene sfidata di continuo dai Varden, per i quali il popolo ha simpatia. E poi c’è il Surda, che gli si oppone da quando si è separato dall’Impero. Galbatorix è potente all’interno dell’Impero, ma il suo braccio è debole al di fuori. E per quanto riguarda il lasciarsi imbrogliare, sai, la gente crederà a qualunque cosa lui dica. È già successo prima.» Murtagh cadde in silenzio, con lo sguardo perso in lontananza. Le sue parole avevano turbato Eragon. Saphira lo cercò con la mente. Ti sei chiesto dove sta mandando gli Urgali Galbatorix? Che cosa? Sia a Carvahall che a Teirm, hai sentito dire che gli Urgali stavano lasciando la regione per migrare a sud-est, come se fossero diretti nei Deserto di Hadarac. Se davvero il re li controlla, perché li manda da quella parte? Forse sta radunando un esercito Urgali per scopi personali, o forse stanno per fondare una città Urgali. Eragon rabbrividì all’idea. Sono troppo stanco per pensare. Qualunque sia il piano di Galbatorix, una cosa è certa: sarà fonte di guai Vorrei soltanto sapere dove si trovano i Varden, per poterli raggiungere, ma non possiamo fare niente senza Dormand. Qualunque cosa facciamo, l’Impero ci troverà. Non arrenderti, lo incoraggiò lei; poi aggiunse in tono sommesso: anche se probabilmente hai ragione. Grazie. Eragon guardò Murtagh. «Hai rischiato la vita per salvarmi; ho un debito con te. Non sarei mai riuscito a fuggire da solo.» Ma c’era qualcosa di più profondo tra loro, adesso, un legame forgiato dalla fratellanza in battaglia e temprato dalla lealtà che Murtagh aveva dimostrato. «Sono contento di essermi reso utile. La...» Murtagh non trovò le parole e si strofinò il viso. «La cosa che mi preoccupa di più in questo momento è dove andremo, con tanti uomini a darci la caccia. I soldati di Gil’ead domattina ci cercheranno, e quando avranno trovato le tracce dei cavalli capiranno che non sei volato via con Saphira.» Eragon assentì, cupo. «Come hai fatto a entrare al castello?» Murtagh ridacchiò. «Con una lauta mancia, infilandomi nel canale di scolo delle cucine. Disgustoso. Ma il piano non avrebbe funzionato senza Saphira. Lei» si interruppe e si rivolse direttamente alla dragonessa. «tu sei l’unica ragione per cui siamo ancora vivi.» Eragon le posò una mano sul collo squamoso in un gesto di affetto, e lei rispose con un borbottio grato. Poi il ragazzo contemplò a lungo il volto dell’elfa, rapito. Si alzò a malincuore. «Dovremmo prepararle un giaciglio.» Murtagh si alzò in piedi e distese una coperta per l’elfa. Quando ve la deposero, la manica della sua tunica si impigliò in un ramo e si strappò. Eragon fece per accostare i lembi dello strappo quando si fermò inorridito. Il braccio dell’elfa era coperto di lividi e tagli: alcuni vecchi, già in via di guarigione, altri ancora freschi e sanguinanti. Eragon scosse il capo con rabbia e le sollevò ancora di più la manica. Le ferite arrivavano fin sopra la spalla. Con dita tremanti, slegò i lacci della camicia chiusa sulla schiena, temendo ciò che avrebbe potuto trovare. Quando la pelle della tunica si aprì, Murtagh lanciò un’imprecazione. La schiena dell’elfa era forte e muscolosa, ma coperta di cicatrici che rendevano la sua pelle simile a uno strato di fango secco percorso da crepe. Era stata frustata senza pietà e marchiata con tenaglie arroventate. Dove la pelle era ancora intatta, era violacea e nera per i colpi ricevuti. Sulla spalla sinistra c’era un tatuaggio fatto con inchiostro indaco. Era lo stesso simbolo inciso sullo zaffiro dell’anello di Brom. Eragon giurò a se stesso che avrebbe ucciso chiunque si fosse reso responsabile di quelle torture. «Puoi guarirla?» gli chiese Murtagh. «lo... non lo so» rispose Eragon, e respinse a fatica un improvviso senso di nausea. «Le ferite sono così tante.» Eragon! intervenne Saphira. È un’elfa. Non puoi permettere che muoia. Stanco o no, affamato o no, devi salvarla. Unirò le mie forze alle tue, ma sarai tu a evocare la magia, Si.. hai ragione, mormorò, incapace di staccare gli occhi dall’elfa. Determinato, si tolse i guanti e disse a Murtagh: «Ci vorrà del tempo. Puoi procurarmi del cibo? E fai bollire qualche straccio per bendarla; non posso guarire tutte le ferite.» «Non è il caso di accendere il fuoco, potrebbero vederci» obiettò Murtagh. «Dovrai usare stracci non lavati, e il cibo sarà freddo.» Eragon fece una smorfia, ma annuì. Mentre posava con delicatezza una. mano sulla schiena dell’elfa, Saphira si accovacciò accanto a lui, gli occhi scintillanti fissi sulla fanciulla. Eragon inspirò a fondo, poi richiamò il potere magico e si mise all’opera. Pronunciò le antiche parole: «WaIse heill!» Sotto il suo palmo la bruciatura tremolò, e su di essa si formò uno strato di nuova pelle. intatta, che si richiuse senza lasciare alcuna cicatrice. Tralasciò lividi e ferite non gravi, perché guarirli tutti. gli avrebbe consumato tutta l’energia necessaria a curare quelli più gravi. Mentre lavorava, si meravigliò che l’elfa fosse ancora viva; era stata sottoposta a ripetute torture che l’avevano portata sull’orlo della morte con una precisione agghiacciante. Malgrado i suoi sforzi di rispettare l’intimità dell’elfa, Eragon non potè fare a meno di notare che il suo corpo martoriato era bellissimo. Era esausto e non si soffermò a lungo, anche se le sue orecchie si fecero rosse più di una volta. Sperò con tutto il cuore che Saphira non si accorgesse di quello che stava pensando. Lavorò per tutta la mattina, facendo solo qualche breve pausa per bere e mangiare, allo scopo di recuperare le energie perse con il digiuno, la fuga e ora la guarigione dell’elfa. Saphira rimase al suo fianco, infondendogli più forza possibile. Il sole era alto nel cielo quando finalmente Eragon si alzò, gemendo per i muscoli indolenziti. Le sue mani erano grigie e i suoi occhi asciutti e sabbiosi. Si avvicinò barcollando alle bisacce e bevve un lungo sorso dall’otre del vino. «È finita?» gli chiese Murtagh. Eragon annuì, tremante. Non aveva la forza di parlare. Il campo gli girava intorno; si sentì quasi svenire. Hai fatto un bel lavoro, lo rincuorò Saphira. «Ce la farà?» chiese ancora Murtagh. «Non... non lo so» balbettò Eragon con un filo di voce. «Gli elfi sono forti, ma nemmeno loro possono sopportare una violenza simile senza conseguenze. Se sapessi di più sulla magia guaritrice, potrei rianimarla, ma...» Fece un gesto d’impotenza. La mano gli tremava tanto che versò qualche goccia di vino. Un altro sorso lo aiutò a riprendersi. «Sarà meglio rimetterci in marcia.» «No! Devi dormire» protestò Murtagh. «Posso... posso dormire in sella. Non possiamo permetterci di restare qui, non con i soldati così vicini.» Murtagh si arrese a malincuore. «In questo caso guiderò io Fiammabianca, mentre tu riposi.» Sellarono i cavalli, legarono l’elfa su Saphira e abbandonarono il campo, Eragon mangiò mentre cavalcava, per recuperare un po’ d’energia; poi si abbandonò sul collo di Fiammabianca e chiuse gli occhi. 43 Acqua dalla sabbia Quando si fermarono per la notte, Eragon non si sentiva affatto meglio. Anzi: il suo umore era peggiorato. Avevano trascorso gran parte della giornata a compiere tortuose manovre nel tentativo di seminare i soldati, che stavano usando anche i cani per rintracciarli. Smontò da Fiammabianca e chiese a Saphira: Come sta? Non peggio di prima. Si è mossa qualche volta, nient’altro, Saphira si accucciò a terra per consentirgli di slegare l’elfa, dalla sella. Per un momento le morbide curve della fanciulla premettero contro il corpo di Eragon. Il ragazzo si affrettò a distenderla. Lui e Murtagh consumarono una cena leggera. Era una fatica immane, combattere il sonno che minacciava di sorprenderli a ogni istante. Finito di mangiare, Murtagh disse: «Non possiamo continuare di questo passo; non abbiamo guadagnato terreno sui soldati. Entro un giorno o due ci raggiungeranno.» «Che cos’altro possiamo fare?» sbottò Eragon. «Se fossimo solo noi due e tu fossi disposto a lasciare Tornac, Saphira potrebbe trasportarci. Ma con l’elfa? Impossibile.» Murtagh lo guardò intensamente. «Se vuoi andartene per conto tuo, non te lo impedirò. Non posso aspettarmi che tu e Saphira rischiate di essere catturati.» «Non m’insultare» borbottò Eragon. «L’unica ragione per cui, sono libero sei tu. Non ho alcuna intenzione di abbandonarti nelle mani dell’Impero. Bel ringraziamento sarebbe!» Murtagh chinò il capo. «Le tue parole mi confortano.» Fece una pausa. «Ma non risolvono il nostro problema.» «Che cosa potrebbe farlo?» fece Eragon. Indicò l’elfa. «Vorrei che ci dicesse dove sono gli elfi; forse potremmo cercare asilo da loro.» «Considerando quanto ci tengono a restare nascosti, dubito che lei ti rivelerebbe dove si trovano. E se anche lo facesse, quelli della sua razza potrebbero non accoglierci a braccia aperte. Gli ultimi Cavalieri con cui hanno avuto contatti sono stati Galbatorix e i Rinnegati. Non credo che ne serbino un bel ricordo. E io non possiedo nemmeno il dubbio onore di essere un Cavaliere come te. No, non credo che mi accetterebbero.» Sì, invece, disse Saphira in tono sicuro, spostando le ali in una posizione più comoda. Eragon si strinse nelle spalle. «Anche se fossero disposti a proteggerci, comunque non sappiamo come trovarli, ed è impossibile chiederlo all’elfa finché non riprende i sensi. Dobbiamo fuggire, ma da che parte? Nord, sud, est, ovest?» Murtagh intrecciò le dita e si premette i pollici contro le tempie. «Credo che l’unica cosa da fare sia lasciare l’Impero. I pochi posti sicuri entro i suoi confini sono molto lontani da qui. Sarebbe difficile raggiungerli senza essere catturati o seguiti. Non c’è nulla per noi a nord, tranne la foresta Du Weldenvarden... dove potremmo nasconderci, ma non mi piace l’idea di ripassare per Gil’ead. A ovest ci sono soltanto l’Impero è il mare. A sud c’è il Surda, dove potresti trovare qualcuno che ti indichi come arrivare ai Varden. Quanto all’est...» Scrollò le spalle. «A est c’è il Deserto di Hadarac fra noi e qualunque terra esista da quella parte. Forse i Varden si trovano lì, ma potremmo impiegare anni a scovarli.» Però saremmo al sicuro, osservò Saphira. Fintanto che non incontriamo gli Urgali, Eragon aggrottò la fronte, infastidito da un mal di testa che minacciava di offuscargli i pensieri. «È troppo pericoloso andare nel Surda. Dovremmo attraversare la maggior parte dell’Impero, evitando ogni città e villaggio. C’è troppa gente fra noi e il Surda per riuscire a passare inosservati.» Murtagh inarcò un sopracciglio. «Allora vuoi attraversare il deserto?» «Non vedo alternative. E poi così potremo lasciare l’Impero prima che arrivino i Ra’zac. Con le loro cavalcature volanti, probabilmente arriveranno a Gìl’ead in un paio di giorni, quindi non ci resta molto tempo.» «Ma se anche riusciamo ad arrivare al deserto prima di loro» disse Murtagh. «potrebbero comunque raggiungerci. Sarà difficile seminarli.» Eragon accarezzò le ruvide squame del fianco di Saphira. «Questo se diamo per scontato che riescano a seguire le nostre tracce. Per prenderci, però, dovranno lasciare indietro ì soldati, il che torna a nostro favore. Se si arriva a uno scontro, credo che noi tre potremo sconfiggerli... purché non ci tendano un agguato come è successo a me e a Brom.» «Poniamo di arrivare sani e salvi dall’altra parte del deserto» disse Murtagh. «E poi dove andremo? Quelle terre sono fuori dal raggio di azione dell’Impero, è vero, ma quante città credi di trovare? E poi c’è il deserto. Ne sai qualcosa?» «Solo che è caldo, secco e pieno di sabbia» confessò Eragon. «Appunto» replicò Murtagh. «Per non parlare di piante velenose e non commestibili, serpenti, scorpioni, e un sole cocente. Hai visto la grande pianura mentre andavamo verso Gil’ead?» La domanda era retorica, ma Eragon rispose ugualmente: «Sì, e anche un’altra volta prima.» «Allora sai che cosa significa la vastità. E quella pianura si trova nel cuore dell’Impero. Ora, immagina qualcosa che sia due o tre volte più grande, e comprenderai la vastità del Deserto di Hadarac. Quello che stai proponendo di attraversare.» Eragon cercò di figurarsi un territorio che rispondesse alla descrizione, ma non riuscì a coglierne le distanze. Prese la mappa di Alagasëia dalle bisacce. La pergamena sprigionò odore di muffa mentre lui la srotolava a terra. «Non mi sorprende che l’Impero finisca ai confini del deserto. Tutto ciò che esiste dall’altra parte è troppo lontano perché Galbatorix lo possa controllare.» Murtagh passò il dorso della mano sul lato destro della pergamena. «Tutto il territorio al di là del deserto, quello che ora è indicato da uno spazio vuoto, al tempo dei Cavalieri era sotto un unico dominio. Se il re ha intenzione di creare nuovi Cavalieri al suo comando, ciò gli consentirebbe di espandere l’Impero oltre misura. Ma non è questo il punto. Il Deserto di Hadarac è tanto vasto e contiene tanti pericoli che le probabilità di attraversarlo indenni sono minime. È un percorso disperato.» «Noi siamo disperati» disse Eragon, risoluto. Studiò la mappa con attenzione. «Se tagliassimo dritti al cuore del deserto, ci vorrebbe un mese, forse anche due, per attraversarlo. Ma se puntiamo verso sud-est, verso i Monti Beor, potremmo farcela molto prima. Così potremo scegliere se costeggiare i Beor puntando ancora più a est, oppure deviare a ovest per raggiungere il Surda. Se questa mappa è precisa, la distanza fra qui e i Beor è più o meno la stessa che abbiamo coperto fino a Gil’ead.» «Ma ci vorrà quasi un mese!» Eragon scosse il capo in un moto d’impazienza. «Il nostro viaggio fino a Gil’ead è stato lento perché ero ferito. Se ci impegniamo al massimo, ci vorrà molto meno per raggiungere i Monti Beor.» «Basta, mi hai convinto» disse Murtagh. «Ma c’è un grosso problema da risolvere. Come avrai notato, ho comprato viveri a sufficienza per noi e i cavalli mentre giravo per Gil’ead. Ma come facciamo per l’acqua? Le tribù nomadi che vivono nell’Hadarac di solito nascondono i pozzi e le oasi perché nessuno rubi loro l’acqua. E trasportarne una quantità che basti per più di una giornata è impossibile. Pensa solo a quanto beve Saphira! Lei e i cavalli consumano più acqua in una sola volta di quanta ne beviamo noi in una settimana. A meno che tu non sia capace di far piovere quando ci serve, non vedo come possiamo affrontare l’impresa che proponi.» Eragon si dondolò sui talloni. Far piovere andava ben oltre le sue capacità, e sospettava che nemmeno il più forte dei Cavalieri l’avesse mai fatto. Spostare una tale massa d’aria equivaleva a muovere una montagna. Aveva bisogno di una soluzione che non gli esaurisse tutte le energie. Chissà se è possibile trasformare la sabbia in acqua. Questo risolverebbe i nostri problemi, purché non richieda troppa fatica. «Ho un’idea» disse. «Lasciami fare un esperimento, e poi ti darò una risposta.» Eragon si allontanò dal campo, e Saphira lo seguì. Che cos’hai in mente? gli chiese. «Non lo so» borbottò lui. Saphira, tu saresti in grado di trasportare acqua per tutti noi? La dragonessa fece di no con l’enorme testa. Non potrei mai sollevare tutto quel peso, men che meno volare trasportandolo. Peccato. Eragon s’inginocchiò e raccolse una pietra con un incavo abbastanza grande da contenere qualche sorso d’acqua. Compresse una manciata di terra nell’incavo e lo studiò, pensoso.Ecco che veniva il difficile. In qualche modo doveva trasformare la terra in acqua. Ma quali parole devo usare? Riflette per qualche istante, poi ne scelse due, con la speranza che funzionassero. La magia del ghiaccio gli riverberò in tutto il corpo mentre infrangeva la familiare barriera e ordinava: «Deloi moi!» La terra cominciò all’istante ad assorbire la sua energia a un ritmo vertiginoso. La mente di Eragon tornò agli ammonimenti di Brom: c’erano imprese che gli avrebbero consumato tutta l’energia fino a portarlo alla morte. Si sentì afferrare lo stomaco dalla morsa del panico. Cercò di annullare la magia, ma non ci riuscì. Era legata a lui finché non avesse portato a termine il compito o non fosse morto. Non potè far altro che restare immobile, diventando sempre più debole, di minuto in minuto. Proprio mentre era ormai convinto che sarebbe morto lì inginocchiato, il terriccio tremolò e si trasformò in una quantità d’acqua tanto piccola da entrare in un ditale. Sollevato, Eragon si sedette, respirando a fatica. Il cuore gli batteva furioso, e aveva le viscere dilaniate dalla fame. Che cosa è successo? gli chiese Saphira. Eragon scosse il capo, ancora sconvolto per la rapida e violenta diminuzione delle forze. Era lieto di non aver provato a trasformare qualcosa di più grande. Questo... questo non funziona, disse. Non sono riuscito nemmeno a procurarmi da bere. Dovresti essere più cauto, lo rimproverò Saphira. La magìa può produrre risultati inattesi quando si combinano le antiche parole in nuovi modi. Lui la fulminò con un’occhiata. Lo so, ma era l’unico modo per mettere alla prova la mia idea. Non volevo aspettare di scoprirlo quando eravamo già nel deserto! Ma poi si rese conto che lei voleva soltanto aiutarlo. Come hai fatto a trasformare la tomba di Brom in diamante senza restare uccisa? Io ho rischiato dì morire solo per aver trasformato un mucchietto di terra. Non so come ho fatto, replicò lei, serafica. È successo e basta. Potresti farlo di nuovo, questa volta con l’acqua? Eragon, disse lei guardandolo dritto negli occhi. Io non ho più controllo sui miei poteri di quanto ne abbia un ragno. Cose come quella succedono che io lo voglia o meno. Brom ti ha detto che succedono cose strane intorno ai draghi. Ha detto la verità. Ma non ti ha dato spiegazioni, e nemmeno io le possiedo. A volte posso provocare dei cambiamenti d’istinto, senza quasi pensarci. Ma quasi sempre, come adesso, sono impotente come Fiammabianca. Tu non sei mai impotente, disse lui con dolcezza, accarezzandole il collo,.Per lunghi minuti rimasero in silenzio. Eragon ricordò la tomba che aveva fatto, e Brom che vi giaceva. Poteva ancora vedere l’arenaria che si richiudeva sul volto del vecchio. «Almeno gli abbiamo dato una degna sepoltura» mormorò. Prese a giocherellare distrattamente con le dita nella terra, disegnando dei solchi. Due solchi formavano una valle in miniatura, e così aggiunse delle montagne intorno. Con l’unghia grattò un fiume che scorreva nella valle, e poi scavò ancora perché non gli parve abbastanza profondo. Aggiunse qualche altro dettaglio finché non si ritrovò a contemplare una discreta riproduzione della Valle Palancar. Un nodo di nostalgia gli si formò in gola, e cancellò la valle con un gesto. Non voglio parlarne, borbottò arrabbiato, anticipando le domande di Saphira. Incrociò le braccia, lo sguardo furente fisso a terra. Controvoglia, con la coda dell’occhio tornò a guardare dove aveva scavato la terra. Raddrizzò la schiena di colpo, sorpreso. Sebbene il terreno fosse asciutto, il solco che aveva tracciato era ricoperto di umidità. Incuriosito, scavò altra terra e trovò uno strato umido a pochi pollici dalla superficie. «Guarda!» esclamò, eccitato. Saphira abbassò il muso per osservare la sua scoperta. E questo ci aiuta? L’acqua nel deserto sarà a una tale profondità che dovremo scavare per settimane prima di trovarla. Già, disse Eragon con passione, ma l’importante è che ci sia. Guarda! Scavò ancora, poi evocò la magia. Invece di trasformare la terra in acqua, si limitò a chiamare a raccolta l’umidità già presente nel suolo. Con un debole mormorio, l’acqua si riversò nel buco. Eragon sorrise e ne bevve un sorso dalle mani chiuse a coppa. Il liquido era fresco e puro, perfetto da bere. Capisci? Possiamo averne quanta ne vogliamo. Saphira annusò la pozza d’acqua. Qui sì. Ma nel deserto? Può darsi che non ce ne sia abbastanza da farla affiorare. Funzionerà, la rassicurò lui. Mi basta chiamare l’acqua, un compito non troppo diffìcile. Purché lo faccia piano, le mie forze reggeranno. Anche se dovessi attirare l’acqua da cinquanta passi dì profondità, non sarà un problema. Ci sarai tu ad aiutarmi. Saphira lo guardò dubbiosa. Sei sicuro? Pensaci bene, perché se ti sbagli, ci costerà la vita. Eragon esitò, poi dichiarò risoluto: Sono sicuro. Allora dillo a Murtagh. Resterò io di guardia mentre voi dormite. Ma anche tu sei rimasta sveglia tutta la notte come noi, protestò il ragazzo. Dovresti riposare. Starò bene... sono più forte di quanto pensi, disse lei. Le sue squame crepitarono quando si rannicchiò, lo sguardo vigile rivolto a nord, verso i loro inseguitori. Eragon l’abbracciò, e lei rispose con un mormorio profondo che le fece vibrare i fianchi. Vai. Lui indugiò ancora qualche istante, poi tornò da Murtagh, che gli chiese: «Allora? Si va a fare questa gita nel deserto?» «Sì» rispose Eragon. Si abbandonò sulle coperte e gli spiegò quello che aveva scoperto. Quando ebbe finito, si voltò verso l’elfa. Il suo viso fu l’ultima cosa che vide prima di addormentarsi. 44 Il fiume Ramr Si alzarono a malincuore prima dell’alba, sotto un cielo ancora grigio, Eragon rabbrividì nell’aria fredda. «Come facciamo a trasportare l’elfa? Non può continuare a cavalcare Saphira, perché alla lunga le verrebbero le piaghe, per via delle squame, Saphira non può reggerla fra le zampe: si stanca troppo e rende difficile l’atterraggio. Una slitta non va bene: finirebbe in pezzi a furia di sbatacchiare dietro i cavalli, e poi il peso di un’altra persona li rallenterebbe.» Murtagh riflette mentre sellava Tornac. «Se montassi tu Saphira, potremmo legare l’elfa su Fiammabianca.. ma ci sarebbe lo stesso il problema delle piaghe.» Ho la soluzione, intervenne Saphira. Perché non mi legate l’elfa alla pancia? Così potrò muovermi liberamente, e lei sarà più al sicuro che in qualunque altro posto. L’unico pericolo è se i soldati mi scagliano contro le frecce, ma posso prendere quota facilmente per evitarle. A nessuno dei due venne un’idea migliore: perciò si affrettarono a mettere in atto quella della dragonessa. Eragon piegò a metà una coperta per la lunghezza, la legò intorno all’esile corpo dell’elfa e poi la portò da Saphira. Altre coperte e abiti di ricambio vennero sacrificati per fabbricare funi abbastanza lunghe da circondare tutto il corpo di Saphira. Con quelle funi, l’elfa venne legata di schiena al ventre della dragonessa, con la testa sorretta dalle zampe davanti di Saphira. Eragon gettò un’occhiata critica al lavoro. «Temo che a furia di strofinarvi contro, le squame spezzeranno le funi.» «Allora di tanto in tanto le controlleremo» commentò Murtagh. Possiamo andare, adesso? disse Saphira, ed Eragon ripeté ad alta voce la domanda. Gli occhi di Murtagh s’illuminarono di una luce maliziosa, e un sorriso pericoloso gli affiorò sulle labbra. Scoccò un’occhiata nella direzione da cui erano venuti, dove si vedeva chiaramente il fumo dei soldati accampati, e disse: «Mi sono sempre piaciute le gare.» «E in questa è in palio la nostra stessa vita!» Murtagh montò in sella a Tornac e si avviò. Eragon lo seguì in groppa a Fiammabianca. Saphira prese il volo con l’elfa, tenendosi bassa per evitare di farsi scorgere dai soldati. Così schierati, i tre puntarono a sud-est, verso il remoto Deserto di Hadarac. Eragon continuava a gettarsi occhiate alle spalle, per paura degli inseguitori. La sua mente correva spesso all’elfa. Un’elfa! Non solo ne aveva vista una, ma lei era con loro! Si chiese che cosa ne avrebbe pensato Roran. Gli venne in mente che se mai fosse tornato a Carvahall, avrebbe avuto il suo daffare per convincere chiunque che le sue avventure erano successe davvero. Per il resto della giornata, Eragon e Murtagh galopparono a rotta di collo, ignorando il disagio e la fatica. Spronarono i cavalli quanto potevano senza arrivare a ucciderli. A volte smontavano e facevano un tratto a piedi, per dare modo a Tornac e Fiammabianca di riposare. Si fermarono soltanto due volte, per far mangiare e bere gli animali. Anche se i soldati di Gil’ead erano lontani, Eragon e Murtagh si trovarono costretti a evitare nuove truppe ogni volta che superavano una città o un villaggio. In qualche modo l’allarme era stato diffuso in tutto il territorio. Per ben due volte rischiarono di cadere in un agguato lungo la pista e riuscirono a cavarsela solo perché Saphira aveva fiutato i soldati appostati. Dopo il secondo incidente, decisero di abbandonare la pista tracciata. La luce del crepuscolo ammorbidì i contorni del paesaggio, mentre la sera avanzava nel cielo col suo nero mantello. Viaggiarono per tutta la notte, guadagnando miglio dopo miglio senza un attimo di tregua. A notte fonda, il terreno prese a incresparsi per formare una serie di basse colline punteggiate di cactus. Murtagh indicò in lontananza. «A qualche miglio di distanza c’è una città. Taurida, che dobbiamo aggirare. Sono sicuro che i soldati ci aspettano anche lì. Dovremmo cercare di passare ora che è buio.» Dopo tre ore avvistarono le luci gialle di Taurida. La città era circondata dai fuochi di bivacco dei soldati.di sorveglianza. Eragon e Murtagh avvolsero i foderi delle spade in un paio di stracci per attutirne il rumore e smontarono di sella con cautela. Condussero i cavalli a mano per un lungo e tortuoso percorso intorno a Taurida, le orecchie tese a cogliere il minimo rumore che potesse tradire la presenza di soldati. Quando si furono lasciati, la città alle spalle, Eragon si tranquillizzò un poco. L’alba era vicina, finalmente: il cielo assumeva una tinta rosata e il freddo non era più cosi intenso. Si fermarono in cima a una collina per scrutare i dintorni. Il fiume Ramr era alla loro sinistra, ma anche cinque miglia alla loro destra. Proseguiva verso sud per parecchie leghe, poi curvava su se stesso formando una stretta ansa prima di scorrere di nuovo verso ovest. Avevano percorso oltre sedici leghe in un giorno solo. Eragon si abbandonò sul collo di Fiammabianca, soddisfatto dei progressi. «Troviamo una gola o una forra dove poter dormire tranquilli» propose. Si fermarono vicino a un boschetto di ginepri e distesero le coperte sotto gli alberi. Saphira attese paziente che slegassero l’elfa dalla sua pancia. «Farò il primo turno di guardia e ti sveglierò a metà mattina» disse Murtagh, e posò la spada di traverso sulle ginocchia incrociate., Eragon borbottò il suo assenso e si tirò le coperte sulle spalle. L’imbrunire li trovò sfiniti e assonnati, ma decisi a pro-seguire. Mentre si preparavano a partire, Saphira fece notare a Eragon: Questa è la terza notte da quando siamo fuggiti da Gil’ead, e l’elfa non si è ancora svegliata, Sono preoccupata. Per giunta, continuò, non ha né bevuto né mangiato per tutto questo tempo. So poco degli elfi, ma lei è così esile che dubito che possa sopravvivere per molto senza cibo. «Che c’è?» chiese Murtagh, che stava preparando Tornac. «L’elfa» disse Eragon, guardandola. «Saphira è preoccupata perché non si è svegliata e non ha mangiato nulla; anch’io sono in pensiero. Le ho guarito le ferite, almeno quelle in superficie, ma non sembra che sia migliorata.» «Forse lo Spettro le ha manipolato la mente» suggerì Murtagh. «Allora dobbiamo aiutarla.» Murtagh s’inginocchiò accanto alla donna. La guardò con attenzione, poi scosse il capo e si alzò. «A me sembra che stia solo dormendo, come se potessi svegliarla con una parola o con un gesto. Eppure continua a dormire. Può darsi che il coma sia qualcosa che gli elfi possono provocare per sottrarsi al dolore,. ma se è così, perché non si risveglia? Non c’è più pericolo per lei.» «Ma lei lo sa?» osservò Eragon in tono sommesso. Murtagh gli posò una mano sulla spalla. «Per ora non possiamo far niente. Dobbiamo andarcene subito, o rischiamo di perdere il vantaggio. Potrai occupartene più tardi, quando ci fermeremo.» «Ancora una cosa» disse Eragon. Inzuppò uno straccio di acqua e poi lo strizzò sulle labbra dell’elfa, per farle arrivare qualche goccia. Ripetè l’operazione più volte, poi le tamponò la fronte e le sopracciglia oblique, sentendosi stranamente protettivo. Proseguirono attraverso le colline, evitando di salire sul crinale per paura di essere individuati dalle sentinelle. Saphira restò con loro sul terreno per la stessa ragione. Malgrado la sua mole, era agile e silenziosa; si udiva soltanto il lieve raspare della coda sul terreno, simile al movimento di un grosso serpente azzurro. Il cielo cominciò a rischiararsi a est. Aiedail, la stella del mattino, comparve mentre raggiungevano il margine coperto di arbusti di una riva scoscesa. L’acqua rumoreggiava di sotto mentre si frangeva sui massi e sciabordava contro i rami. «Il Ramr!» esclamò Eragon. Murtagh annuì. «Sì! Dobbiamo trovare un punto dove guadare.» Non è necessario, disse Saphira. Posso farvi attraversare io, non importa quanto è largo il fiume. Eragon guardò la sua grande sagoma azzurra. E i cavalli? Non possiamo lasciarli qui E sono troppo pesanti per te. Se non ci siete voi a montarli e non si agitano troppo, posso farcela. Se riesco a evitare nugoli di frecce con tre persone in groppa, potrò di certo trasportare in volo un cavallo da una riva all’altra. Ti credo, ma non tentiamo se non è necessario. È troppo pericoloso. La dragonessa scese lungo l’argine. Non possiamo permetterci di perdere tempo Eragon la seguì, conducendo Fiammabianca. L’argine terminava bruscamente sul Ramr. Il fiume scorreva nero e turbinoso. Una nebbiolina biancastra si levava dall’acqua, come sangue che fuma in un giorno d’inverno. Era impossibile scorgere l’altra sponda. Murtagh gettò un ramo nel corso d’acqua e lo guardò correre via, trascinato dalla corrente impetuosa, «Quanto credi che sia profondo qui?» domandò Eragon, «Non lo so» disse Murtagh, con una sfumatura di tensione nella voce. «Potresti stabilire quanto è largo con la magia?» «Non credo, non senza illuminare questo posto come un faro.» Sollevando un improvviso mulinello d’aria, Saphira si alzò in volo e sorvolò il Ramr. Dopo qualche minuto disse: Sono sull’altra riva. Il fiume è largo più di mezzo miglio, Non avreste potuto scegliere posto peggiore per attraversare; il Ramr qui compie una curva, ed è il punto più largo. «Mezzo miglio!» esclamò Eragon. A quel punto parlò a Murtagh della proposta di Saphira di trasportarli in volo. «Preferirei di no, per amore dei cavalli. Tornac non è abituato a lei come Fiammabianca. Potrebbe spaventarsi e fare del male a entrambi. Chiedi a Saphira di cercare acque basse dove poter guadare in sicurezza. Se non ne trova entro un miglio in entrambe le direzioni, allora immagino che dovremo accettare di essere traghettati da lei.» Saphira accolse la richiesta di cercare un guado. Mentre la dragonessa volava in ricognizione, i due si accovacciarono accanto ai cavalli e mangiarono del pane secco. Saphira tornò presto, le ali di velluto che sussurravano nel cielo dell’aurora, L’acqua è profonda e tumultuosa sia a monte che a valle, Appresa la notizia, Murtagh disse: «Allora vado prima io, così sorveglierò i cavalli.» Si arrampicò sulla sella di Saphira. «Pensa tu a Tornac, È con me da tanti anni e non voglio che gli accada niente.» Poi Saphira si alzò in volo. Quando tornò, non aveva più l’elfa legata al ventre. Eragon condusse Tornac dalla dragonessa, ignorando i nitriti spaventati del cavallo, Saphira s’impennò sulle zampe dietro per reggere il cavallo sotto la pancia con quelle davanti, Eragon guardò i suoi artigli poderosi e disse: «Aspetta!» Sfilò il sottosella di Tornac e glielo legò sotto la pancia per proteggerlo, poi fece cenno a Saphira di procedere. Tornac sbuffò spaventato e tentò di scappare quando le zampe di Saphira si chiusero intorno a lui, ma lei lo tenne stretto. Il cavallo roteò gli occhi terrorizzato, mostrando il bianco intorno alle pupille dilatate, Eragon cercò di calmarlo con la mente, ma il panico del cavallo gli impedì di raggiungerlo. Prima che Tornac tentasse ancora di fuggire. Saphira spiccò un balzo verso il cielo, aiutandosi con una spinta così poderosa delle zampe dietro che le unghie incisero la roccia. Torse al massimo le ali, nello sforzo di sollevare l’enorme peso. Per un momento parve quasi sul punto di ripiombare a terra. Poi, con uno scatto dei muscoli, sfrecciò verso il cielo. Tornac nitrì di terrore, scalciando come un forsennato. Le sue grida erano terribili, come graffi su metallo. Eragon imprecò ad alta voce, poi si pentì, temendo che qualcuno avesse potuto sentirlo. Farai meglio a muoverti., Saphira. Nell’attesa, continuò a tenere le orecchie ben aperte e a scrutare l’orizzonte nero, in cerca delle luci rivelatrici delle fiaccole. Il suo sguardo incontrò ben presto una linea di uomini a cavallo che scendevano lungo un dirupo a quasi una lega di distanza. Quando Saphira atterrò da lui, Eragon le portò Fiammabianca. Quello stupido animale di Murtagh ha avuto un attacco isteric. Murtagh. ha dovuto legarlo per impedirgli di fuggire. Afferrò Fiammabianca e lo trasportò dall’altra parte, ignorando le sonore proteste dell’animale. Eragon la guardò allontanarsi. Si sentì all’improvviso solo nella notte. I soldati erano a solo un miglio di distanza. Finalmente Saphira tornò a prenderlo, e poco dopo si ritrovarono tutti insieme sulla terraferma, con il Ramr alle spalle. Una volta acquietati i cavalli e sistemate le selle, ripresero la loro corsa verso i Monti Beor. L’aria riecheggiava dei canti degli uccelli che salutavano un nuovo giorno. Eragon sonnecchiava mentre cavalcava. Era così stanco che non si accorse che Murtagh era intontito dal sonno quanto lui. Ci furono momenti in cui non guidarono nemmeno i cavalli, e fu soltanto la vigilanza di Saphira che impedì loro di perdere la rotta. Alla fine il terreno divenne soffice e cedevole, costringendoli a fermarsi. Il sole splendeva alto nel cielo. Il Ramr non era più che una linea indistinta dietro di loro. Avevano raggiunto il Deserto di Hadarac. 45 Il deserto di Hadarac Un’immensa distesa di dune si dilatava verso l’orizzonte come un tappeto di onde in un oceano. Le raffiche di vento sollevavano mulinelli di sabbia color rame. Alberi contorti e scheletrici crescevano qua e là sul raro terreno solido, terreno che un contadino avrebbe dichiarato inadatto a qualsiasi tipo di coltivazione. In lontananza si ergeva una linea di alture purpuree. In quella desolazione assoluta non c’era ombra di animale, tranne un uccello che si lasciava trasportare dagli zefiri. «Sei sicuro che troveremo da mangiare per i cavalli?» domandò Eragon, la bocca impastata. L’aria secca e calda gli irritava la gola. «Vedi quelle?» disse Murtagh, indicando le rocce scoscese. «Intorno a loro cresce un’erba bassa e tenace, ma per i cavalli andrà bene.» «Spero che tu abbia ragione» disse Eragon, socchiudendo gli occhi per schermarli dai raggi infuocati. «Ma prima di proseguire, facciamo una sosta. La mia mente va a rilento come una lumaca, e a stento riesco a muovere le gambe.» Slegarono l’elfa dal ventre di Saphira, mangiarono e poi si distesero all’ombra di una duna per un breve riposo. Mentre Eragon si sistemava sulla sabbia, Saphira si accucciò accanto a lui e distese le grandi ali su di loro. È un posto meraviglioso, disse. Potrei passarci anni e non notare lo scorrere del tempo. Eragon chiuse gli occhi. Sarebbe un buon posto per volare, notò insonnolito. Non è solo questo. Ho come la sensazione di essere fatta per questo deserto. C’è tutto lo spazio che mi serve, montagne dove posso appollaiarmi, e prede che si mimetizzano da cacciare per giorni e giorni. E il calore! Il freddo non mi disturba, ma questo calore mi fa sentire viva, piena di energia. Tese il collo verso il cielo, stiracchiandosi felice. Ti piace così tanto? bofonchiò Eragon. Sì. Allora, quando tutto questo sarà finito, magari potremmo tornare... Si addormentò mentre ancora parlava. Saphira lo guardò con affetto e mugolò dolcemente mentre lui e Murtagh dormivano. Era la mattina del quarto giorno da quando erano partiti da Gil’ead. Avevano già coperto trentacinque leghe. Dormirono quel tanto che bastò loro a schiarirsi la mente e far riposare i cavalli. Non si vedevano soldati in lontananza, ma non per questo si concessero di rallentare il ritmo di marcia. Sapevano che l’Impero avrebbe continuato a cercarli finché non si fossero trovati molto oltre il raggio d’azione del re. Eragon disse: «I messaggeri devono aver portato a Galbatorix la notizia della mia fuga, e lui avrà già avvertito i Ra’zac. Ormai saranno di sicuro sulle nostre tracce. Occorrerà loro del tempo per trovarci, anche volando, ma dobbiamo tenerci pronti a qualsiasi evenienza.» E questa volta scopriranno che non bastano le catene a trattenermi, dichiarò Saphira. Murtagh si grattò il mento. «Spero che non siano in grado di seguirci dopo Taurida. Il Ramr è stato un ottimo espediente per seminare i nostri inseguitori; è verosimile che non riescano più a trovare le nostre tracce.» «Speriamo davvero» disse Eragon osservando l’elfa. Le sue condizioni erano immutate; ancora non reagiva alle sue cure. «Ma in questo momento non mi sento di riporre fiducia nella fortuna. I Ra’zac potrebbero essere sulle nostre tracce anche in questo momento.» Al tramonto raggiunsero le alture rocciose che la mattina avevano visto da lontano. Le rupi imponenti torreggiavano su di loro, proiettando ombre sottili. Attorno non c’erano dune per un raggio di mezzo miglio. Il calore aggredì Eragon come un colpo di maglio quando smontò da Fiammabianca e posò i piedi sul terreno arido e screpolato. Aveva nuca e viso bruciati; la sua pelle era bollente. Dopo aver legato i cavalli dove potevano ruminare quel poco di erba che c’era, Murtagh accese un piccolo falò. «Quante miglia credi che abbiamo percorso?» chiese Eragon slegando l’elfa. «Non lo so!» sbottò Murtagh. Anche lui aveva la pelle arrossata, e gli occhi iniettati di sangue. Prese una pentola e lanciò un’imprecazione. «Non abbiamo abbastanza acqua. E i cavalli devono bere.» Eragon si sentiva irritato quanto lui per il caldo e l’arsura, ma non perse il controllo. «Portami i cavalli.» Saphira scavò una buca per lui con i poderosi artigli; Eragon chiuse gli occhi e pronunciò l’incantesimo. Sebbene il terreno fosse arido, conteneva abbastanza umidità da nutrire la scarsa vegetazione e il ragazzo riuscì a riempire d’acqua la buca più di una volta. Murtagh colmò gli otri via via che l’acqua si raccoglieva nella buca, poi si fece da parte per lasciar bere i cavalli. Gli animali assetati bevvero a barili. A Eragon toccò cercare l’acqua più in profondità per soddisfarli, e lo sforzo lo lasciò quasi senza più energie. Quando i cavalli furono satolli, disse a Saphira: Se devi bere, fallo adesso. Il collo della dragonessa lo aggirò come la spira di un serpente, e la grande testa azzurra affondò nella buca; ma Saphira bevve soltanto due lunghi sorsi, non di più. Prima di lasciare che l’acqua rifluisse nel suolo, Eragon ne bevve il più possibile, poi guardò le ultime gocce svanire nel terreno. Mantenere l’acqua in superficie si era rivelato più impegnativo del previsto. Almeno fa parte delle mie capacità, si disse, ripensando divertito a quale fatica immane gli era costata sollevare perfino un sassolino. L’aria era gelida quando si alzarono, il giorno dopo. La sabbia aveva una sfumatura rosa nelle prime luci del mattino, e aleggiava una caligine grigiastra che nascondeva l’orizzonte. L’umore di Murtagh non era migliorato con la dormita, ed Eragon scoprì che anche il suo andava peggiorando rapidamente. Durante la colazione, domandò: «Credi che manchi molto alla fine del deserto?» Gli occhi di Murtagh lampeggiarono di collera. «Ne stiamo attraversando una parte molto piccola, perciò immagino che ci vogliano ancora due o tre giorni.» «Ma abbiamo fatto tanta strada.» «D’accordo forse di meno! L’unica cosa che mi preme in questo momento è uscire dall’Hadarac il più in fretta possibile. Quello che stiamo facendo è già abbastanza duro: ci manca solo che cominciamo a contare ogni cinque minuti i granelli di sabbia calpestati.» Finirono di mangiare, e poi Eragon andò dalTelfa. Dormiva un sonno profondo; sembrava un cadavere, se non fosse stato per il respiro regolare. «Dov’è la tua ferita?» sussurrò Eragon, scostandole una ciocca di capelli dal viso. «Come puoi dormire così e restare in vita?» L’immagine di lei, vigile e tesa nella cella, era ancora vivida nella sua memoria. Preoccupato, preparò l’elfa per il viaggio, poi sellò Fiammabianca e montò. Mentre lasciavano il campo, all’orizzonte cominciarono a delinearsi delle sagome scure, indistinte nell’aria polverosa, Murtagh pensò che fossero colline distanti. Eragon non ne era convinto, ma non riusciva a scorgere altri dettagli. Il dramma dell’elfa gli occupava la mente. Era sicuro di dover fare qualcosa per lei, altrimenti sarebbe morta: ma non sapeva che cosa. Saphira era preoccupata quanto lui. Ne parlarono per ore, ma nessuno di loro ne sapeva abbastanza di arti mediche da poter risolvere il problema. Intorno a mezzogiorno fecero una breve sosta. Quando ripresero il cammino, Eragon notò che la foschia si era diradata dalla mattina, e che le remote sagome scure apparivano più nitide,.Non, erano più confuse macchie violacee, ma grandi alture coperte di foreste dal profilo netto. L’aria sopra di loro era biancastra, come se fosse scomparso ogni colore dalla striscia di cielo che sovrastava le colline e si estende va per tutto l’orizzonte, Eragon osservò il paesaggio, perplesso, ma più cercava una spiegazione a quello che vedeva, più era confuso. Battè le palpebre e scosse la testa, pensando che fosse un’illusione ottica dovuta all’aria del deserto. Ma quando riaprì gli occhi, l’inquietante, incongruo spettacolo era ancora lì. Il biancore copriva metà del cielo davanti a loro. Certo che ci fosse qualcosa di terribilmente sbagliato, fece per indicarlo a Murtagh e Saphira, quando all’improvviso capì che cosa stava osservando. Quelle che avevano scambiato per colline erano le pendici più basse di gigantesche montagne, vaste miglia e miglia. Tranne che per le fitte foreste che ne coprivano la base, le montagne erano interamente coperte di neve e ghiaccio. Era stato questo a far credere a Eragon che il cielo fosse bianco. Cercò di scorgerne i picchi, ma non erano visibili. Le montagne si stagliavano verso il cielo fino a scomparire alla vista. Valli strette e frastagliate, con le pareti che quasi si sfioravano, fendevano i loro fianchi come profonde ferite. Sembrava di essere davanti a una muraglia scabra e dentellata che collegava Alagasëia ai cieli. Non hanno fine! pensò, stupefatto. Le storie che parlavano dei Monti Beor esaltavano sempre le loro dimensioni, ma lui aveva pensato che si trattasse di esagerazioni allo scopo di impreziosire i racconti. Ora, tuttavia, era costretto a riconoscerne l’autenticità. Saphira avvertì il suo stupore e seguì il suo sguardo. Non le ci vollero che pochi secondi per riconoscere le montagne per quello che erano. Mi sento di nuovo un cucciolo, qui. In confronto a loro, perfino io sono minuscola! Dobbiamo essere vicini ai margini del deserto, disse Eragon. Ci sono voluti solo due giorni e già vediamo dall’altra parte! Saphira volò in cerchio sopra le dune. Già, ma considerando la mole di quelle vette, potrebbero essere distanti ancora una cinquantina di leghe. È difficile calcolare le distanze davanti a qualcosa di così immenso. Non credi anche tu che sarebbero un nascondiglio perfetto per gli elfì o i Varden? Ci si potrebbe nascondere ben altro che gli elfì o i Varden, sentenziò Eragon. Intere nazioni potrebbero esistere in segreto lassù, nascoste all’Impero. Immagina di vivere con quei colossi che incombono su di te! Fece avvicinare Fiammabianca a Murtagh e indicò in lontananza, con un sogghigno. «Cosa?» grugnì Murtagh, scrutando il territorio. «Guarda meglio» lo esortò Eragon. Murtagh osservò con attenzione l’orizzonte. Scrollò le spalle. «Cosa? Io non...» Le parole gli morirono sulle labbra, e la mascella minacciò di staccarglisi per lo stupore. Scosse la testa, mormorando: «È impossibile!» Strinse tanto gli occhi da ridurli a fessure. «Sapevo che i Monti Beor erano grandi, ma non mi aspettavo questi mostri!» «Speriamo che gli animali che li abitano non siano proporzionati alle montagne» scherzò Eragon. Murtagh sorrise. «Perché non ci troviamo un bel posticino comodo e ci prendiamo qualche settimana di vacanza? Ne ho abbastanza di questa marcia forzata.» «Anch’io non ce la faccio più» ammise Eragon. «ma non voglio fermarmi finché l’elfa non si riprende... o muore.» «Non vedo come continuare il viaggio possa aiutarla» disse Murtagh, pensieroso. «Un buon letto le farà meglio che restarsene appesa tutto il giorno alla pancia di Saphira.» Eragon si strinse nelle spalle. «Può darsi... Quando raggiungiamo le montagne, potrei portarla nel Surda: non è lontano. Lì troveremo sicuramente un guaritore che possa curarla; noi non possiamo.» Murtagh si schermò gli occhi con la mano e guardò le montagne. «Ne riparleremo in seguito. Per adesso il nostro obiettivo è raggiungere i Beor. Lì, se non altro, i Ra’zac avranno non pochi problemi a scovarci, e saremo al sicuro dall’Impero.» Le ore passavano, ma i Monti Beor non sembravano avvicinarsi, anche se il paesaggio mostrava drastici cambiamenti. La sabbia si trasformò lentamente da una distesa di granelli rossicci a un terreno compatto, color crema. Al posto delle dune c’erano macchie irregolari di vegetazione e profondi solchi lasciati dalle alluvioni. Accolsero con sollievo una brezza fresca che dissipò il caldo torrido. I cavalli sentirono il cambiamento di clima e si lanciarono al galoppo. Quando la sera oscurò il sole, le colline ai piedi dei monti erano a solo un miglio di distanza. Branchi di gazzèlle saltellavano fra prati folti d’erba alta. Eragon colse Saphira che le adocchiava famelica. Si accamparono vicino a un corso d’acqua, lieti di essere usciti dalle grinfie del Deserto di Hadarac. 46 Il percorso svelato Sfiniti e smunti, ma pronti ad aprirsi in grandi sorrisi di trionfo, si sedettero intorno al fuoco congratulandosi a vicenda. Saphira ruggì di gioia, spaventando i cavalli. Eragon fissava le fiamme. Era orgoglioso di aver coperto sessanta leghe in cinque giorni. Era un’impresa notevole, perfino per un cavaliere in grado di cambiare cavalcatura regolarmente. Sono fuori dall’Impero. Era un pensiero strano. Era nato nell’Impero, era sempre vissuto sotto il regno di Galbatorix, aveva perso la famiglia e i suoi migliori amici per colpa dei suoi servi, ed era stato più volte sul punto di morire nel suo dominio. Adesso era libero. Lui e Saphira non sarebbero più stati costretti a seminare soldati, evitare le città o nascondere la loro identità. Era una constatazione dal sapore agrodolce, perché gli costava la perdita del suo mondo. Alzò gli occhi alle stelle che luccicavano nel firmamento. E anche se il pensiero di costruirsi una casa nella sicurezza dell’isolamento lo attirava, era stato testimone di troppe atrocità commesse in nome di Galbatorix, dall’omicidio alla schiavitù, per volgere le spalle all’Impero. Non era più soltanto una questione di vendetta per la morte di Garrow e di Brom: da Cavaliere, era suo dovere difendere coloro che non avevano la forza di resistere alla tirannia di Galbatorix. Con un sospiro abbandonò le sue meditazioni e guardò l’elfa distesa accanto a Saphira. La luce arancione del falò dava al suo volto una calda morbidezza. Piccole ombre le danzavano sotto gli zigomi. Piano piano nella sua mente andò formandosi un’idea. Eragon poteva sentire i pensieri delle persone e degli animali - e comunicare con loro in quella maniera, se voleva - ma era una cosa che aveva fatto di rado, tranne che con Saphira. Ricordava sempre rammonimento di Brom: non violare la mente di una persona se non è assolutamente necessario. Salvo quell’unica volta in cui aveva tentato di sondare la coscienza di Murtagh, Eragon si era trattenuto dal farlo. Ora, tuttavia, cominciava a chiedersi se fosse possibile parlare all’elfa immersa in quel sonno indefinito. Potrei riuscire a capire dai suoi ricordi perché rimane così remota. Ma se poi si riprende, mi perdonerà per questa intrusione? Comunque finisca, devo tentare. È in queste condizioni da quasi una settimana. Senza parlare delle sue intenzioni né con Murtagh né con Saphira, s’inginocchiò al fianco dell’elfa e le posò il palmo sulla fronte. Eragon chiuse gli occhi ed estese un filamento di pensiero, come per saggiare il terreno, verso la mente dell’elfa. La trovò senza difficoltà. Non era confusa o piena di dolore cóme si era aspettato, ma lucida e cristallina, come una nota emessa da una campana di vetro. All’improvviso un pugnale di ghiaccio gli trapassò il cervello. Un dolore lancinante gli esplose dietro gli occhi, schizzando spruzzi di colore. Provò a sottrarsi all’attacco, ma si ritrovò prigioniero in una morsa di ferro.. Eragon lottò come un disperato, facendo ricorso a ogni difesa che riusciva a immaginare. Il pugnale lo colpì di nuovo. Allora innalzò freneticamente le proprie barriere per attutire l’impatto. Il dolore fu meno lacerante della prima volta, ma gli fece perdere la concentrazione. L’elfa ne approfittò per schiacciare le sue difese. Una coltre soffocante lo avvolse, spegnendogli i pensieri. La forza soverchiante lentamente si contrasse, spremendo da lui la vita goccia a goccia, anche se tentava di resistere, perché non voleva arrendersi. L’elfa strinse la morsa ancora più forte, per estinguerlo come una candela. Disperato, Eragon gridò nell’antica lingua: «Eka ai fricai un Shur’tugal!» “Sono un Cavaliere e un amico!” L’abbraccio mortale non si allentò, ma la stretta si fermò e da lei emanò sorpresa. Un secondo dopo seguì il sospetto, ma Eragon sapeva che lei gli avrebbe creduto: non poteva mentire nell’antica lingua. Tuttavia, per quanto avesse detto di essere un amico, questo non significava che non volesse farle del male. Per quanto ne sapeva lei, Eragon si riteneva un amico, e ciò rendeva vera l’affermazione dal suo punto di vista, ma lei poteva non considerarlo tale. L’antica lingua ha i suoi limiti, pensò Eragon, sperando che l’elfa fosse abbastanza curiosa da correre il rischio di lasciarlo libero. Lo fu. La pressione si allentò, e le barriere intorno alla mente di lei si abbassarono esitanti. L’elfa permise che i loro pensieri si toccassero con circospezione, come due animali selvaggi quando s’incontrano per la prima volta. Un brivido freddo corse lungo la spina dorsale di Eragon. La mente di lei era remota. Era vasta e potente, carica di ricordi di innumerevoli anni. Pensieri oscuri aleggiavano lontani dalla vista e dal contatto; manufatti della sua razza lo fecero rabbrividire quando gli sfiorarono la coscienza: Eppure attraverso tutte le sensazioni scintillava una melodia di selvaggia, ipnotica bellezza, che incarnava la sua identità, Come ti chiami? gli domandò lei, nell’antica lingua. La sua voce era stanca, incrinata da una quieta disperazione, Eragon, E tu? La coscienza di lei lo attirò più vicino, invitandolo a immergersi nelle correnti dei suo sangue. Lui si oppose al richiamo con difficoltà, anche se il suo cuore anelava ad accoglierlo. Per la prima volta comprese la malìa degli elfi. Erano creature magiche, libere dalle leggi mortali della terra, diverse dagli esseri umani come i draghi lo erano dagli animali. ... Arya. Perché mi hai chiamata in questo modo? Sono ancora prigioniera dell’Impero? No, sei libera! disse Eragon. Anche se conosceva poche parole dell’antica lingua, riuscì a formulare il messaggio: Anch’io ero prigioniero a Gil’ead, ma sono fuggito e, ti ho salvata. Da allora sono passati cinque giorni; abbiamo attraversato la regione più stretta del Deserto di Hadarac e ora siamo accampati ai piedi dei Monti Beor, io, il mio amico e la dragonessa Saphira. Per tutto questo tempo tu non ti sei mossa né hai detto una parola. Ah... e così era Gil’ead. Fece una pausa. So che le mie ferite sono state sanate, ma non capivo perché... per prepararmi a qualche nuovo tipo di tortura, pensavo. Ora capisco che sei stato tu. In tono più dolce aggiunse: Malgrado questo, non mi sono risvegliata, e tu sei perplesso. Sì. Durante la prigionia mi hanno dato un raro veleno, lo Skilna Bragh, insieme a una, droga per sopprimere i miei poteri. Ogni mattina mi davano l’antidoto per quel veleno: per forza, se mi rifiutavo. Senza di esso sarei morta nel giro di poche ore. Ecco perché sono in trance... rallenta l’effetto dello Skilna Bragh, anche se non può fermarlo,.. Ho pensato di svegliarmi per porre fine alla mia esistenza e negare a Galbatorix la soddisfazione di, tenermi prigioniera, ma mi sono trattenuta, nella speranza che tu fossi un alleato... La sua voce si spense in un soffio. Quanto a lungo puoi rimanere in questo stato? chiese Eragon. Per settimane, ma temo che non mi resti più molto tempo. Questo sonno non può bloccare la morte per sempre. La sento già nelle mie vene. Se non ricevo presto l’antidoto, mi arrenderò al veleno in tre, quattro giorni Dove si trova l’antidoto? Esiste soltanto in due luoghi al di fuori dell’Impero: tra la mia gente e dai Varden. Purtroppo la mia casa è ben più lontana di un volo di drago. E i Varden? Avremmo voluto portarti da loro, ma non sappiamo dove sono. Te lo dirò... semi dai la tua parola che non rivelerai mai dove si trovano a Galbatorix o a chiunque lo serva, E dovrai giurarmi che non mi hai ingannata in alcun modo e che non hai intenzione di fare del male.agli elfì, ai nani, ai Varden o alla razza dei draghi. Quello che chiedeva Arya era abbastanza semplice, se non avessero conversato nell’antica lingua. Eragon sapeva che lei pretendeva un giuramento più vincolante della vita stessa. Una volta fatto, non avrebbe mai potuto essere infranto. Ne sentì il peso mentre impegnava solennemente la sua parola. Giuro di... Una serie di immagini vertiginose gli balenò nella mente all’improvviso. Si ritrovò a cavalcare lungo la catena dei Beor, viaggiando per molte leghe verso oriente. Fece del suo meglio per ricordare il percorso, mentre monti aguzzi e colline gli passavano accanto di corsa. Ecco che puntava a sud, seguendo ancora le montagne. Poi tutto vorticò bruscamente, e il ragazzo entrò in una valle stretta e tortuosa che serpeggiava attraverso le montagne, alla base di una cascata spumeggiante che si riversava in un profondo lago. L’immagine si fermò. È lontano, disse Arya, ma non farti scoraggiare dalla distanza. Quando arriverai al Lago Kóstha-mérna, alla fine del fiume Zannadorso, raccogli una pietra, battila contro la rupe vicino alla cascata e grida: Ai varden abr du Shur’tugals gata vanta. Verrai ammesso. Probabilmente ti sfideranno, ma non vacillare, per quanto possa sembrarti pericoloso. Che cosa dovrebbero darti contro il veleno? chiese lui. Le tremò la voce, ma poi riprese le forze. Di’ loro... di darmi il Nettare di Tùnivor. Adesso devi lasciarmi... ho consumato già troppe energie. Non provare più a parlarmi, a meno che tu non ce la faccia a raggiungere i Varden. In quel caso, c’è un’informazione che dovrò darti perché i Varden sopravvivano. Addio, Eragon. Cavaliere dei Draghi... la mia vita è nelle tue mani. Arya si ritrasse dal contatto. Le melodie ultraterrene che erano echeggiate durante rincontro svanirono. Eragon rabbrividì e si costrinse ad aprire gli occhi. Murtagh e Saphira erano al suo fianco e lo osservavano preoccupati. «Stai bene?» gli chiese Murtagh. «Sei rimasto li immobile per quasi un quarto d’ora.» «Davvero?» disse Eragon, battendo le palpebre. Sì, e avevi l’espressione di un gargoyle col mal di stomaco, commentò Saphira, asciutta. Eragon si alzò, massaggiandosi le ginocchia indolenzite. «Ho parlato con Arya!» Murtagh inarcò un sopracciglio, come se si stesse chiedendo se era uscito di senno. «L’elfa» spiegò Eragon. «Si chiama così.» E che cosa può guarirla? domandò Saphira, impaziente. Eragon raccontò loro tutta la conversazione. «Quanto sono lontani i Varden?» chiese Murtagh. «Non ne sono sicuro» confessò Eragon. «Da quello che mi ha mostrato, il loro rifugio è più lontano che da qui a Gil’ead.» «E dovremmo riuscire a farcela in tre o quattro giorni?» esclamò Murtagh, infuriato. «Ma se ci abbiamo messo cinque lunghissimi giorni per arrivare qui! Che intenzioni hai? Di uccidere i cavalli? Sono stremati.». «Ma se non facciamo niente, lei morirà! Se è troppo per i cavalli, Saphira potrà volare avanti con me e Ayra; almeno arriveremo dai Varden in tempo. Tu potrai raggiungerci con calma.» Murtagh sbuffò e incrociò le braccia. «Ovvio. Murtagh, la bestia da soma. Murtagh, lo scudiero. Avrei dovuto ricordare che di questi tempi non servo ad altro. Oh, e non dimentichiamoci che ogni soldato dell’Impero mi sta cercando perché, guarda caso, tu non sei stato capace di difenderti e sono dovuto venire io a salvarti. Già, suppongo che seguirò le tue istruzioni e porterò i cavalli, da bravo servo.» Eragon rimase sconcertato dall’improvviso veleno nella voce di Murtagh. «Ma cosa ti prende? Ti sono molto riconoscente per quello che hai fatto. Non c’è motivo di arrabbiarti con me! Non ti ho chiesto io di accompagnarmi o di salvarmi da Gil’ead. L’hai scelto tu. Non ti ho costretto.» «Oh, non apertamente, no. Ma che altro potevo fare, se non aiutarti con i Ra’zac? E poi, a Gil’ead, come potevo lasciarti lì e avere la coscienza a posto? Il problema con te» disse Murtagh, puntando l’indice contro il petto di Eragon «è che sei così sprovveduto che costringi chiunque a prendersi cura di te!» Le parole punsero Eragon sul vivo; riconobbe un seme di verità in esse. «Non mi toccare» sibilò. Murtagh scoppiò in una risata dura. «Altrimenti che cosa fai? Mi prendi a pugni? Ma se non sai nemmeno...» Fece per pungolarlo di nuovo col dito, quando Eragon gli afferrò il braccio e lo colpì allo stomaco. «Ho detto non mi toccare!» Murtagh si piegò in due, imprecando. Poi urlò e si avventò su Eragon. Caddero rotolandosi in un groviglio di braccia e gambe. Nessuno dei due sembrava voler risparmiare all’avversario duri colpi. Eragon sferrò un calcio verso il fianco destro di Murtagh, lo mancò e prese in pieno il falò. Scintille e tizzoni volarono dappertutto. Continuarono a. picchiarsi, avvinghiati, cercando di assumere una posizione di vantaggio. Eragon riuscì a infilare i piedi sotto il torace di Murtagh e spinse con tutte le forze, Murtagh volò oltre la sua testa con una capriola, e atterrò dì schiena, con uno schianto secco. Il fiato gli uscì dalla gola con un rantolo. Si rialzò e si volse di scatto, ansante, per affrontare Eragon. Si scagliarono di nuovo l’uno contro l’altro. La coda di Saphira piombò fra di loro, con un ruggito assordante. Eragon ignorò la dragonessa e cercò di scavalcare il serpente azzurro con un salto, ma lei gli fece lo sgambetto con una zampa artigliata e lo spedì a terra. Basta! Invano Eragon cercò di spostare la zampa muscolosa di Saphira dal petto, e vide che anche Murtagh era immobilizzato come lui. Saphira ruggì ancora, facendo schioccare le fauci. Voltò la testa verso Eragon e lo perforò con occhi lampeggianti. Proprio voi! Azzuffarvi come cani randagi per un avanzo di carne. Che cosa direbbe Brom! Eragon si sentì avvampare e distolse lo sguardo. Sapeva benissimo che cosa avrebbe detto Brom. Saphira continuò a tenerli inchiodati a terra, per lasciar sbollire l’ira, poi disse a Eragon,. con una punta di asprezza: Ora, se non vuoi passare tutta la notte sotto la mia zampa.. chiedi con garbo a Murtagh che cosa lo turba. Girò il collo sinuoso verso Murtagh e lo fissò con impassibili occhi azzurri. E digli che non sopporterò insolenze da nessuno dei due. Non ci consenti di alzarci? si lamentò Eragon. No. Eragon si volse riluttante verso Murtagh, assaggiando il sapore del sangue che gli scorreva dentro la guancia Murtagh evitò il suo sguardò e prese a fissare il cielo. «Allora? Ci libera o no?» «No, a meno che non parliamo…Vuole che ti chieda qual è il vero problema» disse Eragon, imbarazzato. Saphira ringhiò per tutta conferma e continuò a fissare Murtagh. Era impossibile sfuggire al suo sguardo implacabile. Murtagh alzò le spalle e borbottò qualcosa fra i denti. Gli artigli di Saphira premettero sul suo petto, e la sua coda frustò l’aria. Murtagh le scoccò un’occhiata furente, poi a voce alta disse: «Te l’ho già detto. Non voglio andare dai Varden.» Eragon aggrottò la fronte. Era tutto lì? «Non vuoi... o non puoi?» Murtagh cercò di spostare la zampa di Saphira, poi si arrese con un’invettiva. «Non voglio! Si aspettano da me delle cose che non posso dar loro.» «Hai rubato qualcosa, per caso?» «Vorrei che fosse così semplice.» Eragon roteò gli occhi, esasperato. «E allora cos’è? Hai ucciso qualche persona importante o hai corteggiato la donna sbagliata?» «No, sono nato» rispose Murtagh, enigmatico. Spinse di nuovo la zampa di Saphira. Questa volta lei li liberò entrambi. Si alzarono sotto il suo sguardo vigile e si spazzolarono la polvere dal fondo delle braghe. «Continui a evitare la domanda» disse Eragon, tastandosi il labbro spaccato. «E allora?» ribatté secco Murtagh, marciando impettito verso i margini del campo. Dopo un attimo sospirò. «Non importa il motivo per cui mi trovo in questa situazione, ma posso dirti che i Varden non mi accoglierebbero a braccia aperte nemmeno se portassi loro la testa del re. Oh, magari mi saluterebbero cordialmente e mi farebbero entrare nei loro consigli, ma fidarsi di me? Mai. Se arrivassi in circostanze meno opportune, come quelle attuali, mi metterebbero ai ferri.» «Non vuoi dirmi di che cosa si tratta?» insistette Eragon. «Anch’io ho fatto cose di cui non vado orgoglioso, perciò non ti giudico.» Murtagh scosse piano il capo, gli occhi che luccicavano. «Non è questo. Non ho fatto niente per meritare questo trattamento; sarebbe stato più facile rimediare, se fosse così. No... il mio unico crimine è quello di esistere.» Si fermò per prendere un respiro tremante. «Capisci, mio padre...» Un acuto sibilo di Saphira troncò il suo discorso. Guardate! I due seguirono il suo sguardo rivolto a ovest, Murtagh impallidì. «Demoni!» A una lega circa di distanza, parallela alla catena montuosa, marciava una colonna di figure. La linea delle truppe, a centinaia, si allungava per oltre un miglio. La polvere si alzava sotto i loro talloni. Le armi scintillavano nella luce morente. Un alfiere procedeva in testa, su un carro nero, tenendo alto un vessillo cremisi. «È l’Impero» disse Eragon avvilito. «Ci hanno trovati... in qualche modo.» Saphira protese il collo oltre la sua spalla e guardò la colonna. «Già, ma quelli sono Urgali, non uomini» disse Murtagh. «Come fai a saperlo?» Murtagh indicò il vessillo. «Quella bandiera porta il simbolo personale di un capoclan degli Urgali. È una belva spietata, incline a violenti attacchi di follia.» «L’hai già incontrato?» Gli occhi di Murtagh si socchiusero. «Una volta, per poco. Conservo ancora le cicatrici di quell’incontro. Questi Urgali potrebbero non essere stati mandati a cercarci, ma sono sicuro che ormai ci hanno visti e che ci seguiranno. Quel capo non è tipo da lasciarsi sfuggire un drago, specie se gli è giunta notizia di Gil’ead.» Eragon corse al fuoco e lo soffocò con qualche manciata di terra. «Dobbiamo fuggire! Tu non vuoi andare dai Varden, ma io devo portare Arya da loro prima che muoia. Facciamo un compromesso: tu mi accompagni finché non raggiungiamo il Lago Kóstha-mérna, poi andrai per la tua strada.» Murtagh esitò, ed Eragon si affrettò ad aggiungere: «Se te ne vai adesso, sotto gli occhi degli Urgali, ti inseguiranno. Che cosa vuoi fare, affrontarli da solo?» «D’accordo» disse Murtagh, gettando le bisacce in groppa a Tornac. «ma quando saremo vicini ai Varden, me ne andrò, questo è sicuro.» Eragon moriva dalla voglia di interrogare ancora Murtagh, ma non con gli Urgali alle spalle. Raccolse le sue cose e sellò Fiammabianca. Saphira batté le ali e si alzò in volo, girando in cerchio sopra di loro per vigilare mentre abbandonavano l’accampamento. Da che parte devo andare? domandò. A est, lungo i Monti Beor. Saphira bloccò le ali, approfittò di una corrente ascensionale per salire e dondolò nella colonna d’aria calda, restando sospesa sopra i cavalli. Chissà perché gli Urgali sono qui. Forse sono stati mandati per attaccare i Varden. Allora dobbiamo cercare di avvertirli, disse Eragon, guidando Fiammabianca oltre ostacoli poco visibili. Mentre la notte scendeva, gli Urgali svanirono nell’oscurità dietro di loro. 47 Uno scontro di volontà Al mattino, Eragon aveva una guancia graffiata per il lungo strofinare sul collo di Fiammabianca, e si sentiva pesto per la zuffa con Murtagh. Avevano dormito in sella, a turno, per tutta la notte. Questo aveva permesso loro di distanziare i soldati Urgali, ma nessuno di loro sapeva se il vantaggio poteva essere mantenuto. I cavalli erano esausti, eppure mantenevano un’andatura costante. Se fossero riusciti a fuggire dipendeva solo da quanto riposavano i mostri... sempre che i cavalli di Eragon e Murtagh fossero sopravvissuti. I Monti Beor proiettavano vaste ombre sul territorio, rubando il calore del sole. A nord c’era il Deserto di Hadarac, una sottile fascia bianca, luminosa come la neve a mezzogiorno. Devo mangiare, disse Saphira. Sono passati tanti giorni da quando sono stata a caccia l’ultima volta. La fame mi attanaglia le viscere. Se comincio subito, magari riuscirò a prendere qualcuna di quelle gazzelle, così, come assaggio. Eragon sorrise per l’enfasi del messaggio. Vai, se proprio devi, ma lascia qui Arya. Farò in fretta. Eragon slegò l’elfa dal ventre della dragonessa e la spostò sulla sella di Fiammabianca. Saphira volò in alto e scomparve subito verso le montagne, Eragon proseguì a piedi fra i cavalli, abbastanza vicino a Fiammabianca da impedire ad Arya di cadere. Né lui né Murtagh ruppero il silenzio: la zuffa del giorno prima non sembrava più tanto importante a causa degli Urgalì, ma i lividi restavano. Saphira tornò dalla caccia dopo un’ora e informò Eragon dei suoi successi. Eragon fu lieto che fosse tornata presto; la sua assenza lo rendeva nervoso. La dragonessa spiccò di nuovo il volo, ma promise di restare nelle vicinanze. Si fermarono vicino a un laghetto per far bere i cavalli. Eragon strappò uno stelo d’erba e se lo rigirò fra le dita mentre osservava l’elfa. Fu sottratto ai suoi sogni a occhi aperti dal fruscio metallico di una spada sguainata. D’istinto afferrò Zar’roc e si volse di scatto in cerca del nemico. C’era solo Murtagh, già con la spada in pugno, che gli indicò una collina più avanti, dove c’era un uomo alto con un mantello marrone in sella.a un sauro, con una mazza ferrata in mano. Alle sue spalle c’era un gruppo di venti uomini a cavallo. Nessuno si mosse. «Potrebbero essere Varden?» mormorò Murtagh. Eragon incordò l’arco, lentamente. «Secondo Arya, si trovano ancora a decine di leghe di distanza. Questa potrebbe essere una delle loro pattuglie, o un gruppo di incursori.» «Sempre che non siano banditi.» Murtagh montò in sella a Tornac e preparò il proprio arco. «Proviamo a seminarli?» disse Eragon, gettando una coperta su Arya. Gli uomini dovevano averla già notata, ma lui sperava di nascondere il fatto che fosse un’elfa. «Non servirebbe» rispose Murtagh, scuotendo la testa. «Tornac e Fiammabianca sono potenti cavalli da guerra, i ma ora sono troppo stanchi. In più, non sono fatti per scattare. Guarda quei cavalli, invece; sembrano nati per correre. Ci raggiungerebbero prima di aver fatto mezzo miglio. E poi, chissà, magari hanno qualcosa di importante da dirci. Faresti meglio a dire a Saphira di tornare in fretta.» Eragon lo stava già facendo. Le spiegò la situazione, ma la avvertì: Non mostrarti se non è assolutamente necessario. Non siamo nell’Impero, ma ancora non voglio che si sappia di te. Non ti preoccupare. replicò lei. Ricorda, la magìa ti può proteggere dove velocità e fortuna non arrivano. Lui avvertì che si alzava in volo per venire da loro, tenendosi bassa. La banda continuava a osservarli dalla collina. Eragon afferrò nervosamente Zar’roc. Sentiva l’impugnatura filigranata sicura nel guanto. A voce bassa disse: «Se ci minacciano, posso spaventarli con la magia. Se non funziona, c’è sempre Saphira. Mi chiedo come reagirebbero davanti a un Cavaliere. Si dicono tante cose sui loro poteri… Potrebbe bastare a evitare uno scontro.» «Non ci contare» disse Murtagh in tono piatto. «Se ci sarà uno scontro, l’unica cosa da fare sarà ucciderne quanti più è possibile per convincere gli altri che non vale la pena di combattere.» Il suo volto era calmo, privo di emozioni. L’uomo sul sauro fece un segnale con la mazza e partì, e gli uomini a cavallo si lanciarono verso di loro al piccolo galoppo, scagliando giavellotti che sibilarono sulle loro teste. Ai loro fianchi sbatacchiavano foderi consunti. Le loro armi erano arrugginite e ossidate. Quattro di loro puntarono gli archi contro Eragon e Murtagh. Il capo roteò in aria la mazza, e i suoi uomini risposero al gesto urlando, mentre circondavano Eragon e Murtagh. Eragon mosse le labbra. Stava per lanciare un incantesimo fra di loro quando si trattenne. Non sappiamo ancora che cosa vogliono, si disse, controllando la tensione crescente. Nel momento in cui Eragon e Murtagh furono completamente circondati, il capo tirò le redini del proprio cavallo, incrociò le braccia e prese a esaminarli con occhio critico. Inarcò un sopracciglio. «Ma bene, questi non sono la feccia che ci capita di solito! Almeno sono in buona salute. E non abbiamo nemmeno dovuto colpirli. Grieg sarà contento.» Gli uomini ridacchiarono. A queste parole, Eragon si sentì stringere lo stomaco. Nella mente cominciò ad affiorargli un sospetto. Saphira... «Ora, voi due» disse il capo, rivolto a Eragon e Murtagh. «se volete essere così saggi da lasciare le armi, eviterete di essere trasformati in faretre viventi dai miei uomini.» Gli arcieri sogghignarono in maniera eloquente; gli altri scoppiarono di nuovo a ridere. Murtagh fece un solo gesto: strìnse più forte la spada. «Chi siete e che cosa volete? Noi siamo uomini liberi che viaggiano in questa terra. Non avete il diritto di fermarci.» «Oh, sì che ce l’abbiamo» rispose l’uomo sprezzante. «E diamine, gli schiavi non si rivolgono così ai propri padroni se non vogliono ricevere una bella lezione.» Eragon trasalì. Schiavi! Ricordava vividamente le persone che aveva visto all’asta a Dras-Leona. Sentì montare la rabbia. Guardò gli uomini intorno a loro con nuovo odio e profondo disprezzo. Il capo aggrottò la fronte. «Gettate le armi e arrendetevi!» I cacciatori di uomini s’irrigidirono, guardandoli con occhi gelidi mentre nessuno dei due abbassava le armi. Il palmo di Eragon cominciò a formicolare. Sentì un fruscio dietro di sé, poi un’esclamazione di sorpresa. Si volse di scatto. Uno degli uomini aveva sollevato la coperta che avvolgeva Arya, rivelando il suo volto. Dopo un primo momento di stupore, gridò: «Torkenbrand, questa qui è un’elfa!» Gli uomini si agitarono sulle selle, mentre il capo spronava il cavallo per avvicinarsi a Fiammabianca. Guardò Arya e lanciò un fischio. «Be’, quanto vale?» Torkenbrand tacque per qualche istante, poi allargò le braccia e disse: «A dir poco una fortuna che non potete nemmeno immaginare. L’Impero ci ricoprirà d’oro per lei!» I cacciatori di uomini lanciarono grida di eccitazione, scambiandosi pacche sulle spalle. Un ruggito riempì le orecchie di Eragon, mentre Saphira scendeva in picchiata verso di loro. Attacca, ora! gridò lui. Ma lasciali fuggire, se vogliono. La dragonessa serrò le ali e acquistò velocità. Eragon attirò l’attenzione di Murtagh con un gesto. Murtagh colse al volo il messaggio. Sferrò una gomitata in faccia all’uomo che gli stava accanto, facendolo cadere di sella, e ficcò i talloni nei fianchi di Tornac. Il cavallo da guerra scosse la criniera e fece un balzo in avanti, si volse e s’impennò. Murtagh brandì la spada mentre gli anteriori di Tornac tornavano a terra, piantando gli zoccoli nella schiena dell’uomo. L’uomo gridò. Prima che i cacciatori di uomini si riprendessero, Eragon si fece largo nella confusione e alzò le mani, pronunciando le parole antiche. Un globo di fuoco violetto colpì il terreno in mezzo alla mischia, esplodendo in una fontana di gocce fuse che si dissiparono come rugiada al sole. Un istante dopo, Saphira piombò dal cielo e atterrò accanto a lui. Spalancò le fauci, mostrando le zanne impressionanti, e ruggì. «Guardate!» gridò Eragon sopra il frastuono. «Sono un Cavaliere!» Levò Zar’roc sulla testa, la lama rossa che lampeggiava nel sole, poi la puntò contro i cacciatori di uomini. «Fuggite, se volete salva la vita!» Gli uomini lanciarono grida sconnesse e si urtarono nella fretta di fuggire. Nella confusione. Torkenbrand venne colpito alla tempia da un giavellotto. Cadde a terra, stordito. Gli uomini ignorarono il capo caduto e corsero via a ranghi sparsi, scoccando sguardi terrorizzati verso Saphira. Torkenbrand si alzò sulle ginocchia. Un rivolo di sangue gli scorreva dalla tempia, ramificandosi in un delta cremisi sulla guancia. Murtagh smontò di sella e si avvicinò a lui a grandi passi, la spada in pugno. Torkenbrand alzò debolmente un braccio per parare il colpo. Murtagh lo guardò con freddezza, poi vibrò un fendente diretto al collo. «No!» gridò Eragon, Ma era troppo tardi. Il corpo decapitato di Torkenbrand si afflosciò in una nuvola di polvere. La sua testa rotolò a terra con un tonfo agghiacciante. Eragon corse da Murtagh, in preda al furore. «Sei impazzito?» strillò. «Perché l’hai ucciso?» Murtagh ripulì la spada sulla giubba di Torkenbrand. La lama lasciò una lunga macchia scura. «Non capisco perché sei così turbato.» «Turbato!» esplose Eragon. «Sono molto più che turbato. Ti ha mai sfiorato l’idea che potevamo lasciarlo li dov’era e continuare per la nostra strada? Certo che no! Ti sei trasformato in un boia e gli hai tagliato la testa! Era indifeso!» Murtagh sembrava sinceramente sorpreso dall’ira di Eragon. «Be’, non potevamo lasciarlo libero… era pericoloso. Gli altri sono fuggiti…senza un cavallo non sarebbe andato lontano. Non volevo che gli Urgali lo trovassero e venissero a sapere di Arya. Così ho pensato...» «Ma perché ucciderlo?» lo interruppe Eragon. Saphira annusò la testa di Torkenbrand, incuriosita, Aprì le fauci, come se volesse inghiottirla, poi cambiò idea e si avvicinò a Eragon. «Cerco solo di restare in vita» dichiarò Murtagh. «La vita di nessuno straniero è più importante della mia.» «Ma non serve macchiarsi di violenze inutili. Che fine ha fatto la compassione?» «La compassione? La compassione? Che compassione posso provare per i miei nemici? Dovrei forse esitare a difendere me stesso perché potrei causare dolore a qualcun altro? Se l’avessi fatto, sai da quanto sarei morto? Devi pensare a proteggere te stesso e ciò che ami, a qualunque costo.» Eragon rinfoderò Zar’roc con un gesto di rabbia, scuotendo la testa. «Non si possono giustificare le atrocità con questo ragionamento.» «Credi che io mi diverta?» esclamò Murtagh. «La mia vita è stata sotto costante minaccia dal giorno in cui sono nato! Tutte le mie ore di veglia sono trascorse a evitare pericoli in una forma o in un’altra. E nemmeno il sonno viene facile, perché ho sempre il timore di non rivedere l’alba. Se c’è un periodo in cui mi sono sentito al sicuro, dev’essere stato quando ero nel grembo di mia madre, anche se non ero al sicuro nemmeno lì! Non capisci... se vivessi con questa paura, avresti imparato la mia stessa lezione: Non correre rischi.» Indicò il corpo di Torkenbrand. «Quello era un rischio che ho eliminato. Mi rifiuto di sentirmi in colpa, e non mi farò affliggere da ciò che è compiuto.» Eragon avvicinò il viso a un soffio dal suo. «È stata comunque un’azione sbagliata.» Legò Arya a Saphira, poi montò in groppa a Fiammabianca. «Andiamo.» Murtagh guidò Tornac intorno al corpo di Torkenbrand, riverso in una pozza di sangue. Cavalcavano a un ritmo che Eragon avrebbe ritenuto impossibile soltanto una settimana prima; gli zoccoli dei cavalli consumavano leghe su leghe come se avessero le ali. Puntarono a sud, passando fra due diramazioni dei Monti Beor; avevano la forma di una tenaglia pronta a chiudersi, le punte distanti fra loro soltanto un giorno di viaggio. Eppure la distanza sembrava minore per la mole imponente delle montagne, Era come se stessero attraversando una valle di giganti. Quando si fermarono, Eragon e Murtagh consumarono la cena in silenzio, senza alzare gli occhi dai piatti. Dopo, Eragon disse asciutto: «Faccio io il primo turno di guardia.» Murtagh annuì è si distese sulle coperte, dandogli la schiena. Ti va di parlare? disse Saphira. Non ora, mormorò Eragon. Ho bisogno di tempo per riflettere; sono... confuso. La dragonessa si ritrasse dalla sua mente con un dolce sussurro. Ti voglio bene, ragazzo. Anch’io, disse lui. Saphira si accucciò al suo fianco, regalandogli il suo calore. Lui rimase seduto immobile nel buio, lottando contro una crescente inquietudine. 48 Fuga attraverso la valle La mattina dopo, Saphira prese il volo sia con Arya che con Eragon. Quest’ultimo aveva voglia di stare lontano da Murtagh per un po’. Rabbrividì e si strinse addosso il mantello. C’era aria di neve, Saphira colse pigramente una corrente ascensionale e chiese: A cosa pensi? Eragon contemplò i Monti Beor, che torreggiavano sopra di loro malgrado Saphira volasse a una certa altitudine. Ieri è stato commesso un omicidio. Non ci sono altre parole per dirlo. Saphira s’inclinò a sinistra. È stato un gesto affrettato e impulsivo, ma Murtagh ha cercato di fare la cosa giusta. Gli uomini che comprano e vendono altri esseri umani meritano qualunque sciagura capiti loro. Se non fossimo impegnati ad aiutare Arya, andrei io stessa a dare la caccia agli schiavisti per farli a pezzi! Sì, disse Eragon in tono mesto, ma Torkenbrand era indifeso. Non aveva armi e non poteva fuggire. Ancora un attimo e probabilmente si sarebbe arreso. Murtagh doveva dargli una possibilità. Se almeno Torkenbrand fosse stato in grado di combattere, non sarebbe stato così orribile. Eragon, se anche Torkenbrand avesse combattuto, il risultato sarebbe stato lo stesso. Sai bene quanto me che pochi sono in grado di uguagliare te o Murtagh con la spada. Torkenbrand sarebbe morto comunque, anche se pare che a te sembri più onorevole o giusto morire in un duello impari. Non so che cosa è giusto! ammise Eragon, turbato. Non ci sono risposte sensate. A volte, disse Saphira con dolcezza, non ci sono risposte. Impara ciò che puoi su Murtagh e poi perdonalo. Se non puoi perdonarlo, almeno dimentica, perché a te non voleva fare alcun male, per quanto il suo gesto sia stato deprecabile. Hai ancora la testa sul collo, no? Accigliato, Eragon si spostò sulla sella, agitandosi come un cavallo che caccia le mosche, e controllò la posizione di Murtagh sbirciando da sopra la spalla di Saphira. Una macchia di colore molto distante sulla rotta che avevano percorso attirò la sua attenzione. Accampati vicino al letto asciutto di un torrente che avevano attraversato nella tarda serata del giorno prima c’erano gli Urgali. I battiti del suo cuore accelerarono. Come avevano fatto gli Urgali, che viaggiavano a piedi, a guadagnare così tanto terreno? Anche Saphira vide i mostri; torse le ali e le avvicinò al corpo per lanciarsi in una profonda picchiata che squarciò l’aria. Non credo che ci abbiano visti, disse lei. Eragon sperò che fosse così. Socchiuse gli occhi per proteggersi dalla forte corrente d’aria provocata dalla brusca discesa della dragonessa. Il loro capo li sta guidando a rotta di collo, disse. Già;,.. magari muoiono tutti di stanchezza. Quando atterrarono, Murtagh domandò brusco: «Che cosa c’è?» «Gli Urgali ci stanno raggiungendo» disse Eragon, indicando l’accampamento della colonna. «Quanto ancora?» domandò Murtagh, tendendo le mani contro il cielo per calcolare le ore che mancavano al tramonto. «Normalmente?... Immagino altri cinque giorni. Alla velocità che stiamo tenendo, direi soltanto tre. Ma a meno che non arriviamo domani,. gli Urgali probabilmente ci prenderanno, e Arya morirà.» «Potrebbe resistere un altro giorno.» «Non possiamo contarci» obiettò Eragon. «L’unico modo per arrivare dai Varden in tempo è non fermarci per nessuna ragione, nemmeno per dormire, È la nostra unica speranza.» Murtagh proruppe in una risata amara. «Come pensi di farcela? Sono giorni che non facciamo un sonno come si deve. A meno che i Cavalieri non siano fatti di una materia diversa dal resto di noi mortali, tu sei stanco come me. Per non parlare dei cavalli. Nel caso tu non l’abbia notato, stanno per crollare. Un altro giorno con questo ritmo potrebbe ucciderci tutti.» Eragon si strinse nelle spalle. «E allora sia. Non abbiamo scelta.» Murtagh guardò le montagne. «Possiamo separarci, e tu puoi andare avanti con Saphira... Questo costringerebbe gli Urgali a dividere le forze e ti offrirebbe un’occasione migliore per raggiungere i Varden.» «Sarebbe un suicidio» disse Eragon, incrociando le braccia. «In qualche modo questi Urgali sono più veloci a piedi che noi a cavallo. Ti braccherebbero come un cervo. L’unico modo per sfuggire loro è trovare asilo dai Varden.» Nonostante quelle parole, Eragon non era più sicuro di volere che Murtagh restasse. Mi piacerebbe, si disse, ma non sono più convinto che sia la cosa giusta. «Fuggirò più tardi» disse Murtagh all’improvviso. «Quando arriveremo dai Varden, sparirò in una valle laterale e troverò la strada per il Surda, dove potrò nascondermi senza attirare troppa attenzione.» «Quindi resti?» «Sonno o non sonno, ti accompagnerò dai Varden» promise Murtagh. Con rinnovata determinazione, si sforzarono di distanziare gli Urgali, eppure i loro inseguitori continuavano a guadagnare terreno. Al calar della sera, i mostri erano di un terzo più vicini di quella mattina. La stanchezza erodeva le forze di Eragon e Murtagh, che dormirono a turno in sella, mentre chi restava sveglio guidava gli animali nella giusta direzione. Eragon ripescò i ricordi di Arya per orientarsi, ma data la natura remota della sua mente, qualche volta gli accadde di sbagliare strada, errori che costarono del tempo prezioso. Via via deviarono verso le colline ai piedi dei monti, lungo il braccio orientale della tenaglia, cercando la valle che li avrebbe condotti dai Varden. La mezzanotte arrivò e passò senza traccia di loro. Quando il sole annunciò il nuovo giorno, furono lieti di constatare che gli Urgali erano rimasti indietro. «Questo è l’ultimo giorno» disse Eragon con un gran sbadiglio. «Se non siamo ragionevolmente vicini ai Varden per mezzogiorno, allora volerò avanti con Arya. Tu sarai libero di andare dove vuoi, ma dovrai portare cori te Fiammabianca. Non potrò tornare indietro a prenderlo.» «Forse non sarà necessario; potremmo arrivare in tempo» disse Murtagh. Accarezzò il pomello della sua spada. Eragon si strinse nelle spalle. «Potremmo.» Si avvicinò ad Arya e le posò una mano sulla fronte. Era madida di sudore e scottava. I suoi occhi si muovevano a scatti sotto le palpebre, come se stesse vivendo un incubo. Eragon le tamponò la fronte con un panno bagnato, desideroso di poter fare di più. Nella tarda mattinata, dopo aver aggirato una montagna particolarmente vasta, Eragon scorse una stretta valle incuneata nel suo versante più lontano. La valle era così piccola che poteva facilmente passare inosservata. Da essa scorreva il fiume Zannadorso, che Arya aveva menzionato; poi proseguiva serpeggiando per il territorio. Eragon sorrise di sollievo; era proprio come l’aveva descritto l’elfa. Si guardò indietro ed ebbe un sussulto: la distanza fra loro e gli Urgali si era ridotta a poco più di una lega. Indicò la valle a Murtagh. «Se riusciamo a infilarci lì senza essere visti, potremmo confonderli.» Murtagh parve scettico. «Vale la pena di tentare. Ma finora ci hanno seguito senza difficoltà.» Mentre si avvicinavano alla valle, passarono sotto i rami contorti della foresta dei Beor. Gli alberi erano alti, con la corteccia rugosa quasi nera, aghi dello stesso colore, e radici nodose che spuntavano dal terreno come ginocchia nude. Il terreno era disseminato di pigne, ciascuna delle dimensioni di una testa di cavallo. Scoiattoli neri chiacchieravano dalle cime degli alberi, e occhi scintillavano dai buchi nei tronchi. Grandi barbe verdi di luparia pendevano dai rami ritorti. La foresta diede a Eragon una sensazione di disagio; i capelli gli si rizzarono sulla nuca. C’era qualcosa di ostile nell’aria, come se gli alberi provassero rancore per la loro intrusione. Sono molto antichi disse Saphira, sfiorando un tronco con il naso. Sì, disse Eragon, ma non cordiali La foresta si infittiva via via che si addentravano. La mancanza di spazio costrinse Saphira ad alzarsi in volo con Arya. Senza un sentiero da seguire, il folto sottobosco rallentò Eragon e Murtagh. Lo Zannadorso scorreva lì vicino, riempiendo l’aria con il suono dell’acqua che gorgoglia. Una vetta vicina oscurava il sole e li sprofondava in un crepuscolo anticipato. All’ingresso della valle, Eragon si accorse che sebbene avesse l’aspetto di una sottile fenditura fra i picchi, era molto, molto più ampia di quelle della Grande Dorsale. Erano soltanto le gigantesche proporzioni delle montagne aguzze e ombrose che la facevano apparire così angusta. Le sue pareti a strapiombo erano interrotte da molte cascate. Il cielo era ridotto a una striscia che si dipanava in alto, perlopiù nascosto da nubi grigie. Dal terreno umido si levava una nebbia densa, che raffreddava l’aria al punto che i loro respiri divennero visibili. Fragole selvatiche facevano capolino fra tappeti di muschio e felci, lottando per un raggio di sole. Su cataste di legno marcio spuntavano funghi velenosi gialli e rossi. Tutto era ovattato e silenzioso, i suoni soffocati dall’aria pesante. Saphira atterrò vicino a loro in una radura paludosa, il fruscio delle sue ali stranamente attutito. Si guardò intorno. Ho appena superato uno stormo di uccelli neri e verdi con macchie rosse sulle ali. Non ho mai visto uccelli del genere prima d’ora. Fra queste montagne tutto sembra insolito, rispose Eragon. Ti dispiace se ti cavalco per un po’? Voglio tenere d’occhio gli Urgali Fa’pure. Eragon si rivolse a Murtagh. «I Varden sono nascosti alla fine di questa valle. Se ci affrettiamo, potremo arrivare prima di notte.» Con le mani sui fianchi, Murtagh borbottò: «Come faccio a uscire di qui? Non vedo valli secondarie, e gli Urgali ci saranno addosso fra breve. Mi serve una via di fuga.» «Non temere» disse Eragon, impaziente. «Questa valle è molto lunga; sono sicuro che più avanti ci sarà un’uscita.» Liberò Arya da Saphira e la depose sul dorso di Fiammabianca. «Sorveglia l’elfa. Io volo con Saphira. Ci incontriamo più avanti.» Si arrampicò sul dorso della dragonessa e si legò sulla sella. «Sta’ attento» disse Murtagh, un solco profondo fra le sopracciglia; poi incitò i cavalli e tornò nella foresta. Mentre Saphira balzava verso il cielo, Eragon disse: Credi di poter volare oltre una di quelle vette? Magari riusciamo a individuare la nostra destinazione, e anche un passaggio per Murtagh. Non voglio sentirlo lamentarsi per tutta la valle. Possiamo provarci, disse Saphira, ma farà molto più freddo. Sono ben coperto. Tieniti, allora! Saphira puntò vertiginosamente verso l’alto, schiacciandolo contro la sella. Le sue ali si agitavano potenti, portandoli sempre più in alto. La valle rimpicciolì sotto di loro fino a diventare un sottile nastro verde. Il fiume Zannadorso scintillava come un gallone d’argento là dove cadevano i raggi di sole. Salirono fino alle nubi: l’aria era satura di umidità gelata. Un’informe coltre grigia li avvolse, limitando la visione a un braccio di distanza, Eragon sperò che non andassero a urtare da qualche parte, in quella massa nebulosa. Provò a tendere una mano e la tese nell’aria. L’acqua si condensò e gli colò lungo il braccio, inzuppandogli la manica. Una sagoma grigia gli passò accanto alla testa, e lui scorse una colomba, le ali che si agitavano frenetiche. Aveva una fascia bianca intorno a una zampa, Saphira puntò verso il pennuto, la lingua penzoloni, le fauci spalancate. La colomba stridette mentre i denti affilati di Saphira si richiudevano con uno schiocco a un soffio dalle sue penne. La colomba schizzò via e scomparve nella nebbia, il frenetico battito d’ali che calava, via via inghiottito dal silenzio. Quando emersero dalla sommità delle nuvole, Saphira era coperta da migliaia di goccioline iridescenti, che scintillavano insieme all’azzurro delle sue squame, Eragon si scrollò, spruzzando acqua dai vestiti, e rabbrividì. Non riusciva più a vedere il suolo, soltanto colline di nuvole che serpeggiavano fra le montagne. Gli alberi avevano lasciato il posto a vasti ghiacciai, azzurri e bianchi sotto il sole. Il riverbero della neve costrinse Eragon a chiudere gli occhi. Provò ad aprirli dopo un minuto, ma la luce lo accecò. Irritato, abbassò lo sguardo. Come fai a sopportarlo? chiese a Saphira. I miei occhi sono più resistenti dei tuoi, rispose lei. Faceva freddissimo. L’acqua sui capelli di Eragon gelò, trasformandosi in una sorta di elmo lucente. La camicia e i pantaloni erano gusci durissimi contro la sua pelle. Le squame di Saphira erano scivolose di ghiaccio; merletti di brina le orlavano le ali. Non avevano mai volato così in alto prima, eppure le cime delle montagne erano ancora miglia sopra di loro. Il ritmo con cui Saphira batteva le ali rallentò piano, e il suo respiro divenne difficoltoso. Eragon ansimava e boccheggiava; gli sembrava che non ci fosse abbastanza aria. Lottando contro il panico, si aggrappò alle punte del collo di Saphira per sostenersi. Dobbiamo... scendere, disse. Davanti agli occhi gli danzavano miriadi di puntini rossi. Non riesco a... respirare. Saphira parve non udirlo, e così ripete il messaggio, più forte, questa volta. Ancora nessuna risposta. Non mi può sentire, comprese. Annaspò, sforzandosi di pensare, poi le batte sul fianco e gridò: «Portaci giù!» Lo sforzo gli fece girare la testa. La vista gli si annebbiò e cadde in un vortice di tenebra. Riprese i sensi mentre uscivano dal fondo dello strato di nubi. La testa gli martellava. Che cosa è successo? domandò, drizzando la schiena e guardandosi intorno. Sei svenuto, rispose Saphira. Eragon fece per passarsi una mano fra i capelli, ma si bloccò quando sentì i ghiaccioli. Sì, lo so, ma perché non mi hai risposto? Avevo la mente confusa. Le tue parole non avevano senso. Quando hai perso conoscenza, ho capito che c’era qualcosa che non andava e sono scesa. Non ho dovuto abbassarmi molto prima di capire che cos’era accaduto. Meno male che non sei svenuta anche tu, commentò Eragon con una risatina nervosa. Saphira si limitò ad agitare la coda. Lui guardò con struggimento il punto in cui le vette erano nascoste dalle nubi. Che peccato, non siamo riusciti a . sorvolare una di quelle cime... Be’, adesso sappiamo: possiamo volar via da questa valle solo passando da dove siamo entrati. Perché siamo rimasti a corto d’aria? Com’è possibile che quaggiù ci sia, e invece lassù no? Non lo so, ma non oserò mai più volare così vicina al sole.Dovremmo fare tesoro di questa esperienza. La conoscenza potrà tornarci utile se dovessimo mai combattere contro un altro Cavaliere. Spero che non accada mai, disse Eragon. Restiamo a questa altezza, per adesso. Per oggi ne ho avuto abbastanza. Fluttuarono sulle dolci correnti aeree, rasentando le pareti delle montagne, finché Eragon non vide che la colonna degli Urgali aveva raggiunto l’ingresso della valle. Ma che cosa li fa andare così veloci, e come fanno a sopportare questo ritmo? Ora che siamo più vicini, disse Saphira, vedo che questi Urgali sono più grossi di quelli che abbiamo incontrato prima. Potrebbero superare di diverse spanne un uomo alto. Non so da quale terra provengano, ma dev’essere un luogo terribile per produrre simili mostri. Eragon scrutò il territorio sotto di loro: non riusciva a vedere i particolari come lei. Se mantengono quest’andatura, prenderanno Murtagh prima che troviamo i Varden. Non perdere la speranza. La foresta potrebbe rallentare i loro progressi... Sarebbe possibile fermarli con la magia? Eragon scosse il capo. Fermarli?... No. Sono in troppi. Pensò al sottile strato di nebbia nella valle e sorrise. Ma forse potrei farli ritardare un po’. Chiuse gli occhi, scelse le parole che gli servivano, fissò la nebbia e ordinò: «Gath un reisa du rakr!» Sotto di loro, il panorama prese a cambiare. Dall’alto sembrava che il terreno stesse scorrendo come un grande fiume pigro. Una plumbea fascia di nebbia si addensò davanti agli Urgali e si ispessì fino a diventare un muro minaccioso, scuro come una nube temporalesca. Gli Urgali esitarono, poi continuarono come un inarrestabile ariete. La barriera vorticò intorno a loro, nascondendo la colonna alla vista. Le forze abbandonarono Eragon in modo improvviso e devastante, facendogli battere il cuore a scatti, come quello di un uccellino morente. Cercò di respirare e strabuzzò gli occhi. Si sforzò di recidere il vincolo che lo teneva legato alla magia, di colmare il varco attravèrso cui fluiva la sua vita; con un ultimo ringhio selvaggio, si ritrasse e interruppe il contatto. Tentacoli di magia si dibatterono nella sua mente come serpenti decapitati, poi, riluttanti, si allontanarono dalla sua coscienza, portando con sé i suoi ultimi residui di forza. Il muro di nebbia crollò a terra come una torre di fango. Gli Urgali non erano stati fermati. Eragon giaceva inerte su Saphira, ansante. Solo allora ricordò le parole di Brom: “La magia viene influenzata dalla distanza, proprio come una freccia o una lancia. Se cerchi di sollevare o spostare qualcosa a un miglio di distanza, ti ci vorrà più energia che se fosse vicino.” Non lo dimenticherò più, pensò, prostrato. Non avresti dovuto dimenticarlo mai, intervenne Saphira. Prima con la terra a Gìl’ead, e, ora questo. Perché non presti attenzione a quello che ti ha detto Brom? Ti ucciderai, se continui di questo passo. Ho prestato attenzione, ribattè lui, massaggiandosi il mento. È passato parecchio tempo, e non ho avuto l’occasione di ripensarci. Non ho mai usato la magia a distanza, perciò come facevo a sapere che sarebbe stato così difficile? La dragonessa grugnì. La prossima volta cercherai di riportare in vita i morti. Non dimenticare che cosa ti ha detto Brom in proposito. Non lo farò, disse lui, spazientito. Saphira si tuffò verso il suolo, in cerca di Murtagh e dei cavalli. Eragon l’avrebbe aiutata, ma riusciva a fatica a stare seduto. Saphira atterrò in un piccolo campo con un sobbalzo, ed Eragon rimase sorpreso nel vedere i cavalli fermi, e Murtagh inginocchiato a esaminare il terreno. Quando Eragon non smontò da Saphira, Murtagh gli corse incontro. «Qualcosa non va?» domandò, arrabbiato, preoccupato e stanco al tempo stesso. «... Ho fatto un errore» disse Eragon sincero. «Gli Urgali sono entrati nella valle. Ho cercato di confonderli, ma ho dimenticato una delle regole della magia, e mi è costato caro.» Accigliato, Murtagh puntò il pollice alle proprie spalle. «Ho appena trovato tracce di lupo, ma sono grandi quanto le mie due mani messe assieme, e profonde un pollice. Da queste parti si aggirano animali che potrebbero essere pericolosi anche per te, Saphira.» Si rivolse a lei. «So che non puoi entrare nella foresta, ma potresti volare in circolo sopra me e i cavalli? Questo dovrebbe tenere lontane le bestie. Altrimenti di me non resterà che un mucchietto di ossa spolpate.» «Sei in vena di battute?» disse Eragon con un sorriso debole. I suoi muscoli tremavano e faticava a concentrarsi. «Umorismo nero.» Murtagh si strofinò gli occhi. «Non posso credere che siano gli stessi Urgali che ci inseguono da tanti giorni. Avrebbero dovuto essere uccelli, per raggiungerci.» «Saphira ha detto che sono più grossi del solito» gli disse Eragon. Murtagh imprecò, stringendo il pomello della spada. «Questo spiega tutto! Saphira, se hai ragione, allora devono essere Kull, il meglio degli Urgali. Avrei dovuto capirlo dal capoclan che li guida. Non vanno a cavallo perché gli animali non ne sopporterebbero il peso... nessuno di loro è alto meno di otto piedi.,. e possono correre per giorni senza dormire ed essere ancora pronti per la battaglia. Ci vogliono cinque uomini per ucciderne uno. I Kull non lasciano mai le loro caverne tranne che per muovere guerra, perciò è prevedibile un massacro su vasta scala, se sono usciti così a frotte.» «Possiamo mantenere il vantaggio?» «E chi lo sa?» disse Murtagh. «Sono forti, determinati e numerosi. È possibile che alla fine ci ritroveremo ad affrontarli. Se questo accade, spero solo che i Varden abbiano uomini appostati, pronti ad aiutarci. Malgrado le nostre capacità e Saphira, non possiamo sconfiggere i Kull.» Eragon vacillò. «Mi daresti un po’ di pane? Ho bisogno di mangiare.» Murtagh si affrettò a porgergli un pezzo di pagnotta. Era vecchia e dura, ma Eragon la masticò con avidità. Murtagh scrutò le pareti della valle, gli occhi colmi di apprensione, Eragon sapeva che stava cercando una via d’uscita. «Ce ne sarà una più avanti.» «Ne sono convinto» disse Murtagh con forzato ottimismo, poi si diede una pacca su una gamba. «Dobbiamo andare.» «Come sta Arya?» chiese Eragon. Murtagh scrollò le spalle. «La febbre sì è alzata e lei si agita molto. Che cosa ti aspettavi? Le forze la stanno abbandonando. Dovresti portarla in volo dai Varden prima che il veleno compia la sua opera.» «Non ti lascio indietro» insistette Eragon, riacquistando vigore a ogni boccone. «Non con gli Urgali così vicini.» Murtagh si strinse di nuovo nelle spalle. «Come vuoi. Ma ti avverto; lei non vivrà se tu rimani con me.» «Non dirlo» protestò Eragon, raddrizzando la schiena in sella a Saphira. «Aiutami a salvarla. Possiamo ancora farcela. Considerala una vita per una vita... una riparazione per la morte di Torkebrand.» Il volto di Murtagh si oscurò all’istante. «Non devo niente a nessuno. Tu...» Si interruppe quando un corno risuonò nella foresta. «Dovrò dirti una cosa, dopo» tagliò corto, e andò in fretta verso i cavalli. Afferrò le redini e si allontanò di corsa, scoccando un’occhiata furente a Eragon. Eragon chiuse gli occhi quando Saphira spiccò il volo. Quanto avrebbe voluto sdraiarsi su un letto soffice e dimenticare tutti i suoi affanni. Saphira, disse alla fine, proteggendosi le orecchie con le mani per riscaldarle, e se portassimo Arya dai Varden? Una volta messa lei al sicuro, potremmo volare indietro da Murtagh per aiutarlo a fuggire. I Varden non ti lascerebbero andare, disse Saphira. Per quanto ne sanno, tu potresti tornare indietro per informare gli Urgali del loro nascondiglio. Non ci presentiamo certo nelle migliori circostanze per conquistare la loro fiducia. Vorranno sapere perché abbiamo guidato un’intera compagnia di Kull fino ai loro cancelli. Diremo loro la verità, e speriamo che ci credano, disse Eragon. E che cosa faremo se i Kull attaccano Murtagh? Li combatteremo, ovvio! Non permetterò che lui e Arya siano catturati o uccisi, disse Eragon, indignato. Nelle parole della dragonessa comparve una punta di sarcasmo. Che nobiltà d’animo. Oh, potremmo abbattere molti Urgali,.. tu con magia e spada, io con denti e artigli... ma alla fine sarebbe tutto inutile. Sono in troppi... Non possiamo sconfìggerli, solo essere sconfitti. E allora? disse lui. Non lascerò Murtagh e Arya alla loro mercé. Saphira agitò la coda; la punta frustò l’aria con un sibilo. Non ti sto chiedendo di farlo. Ma se attaccassimo per primi, avremmo il vantaggio della sorpresa. Sei impazzita? Loro ci... La sua voce si smorzò mentre rifletteva. Non potrebbero fare niente, concluse, stupito. Esatto, disse Saphira. Possiamo infliggere loro molte perdite, pur restando a distanza di sicurezza. Scagliamo contro di loro delle pietrel propose Eragon. Questo dovrebbe confonderli. Se i loro crani non sono abbastanza duri da proteggerli. Saphira s’inclinò sulla destra e scese verso il fiume Zannadorso. Afferrò un macigno di media grandezza con gli artigli, mentre Eragon raccoglieva una manciata di pietre grosse quanto un pugno. Carica di munizioni, Saphira scivolò con ali silenziose fino a disporsi sopra l’orda degli Urgali. Ora! esclamò, lasciando cadere il macigno. Si udirono una serie di schiocchi soffocati quando i missili piombarono sulla foresta, schiantando i rami degli alberi. Un attimo dopo, terribili ululati echeggiarono per tutta la valle. Eragon sorrise nel sentire gli Urgali che si affannavano a cercare riparo. Andiamo a prendere altre munizioni, suggerì, chinandosi sul collo di Saphira. Lei emise un ringhio di approvazione e tornò al fiume. Fu un lavoro duro, ma riuscirono a ostacolare i progressi degli Urgali, anche se era impossibile fermarli del tutto. Gli Urgali riguadagnavano terreno ogni volta che Saphira si allontanava per prendere altre pietre. Malgrado ciò, i loro sforzi permisero a Murtagh di restare davanti alla colonna. La valle si oscurò mentre le ore passavano. Senza il sole a dare il suo tepore, l’aria cadde preda della morsa pungente del gelo e la nebbia di terra gelò sugli alberi, ricoprendoli di candida brina. Gli animali notturni presero a sgusciare dalle loro tane per osservare nel buio gli stranieri che attraversavano il loro territorio. Eragon continuò a tenere d’occhio le pendici dei monti, cercando la cascata che avrebbe indicato la fine del loro viaggio, Era dolorosamente consapevole che ogni minuto che passava portava Arya più vicina alla morte. “Più veloce, più veloce” mormorò fra sé, guardando Murtagh sotto di loro. Prima che Saphira virasse per andare a raccogliere altre pietre, disse: Facciamo una tregua per controllare Arya. Il giorno volge al termine, e temo che la sua vita si possa misurare in ore, se non in minuti. La vita di Arya è nelle mani del Fato, ormai Tu hai fatto la tua scelta di restare con Murtagh; e troppo tardi per cambiare idea, perciò smettila di tormentarti... Mi fai prudere le squame. La cosa migliore che possiamo fare è continuare a bombardare gli Urgali. Eragon sapeva che Saphira aveva ragione, eppure quelle parole non servirono a placare la sua ansia. I suoi occhi scrutavano incessanti il paesaggio, ma qualunque cosa ci fosse davanti a loro, era nascosta da una cresta massiccia. Il buio, quello vero, cominciò a invadere la valle, posandosi su alberi e montagne come un velo d’inchiostro. Anche con il suo udito fine e il fiuto delicato, Saphira non riusciva più a individuare gli Urgali nella fitta foresta. Non c’era nemmeno la luna ad aiutarli; sarebbero passate ancora ore prima che sorgesse dietro le montagne. Saphira compì una lenta, delicata virata a sinistra, e scivolò oltre la cresta. Eragon la avvertì vagamente sotto di loro, poi strizzò gli occhi quando scorse una debole linea bianca davanti. Sarà la cascata? si chiese. Guardò il cielo, ancora rischiarato dagli ultimi vaghi bagliori del tramonto. I profili scuri dei monti curvavano verso il centro a formare una specie di anfiteatro che chiudeva la valle. La fine non dev’essere lontana! esclamò, indicando davanti a sé. Credi che ì Varden sappiano del nostro arrivo? Forse manderanno degli uomini ad aiutarci. Dubito che ci presteranno soccorso finché non sapranno se siamo amici o nemici, disse Saphira mentre si abbassava di botto. Torniamo da Murtagh, È il momento di stare con lui adesso. Visto che non riesco a trovare gli Urgali, potrebbero assalirlo senza che noi lo sappiamo. Eragon sciolse i legacci del fodero di Zar’roc, chiedendosi se era abbastanza forte da combattere. Saphira atterrò alla sinistra dello Zannadorso, poi si accovacciò, in attesa. La cascata rumoreggiava in lontananza. Arriva, disse. Eragon aguzzò la vista e colse con l’udito uno scalpitio di zoccoli. Murtagh uscì di corsa dalla foresta, guidando i cavalli. Li vide, ma non rallentò. Eragon balzò giù da Saphira, inciampando nel tentativo di tenere il passo di Murtagh. Dietro di loro, Saphira andò al fiume, per poterli seguire senza essere ostacolata dagli alberi. Prima che Eragon potesse raccontargli le novità, Murtagh disse: «Ti ho visto lanciare pietre con Saphira... ambizioso. I Kull si sono fermati o sono tornati indietro?» «Ce li abbiamo ancora alle calcagna, ma ormai siamo quasi arrivati. Come sta Arya?» «Non è morta» replicò Murtagh asciutto. Il suo respiro era breve, affannoso. Le parole che seguirono erano pervase da una calma ingannevole, come quelle di un uomo che cela una passione travolgente. «C’è una valle o una gola più avanti da cui io possa andarmene?» Con ansia, Eragon cercò di ricordare se aveva visto qualche breccia nelle montagne intorno a loro; per un po’ non aveva pensato al problema di Murtagh. «È buio» disse, evasivo, abbassando la testa per schivare un ramo basso. «è facile che mi sia sfuggito qualcosa, ma... no.» Murtagh lanciò un’imprecazione sonora e si fermò di colpo, tirando le redini dei cavalli finché anche quelli non si fermarono. «Stai dicendo che l’unico posto dove posso andare è dai Varden?» «Sì, ma continua a correre. Gli Urgali ci sono addosso!» «No!» fu la risposta furente. Puntò un dito contro Eragon. «Ti avevo avvertito che non sarei mai venuto dai Varden, ma tu hai insistito e ora mi hai messo fra l’incudine e il martello! Tu sei quello che legge i ricordi dell’elfa. Perché non mi hai detto che era un vicolo cieco?» Eragon s’indispettì per l’accusa e ribattè; «Sapevo soltanto dove dovevamo andare, non che cosa c’era in mezzo. Non dare la colpa a me per la scelta che hai fatto.» Murtagh sibilò fra i denti e si voltò di scatto. Tutto ciò che Eragon vedeva di lui era una figura immobile, a capo chino. Anche lui aveva le spalle tese, e una vena gli pulsava sul lato del collo. Si mise le mani sui fianchi, sentendo montare l’impazienza. Perché vi siete fermati? domandò Saphira, allarmata. Non mi distrarre. «Qual è il tuo problema con i Varden? Non può essere così terribile da costringerti a nasconderti anche adesso. Preferiresti combattere contro i Kull piuttosto che rivelarmelo? Quante volte dovremo ancora litigare prima che tu riesca a fidarti di me?» Ci fu un lungo silenzio. Gli Urgali! rammentò Saphira, frettolosa. Lo so, disse Eragon, tenendo a bada la collera. Ma dobbiamo risolvere la questione. Svelti, svelti. «Murtagh» disse Eragon, con tutto se stesso. «a meno che tu non voglia morire, dobbiamo andare dai Varden. Non voglio finire nelle loro mani senza sapere come reagiranno di fronte a te. Già è una situazione pericolosa senza bisogno di altre brutte sorprese.» Finalmente Murtagh si volse verso Eragon. Respirava a fatica, come un lupo in trappola. Tacque ancora un istante, poi con voce angosciata disse: «Hai il diritto di sapere. Io... io sono il figlio di Morzan, primo e ultimo dei Rinnegati.» 49 Un grave dilemma Eragon rimase senza parole. La sua mente si rifiutava di accettare la verità delle parole di Murtagh. I Rinnegati non hanno mai avuto figli, meno che mai Morzan. Morzan! L’uomo che tradì i Cavalieri consegnandoli a Galbatorix. Colui che fu il più fedele servitore del re per il resto della sua vita. Non può essere vero! Lo sconcerto di Saphira lo raggiunse un istante dopo. La dragonessa piombò dal cielo schiantando alberi e cespugli per atterrare accanto a lui, con le fauci spalancate e la coda. alta e minacciosa. Sta’ pronto a tutto, lo avvertì. Potrebbe essere capace di usare la magia. «Sei il suo erede?» disse Eragon, e tese lentamente una mano verso Zar’roc. Che cosa potrebbe volere da me? Lavora per il re, dunque? «Non l’ho scelto io!» gridò Murtagh, il viso deformato dal dolore. Si strappò la tunica e la camicia di dosso con un gesto disperato e rimase a torso nudo. «Guarda!» disse, volgendo la schiena a Eragon. Circospetto, Eragon si protese verso di lui, strizzando gli occhi nell’oscurità. Sulla pelle abbronzata e muscolosa di Murtagh c’era una lunga, nodosa cicatrice bianca, che correva dalla spalla destra fino al fianco sinistro: la testimonianza di un terribile dolore. «La vedi?» disse Murtagh in tono amaro. Parlava con voce calma, adesso, come se si sentisse sollevato per avere finalmente svelato il suo segreto. «Avevo solo tre anni quando mi è stata inflitta. Durante uno dei suoi attacchi di violenza, Morzan mi scagliò contro la sua spada mentre correvo. La mia schiena è stata squarciata da quella stessa spada che tu ora porti... l’unica cosa che mi aspettavo di ricevere in eredità, finché Brom non la tolse al cadavere di mio padre. Sono stato fortunato, suppongo.., c’era un guaritore nei paraggi che mi impedì di morire. Devi capire, io non amo l’Impero né il re. Non ho stretto alcuna alleanza con loro, né ho intenzione di farti del male!» La sua voce era quasi implorante. Eragon tolse la mano dall’elsa di Zar’roc. «Allora tuo padre» disse con voce tremante «fu ucciso da...» «Sì, da Brom» disse Murtagh. Si mise di nuovo la tunica, con estremo distacco. Un corno risuonò alle loro spalle, inducendo Eragon a gridare: «Vieni, fuggiamo.» Murtagh frustò le redini dei cavalli e li costrinse a uno stanco trotto, gli occhi fissi avanti, mentre Arya sobbalzava inerte sulla sella di Fiammabianca, Saphira rimase al fianco di Eragon, tenendo il passo con agio grazie alle lunghe zampe. Potresti camminare meglio sulla riva del fiume, le disse lui, vedendola costretta a districarsi in un groviglio di rami. Non ti lascio da solo con lui. Eragon le fu grato per la protezione. Il figlio di Morzan! Mentre correvano, disse: «La tua storia è difficile da credere. Come faccio a sapere che non menti?» «E perché dovrei mentire?» «Potresti...» Murtagh lo interruppe. «Non posso provarti niente, per ora. Dovrai restare nel dubbio finché non arriveremo dai Varden. Loro mi riconosceranno subito.» «Devo sapere» insistette Eragon. «Sei forse un servo dell’Impero?» «No. Se lo fossi, che cosa ci guadagnerei a viaggiare con te? Se avessi voluto catturarti o ucciderti, ti avrei lasciato in prigione.» Murtagh inciampò sopra un tronco caduto. «Forse stai guidando gli Urgali dai Varden.» «È possibile» disse Murtagh. «ma allora perché resto con te? Ora so dove si nascondono i Varden. Che ragione avrei di consegnarmi a loro? Se volessi attaccarli, tornerei indietro e mi unirei agli Urgali.» «Forse sei un sicario» tentò Eragon in tono indifferente. «Forse. Non puoi saperlo, giusto?» Saphira. La coda della dragonessa sibilò sulla sua testa. Se avesse voluto ucciderti, avrebbe potuto farlo molto tempo fa. Un ramo graffiò la nuca di Eragon, tracciando un solco sanguinante. Il ruggito della cascata era sempre più vicino. Voglio che tu non perda d’occhio Murtagh quando arriviamo dai Varden. Potrebbe fare qualche idiozia, e non voglio che lo uccidano per errore. Farò del mio meglio, disse lei, facendosi largo a spallate fra due alberi e strappando via brani di corteccia. Il corno suonò ancora. Eragon si gettò un’occhiata alle spalle, certo di vedere gli Urgali sbucare dalle tenebre. La cascata tuonava incessante davanti a loro, soffocando ogni altro suono della notte. La foresta terminò, e Murtagh fece fermare i cavalli. Si trovavano su una spiaggia di ghiaia a sinistra della foce dello Zannadorso. Il profondo Lago Kóstha-mérna riempiva la valle, sbarrando loro il cammino. L’acqua scintillava di miriadi di stelle. Le pareti della montagna riducevano il passaggio intorno al Kóstha-mérna a una sottile fascia di terra su entrambi i lati del lago, ciascuna non più larga di qualche passo. All’estremità più lontana del lago, un’ampia cortina d’acqua scrosciante si tuffava da una nera rupe in ribollenti globi di spuma. «Andiamo verso la cascata?» chiese Murtagh, scuro in. volto. «Sì.» Eragon assunse la guida del gruppo e aprì la strada lungo la riva sinistra del lago. La ghiaia sotto i loro piedi era umida e viscida. Non c’era quasi spazio per Saphira tra la parete scoscesa e il lago; doveva camminare con una zampa nell’acqua. Erano a metà strada verso la cascata, quando Murtagh gridò: «Gli Urgali!» Eragon si volse e scivolò sui ciottoli. Sulla riva del Kóstha-mérna, dove erano passati solo qualche minuto prima, enormi sagome affioravano dalla foresta. Gli Urgali si ammassarono sulla riva del lago. Uno di loro fece un cenno verso Saphira; parole gutturali giunsero da sopra l’acqua. Subito l’orda si divise e cominciò ad avanzare su entrambe le sponde del lago, lasciando Eragon e Murtagh senza via d’uscita. Le rive strette costringevano i grossi Kull a marciare in fila indiana. «Corri!» urlò Murtagh, sguainando la spada e schiaffeggiando i fianchi dei cavalli. Saphira spiccò il volo senza preavviso e puntò verso gli Urgali. «No!» gridò Eragon, e poi, con la mente: Torna indietro, ma la dragonessa continuò, sorda ai suoi richiami. Con uno sforzo doloroso, Eragon distolse lo sguardo da Saphira e continuò a correre, sfilando Zar’roc dal fodero. Saphira si gettò in picchiata sugli Urgali, ruggendo con ferocia. I mostri cercarono di disperdersi, ma erano intrappolati contro il fianco della montagna. La dragonessa afferrò un Kull fra gli artigli e sollevò la creatura urlante, sbranandola con le zanne poderose. Un momento dopo, il corpo ridotto al silenzio precipitò nel lago, mutilato di una gamba e un braccio. I Kull proseguivano intorno al Kóstha-mérna, ostinati. Con il fumo che le usciva dalle narici, Saphira si tuffò di nuovo su di loro, zigzagando e ondeggiando per evitare nugoli di frecce nere scoccate contro di lei. Molte le sfiorarono i fianchi squamosi, senza lasciare che qualche graffio insignificante, ma la dragonessa ruggì quando alcune le trafissero le ali. Le braccia di Eragon ebbero uno spasmo di solidarietà, e dovette trattenersi dal correre in aiuto della dragonessa. La paura gli invase le vene quando vide la fila di Urgali avvicinarsi. Cercò di correre più in fretta, ma i suoi muscoli erano troppo stanchi, le rocce troppo scivolose. Poi, con un tonfo sonoro, Saphira s’immerse nel Kóstha-mérna, lasciando solo una serie di onde concentriche a incresparne la superficie. Gli Urgali guardarono nervosi l’acqua scura che lambiva loro i piedi. Uno grugnì qualcosa di indecifrabile e puntò la lancia verso il lago. L’acqua esplose quando la testa di Saphira emerse dagli abissi. Le sue fauci si richiusero sulla lancia, spezzandola come un fuscello mentre la strappava dalle mani del Kull con un violento strattone. Prima che potesse ghermire l’Urgali, i suoi compagni le scagliarono addosso le lance e la colpirono sul muso, Saphira arretrò, sibilando furiosamente, e frustò l’acqua con la coda. Il Kull in testa alla fila cercò di passare, armato della lancia tesa contro la dragonessa, ma fu costretto a fermarsi quando lei fece schioccare i denti a un soffio dalle sue gambe. Tutta la fila di Urgali si fermò mentre lei li teneva a bada. Nel frattempo quelli sull’altra sponda del lago continuavano a correre verso la cascata. Questi li ho intrappolati, disse Saphira a Eragon, ma fate in fretta... non posso trattenerli all’infinito. Gli arcieri sulla riva stavano già mirando contro di lei. Eragon si concentrò per correre più forte, ma lo stivale scivolò su una pietra e lui cadde in avanti. Murtagh lo afferrò all’ultimo istante per gli avambracci e continuarono a correre insieme, gridando per incitare i cavalli. Erano quasi alla cascata. Il fragore era assordante, come quello di una valanga. Una bianca parete d’acqua si riversava dalla rupe, precipitando con furia sulle rocce di sotto, dove sollevava una nube di goccioline polverizzate che si posarono sui loro volti accaldati. A quattro iarde dalla cortina spumeggiante, la spiaggia si allargava, dando loro un certo spazio di manovra. Saphira ruggì quando la lancia di un Urgali le lacerò un fianco, e si ritrasse sott’acqua. A quel punto i Kull ripresero a correre come ossessi. Ancora poche centinaia di piedi e li avrebbero raggiunti. «Che cosa facciamo?» chiese Murtagh con freddezza. «Non lo so. Lasciami pensare!» esclamò Eragon, cercando le istruzioni finali fra i ricordi di Arya. Scrutò il terreno finché non trovò una pietra grande quanto una mela, l’afferrò e la battè sulla rupe vicino alla cascata, gridando: «Ai varden abr du Shur’tugals gata vanta!» Non accadde nulla. Provò di nuovo, gridando più forte, ma riuscì soltanto a farsi male alla mano. Si voltò disperato verso Murtagh. «Siamo in trappo...» Le sue parole furono interrotte dalla comparsa improvvisa di Saphira, che affiorò dal lago e li inondò di acqua gelata. Atterrò sulla spiaggia e si accovacciò, pronta alla battaglia. I cavalli indietreggiarono terrorizzati, cercando di fuggire. Eragon li raggiunse con la mente per calmarli. Dietro di te! gridò Saphira. Eragon si volse e vide il primo Urgali che correva verso di lui, lancia in resta. Da vicino, il Kull era alto quanto un piccolo gigante, con braccia e gambe grossi come tronchi. Murtagh ritrasse il braccio e scagliò la spada con incredibile prontezza. La lunga lama fece un giro completo su sè stessa e colpì di punta il Kull in pieno petto. L’enorme Urgali crollò in terra con un gorgoglio strozzato. Prima che un altro Kull potesse attaccare, Murtagh scattò verso il cadavere ed estrasse la spada. Eragon alzò la mano, col palmo rivolto in avanti, e gridò: «Jierda theirra kalfis!» Lungo la riva risuonarono schiocchi agghiaccianti. Una ventina di Urgali caddero nel Kóstha-mérna urlando e tenendosi le gambe, da cui spuntavano frammenti d’osso. Senza rompere il passo, il resto degli Urgali marciò sui compagni caduti. Eragon lottò contro la stanchezza, appoggiandosi a Saphira per avere un sostegno. Una raffica di frecce, impossibile da vedere al buio li sfiorò per andare a schiantarsi contro la roccia. Eragon e Murtagh si abbassarono, coprendosi la testa. Con un piccolo ringhio, Saphira fece un balzo in avanti per proteggere loro e i cavalli con i suoi fianchi corazzati. Un coro di schiocchi metallici annunciò che la seconda raffica di frecce era rimbalzata sulle sue squame. «E adesso?» gridò Murtagh. La rupe non mostrava alcun ingresso. «Non possiamo restare qui!» Eragon udì Saphira ringhiare quando una freccia le lacerò la sottile membrana del bordo di un’ala. Si guardò intorno, in preda alla disperazione, cercando di capire perché le istruzioni di Arya non avevano fuzionato. «Non lo so! Dovrebbe essere proprio questo, il luogo!» «Perché non chiedi all’elfa, per sicurezza?» disse Murtagh. Lasciò la spada, afferrò l’arco dalla sella di Tornac e con un rapido movimento scoccò un freccia, nascondendosi tra le punte del dorso di Saphira. Un istante dopo, un altro Urgali cadde in acqua. «Adesso? Ma se sta per morire! Dove trova l’energia per parlarmi?» «Non lo so» gridò Murtagh. «ma sarà meglio che pensi a qualcosa, perché non possiamo respingere un intero esercito!» Eragon, chiamò Saphira in tono concitato. Che cosa c’è? Siamo dalla parte sbagliata del lago! Ho visto i ricordi di Arya attraverso di te, e mi sono appena resa conto che non è questo il posto giusto. Chinò la testa contro il petto mentre un’altra sventagliata di frecce sibilava verso di loro. La sua coda si dibatte per il dolore quando venne colpita. Non posso continuare così! Mi fanno a pezzi! Eragon rinfoderò Zar’roc ed esclamò: «I Varden sono dall’altra parte del lago. Dobbiamo passare sotto la cascata!» Si accorse con terrore che gli Urgali sull’altra sponda del Kóstha-mérna erano quasi arrivati alla meta. Gli occhi di Murtagh andarono all’immane diluvio che sbarrava loro la strada. «Non ce la faremo mai con i cavalli, nemmeno se riuscissimo a restare in piedi.» «Ci penserò io a convincerli» ribatte Eragon. «E Saphira porterà Arya.» Le grida e i muggiti degli Urgali fecero nitrire di rabbia Fiammabianca. L’elfa oscillò sulla sella, ignara del pericolo. Murtagh scrollò le spalle. «Sempre meglio che farsi sventrare da questi mostri.» Si affrettò a tagliare le corde che reggevano Arya sulla sella di Fiammabianca, ed Eragon prese l’elfa mentre scivolava a terra. Sono pronta, disse Saphira, e si preparò, le zampe davanti poggiate a terra. Gli Urgali in avvicinamento esitarono, senza capire le sue intenzioni. «Ora!» gridò Eragon. Lui e Murtagh issarono Arya sul dorso di Saphira, poi le infilarono le gambe nei nodi scorsoi che sostituivano le staffe. Nel momento stesso in cui ebbero finito, Saphira dispiegò le ali e si alzò in volo sul lago. Gli Urgali ulularono di rabbia nel vederla fuggire e scoccarono una scarica di frecce che rimbalzarono sul suo ventre. I Kull sull’altra sponda raddoppiarono il passo per raggiungere la cascata prima di lei. Eragon dilatò la mente per entrare nei pensieri spaventati dei cavalli. Usando l’antica lingua, disse loro che se non nuotavano attraverso la cascata, sarebbero stati uccisi e mangiati dagli Urgali. Anche se non capirono tutto quello che disse, gli animali ne colsero il senso, e tanto bastò. Fiammabianca e Tornac scrollarono la testa, poi si gettarono sotto la cascata fragorosa, lanciando alti nitriti quando l’acqua li percosse sul dorso. Cominciarono a nuotare, lottando per tenere la testa fuori dall’acqua. Murtagh rinfoderò la spada e balzò dietro di loro; scomparve sotto la spuma ribollente, per riemergere poco dopo, sputacchiando. Gli Urgali erano alle spalle di Eragon; sentiva i loro passi crepitare sulla ghiaia. Con un selvaggio grido di guerra, si tuffò dietro Murtagh, chiudendo gli occhi un attimo prima che l’acqua gelida lo colpisse. Il peso terribile della cascata gli piovve sulle spalle con una potenza inaudita; il suo boato indifferente gli riempì le orecchie. Fu trascinato sul fondo, dove si sbucciò le ginocchia contro il letto roccioso del lago. Fece leva con le gambe e schizzò fuori dall’acqua con tutto il torso, ma prima che riuscisse a prendere una boccata d’aria, la cascata lo spinse di nuovo sotto. Non riusciva a vedere altro che una bianca macchia indistinta mentre la spuma gli vorticava intorno. Cercò freneticamente di raggiungere la superficie, per espandere i polmoni in fiamme, ma riuscì a fare appena una bracciata e il diluvio gli impedì di risalire. Il panico prese il sopravvento, ed Eragon cominciò a dibattersi, lottando contro l’acqua. Appesantito da Zar’roc e dai vestiti bagnati, affondò di nuovo, incapace di pronunciare le antiche parole che lo avrebbero salvato. All’improvviso una mano forte lo afferrò per il collo della tunica e lo trascinò fuori dall’acqua. Il suo salvatore fendeva il lago con rapide e potenti bracciate. Eragon sperò che fosse Murtagh e non un Urgali. Raggiunsero la spiaggia di ciottoli ed Eragon prese a tremare violentemente: tutto il suo corpo era scosso da terribili spasmi, Un fragore di combattimento proruppe alla sua destra; si volse, aspettandosi una carica di Urgali. I mostri sulla riva opposta cadevano sotto una pioggia di frecce scagliate dai crepacci che costellavano la rupe. Decine di Urgali già galleggiavano a pancia in su nell’acqua, trafitti da molti dardi. Quelli sulla stessa riva di Eragon subivano la stessa sorte: non potevano riunirsi, né ritirarsi da quella posizione scoperta, poiché schiere di guerrieri erano comparse alle loro spalle, dove il lago incontrava la parete della montagna. L’unica cosa che impedì al Kull più vicino di avventarsi su Eragon fu la pioggia costante di frecce: gli arcieri invisibili sembravano decisi a dare del filo da torcere agli Urgali, Una voce roca accanto a lui disse: «Akh Guntéraz dorzàda! Ma che cosa credevi? Stavi per annegare!» Eragon si voltò, sorpreso. Non c’era Murtagh vicino a lui, ma un uomo piccolo, che gli arrivava appena al gomito. Il nano era impegnato a strizzarsi la lunga barba intrecciata. Aveva il torace ampio e robusto, e portava una cotta di maglia senza maniche, da cui spuntavano le braccia tozze e muscolose. Intorno alla vita aveva una cintura a cui era appesa un’ascia di guerra. In testa portava una calotta di cuoio cerchiata di ferro, con il simbolo di un martello circondato da dodici stelle. Nonostante l’elmetto, a stento. sfiorava i quattro piedi di altezza. Guardò con desiderio la battaglia e disse: « Barzul, come mi piacerebbe tuffarmi nella mischia!» Un nano! Eragon estrasse Zar’roc e si guardò intorno, in cerca di Saphira e Murtagh. Nella rupe si erano aperti due portali di pietra alti dodici piedi, che si affacciavano su un lungo tunnel, alto quasi trenta piedi, che si snodava nelle misteriose profondità della montagna. Una fila di lampade senza fiamma emanava ima pallida luce azzurrognola che si riversava sul lago. Saphira e Mùrtagh erano davanti al tunnel, circondati da uno strano miscuglio di uomini e nani. Vicino a Murtagh c’era un uomo calvo, senza barba, vestito di un lungo abito oro e porpora. Era più alto degli altri umani, e teneva un pugnale alla gola di Murtagh. Eragon fece per evocare il potere, ma l’uomo dal lungo vestito disse con voce aspra, minacciosa: «Fermati! Se usi la magia, ucciderò il tuo caro amico, che è stato così gentile da dirci che sei un Cavaliere. Non credere che io non sappia che cosa stai facendo. Non puoi nascondermi niente.» Eragon cercò di parlare, ma l’uomo scoprì i denti e premette più forte il coltello contro la gola di Murtagh. «Non fiatare! Se dici o fai qualcosa che non ti ho ordinato, lui morirà. E ora, tutti dentro.» Tornò nel tunnel; spingendo Murtagh davanti a sé senza smettere di tenere d’occhio Eragon. Saphira, che cosa devo fare? chiese rapido Eragon, mentre gli uomini e i nani seguivano il sequestratore di Murtagh, portando i cavalli con sé. Va’ con loro, gli suggerì lei, e spera che restiamo in vita. Entrò anche lei nel tunnel, attirandosi occhiate nervose. A malincuore, Eragon la seguì, sentendo il peso degli sguardi dei guerrieri. Il suo salvatore, il nano, camminava al suo fianco, una mano posata sull’impugnatura dell’ascia. Esausto, Eragon entrò barcollando nel ventre della montagna. I portali di pietra si richiusero alle loro spalle quasi senza far rumore, Eragon si guardò indietro e vide una parete ininterrotta lì dove un attimo prima c’era l’apertura. Erano in trappola. Ma erano al sicuro? 50 In cerca di risposte «Di qua» ordinò l’uomo calvo. Fece un passo indietro, il pugnale sempre premuto contro il mento di Murtagh, poi voltò a destra per imboccare una porta ad arco. I guerrieri lo seguirono prudenti, concentrati su Eragon e Saphira. I cavalli furono scortati in un altro tunnel. Stordito dal turbine di eventi, Eragon si affrettò a seguire Murtagh. Scoccò un’occhiata a Saphira per avere la conferma che Arya fosse ancora legata sulla sua sella. Deve prendere l’antidoto! pensò, in preda al panico, sapendo che anche in quel momento lo Skilna Bragh stava scavando la sua strada di morte nella carne dell’elfa. Seguì l’uomo calvo lungo uno stretto corridoio, sempre sotto la minaccia delle armi. Passarono davanti alla scultura, di uno strano animale con folte penne. Il corridoio piegò a sinistra, poi a destra. Si aprì una porta ed entrarono in una stanza spoglia, grande abbastanza perché Saphira vi si potesse muovere con agio. Si udì un cupo rimbombo quando la porta si chiuse, seguito da un raspare metallico che segnalò lo scatto del chiavistello. Eragon studiò la sala, con Zar’roc ancora stretta in pugno. Le pareti, il pavimento e il soffitto erano di lucido marmo bianco, che rifletteva l’immagine spettrale di ogni presente, come uno specchio di latte screziato. In ciascuno degli angoli splendeva una delle insolite lanterne. «C’è qualcuno...» cominciò a dire Eragon, ma l’uomo calvo lo zittì con un gesto. «Non parlare! Devi aspettare finché non sarai stato messo alla prova.» Spinse Murtagh contro uno dei guerrieri, che subito gli premette la lama sulla gola. L’uomo calvo giunse le mani. «Togliti le armi e dammele.» Un nano sganciò la spada di Murtagh e la lasciò cadere a terra con un sonoro clangore. Pur restio a separarsi da Zar’roc, Eragon slacciò il fodero e lo depose, insieme alla spada, sul pavimento. Vicino posò l’arco e la faretra, e poi spinse le armi verso i guerrieri. «Ora allontanati dal drago e avvicinati a me, lentamente» ordinò l’uomo calvo. Sconcertato, Eragon fece qualche passo avanti, ma quando furono a meno di un metro di distanza, l’uomo disse: «Fermati lì! Ora, elimina le difese che circondano la tua mente e preparati a farmi ispezionare i tuoi pensieri e i tuoi ricordi. Se provi a nascondermi qualcosa, prenderò quello che voglio con la forza... e questo ti farà impazzire. Se non ti sottometti, il tuo compagno verrà ucciso.» «Perché?» chiese Eragon, atterrito. «Per assicurarmi che non sei al servizio di Galbatorix e per capire perché centinaia di Urgali bussano alla nostra porta» ringhiò l’uomo calvo. I suoi occhi molto vicini non smettevano di guizzare da una parte e dall’altra. «Nessuno può entrare nel Farthen Pur senza aver passato l’esame.» «Non c’è tempo. Abbiamo bisogno di un guaritore!» protestò Eragon. «Silenzio!» ruggì L’uomo, stringendo con le dita lunghe e scarne i bordi del mantello. «Finché non avrai risposto, le tue parole non hanno significato!» «Ma sta morendo!» ribattè Eragon infuriato, indicando Arya. Erano in una situazione difficile, ma non avrebbe permesso che accadesse nulla finché qualcuno non si fosse preso cura di Arya. «Dovrà aspettare! Nessuno uscirà di qui finché non avremo scoperto la verità. A meno che...» Il nano che aveva salvato Eragon dal lago s’intromise nella discussione. «Ma sei cieco, Egraz Carn? Non vedi che c’è un’elfa in sella al drago? Non possiamo tenerla qui, se è in pericolo di vita. Ajihad e il re pretenderanno la nostra testa, se la lasciamo morire!» Gli occhi dell’uomo calvo si ridussero a due fessure lampeggianti di collera. Dopo qualche istante, riprese il controllo e disse: «Ma certo. Orik, non vogliamo che questo accada.» Schioccò due dita e indicò Arya. «Fatela scendere di lì.» Due guerrieri umani rinfoderarono le spade e si avvicinarono esitanti a Saphira, che li fissò truce. «Svelti, svelti!» Gli uomini slegarono Arya dalla sella e deposero l’elfa sul suolo. Uno degli uomini ne scrutò il volto, poi esclamò, sorpreso: «È la portatrice dell’uovo di drago. Arya!» «Che cosa?» esclamò l’uomo calvo. Gli occhi del nano Orik si spalancarono per lo stupore. L’uomo calvo squadrò Eragon con rinnovata curiosità e disse: «Dovrai darci parecchie spiegazioni.» Eragon sostenne il suo sguardo con determinazione. «È stata avvelentata con lo Skilna Bragh mentre era in prigione. Soltanto il Nettare di Tùnivor può salvarla.» Il volto dell’uomo divenne una maschera impassibile. Rimase immobile; solo le sue labbra si contraevano ogni tanto. «D’accordo. Portatela dai guaritori, e dite loro che cosa le occorre. Sorvegliatela finché la cerimonia non sarà completata. Poi avrò altri ordini per voi.» I guerrieri annuirono e trasportarono Arya fuori dalla stanza. Eragon li guardò uscire, col desiderio di accompagnarli. La sua attenzione tornò sull’uomo calvo, che disse; «Ora basta, abbiamo già perso troppo tempo. Preparati a essere esaminato.» Eragon non voleva che quell’arrogante testa di biglia gli frugasse nella mente, mettendo a nudo ogni suo pensiero o emozione, ma sapeva che resistere sarebbe stato inutile. L’aria era tesa. Lo sguardo di Murtagh gli bruciava la fronte. Alla fine chinò il capo e disse: «Sono pronto.» «Bene, allora...» L’uomo calvo fu di nuovo interrotto da Orik, che disse in tono aspro: «Sarà meglio che tu non gli faccia del male, Egraz Carn, altrimenti il re avrà qualcosa da dirti.» L’uomo calvo gli rivolse uno sguardo irritato, poi si voltò verso Eragon con un sorriso maligno. «Solo se resiste.» Chinò il capo e cominciò a pronunciare una serie di parole impercettibili. Eragon risucchiò il fiato con un gemito di dolore quando qualcosa di acuto gli trafisse la mente all’improvviso. Sgranò gli occhi e cominciò a innalzare barriere intorno alla propria coscienza. L’attacco era di una potenza inaudita. Non farlo! gridò Saphira. I suoi pensieri si unirono a quelli di lui, donandogli forza. Così metti in pericolo Murtagh! Eragon esitò, digrignò i denti, poi si costrinse ad abbassare le difese, esponendosi all’indagine. Un sentore di delusione emanava dall’uomo calvo, che intensificò il suo attacco. La forza sprigionata dalla sua mente aveva qualcosa di marcio, di malsano; c’era un che di profondamente sbagliato in essa. Vuole che mi opponga! esclamò Eragon mentre una nuova ondata di dolore lo travolgeva. Un secondo dopo parve calare, ma solo per essere sostituita da una terza. Saphira fece del suo meglio per sopprimerla, ma nemmeno lei poteva arginarla. Dagli quello che vuole, suggerì, frenetica, ma proteggi il resto. Ti aiuterò io. La sua forza è superiore alla mia, e già sto consumando le mie energie per schermare il nostro dialogo. Ma perché fa male? Il dolore viene da te. Eragon fece una smorfia mentre l’indagine scavava più a fondo, cercando informazioni, come un chiodo infilato nel suo cranio. L’uomo calvo trovò i suoi ricordi d’infanzia e prese a sfogliarli. Quelli non gli servono... fallo uscire di lì! gridò Eragon, infuriato. Non posso senza metterti in pericolo, disse Saphira. Posso nascondergli le cose, ma prima che le veda. Pensa in fretta, e dimmi che cosa vuoi che nasconda! Eragon cercò di concentrarsi, nonostante il dolore. Ripercorse rapido tutti i suoi ricordi, da quando aveva trovato l’uovo di Saphira. Nascose parti delle sue conversazioni con Brom, comprese le parole antiche che il vecchio gli aveva insegnato, mentre lasciò intatti i ricordi dei viaggi attraverso la Valle Palancar, Yazuac. Daret e Teirm. Chiese però a Saphira di nascondere tutto ciò che ricordava di Angela l’indovina e di Solembum. Saltò dal furto commesso nella fortezza di Teirm alla morte di Brom, dalla prigionia a Gil’ead alla rivelazione di Murtagh della propria vera identità. Eragon avrebbe voluto nascondere anche quella, ma Saphira si rifiutò. I Varden hanno il diritto di sapere a chi stanno dando asilo, specie se è il figlio di un Rinnegato! Fallo e basta, si ostinò Eragon, lottando contro un’altra ondata di dolore. Non voglio essere io a rivelarlo, almeno non a quest’uomo. Lo scoprirà non appena esaminerà Murtagh, lo avvertì Saphira. Fallo, ho detto. Nascosta l’informazione più importante, Eragon non potè far altro che aspettare che l’uomo calvo portasse a termine la sua ispezione. Era come restare immobile mentre ti vengono strappate le unghie con una pinza arrugginita. Il suo corpo era rigido, la mascella serrata. La stia pelle emanava un forte calore e un rivolo di sudore gli colava dietro il collo. Sentiva ogni secondo, e i minuti passavano con esasperante lentezza. Il calvo si aggirava pigramente fra le sue esperienze, come un rampicante spinoso che si fa strada verso il sole. Prestava attenzione a molte cose che Eragon considerava irrilevanti, come sua madre, Selena, e parve indugiarvi di proposito, per prolungare la sofferenza. Passò molto tempo a sfogliare i ricordi dei Ra’zac e poi dello Spettro. Soltanto quando ebbe scandagliato tutte le avventure di Eragon, l’uomo calvo cominciò a ritirarsi dalla sua mente. Quando ne uscì, a Eragon parve che gli sfilassero una scheggia dal cervello. Rabbrividì, vacillò e si accasciò a terra. Un paio di braccia robuste lo afferrarono un istante prima che toccasse il pavimento, adagiandolo con delicatezza sul freddo marmo. Sentì Orik che esclamava alle sue spalle: «Hai esagerato! Non era abbastanza forte per questo.» «Sopravviverà, ed è questo che conta» rispose gelido l’uomo calvo. Il nano sbuffò, seccato, poi chiese: «Cos’hai trovato?» Silenzio. «Allora, ci possiamo fidare o no?» Le parole giunsero stentate. «Lui... non è vostro nemico.» In tutta la stanza echeggiarono sospiri di sollievo. Eragon socchiuse le palpebre tremanti e provò ad alzarsi di scatto. «Sta’ calmo» disse Orik, e gli cinse le spalle con un braccio per aiutarlo a mettersi in piedi. Eragon ondeggiò incerto sulle gambe, guardando in tralice l’uomo calvo, Saphira emise un sordo brontolio di gola. L’uomo calvo li ignorò. Si rivolse a Murtagh, che era ancora sotto la minaccia della spada. «Adesso tocca a te.» Murtagh si irrigidì e scosse il capo. La spada gli graffiò il collo e un rivoletto di sangue gli macchiò la pelle. «No.» «Non ti proteggeremo, se ti rifiuti.» «Eragon è stato dichiarato degno di fiducia, perciò non puoi influenzarmi minacciando di ucciderlo. Capisci bene che qualunque cosa tu dica o faccia, non servirà a costringermi ad aprire la mente.» L’uomo calvo arricciò le labbra e inarcò quello che sarebbe stato un sopracciglio, se ne avesse avuto uno. «E la tua vita? Posso sempre minacciare quella.» «Mi è del tutto indifferente» rispose Murtagh ostinato, con una tale forza nella voce da non lasciare ombra di dubbio sulla sua sincerità. L’uomo calvo esplose. «Non hai scelta!» Si avvicinò a Murtagh e gli posò il palmo sulla fronte, premendo le dita aperte per tenergli ferma la testa. Murtagh si irrigidì, il volto duro come il ferro, i pugni stretti, i muscoli del collo gonfi. Era chiaro che si stava opponendo all’attacco con tutte le sue forze. L’uomo calvo scoprì i denti per la rabbia e la delusione; le sue dita affondarono senza pietà nella carne di Murtagh. Eragon prese ad agitarsi, ben conoscendo la lotta che si svolgeva fra i due. Non puoi aiutarlo? chiese a Saphira. No, rispose lei in tono sommesso. Non permette a nessuno di entrargli nella mente. Orik si accigliò nel guardare i contendenti. « Ilf carnz orodum» mormorò, poi si fece avanti e gridò: «Basta!» Afferrò la mano dell’uomo calvo e la scostò dalla fronte di Murtagh con una forza sproporzionata rispetto alla sua taglia. L’uomo calvo indietreggiò barcollando, poi si rivolse a Orik con rabbia. «Come osi?» ululò. «Hai criticato la mia autorità, hai aperto i cancelli senza permesso, e ora questo! Non sei altro che un insolente e un traditore. Credi che il tuo re continuerà a proteggerti, quando lo saprà?» Orik non si lasciò intimorire. «Tu li avresti lasciati morire! Se avessi aspettato solo un altro istante, gli Urgali li avrebbero uccisi.» Indicò Murtàgh, che ansimava. «Non abbiamo il diritto di torturarlo per estorcergli informazioni! Ajihad non approverebbe. Non dopo che hai esaminato il Cavaliere e lo hai trovato degno di fiducia. E ricorda, ci hanno riportato Arya.» «Allora permetteresti loro di entrare senza esame? Sei così stupido da metterci tutti, a rischio?» disse l’uomo calvo, schiumando di collera a stento repressa; sembrava pronto a balzare alla gola del nano. «Sa usare la magia?» «Cosa...» «Sa usare la magia?» ruggì Orik. La sua voce roca echeggiò per tutta la sala. L’uomo calvo perse di colpo ogni espressione. Si intrecciò le mani dietro la schiena. «No.» «Allora di che cosa hai paura? È impossibile che fugga, e non può fare niente di male con tutti noi qui, soprattutto se i tuoi poteri sono così grandi come sostieni. E comunque non ascoltare me; chiedi a Ajihad cosa vuole.» L’uomo calvo fissò Orik per un momento, con espressione indecifrabile, poi alzò gli occhi al soffitto e li chiuse. Le sue spalle assunsero una rigidezza innaturale, mentre le sue labbra si muovevano senza emettere suono. Rughe profonde gli solcarono la pallida pelle della fronte, e le sue dita si strinsero, come se stesse strangolando un nemico invisibile. Rimase così per parecchi minuti, assorto in una muta conversazione. Quando aprì gli occhi, ignorò deliberatamente Orik per ordinare brusco ai guerrieri: «Uscite subito!» Mentre gli uomini abbandonavano la sala in ranghi ordinati, si rivolse a Eragon e disse in tono gelido: «Poiché non sono riuscito a completare il mio esame, tu e... il tuo amico resterete qui, stanotte. Se cerca di fuggire, verrà ucciso.» Detto questo, si voltò e usci dalla stanza, il cranio rasato che scintillava pallido alla luce delle lanterne. «Grazie» mormorò Eragon a Orik. Il nano borbottò una frase di assenso. «Farò in modo che vi portino da mangiare» disse. Mormorò una serie di parole sottovoce, poi uscì, scuotendo il capo. Il chiavistello scattò di nuovo. Eragon si sedette, stranamente stordito dopo l’eccitazione della giornata e la marcia forzata. Aveva le palpebre pesanti. Saphira si accovacciò accanto a lui. Dobbiamo stare attenti. Sembra che qui abbiamo tanti nemici quanti nell’Impero. Eragon annuì, troppo stanco per parlare. Murtagh, gli occhi vitrei e vuoti, fece scivolare la schiena contro la parete e si sedette. Teneva la manica della camicia premuta contro il taglio sul collo, per fermare il sangue. «Stai bene?» gli chiese Eragon. Murtagh annuì stancamente. ««È riuscito a sapere qualcosa da te?» «No.» «Come hai fatto a resistergli? È molto forte.» «Sono... sono stato ben addestrato.» Nella sua voce risuonò una nota amara. Li avvolse una cappa di silenzio. Lo sguardo di Eragon indugiò su ciascuna delle lanterne appese negli angoli. Lasciò vagare i pensieri, finché non si riscosse per dire: «Non gli ho permesso di sapere chi sei.» Murtagh parve sollevato. Chinò il capo e disse: «Ti ringrazio di non avermi tradito.» «Non ti hanno riconosciuto.» «No.» «Ma sostieni ancora di essere il figlio di Morzan?» «Sì» sospirò Murtagh. Eragon fece per parlare, ma si fermò quando sentì del liquido caldo piovergli su una mano. Abbassò lo sguardo e rimase sbalordito nel vedere una grossa goccia di sangue scuro colargli sulla pelle. Era caduta dall’ala di Saphira. Dimenticavo che sei ferita! esclamò, alzandosi con uno sforzo. Devo curarti. Sta’ attento. È facile commettere errori, quando si è così stanchi. Lo so. Saphira aprì una delle ali e la distese sul pavimento. Mentre Murtagh lo osservava, Eragon fece scorrere le mani sulla calda membrana azzurra, dicendo: «Waise heill» ogni volta che scopriva un foro di freccia. Per loro fortuna, tutte le ferite furono abbastanza facili da rimarginare, perfino quelle sul muso. Completata l’opera, Eragon si abbandonò contro il fianco di Saphira, respirando affannoso. Sentiva il grande cuore della dragonessa pulsare con il costante battito della vita. «Spero che facciano in fretta a portarci il cibo» disse Murtagh. Eragon scrollò le spalle; era troppo stanco per avere . fame. Incrociò le braccia, avvertendo la mancanza del peso di Zar’roc al suo fianco. «Perché sei qui?» «Che cosa?» «Se sei davvero il figlio di Morzan, come mai Galbatorix ti permette di gironzolare libero per tutta l’Alagasëia? Come hai fatto a trovare i Ra’zac da solo? Perché non ho mai sentito dire che i Rinnegati hanno avuto dei figli? E che cosa ci fai qui?» La sua voce era cresciuta d’intensità fino a diventare quasi un grido. Murtagh si passò le mani sul viso. «È una lunga storia.» «Non abbiamo impegni» ribattè Eragon. «È troppo tardi per parlare.» «Probabilmente domani non ne avremo il tempo.» Murtagh si abbracciò le gambe e appoggiò il mento sulle ginocchia, dondolando avanti e indietro, gli occhi fissi sul pavimento di marmo. «Non è...» cominciò, ma s’interruppe. «D’accordo, ma non ho intenzione di fermarmi... perciò mettiti comodo. La mia storia non è affatto breve.» Eragon si sistemò meglio contro il fianco di Saphira e annuì, Saphira guardava entrambi con grande interesse. La prima frase di Murtagh fu esitante, ma via via la sua voce assunse forza e sicurezza. «Per quanto ne so... io sono l’unico figlio dei Tredici Servi, o Rinnegati, come sono anche chiamati. Potrebbero essercene degli altri, poiché i Tredici sono sempre stati abili a nascondere quello che volevano, ma ne dubito, per ragioni che ti spiegherò in seguito. «I miei genitori si conobbero in un piccolo villaggio, non ho mai saputo quale, mentre mio padre era in viaggio per conto del re. Morzan si mostrò gentile con mia madre, senza dubbio.un inganno per conquistare la sua fiducia, e quando lui ripartì, lei andò con lui. Viaggiarono insieme per qualche tempo e com’è nella natura di queste cose, mia madre finì per innamorarsi di lui, Morzan si compiacque di scoprirlo, non solo perché gli dava l’opportunità di tormentarla, ma soprattutto perché riconobbe il vantaggio di avere una persona al suo servizio che non lo avrebbe mai tradito. «Così, quando Morzan tornò alla corte di Galbatorix, mia madre divenne lo strumento dei suoi complotti. La usava per portare messaggi segreti, e le insegnò qualche rudimento di magia, che la aiutava a non farsi scoprire e in qualche occasione a ottenere informazioni dalla gente. Lui faceva del suo meglio per proteggerla dal resto dei Tredici, non perché provasse dei sentimenti per lei, ma perché loro l’avrebbero usata contro di lui, se ne avessero avuta l’occasione. Per tre anni le cose andarono avanti così, finché mia madre non rimase incinta.» Murtagh fece una pausa, inanellandosi una ciocca di capelli intomo al dito. Poi riprese in tono serrato: «Mio padre, se non altro, era un uomo molto astuto. Sapeva che la gravidanza avrebbe messo in pericolo sia lui che mia madre, per non parlare del bambino, ossia me. E così una notte la fece sparire di nascosto dal palazzo e la portò nel suo castello. Una volta giunti sani e salvi, evocò potenti incantesimi per impedire a chiunque, tranne pochi servi fidati, di entrare nella sua proprietà. In questo modo la gravidanza rimase segreta a tutti, tranne che a Galbatorix. «Galbatorix conosceva i più intimi dettagli delle vite dei Tredici: le loro tresche, le loro dispute e, cosa più importante, i loro pensieri. Si divertiva a vederli litigare fra loro e spesso parteggiava per l’uno o per l’altro, solo per il gusto della battaglia. Ma per qualche ragione non rivelò mai la mia esistenza. «Non appena venni alla luce, fui affidato a una balia perché mia madre potesse tornare al fianco di Morzan. Non aveva scelta. Morzan le permetteva di venirmi a fare visita a mesi alterni, ma per il resto eravamo separati. Passarono altri tre anni, durante i quali Morzan mi procurò... la cicatrice sulla schiena.» Murtagh tacque per qualche istante, il volto corrucciato. «Sarei cresciuto in questo modo se Morzan non fosse stato chiamato a cercare l’uovo di Saphira. Non appena partì, mia madre, che era rimasta a palazzo, sparì. Nessuno sa dove andò, né perché. Il re mandò i suoi uomini a cercarla, ma nessuno riuscì a trovarla: senza dubbio fu grazie all’addestramento che lei aveva ricevuto da Morzan. «All’epoca della mia nascita, soltanto cinque dei Tredici erano ancora in vita. Quando Morzan partì, il numero si era ridotto a tre; quando alla fine affrontò Bfom a Gil’ead, era l’unico rimasto. I Rinnegati trovarono la morte sotto diverse forme: suicidio, agguati, abuso di magia... ma perlopiù fu opera dei Varden. Il re fu sconvolto da una collera terribile per la loro perdita. «Tuttavia, prima che la notizia della morte di Morzan e degli altri giungesse alle sue orecchie, mia madre tornò. Erano passati molti mesi da quando era scomparsa. Stava male, come se soffrisse di una grave malattia, e col tempo peggiorò. Nel giro di due settimane morì.» «E poi che cosa accadde?» incalzò Eragon. Murtagh si strinse nelle spalle. «Sono cresciuto. Il re mi portò a palazzo e diede disposizioni per la mia educazione. A parte questo, mi lasciò in pace.» «Allora perché te ne andasti?» Murtagh proruppe in una risata amara. «Fuggii, per meglio dire. Il giorno del mio diciottesimo compleanno, il re mi mandò a chiamare nei suoi appartamenti per una cena. L’invito mi sorprese, perché mi ero sempre tenuto in disparte dalla vita di corte e lo avevo incontrato di rado. Avevamo parlato qualche volta, ma sempre alla presenza degli altri nobili. «Accettai l’invito, naturalmente, perché sapevo che sarebbe stato poco saggio rifiutare. La cena fu sontuosa, ma per tutto il tempo i suoi occhi neri non si staccarono da me. Il suo sguardo èra inquietante; sembrava che cercasse un segreto sul mio volto. Non sapevo come comportarmi e feci del mio meglio per imbastire una conversazione affabile, ma lui non voleva parlare, e così mi arresi. «Finita la cena, cominciò a parlare lui. Non hai mai sentito la sua voce, perciò mi è difficile farti capire quanto fosse affascinante, quanto le sue parole fossero intriganti. Era come un serpente che mi sussurrasse parole mielate nelle orecchie. Non ho mai sentito un uomo più convincente e impressionante. Mi descrisse una visione: l’immagine dell’Impero come avrebbe voluto che fosse. In tutto il paese sarebbero sorte splendide città, popolate dai più valorosi guerrieri, da artigiani, musicisti e filosofi. Gli Urgali sarebbero stati finalmente estirpati. E l’Impero si sarebbe espanso in ogni direzione fino a raggiungere i quattro angoli di Alagasëia. Pace e prosperità avrebbero regnato, ma la cosa davvero meravigliosa era la sua intenzione di riportare in auge i Cavalieri perché governassero con giustizia i suoi feudi. «Lo ascoltai incantato per quelle che devono essere state ore intere. Quando ebbe finito gli chiesi come poteva restaurare l’ordine dei Cavalieri, dato che tutti sapevano che non erano rimaste uova di drago. Galbatorix si irrigidì e mi fissò, pensieroso. Per lunghi minuti rimase in silenzio, ma poi mi tese la mano e disse; “Figlio del mio amico, vuoi essere al mio fianco nel realizzare questo paradiso?” «Sebbene conoscessi la storia di come lui e mio padre avevano assunto il potere, il sogno che aveva dipinto per me era troppo allettante, troppo seducente per ignorarlo. Mi sentii colmare di eccitazione per la missione, e gli diedi la mia, parola. Ovviamente compiaciuto. Galbatorix mi diede la sua benedizione e mi congedò dicendo; “Ti chiamerò quando arriverà il momento.” «Passarono parecchi mesi. Quando mi mandò a chiamare, sentii rinascere in me quell’ardore evocato dalla sua visione. Ci incontrammo da soli come la prima volta, ma quel giorno non lo trovai cordiale né affascinante. I Varden avevano appena distrutto tre delle sue brigate nel sud del paese, e la sua ira era esplosa. Mi incaricò con voce terribile di guidare un reparto di soldati e andare a distruggere Cantos, dove si sapeva che i ribelli avevano un nascondiglio. Quando gli chiesi che cosa dovevamo fare del popolo e come avremmo fatto a sapere se erano colpevoli, lui gridò: “Sono tutti traditori! Bruciateli sul rogo e seppellite le loro ceneri nel fango!” Continuò a inveire contro i suoi nemici, descrivendo come avrebbe bruciato le terre di chiunque lo avesse ostacolato. «Il suo tono era così diverso da quando lo avevo incontrato la prima volta; mi fece capire che non possedeva la pietà o la lungimiranza per guadagnarsi la lealtà dei sudditi, e che governava soltanto con la forza bruta guidata dalle sue passioni. Fu in quel momento che mi decisi a fuggire per sempre da lui e da Urù’baen. «Non appena rimasi da solo, io e il mio fedele servitore. Tornac, ci preparammo a fuggire. Partimmo quella notte stessa, ma in qualche modo Galbatorix anticipò le mie mosse, perché trovammo dei soldati appostati fuori dai cancelli. La mia spada assaggiò tanto di quel sangue che la sua lama non rifletteva più la luce delle lanterne. Sconfiggemmo le guardie... ma Tornac rimase ucciso. «Solo, col cuore gonfio di angoscia, mi rifugiai in casa di un vecchio amico. Restando nascosto, mi informavo su ogni diceria, nel tentativo di prevedere le azioni di Galbatorix e predisporre il mio futuro. Durante quel periodo, mi giunse voce che i Ra’zac erano stati mandati a catturare o uccidere qualcuno. Ricordando i piani dì Galbatorix per i Cavalieri, decisi di trovare e seguire i Ra’zac, nel caso che fossero riusciti a trovare un drago. Ed ecco come ti ho trovato... Adesso non ho più segreti.» Ancora non sappiamo se dice la verità, mormorò Saphira. Lo so, disse Eragon, ma perché dovrebbe mentirci? Potrebbe essere pazzo. Ne dubito. Eragon fece scorrere un dito sulle dure squame di Saphira, osservando i riflessi della luce danzare su di loro. «Allora perché non ti unisci ai Varden? Forse al principio non si fiderebbero di te, ma una volta dimostrata la tua lealtà, ti tratteranno con rispetto. In un certo senso non sono tuoi alleati? Anche loro combattono per rovesciare il re. Non è quello che vuoi anche tu?» «Ma devo spiegarti proprio tutto!» esclamò Murtagh esasperato. «Non voglio che Galbatorix scopra dove sono, e sarà inevitabile se comincia a girar voce che mi sono unito ai suoi nemici. Questi...» S’interruppe, poi riprese con una smorfia: «... questi ribelli non vogliono soltanto rovesciare il re, ma distruggere l’Impero, e io non voglio che questo accada. Sarebbe l’anarchia. Il re è corrotto, sono d’accordo, ma il sistema è sano, E per quanto riguarda la possibilità di guadagnarmi il rispetto dei Varden... Ah! Una volta svelata la mia identità, mi tratterebbero come un criminale o peggio. Non solo; ma comincerebbero a sospettare anche di te, perché viaggiamo insieme!» Ha ragione, disse Saphira. Eragon la ignorò. «Non può essere tutto così nero» disse, cercando di assumere un tono ottimista. Murtagh sbuffò beffardo e distolse lo sguardo. «Sono sicuro che loro non ti...» La sua frase venne interrotta dal rumore della porta che si apriva. Attraverso uno spiraglio largo una spanna, vennero spinte all’interno della sala due scodelle. Seguirono una pagnotta e un pezzo di carne cruda; poi la porta si richiuse con un tonfo. «Finalmente!» borbottò Murtagh, avvicinandosi al cibo. Gettò la carne a Saphira, che la prese al volo con uno schiocco di denti e la ingoiò intera. Poi divise in due la pagnotta, ne diede metà a Eragon, prese la sua scodella e si ritirò in un angolo. Mangiarono in silenzio. «Adesso ho voglia di dormire» annunciò Murtagh, posando la scodella senza dire altro. «Buonanotte» disse Eragon. Si distese accanto a Saphira, le braccia sotto la testa. Lei gli cinse il corpo con il lungo collo, come un gatto che si acciambella, e posò la testa accanto alla sua. Distese una delle ali sopra di lui come una tenda azzurra, avviluppandolo nell’oscurità. Buonanotte, piccolo mio. Un lieve sorriso comparve sulle labbra di Eragon, anche se stava già dormendo. 51 La gloria di Tronjheim Eragon si svegliò di soprassalto: qualcuno gli grugniva nelle orecchie. Saphira dormiva ancora, ma i suoi occhi si muovevano sotto le palpebre e il suo labbro superiore tremava, come se volesse ringhiare. Sorrise, poi sussultò quando lei ringhiò di nuovo. Sogna, pensò. La guardò per un minuto, poi piano piano scivolò fuori da sotto la sua ala. Si alzò e si stiracchiò. La sala era fredda, ma non in maniera spiacevole. Murtagh era disteso a pancia in su nell’angolo opposto, gli occhi chiusi. Mentre Eragon aggirava il corpo di Saphira, Murtagh si mosse. «Buongiorno» disse sottovoce, mettendosi a sedere. «Da quanto sei sveglio?» sussurrò Eragon. «Da un po’. Mi sorprende che Saphira non ti abbia svegliato prima.» «Ero così stanco che avrei dormito anche nel cuore di una battaglia» disse Eragon con amara ironia. Si sedette accanto a Murtagh e appoggiò la testa al muro. «Sai che ore sono?» «No. È impossibile capirlo, qui dentro.» «Non è venuto nessuno?» «Non ancora.» Rimasero seduti senza muoversi né parlare. Eragon si sentiva stranamente legato a Murtagh. Porto la spada di suo padre, che avrebbe dovuto essere la sua eredità. Siamo simili sotto molti aspetti, eppure il nostro modo di vedere e la nostra educazione sono del tutto diversi. Pensò alla cicatrice di Murtagh e provò un brivido di orrore. Quale uomo farebbe una cosa del genere a un bambino? Saphira levò la testa e battè le palpebre per mettere a fuoco il mondo. Annusò l’aria, poi fece uno sbadiglio formidabile, arricciando la punta della lingua ruvida. Successo niente? Eragon scosse il capo. Spero che mi diano da mangiare qualcosa di più sostanzioso di quel boccone di ieri sera. Ho una fame che mi mangerei una mandria di mucche. Ti nutriranno a dovere, la rassicurò Eragon. Sarà meglio per loro. Si accovacciò accanto alla porta, in attesa, la coda fremente. Eragon chiuse gli occhi, gustando il riposo dopo tanta fatica. Sonnecchiò per un po’, poi si stirò e cominciò a girare in tondo per la sala. Annoiato, esaminò una delle lanterne. Era fatta di un singolo pezzo di vetro a forma di goccia, grande due volte un limone, e splendeva di una morbida luce azzurra che non ondeggiava nè tremolava. Il vetro era racchiuso fra quattro sottili tralci di metallo, saldati in cima a creare un gancio, e in basso a formare tre graziosi riccioli. Nell’insieme, un oggetto molto raffinato. I’ispezione di Eragon fu interrotta da voci fuori dalla sala. La porta si aprì, ed entrò una dozzina di guerrieri a passo di marcia. Il primo trasalì nel vedere Saphira, Erano seguiti da Orik e dall’uomo calvo, che dichiarò: «Siete stati convocati al cospetto di Ajihad, capo dei Varden. Se dovete mangiare, fatelo mentre marciamo.» Eragon e Murtagh si alzarono insieme, guardandolo con sospetto. «Dove sono i nostri cavalli? Posso riavere la mia spada e il mio arco?» L’uomo calvo lo guardò con sussuego. «Le tue armi ti saranno restituite quando Ajihad lo riterrà opportuno, non prima, E i vostri cavalli vi aspettano nel tunnel. Ora venite!» Mentre l’uomo calvo si voltava per andarsene, Eragon si affrettò a chiedere: «Come sta Arya?» L’uomo esitò. «Non lo so. I guaritori sono ancora con lei.» Uscì, accompagnato da Orik, Uno dei guerrieri fece un cenno. «Prima tu» disse. Eragon varcò la soglia, seguito da Saphira e Murtagh. Ripercorsero il corridoio che avevano attraversato la sera prima, passando davanti alla statua dello strano pennuto. Quando raggiunsero l’enorme tunnel, di accesso alla montagna, trovarono l’uomo calvo in attesa insieme a Orik, che reggeva le redini di Tornac e Fiammabianca. «Cavalcherete uno dietro l’altro al centro del tunnel» li istruì l’uomo calvo. «Se tentate . di filarvela da qualche parte, verrete fermati.» Quando Eragon fece per montare su Saphira, l’uomo calvo gridò: «No! Monterai sul tuo cavallo finché non ti ordinerò altrimenti.» Eragon si strinse nelle spalle e prese le redini di Fiammabianc. Montò in sella e guidò il cavallo davanti a Saphira. Restami vicina, nel caso che avessi bisogno di te. Contaci, rispose lei. Murtagh sali su Tornac, alle spalle di Saphira: L’uomo calvo studiò il gruppetto allineato, poi fece un cenno ai guerrieri, che si divisero in due ali e li circondarono, cercando di dare a Saphira più spazio possibile. Orik e l’uomo calvo si misero in testa al corteo. Dopo avergli scoccato un’ultima occhiata, l’uomo calvo batté le mani. due volte e s’incamminò. Eragon sfiorò appena i fianchi di Fiammabianca. Il gruppo si avviò verso il cuore della montagna. Il rumore dei passi e degli zoccoli sul pavimento di pietra riecheggiava ingigantito nel tunnel deserto. Usci e cancelli interrompevano a tratti le pareti uniformi, ma erano sempre sbarrati. Eragon osservò ammirato le straordinarie dimensioni del tunnel, scavato con incredibile perizia: le pareti, il pavimento e il soffitto erano stati levigati con impareggiabile precisione. Gli angoli alla base delle pareti erano perfettamente squadrati, e per quanto riusciva a vedere, il tunnel stesso non variava dal suo corso nemmeno di un pollice. Via via che procedevano, l’apprensione di Eragon per rincontro con Ajihad aumentava. Il capo dei Varden era una figura misteriosa per gli abitanti dell’Impero. Era salito al potere una ventina di anni prima, e da allora aveva condotto una guerra spietata contro re Galbatorix. Nessuno sapeva da dove venisse, e nemmeno che aspetto avesse. Si favoleggiava che fosse uno stratega eccezionale e un guerriero feroce. Con una tale reputazione, Eragon era preoccupato per come sarebbero stati ricevuti. Eppure sapere che Brom.si era fidato tanto dei Varden da servirli lo aiutò a placare i suoi timori. Vedere di nuovo Orik gli suscitò altre domande. Il tunnel era ovviamente opera dei nani: nessuno sapeva scavare con tanta abilità. Ma i nani facevano parte dei Varden o li stavano solo ospitando? E chi era il re che Orik aveva citato? Lo stesso Ajihad? Eragon capiva che i Varden erano riusciti a evitare di essere scoperti nascondendosi nel sottosuolo. Ma gli elfi dov’erano? Per quasi un’ora l’uomo calvo li condusse lungo il tunnel, senza mai deviare né imboccare una svolta. Probabilmente abbiamo già percorso una lega, pensò Eragon. Forse ci stanno facendo attraversare tutta la montagna! Alla fine vide in lontananza un fioco bagliore rosato. Aguzzò la vista, cercando di scorgerne la fonte, ma era ancora troppo lontano. Il bagliore si fece più intenso via via che si avvicinavano. A un tratto prese a distinguere grossi pilastri di marmo allineati lungo le pareti. Rubini e ametiste scintillavano incastonati nella pietra. Decine di lanterne pendevano dagli spazi fra i pilastri, spandendo nell’aria una fluida brillantezza. Uno squisito traforo d’oro scintillava dalla base dei pilastri come merletto liquido. Nel soffitto a volta erano intagliate teste di corvo, i becchi aperti in un muto stridio. Alla fine del corridoio erano ritagliate due colossali porte nere, con strisce d’argento che raffiguravano una corona a sette punte. L’uomo calvo si fermò e alzò una mano. Si rivolse a Eragon. «Ora salirai sul tuo drago. Non tentare di volare via. Ci saranno delle persone a osservarti, perciò ricorda chi e che cosa sei.» Eragon smontò da Fiammabianca e si arrampicò sul dorso di Saphira. Credo che vogliano metterci in mostra, disse lei, mentre Eragon si assestava in sella. Lo vedremo. Quanto vorrei avere Zar’roc con me, rispose lui, stringendosi le cinghie intorno alle gambe. Forse è meglio che non ti mostri ai Varden per la prima volta con la spada di Morzan. Giusto. «Sono pronto» disse Eragon, drizzando le spalle. «Bene» disse l’uomo calvo. Lui e Orik si ritirarono ai lati di Saphira, a distanza sufficiente da dare l’impressione che fosse lei a guidare il corteo. «Ora andate verso le porte, e una volta entrati, seguite il percorso. Procedete adagio.» Pronta? chiese Eragon. Certo. Saphira si avvicinò alle porte con studiata lentezza. Le sue squame scintillavano alla luce, proiettando miriadi di raggi colorati contro i pilastri. Eragon trasse un respiro profondo per calmarsi. D’un tratto le porte si schiusero verso di loro, girando su cardini invisibili. Mentre lo spiraglio si allargava, raggi di sole inondarono il tunnel, investendo per primi Eragon e Saphira. Abbagliato, Eragon batté le palpebre e socchiuse gli occhi. Quando il suo sguardo si fu abituato alla luce, Eragon trattenne il fiato. Erano dentro un enorme cratere vulcanico. Le sue pareti si restringevano verso la sommità fino a una piccola apertura frastagliata, così alta che Eragon non riuscì a valutare la distanza: forse più di dieci miglia. Un morbido fascio di luce pioveva dall’apertura, illuminando il centro del cratere, ma lasciando il resto in una soffusa penombra. Il lato opposto del cratere grigio-azzurro in lontananza, sembrava lontano un’altra decina di miglia. Giganteschi ghiaccioli spessi centinaia di piedi e lunghi migliaia pendevano a leghe sopra di loro come pugnali scintillanti. Eragon sapeva dalla sua esperienza nella valle che nessuno, nemmeno Saphira, avrebbe potuto raggiungere quelle altezze. Più in basso, le pareti del vulcano erano coperte da scuri tappeti di muschio e licheni. Abbassò lo sguardo e vide un ampio sentiero lastricato che partiva dalla soglia dove si trovavano. Il sentiero tagliava dritto verso il centro del cratere, dove terminava alla base di una montagna bianca come la neve, che brillava come una gemma grezza, sfavillante di mille luci colorate. Era alta meno di un decimo del cratere che torreggiava intorno e su di essa, ma il suo aspetto ridotto era ingannevole, perché doveva essere alta almeno un miglio. Per quanto lungo, il tunnel li aveva condotti soltanto attraverso una delle pareti del cratere. Mentre Eragon osservava lo scenario a bocca aperta. Orik disse in tono solenne: «Guarda bene, umano, poiché nessun Cavaliere ha posato i suoi occhi su questi luoghi da oltre cento anni. La grandiosa vetta sotto cui ci troviamo è il Farthen Dùr, scoperto migliaia di anni fa dal progenitore della nostra stirpe, Korgan, mentre scavava in cerca di oro. E al centro sorge la nostra più sublime realizzazione: Tronjheim, la città-montagna, costruita con il marmo più puro.» Le porte si bloccarono con un lievissimo cigolio. Una città! Fu allora che Eragon notò la folla. Era rimasto così sbalordito dalla visione che non si era accorto della marea di persone assiepate intorno all’ingresso del tunnel. Nani e umani fiancheggiavano il sentiero lastricato come alberi di un viale. Erano centinaia, migliaia. Ogni sguardo, ogni volto era concentrato su Eragon. E tutti tacevano. Eragon strinse la base di una delle punte sulla nuca di Saphira. Vide bambini vestiti di piccole tuniche impolverate, uomini col volto scavato e le nocche graffiate, donne con abiti cuciti in casa, e tozzi, temprati nani che si accarezzavano la barba. Tutti avevano la stessa espressione tesa, quella di un animale ferito quando sente che il predatore è vicino e non ha vie di fuga. Una gocciolina di sudore scivolò lungo il viso di Eragon, ma lui non osò muoversi per asciugarla. Che cosa devo fare? chiese agitato. Sorridi, alza la mono, qualunque cosai rispose Saphira in tono sbrigativo. Eragon cercò di sorridere, ma le sue labbra riuscirono soltanto a fare una smorfia tirata. Prendendo coraggio, alzò una mano e abbozzò un saluto. Quando non accadde nulla, arrossì d’imbarazzo, abbassò il braccio e chinò la testa. Una solitaria acclamazione interruppe il silenzio. Qualcuno applaudì forte. Per un breve secondo la folla esitò, poi Eragon fu investito da un boato di ovazioni. «Molto bene» disse l’uomo calvo alle sue spalle. «Ora comincia a camminare.» Sollevato, Eragon drizzò la schiena e chiese allegramente a Saphira: Andiamo? La dragonessa inarcò il collo e fece , un passo avanti. Mentre sfilavano davanti alla prima fila, lei guardò da un lato e dall’altro, ed esalò uno sbuffo di fumo. La folla si acquietò e indietreggiò, ma solo per riprendere a esultare con più passione. Che vanitosa, la canzonò Eragon. Saphira agitò la coda e lo ignorò. Mentre avanzavano lungo il sentiero, Eragon scrutava incuriosito la folla acclamante. I nani erano molto più numerosi degli umani, ma molti di loro lo guardavano in tralice. Alcuni valsero perfino le spalle e se ne andarono, scuri in volto. Gli umani erano gente di tempra dura e fiera. Tutti gli uomini avevano pugnali o coltelli infilati nella cintura; molti erano armati come per la battaglia. Le donne avevano un portamento altero, ma sembravano nascondere una profonda stanchezza. I pochi bambini fissavano Eragon con gli occhi sgranati. Quella gente doveva aver patito grandi sofferenze, e avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di difendersi. I Varden avevano trovato il nascondiglio perfetto. Le pareti del Farthen Dùr erano troppo alte da superare perfino per un drago, e nessun esercito sarebbe stato capace di irrompere all’interno, ammesso che fosse riuscito a trovare le porte nascoste. La ali di folla li seguivano da vicino, pur lasciando ampio spazio per il passaggio di Saphira. Il clamore prese ad acquietarsi, anche se l’attenzione di tutti restò concentrata su Eragon. Lui si guardò indietro e vide Murtagh che cavalcava rigido, il volto pallido. Via via che si avvicinavano alla città-montagna, Eragon vide che il marmo bianco di Tronjheim era lucidissimo e aveva i contorni morbidi, come se fosse stato colato in uno stampo. Le alte pareti erano costellate da innumerevoli finestre rotonde incorniciate da elaborati intarsi. A ogni finestra era appesa una lanterna colorata che proiettava una luce soffusa sulla roccia attorno. Non si vedevano torri né comignoli. Proprio di fronte a loro, due grifoni d’oro alti trenta piedi erano a guardia di un massiccio cancello di legno - incassato di venti iarde nella base di Tronjehim—ombreggiato da grosse capriate che sostenevano un altissimo, ampio arco. Quando raggiunsero la base di Tronjheim, Saphira si fermò per capire se l’uomo calvo aveva istruzioni per loro. Non avendone ricevute, riprese a camminare verso il cancello. Le pareti erano decorate da sottili pilastri di diaspro color rosso sangue. Gli spazi fra i pilastri ospitavano enormi statue di creature esotiche, catturate per sempre dallo scalpello dello scultore. Con un gran rimbombo il pesante cancello si aprì davanti a loro, mentre catene nascoste sollevavano lentamente le travi gigantesche. Un corridoio alto quattro piani si allungava dritto verso il centro di Tronjheim. Nei tre livelli più alti si apriva una serie di archi che rivelavano grigi tunnel che curvavano in lontananza. Gruppi di persone erano affacciati agli archi per vedere Eragon e Saphira. Al livello del terreno invece gli archi erano chiusi da porte massicce. Ricchi arazzi erano appesi fra i diversi livelli, ricamati a figure eroiche e tumultuose scene di battaglia. Un coro di acclamazioni gli risuohò nelle orecchie quando Saphira prese a incedere lungo la navata. Eragon alzò una mano, suscitando un altro ruggito festoso nella folla, anche se molti nani non si unirono alle grida di benvenuto. Il corridoio era lungo un miglio e terminava davanti a un arco fiancheggiato da colonne di onice nera. Zirconi gialli grandi quando un uomo sormontavano gli scuri pilastri, emanando luminosi raggi dorati nel passaggio. Saphira varcò la soglia, poi si fermò, alzò il collo, ed emise un deliziato mormorio di gola. Erano sbucati in una sala circolare, del diametro di circa mille piedi, che risaliva restringendosi fino al picco di Tronjheim, un miglio più in alto. Le pareti erano costituite da file di archi, ciascuna per ogni livello della città-montagna, e il pavimento era fatto di lucida corniola, su cui era inciso un martello circondato da dodici stelle d’argento, il simbolo sull’elmetto di Orik. La sala era il centro di quattro corridoi, compreso quello da cui erano sbucati loro, che dividevano Tronjheim in quattro parti. I corridoi erano identici, tranne quello di fronte a loro. A destra e a sinistra di quel corridoio c’erano alti archi che si aprivano su scale discendenti, identiche. Il soffitto era sormontato da uno zaffiro stellato, roseo come un’alba, di dimensioni straordinarie. La gemma era larga venti iarde e altrettanto spessa. Era stata intagliata a forma di rosa, e così perfetta era stata l’opera che il fiore sembrava quasi vero. Un’ampia cinta di lanterne orlava i bordi dello zaffiro, che proiettava fasci striati di luce rossastra tutto intorno. I raggi lampeggianti della stella all’interno della gemma le conferivano l’aspetto di un gigantesco occhio indagatore. Eragon rimase a bocca aperta per lo stupore. Nulla lo aveva preparato a tutto questo. Gli sembrava impossibile che Tronjheim fosse stata costruita da esseri mortali. La città-montagna faceva impallidire ogni altra città che avesse visto nell’Impero. Eragon dubitava che Urù’baen potesse mai competere con lo splendore e la magnificenza di quel luogo. Tronjheim era uno straordinario monumento al potere e alla perseveranza dei nani. L’uomo calvo si mise davanti a Saphira e disse: «Da qui in poi dovrete procedere a piedi.» La sua voce fu accolta da una scarica di fischi. Un nano prese in consegna Tornac e Fiammabianca. Eragon smontò da Saphira, ma rimase al suo fianco, mentre l’uomo calvo li conduceva sul pavimento di corniola verso il corridoio a destra. Lo seguirono per centinaia di piedi, poi entrarono in un piccolo passaggio. Dopo quattro brusche svolte, arrivarono davanti a una massiccia porta di cedro che il tempo aveva macchiato di nero. L’uomo calvo la aprì con una spinta e fece entrare tutti, tranne le guardie. 52 Ajihad Eragon si fece avanti in un’elegante biblioteca a due piani, gremita di scaffali di legno di cedro. Una scala a chiocciola di ferro battuto risaliva verso un piccolo ballatoio, arredato con due sedie e un tavolo da lettura. Lungo le pareti e sul soffitto erano appese lanterne bianche per dare la possibilità di leggere in qualsiasi punto della stanza. E pavimento di pietra era coperto da un tappeto ovale, dal disegno intricato. In fondo alla stanza c’era una grande scrivania di noce, e dietro di essa un uomo, in piedi. La sua pelle riluceva del colore dell’ebano oliato. Il cranio era rasato, ma una corta, curata barba nera gli copriva il mento e il labbro di sopra. Sul volto dai lineamenti decisi spiccavano occhi severi e intelligenti. Le spalle larghe e possenti erano enfatizzate da una lunga veste rossa ricamata con fili d’oro, abbottonata sopra un’elegante camicia viola. Il suo portamento fiero ed eretto emanava un’im mensa autorità, Quando parlò, la sua voce suonò calda e sicura: «Benvenuti a Tronjheim, Eragon e Saphira. Io sono Ajihad. Venite e mettetevi comodi.» Eragon si sedette su una poltrona accanto a Murtagh, mentre Saphira si accucciava dietro di loro con aria protettiva. Orik rimase in piedi lì accanto, Ajihad alzò una mano e schioccò due dita. Da dietro la scala a chiocciola uscì un uomo. Era identico all’uomo calvo vicino a lui. Eragon li guardò entrambi con grande sorpresa, e Murtagh si irrigidì. «La vostra confusione è comprensibile. Sono gemelli» disse Ajihad con un breve sorriso. «Vi direi i loro nomi, ma non ne possiedono.» Saphira emise un sibilo ostile. Ajihad la guardò per un istante, poi prese posto su una sedia dall’alto schienale, dietro la scrivania. I Gemelli si ritirarono dietro le scale e rimasero impassibili l’uno accanto all’altro. Ajihad congiunse le punte delle dita e fissò Eragon e Murtagh, studiandoli in silenzio per diversi minuti. Eragon cambiò più volte posizione nella poltrona; si sentiva a disagio. Infine Ajihad abbassò le mani e fece un cenno ai Gemelli. Uno di loro gli si avvicinò sollecito. Ajihad gli sussurrò qualcosa all’orecchio. L’uomo calvo impallidì all’improvviso e scosse il capo con energia. Ajihad aggrottò la fronte, poi annuì come se avesse avuto conferma di qualcosa. Posò il suo sguardo su Murtagh. «Mi hai messo in una posizione difficile, rifiutandoti di farti esaminare. Ti è stato concesso di entrare nel Farthen Dùr perché i Gemelli mi hanno assicurato di poterti controllare, e anche per merito delle tue azioni verso Eragon e Arya. Capisco che ci sono molte cose che vuoi mantenere segrete nella tua mente, ma finché lo farai, non potremo fidarci di te.» «Non vi fidereste di me comunque» disse Murtagh in tono di sfida. Il volto di Ajihad si oscurò nel sentirlo parlare, e i suoi occhi lampeggiarono minacciosi. «Anche se sono passati ventitré anni da quando l’ho sentita l’ultima volta... conosco quella voce.» Si erse in tutta la sua statura, gonfiando il petto. I Gemelli si scambiarono sguardi allarmati e presero a confabulare sottovoce. «Apparteneva a un altro uomo, più bestia che essere umano. Alzati.» Murtagh obbedì a malincuore, scoccando occhiate nervose sia ai Gemelli che ad Ajihad. «Togliti la camicia» ordinò quest’ultimo. Con una scrollata di spalle, Murtagh si sfilo la tunica. «Ora voltati.» Non appena si voltò, la luce illuminò la sua cicatrice. «Murtagh» disse Ajihad, senza fiato. Orik emise un grugnito di sorpresa. Ajihad si volse di scatto verso i Gemelli e tuonò: «Lo sapevate?» I Gemelli chinarono il capo. «Abbiamo scoperto il suo nome nella mente di Eragon, ma non sospettavamo minimamente che questo ragazzo fosse il figlio di un personaggio potente come Morzan. Non.... » «E non mi avete detto niente?» esclamò Ajihad. Alzò una mano per anticipare le loro spiegazioni. «Ne discuteremo più tardi.» Poi tornò a rivolgersi a Murtagh. «Prima devo risolvere questo problema. Rifiuti ancora di farti esaminare?» «Sì» rispose Murtagh in tono deciso, e si infilò di nuovo la tunica. «Non voglio nessuno dentro la mia testa.» Ajihad premette le mani sulla scrivania. «Ci saranno conseguenze spiacevoli, se non lo consenti. Finché i Gemelli non saranno in grado di dirmi che non sei una minaccia, non possiamo darti credito, malgrado é forse anche a causa dell’aiuto che hai dato a Eragon. Senza questa verifica, la gente di qui, tanto gli umani quanto i nani, ti farebbe a pezzi, se sapesse della tua presenza. Sarò costretto a tenerti confinato, per la tua come per la nostra incolumità. E sarebbe ancora peggio se il re dei nani. Rothgar, dovesse chiedere la tua custodia. Non metterti in una situazione che potresti facilménte evitare.» Murtagh scosse la testa, caparbio. «No... anche se accettassi, verrei sempre trattato come un lebbroso, un emarginato. Non desidero altro che andarmene. Se mi lasciate andare in pace, non rivelerò mai la vostra posizione all’Impero.» «E se venissi catturato e portato da Galbatorix?» obiettò Ajihad. «Lui riuscirebbe a estorcerti qualsiasi segreto, per quanto forte tu possa essere. Anche se riuscissi a resistergli, come possiamo sapere che in futuro non deciderai di riunirti a lui? Non posso correre questo rischio.» «Mi terrete prigioniero per sempre?» domandò Murtagh, teso. «No» disse Ajihad. «solo finché non ti lascerai esaminare. Se verrai dichiarato degno di fiducia, i Gemelli elimineranno ogni ricordo della posizione del Farthen Dùr dalla tua mente, e potrai andartene. Non vogliamo correre il pericolo che qualcuno con simili informazioni cada nelle mani di Galbatorix. Che cosa vuoi fare, Murtagh? Decidi in fretta, altrimenti il tuo destino è segnato.» Arrenditi, lo implorò Eragon in silenzio, preoccupato per l’amico. Non ne vale la pena. Murtagh parlò, con voce chiara e stentorea. «La mia mente è l’unica cosa che non mi sia stata rubata. Altri uomini hanno tentato di entrarvi prima d’ora, ma ho imparato a difenderla a tutti i costi, perché mi sento sicuro soltanto nei miei più intimi pensieri. Mi avete dunque chiesto l’unica cosa che non posso darvi, e men che mai a quei due.» Indicò i Gemelli. «Fate di me quello che volete, ma sappiate questo; preferisco morire piuttosto che espormi alle loro indagini.» Negli occhi di Ajihad brillò una scintilla di ammirazione. «La tua scelta non mi sorprende, anche se avevo sperato diversamente... Guardie!» La porta di cedro si spalancò di colpo e i guerrieri sciamarono all’interno, le armi in pugno. Ajihad indicò Murtagh e ordinò: «Conducetelo in una stanza senza finestre e sbarrate la porta. Mettete sei uomini all’ingresso e non permettete a nessuno di entrare finché non verrò io a vederlo, E non rivolgetegli la parola.» I guerrieri circondarono Murtagh, scoccandogli occhiate sospettose. Mentre uscivano, Eragon attirò l’attenzione di Murtagh e mosse le labbra per dire “Mi dispiace”, Murtagh si strinse nelle spalle, poi s’incamminò a testa alta. Scomparve nel corridoio con i soldati. Il rumore dei loro passi si perse in lontananza. Ajihad disse bruscamente: «Tutti fuori da questa stanza, tranne Eragon e Saphira. Ora!» I Gemelli fecero un inchino e se ne andarono, ma Orik disse: «Signore, il re vorrà sapere di Murtagh. E resta ancora la questione della mia insubordinazione...» Ajihad aggrottò la fronte, poi fece un cenno con la mano. «Parlerò io con Rothgar. Per quanto riguarda il tuo comportamento... aspetta fuori finché non ti chiamerò. E di’ ai Gemelli di non allontanarsi. Non ho finito con loro.» «Sissignore» disse Orik, chinando il capo. Si chiuse la porta alle spalle con un solido tonfo. Dopo un lungo silenzio. Ajihad emise un sospiro stanco e si sedette. Si passò una mano sul volto e alzò gli occhi al soffitto. Eragon aspettava con impazienza che parlasse lui per primo, ma questo non accadde. Allora osò fare una domanda che gli stava molto a cuore: «Come sta Arya?» Ajiahd abbassò gli occhi su di lui e disse in tono grave: «Non bene... ma i guaritori mi dicono che si riprenderà. . L’hanno assistita per tutta la notte. Il veleno le ha provocato seri danni. Non sarebbe sopravvissuta se non fosse stato per te. E per questo meriti la più profonda riconoscenza dei Varden.» Le spalle di Eragon si rilassarono per il sollievo. Per la prima volta, ebbe la netta sensazione che la loro fuga da Gil’ead fosse valsa la pena di tante sofferenze. «E adesso?» domandò. «Ho bisogno di sapere come hai trovato Saphira e tutto quello che è successo da allora» disse Ajihad, posando il mento sulla punta delle mani giunte. «Ho saputo qualcosa grazie al messaggio che Brom ci ha mandato, e parte anche dai Gemelli. Ma voglio sentirlo dalla tua voce, specie i dettagli che riguardano la morte di Brom.» Eragon era restio a condividere le sue esperienze con un estraneo, ma Ajihad attese paziente. Avanti, lo incitò Saphira. Eragon esitò ancora un istante, poi iniziò a raccontare la sua storia. Al principio si sentì a disagio, inquieto, ma a poco a poco acquistò fiducia e scioltezza. Saphira lo aiutò a ricordare certi dettagli, intervenendo di tanto in tanto con qualche commento. Ajihad lo ascoltò in silenzio per tutto il tempo. Eragon parlò per ore, facendo solo qualche rara pausa. Parlò ad Ajihad di Teirm, anche se tacque sull’incontro con Angela l’indovina, e di come lui e Brom avevano trovato i Ra’zac. Gli raccontò anche dei suoi sogni su Arya. Quando arrivò a Gil’ead e al duello con lo Spettro, il volto di Ajihad si indurì. L’uomo si appoggiò allo schienale della sedia, con gli occhi velati. Finito il racconto, Eragon rimase in silenzio, meditando su tutto quello che gli era accaduto. Ajihad si alzò, allacciò le mani dietro la schiena e fece qualche passo fissando con aria assente uno degli scaffali di libri. Infine tornò alla scrivania. «La morte di Brom è una perdita terribile. Era un mio carissimo amico e un potente alleato dei Varden. Ci ha salvati dalla distruzione in diverse occasioni, grazie al suo coraggio e alla sua intelligenza. Perfino adesso che è morto, ci ha dotati dell’unica cosa in grado di assicurarci la vittoria... tu.» «Ma che cosa vi aspettate da me?» chiese Eragon. «Te lo spiegherò meglio in seguito» rispose Ajihad. «Per adesso ci sono questioni più urgenti da affrontare. La notizia dell’alleanza degli Urgali con l’Impero è gravissima. Se Galbatorix sta radunando un esercito di Urgali per distruggerci, per i Varden non sarà affatto facile sopravvivere, anche se molti di noi vivono al sicuro qui nel Farthen Dùr. Che un Cavaliere, sia pure malvagio come Galbatorix, abbia deciso di stringere un accordo con quei mostri è una prova lampante della sua follia. Mi vengono i brividi al pensiero di quello che deve aver promesso in cambio della loro volubile lealtà, E poi c’è lo Spettro. Puoi descrivermelo?» Eragon annuì. «Era molto alto, magro e pallidissimo, con occhi e capelli rossi. Era vestito tutto di nero.» «E la sua spada? Sei riuscito a vederla?» incalzò Ajihad. «Aveva per caso un lungo graffio sulla lama?» «Sì» disse Eragon sorpreso. «Come lo sai?» «Perché gliel’ho procurato io mentre cercavo di strappargli il cuore» disse Ajihad con un sorriso sinistro. «Si chiama Durza, ed è uno dei più astuti e diabolici esseri che abbiano mai calcato questa terrà. È il servo perfetto per Galbatorix, e un nemico pericoloso per noi. Hai detto che lo avete ucciso. Come?» Eragon lo ricordava perfettamente. «Murtagh l’ha colpito due volte. La prima freccia gli ha trafitto la spalla; la seconda gli si è conficcata tra gli occhi.» «Come temevo» disse Ajihad, corrucciato. «Non lo avete ucciso. Gli Spettri si possono uccidere solo con un colpo che trapassi loro il cuore. Qualsiasi altra cosa li fa solo dissolvere, e poi ricompaiono altrove, informa di spirito. È un processo sgradevole, ma Durza sopravviverà e tornerà più forte di prima.» Un cupo silenzio scese su di loro come una nera nube gonfia di tempesta. Poi Ajihad disse: «Tu sei un enigma, Eragon, un dilemma che nessuno è in grado di risolvere. Tutti sanno quello che vogliono i Varden, o gli Urgali, o addirittura Galbatorix, ma nessuno sa che cosa vuoi tu. E questo ti rende pericoloso, soprattutto per Galbatorix, che ha paura perché non. sa quale sarà la tua prossima mossa.» «Anche i Varden hanno paura di me?» chiese Eragon in tono sommesso. «No» rispose Ajihad, misurato. «Nutriamo speranza. Ma se questa speranza si rivelasse falsa, allora si, avremmo. Paura.» Eragon abbassò lo sguardo. «Tu devi comprendere l’insolita natura della tua posizione. Ci sono fazioni che vogliono farti servire i propri interessi e quelli di nessun altro. Nel momento in cui sei entrato nel Farthen Dîtr, hanno cominciato a esercitare su di te il loro ascendente e il loro potere.» «Compreso tu?» chiese Eragon, Ajihad sorrise, ma i suoi occhi rimasero seri. ««Io compreso. Ci sono delle cose che devi sapere; innanzitutto come l’uovo di Saphira è comparso sulla Grande Dorsale. Brom ti ha mai detto che cosa fu dell’uovo dopo che l’ebbe portato qui?» «No» rispose Eragon, guardando Saphira con la coda dell’occhio. Lei gli rispose ammiccando. Ajihad tamburellò con le dita sulla scrivania per qualche istante prima di cominciare. «Quando Brom portò l’uovo ai Varden, tutti erano molto interessati al suo destino.. Pensavamo che i draghi fossero stati tutti sterminati. La più grande preoccupazione dei nani era che il futuro Cavaliere fosse un alleato, anche se alcuni si opponevano per principio all’idea di un nuovo Cavaliere, mentre gli elfi e i Varden si sentivano coinvolti in prima persona. La ragione è semplice. Devi sapere che i Cavalieri sono sempre stati elfi o umani, pur con una maggioranza elfica. Non c’è mai stato un Cavaliere nano, «A causa del tradimento di Galbatorix,. gli elfi osteggiavano il possesso di un uovo da parte dei Varden, per paura che il drago potesse nascere davanti a un umano con analoghe inclinazioni. Si venne a creare una situazione di stallo, poiché entrambe le Darti volevano che il Cavaliere fosse uno di loro. I nani non fecero che peggiorarla, sostenendo con ostinazione i loro argomenti sia davanti agli elfi che davanti a noi. La tensione continuava a salire, e ci scambiammo minacce di cui in seguito ci pentimmo. Fu Brom a suggerire un compromesso che avrebbe consentito a tutti di porre fine con dignità a quella lite meschina. «Propose di affidare l’uovo ai Varden e agli elfi, ad anni alterni. Ogni volta i bambini della parte di turno sarebbero stati fatti sfilare davanti all’uovo; se non si fosse schiuso, sarebbe stato restituito all’altra parte. Ma se il drago fosse nato, allora il nuovo Cavaliere avrebbe cominciato subito l’addestramento. Per il primo anno lui, o lei, sarebbe rimasto qui, dove Brom avrebbe avuto il compito di impartirgli le lezioni di base. Poi il Cavaliere sarebbe stato portato dagli elfi per completare la sua istruzione. «Gli elfi accettarono riluttanti... con la clausola che se Brom fosse morto prima della schiusa dell’uovo, allora sarebbero stati liberi di addestrare il nuovo Cavaliere senza interferenze. Il patto pendeva a favore degli elfi, entrambi sapevamo che con tutta probabilità il drago avrebbe scelto un elfo: ma almeno aveva una parvenza di equità.» Ajihad fece una pausa, gli occhi scuri colmi di tristezza. Le ombre danzavano sul suo viso, mettendogli in risalto gli zigomi. «Speravamo che il nuovo Cavaliere avrebbe riavvicinato le due razze. Aspettammo per oltre dieci anni, ma l’uovo non si schiudeva. Col tempo la questione fu dimenticata; veniva risollevata solo per lamentarci della sterilità dell’uovo. «Poi l’anno scorso subimmo una terribile perdita. Arya e l’uovo scomparvero durante il viaggio di ritorno da Tronjheim alla città elfica di Osilon. Gli elfi furono i primi ad accorgersi della sua assenza. Trovarono il cavallo e la scorta di Arya uccisi nella Du Weldenvarden, e un gruppo di Urgali morti lì vicino. Ma non c’erano né Arya né l’uovo. Quando mi giunse la notizia, temetti che gli Urgali li avessero presi entrambi, e che presto avrebbero scoperto dove si trovava il Farfhen Dùr e la capitale degli elfi, Ellesméra, dove vive la loro regina. Islanzadi. Ora capisco che stavano lavorando per l’Impero, ed è molto peggio. «Non sapremo con precisione cosa è accaduto durante l’agguato finché Arya non si sveglierà, ma ho dedotto qualche dettaglio da quanto mi hai raccontato.» L’abito di Ajihad frusciò lieve quando l’uomo appoggiò i gomiti sulla scrivania. «L’attacco deve essere stato sferrato con astuzia e rapidità, altrimenti Arya sarebbe fuggita. Senza preavviso e senza un posto dove nascondersi, deve aver fatto l’unica cosa possibile: ha usato la magia per trasportare l’uovo da qualche altra parte.» «Sa usare la magia?» chiese Eragon. Arya gli aveva detto di aver ricevuto una droga capace di sopprimere il suo potere, ma voleva avere la conferma che si trattasse della magia. Chissà se potrebbe insegnarmi altre parole dell’antica lingua, pensò. «Fu una delle ragioni per cui venne scelta per sorvegliare l’uovo. A ogni modo. Arya non poteva restituircelo, era troppo lontana, e il regno degli elfi è protetto da arcane barriere che impediscono a qualunque cosa di entrare nei loro confini per mezzo della magia. Deve aver quindi pensato a Brom e in preda alla disperazione ha tentato di mandargli l’uovo a Carvahall. Non mi sorprende che in quel drammatico frangente abbia mancato il bersaglio. I Gemelli mi dicono che la magia è un’arte imprecisa.» «Perché era più vicina alla Valle Palancar che ai Varden?» chiese Eragon. «Dove vivono gli elfi? Dove si trova questa... Ellesméra?» Lo sguardo acuto di Ajihad lo scrutò con attenzione mentre rifletteva sulla domanda. «Non si rivelano queste informazioni a cuor leggero, poiché gli elfi custodiscono gelosamente i loro segreti. Ma te lo dirò, in segno di fiducia. Le loro città si trovano nelle regioni più remote del nord, nei recessi della sconfinata foresta Du Weldenvarden. Dalla fine dell’epoca dei Cavalieri, nessuno, nano o umano, è stato abbastanza amico degli elfi da avere accesso alle loro dimore arboree. Nemmeno io saprei trovare Ellesméra. Quanto a Osilon, basandomi sul luogo dove è scomparsa Arya, direi che si trova vicino ai confini occidentali della Du Weldenvarden, non troppo lontano da Carvahall. Immagino che tu abbia da pormi molte altre domande, ma abbi pazienza e aspetta che io finisca.» Si concesse una pausa per riflettere, poi riprese a parlare spedito. «Quando Arya scomparve, gli elfi tolsero il loro sostegno ai Varden. La regina Islanzadi era infuriata e si rifiutò di avere altri contatti con noi. Di conseguenza, anche se ho ricevuto il messaggio di Brom, gli elfi ancora ignorano l’esistenza tua e di Saphira... Senza i loro approvvigionamenti per le mie truppe, ce la siamo passata male, in questi ultimi mesi. «Ma con il ritorno di Arya e il tuo arrivo, mi aspetto che l’ostilità della regina si attenui. Il fatto.poi che tu abbia salvato Arya giocherà a nostro favore. Tuttavia, il tuo addestramento rappresenta un problema sia per i Varden che per gli elfi. Immagino che Brom abbia avuto l’opportunità di insegnarti molte cose, ma dobbiamo sapere quante. A tale scopo, dovrai sottoporti a un esame per determinare la portata delle tue capacità. E gli elfi vorranno che tu finisca il tuo addestramento da loro, sebbene io non sia convinto che sia ancora il momento.» «Perché no?» disse Eragon. «Per diverse ragioni. La principale sta nelle notizie che ci hai riferito sugli Urgali» rispose Ajihad, lanciando un’occhiata a Saphira. «Vedi, Eragon, i Varden si trovano in una posizione molto delicata. Da un lato dobbiamo assecondare i desideri degli elfi, se vogliamo mantenerli come alleati, ma dall’altro non possiamo irritare i nani, perché ci serve la loro ospitalità qui a Tronjheim.» «I nani non fanno parte dei Varden?» chiese Eragon. Ajihad esitò. «In un certo senso sì. Ci permettono di vivere qui e ci sostengono nella nostra lotta contro l’Impero, ma la loro lealtà va soltanto al loro re. Io non ho alcun potere su di loro, eccetto quello che Rothgar mi concede, e perfino lui ha spesso problemi con i clan dei nani. I tredici clan sono ossequienti verso Rothgar, ma ogni capo-clan ha un potere enorme: sono loro a scegliere il nuovo re quando muore il vecchio. Rothgar appoggia la nostra causa, ma molti capiclan no. Non può permettersi di inasprire i loro animi, o perderebbe il sostegno del suo popolo. Ecco perché le sue azioni a nostro favore sono limitate.» «Questi capiclan» disse Eragon «sono ostili anche con me?» «Purtroppo temo che le cose stiano peggio di così» disse Ajihad avvilito. «Devi sapere che c’è sempre stata una forte inimicizia fra nani e draghi. Prima che arrivassero gli elfi a diffondere la pace, i draghi avevano la regolare abitudine di mangiare le greggi dei nani e rubare il loro oro. I nani sono lenti a dimenticare i torti subiti. In realtà non hanno mai accettato del tutto i Cavalieri o permesso loro di sorvegliare il regno. L’ascesa al potere di Galbatorix è servita soltanto a convincere molti di loro che sarebbe stato meglio non avere mai più niente a che fare con i Cavalieri e con i draghi.» Pronunciò le ultime parole guardando Saphira. «Perché Galbatorix non sa dove si trovano il Farthen Dùr ed Ellesméra?» domandò Eragon, dopo qualche istante di riflessione. «Quando fu addestrato dai Cavalieri, di sicuro devono avergliene parlato.» «Parlato sì; indicato dove sono, no. Una cosa è sapere che il Farthen Dùr si trova fra queste montagne, un’altra è trovarlo. Galbatorix non è mai stato condotto in nessuno dei due luoghi prima che il suo drago venisse ucciso. Dopo, ovviamente, i Cavalieri non si sono più fidati di lui. Cercò in tutti i modi di estorcere informazioni a molti Cavalieri durante la ribellione, ma essi preferirono morire piuttosto che rivelare ciò che sapevano. Per quanto riguarda i nani, non è mai riuscito a catturarne uno vivo, anche se temo che sia solo questione di tempo.» «Perché non prende un esercito e marcia attraverso la Du Weldenvarden fino a che non trova Ellesméra?» domandò Eragon. «Perché gli elfi hanno ancora il potere di resistergli» rispose Ajihad. «Non osa sfidarli, non ancora, almeno; Ma la sua dannata magia diventa più forte ogni anno che passa. Con un altro Cavaliere al suo fianco, diventerebbe inarrestabile. Per fortuna finora i suoi tentativi di far schiudere una delle sue due uova si sono rivelati infruttuosi.» Eragon era perplesso. «Ma come fa il suo potere ad aumentare? La forza del suo corpo limita le sue capacità... non può ricostruirsi da solo per sempre.» «Non lo sappiamo» disse Ajihad, scrollando le spalle possenti. «e nemmeno gli elfi lo sanno. Possiamo solo sperare che un giorno o l’altro rimanga ucciso da uno dei suoi stessi incantesimi.» Si infilò una mano sotto la tunica e ne sfilò un logoro pezzo di pergamena. «Sai che cos’è questo?» chiese, posandolo sulla scrivania. Eragon si protese per esaminarlo. La pagina era coperta da una fitta grafia nera, parole di una lingua sconosciuta. Molte parti dello scritto erano illeggibili perché macchiate di sangue. Uno dei margini della pergamena era bruciacchiato, Eragon scosse il capo. «No.» «È stato sottratto al capo degli Urgali che abbiamo distrutto la notte scorsa. Ci è costato dodici uomini... si sono sacrificati perché tu potessi metterti al sicuro. La scrittura è un’invenzione del re, una grafia che usa per comunicare con i suoi servi. Mi ci è voluto un po’, ma alla fine sono riuscito a decrifrarne il significato, almeno delle parti leggibili. Dice: ... custode dei cancelli di Ithró ZMdafarà passare il portatore della presente e i suoi subalterni. Saranno alloggiati insieme agli altri della loro razza e... ma soltanto se le due fazioni prometteranno di non combattersi. Il comando sarà affidato a Tarok. Gashz. Durza e Uslmark il Grande. «Ushnari; è Galbatorix stesso. Nella lingua Urgali significa “padre” ed è un appellativo che gli piace molto.» …scoprire per quali mansioni sono più idonei e... I fanti e... devono essere tenuti separati. Non devono essere distribuite armi finché … per la marcia. «Non si legge altro, a parte qualche parola sparsa» disse Ajihad. «Dov’è Ithrò Zhàda? Non ne ho mai sentito parlare.» «Nemmeno io» disse Ajihad. «ma ho il sospetto che Galbatorix abbia dato un nuovo nome a un luogo già esistente, per qualche suo oscuro scopo. Dopo aver decifrato questo messaggio, mi sono chiesto che cosa ci facevano centinaia di Urgali fra i Monti Beor quando li hai avvistati la prima volta, e dov’erano diretti. La frase “altri della loro razza” mi fa supporre che ci siano già altri Urgali in quel posto. E c’è un’unica ragione per cui il re può aver deciso di radunare una tale forza: formare un esercito misto di umani e mostri per distruggerci. «Per ora non possiamo far altro che aspettare e vedere che cosa accade. Senza altre informazioni, non c’è modo di trovare questa Ithrò Zhàda. Tuttavia il Farthen Dùr non è stato ancora scoperto, e quindi ci resta qualche speranza. Gli unici Urgali ad averlo visto sono morti ieri notte.» «Come facevate a sapere che stavamo arrivando?» chiese Eragon. «Uno dei Gemelli ci aspettava, ed era stato organizzato un agguato per i Kull.» Eragon avvertiva la profonda attenzione di Saphira, ma evidentemente la dragonessa preferiva tenere per sé i commenti, che avrebbe esposto più tardi. «Abbiamo delle sentinelle appostate all’ingresso della valle che avete attraversato, su entrambi i lati dello Zannadorso. Hanno mandato una colomba ad avvertirci» spiegò Ajihad. Eragon si chiese se fosse lo stesso uccello che Saphira aveva cercato di mangiare. «Quando l’uovo e Arya scomparvero, avete avvertito Brom? Lui mi disse che non aveva ricevuto notizie dai Varden.» «Cercammo di metterlo in guardia» disse Ajiahd. «ma sospetto che i nostri uomini siano stati intercettati e uccisi dall’Impero. Per quale altro motivo i Ra’zac sarebbero andati a Carvahall? In seguito. Brom si mise in viaggio con te, e fu impossibile raggiungerlo. Puoi immaginare il mio sollievo quando mi diede notizie tramite un messaggero da Teirm. Non mi sorprese che si fosse rivolto a Jeod: erano vecchi amici. E Jeod sapeva come farci arrivare un messaggio, perché da tempo contrabbanda merci per noi attraverso il Surda. «Tutto questo ha sollevato gravi questioni. Come ha fatto l’Impero a sapere dove tendere l’agguato ad Arya, e poi ai nostri messaggeri diretti a Carvahall? Come ha fatto Galbatorix a sapere quali mercanti aiutano i Varden? Gli affari di Jeod sono andati in fumo da quando sei partito, così come quelli di altri mercanti che collaborano con noi. Ogni volta che una delle loro navi salpa, sparisce. I nani non possono darci tutto quello che ci serve, così i Varden hanno un disperato bisogno di approvvigionamenti. Temo che tra noi ci sia un traditore, o più traditori, nonostante i nostri sforzi di esaminare la mente delle persone in cerca di complotti.» Eragon tacque per riflettere su quanto aveva appreso. Ajihad aspettò con calma che parlasse. Per la prima volta da quando aveva trovato l’uovo di Saphira, Eragon aveva la netta sensazione di capire che cosa succedeva intorno a lui. O almeno, sapeva da dove veniva Saphira e quale futuro poteva attenderlo. «Che cosa volete da me?» chiese infine. «Che cosa vuoi dire?» «Voglio dire, che cosa ci si aspetta da me qui a Tronjheim? Voi e gli elfi avete dei progetti per me, ma se poi non mi piacciono?» La sua voce prese una sfumatura severa. «Combatterò quando sarà necessario, festeggerò nelle occasioni giuste, piangerò nel momento del dolore, e morirò quando arriverà la mia ora... ma non permetterò a nessuno di usarmi contro la mia volontà.» Fece una pausa perché le sue parole venissero assorbite. «I Cavalieri di una volta erano arbitri di giustizia,. al di sopra e al di là dei capi dei loro tempi. Non pretendo quella posizione, dubito che la gente accetterebbe una simile autorità quando da molto tempo ormai ne fa a meno, specie da uno giovane come me. Ma io ho il potere, e lo userò come riterrò opportuno. Quello che voglio sapere è come tu hai pensato di usarmi. Poi deciderò se acconsentire.» Ajihad lo guardò, accigliato. «Se tu fossi qualcun altro e ti trovassi davanti a un altro capo, con ogni probabilità saresti stato messo a morte per queste parole insolenti. Che cosa ti fa pensare che ti esporrò i miei piani solo perché tu me lo chiedi?» Eragon arrossì, ma non abbassò lo sguardo. «Eppure hai ragione. La tua posizione ti da il privilegio di poter dire queste cose. Non puoi sfuggire ai disegni che ti riguardano... tu verrai influenzato, in un modo o nell’altro. Io voglio vederti diventare una pedina manovrata da questa o quella fazione ancora meno di quanto lo vuoi tu. Devi difendere la tua libertà, perché in. essa risiede il tuo vero potere: la capacità di fare scelte indipendentemente da qualsiasi capo o re. La mia autorità su di te sarà limitata. ma credo che sia per il meglio. La difficoltà consiste nell’assicurarsi che coloro che detengono il potere ti ammettano alle loro decisioni. «E poi, malgrado le tue proteste, sappi che le persone si aspettano molto da te. Ti verranno a raccontare i loro problemi, anche i più insignificanti, e ti chiederanno di risolverli.» Ajihad si protese verso di lui e aggiunse, con voce mortalmente seria: «Ci saranno momenti in cui il futuro di un individuo sarà nelle tue mani.,. con una sola parola tu potrai innalzarlo alle vette della felicità o scaraventarlo negli abissi dell’angoscia. Giovani donne chiederanno il tuo parere su chi debbano sposare... molte, anzi, ti vorranno per marito... e i vecchi vorranno sapere a quali figli lasciare l’eredità. Tu devi essere gentile e saggio con loro, perché in te riporranno ogni speranza. Non parlare con insolenzà o leggerezza, perché le tue parole avranno un impatto che andrà ben oltre le tue intenzioni.» Ajihad si riappoggiò allo schienale, incupito. «Il fardello dell’autorità comporta la responsabilità del benessere delle persone che ti sono affidate. Io convivo con questo peso da quando sono stato scelto come capo dei Varden, e adesso tocca a te. Sta’ attento. Non tollererò ingiustizie sotto il mio comando. Non preoccuparti per la tua giovane età e l’inesperienza; supererai presto entrambe.» Eragon trovava imbarazzante l’idea che la gente si rivolgesse a lui per dei consigli. «Ma non mi hai ancora detto che cosa devo fare qui.» «Per adesso nulla. Hai percorso più di centotrenta leghe in otto giorni, un’impresa di cui andare fieri. Sono sicuro che apprezzerai un po’ di riposo. Quando ti sarai ripreso, metteremo alla prova la tua competenza in fatto di armi e magia. Dopodiché, be’... ti spiegherò le alternative, e dovrai fare la tua scelta.» «E che ne sarà di Murtagh?» chiese Eragon in tono aspro. Il volto di Ajihad si oscurò. Si chinò dietro la scrivania e si rialzò reggendo Zar’roc. Fece scorrere le dita sul fodero lucente, indugiando sul sigillo inciso. «Resterà qui finché non permetterà ai Gemelli di esaminare la sua mente.» «Non potete imprigionarlo» protestò Eragon. «Non ha commesso alcun crimine!» «Non possiamo rimetterlo in libertà senza essere sicuri che non si rivolterà contro di noi. Innocente o meno, è potenzialmente pericoloso quanto lo era suo padre» disse Ajihad, non senza una nota di tristezza nella voce. Eragon capì che non avrebbe mai convinto Ajihad, e che i suoi timori avevano un fondamento. «Come hai fatto a riconoscere la sua voce?» «Incontrai suo padre una volta» rispose secco Ajihad. Tamburellò qualche istante sull’elsa di Zar’roc. «Vorrei che Brom mi avesse detto di aver preso la spada di Morzan. Ti suggerisco di non portarla con te all’interno del Farthen Dùr. Molti qui ricordano con odio i tempi di Morzan, specie i nani.» «Me lo ricorderò» promise Eragon. Ajihad gli consegnò la spada. «Ora che ci penso, ho anche l’anello di Brom, qui con me. Me lo mandò come prova della sua identità. Lo conservavo in attesa che tornasse a Tronjheim. Ora che è morto, immagino che appartenga a te, e credo che lui avrebbe voluto che lo portassi.» Aprì un cassetto della scrivania e prese l’anello. Eragon l’accettò con deferenza. Il simbolo inciso sulla superficie dello zaffiro era identico al tatuaggio che Arya aveva sulla spalla. S’infilò l’anello all’indice e ne contemplò i riflessi sfolgoranti. «Mi sento,... onorato» disse. Ajihad annuì serio, poi spinse indietro la sedia e si alzò. Si rivolse a Saphira in tono solenne. «Non pensare che mi sia dimenticato di te, o potente drago. Ho detto queste cose non solo per Eragon, ma anche per te. È molto importante che tu le conosca, poiché a te spetta il compito di sorvegliarlo in questi tempi difficili. Non sottovalutare la tua forza e non vacillare al suo fianco, perché senza di te Eragon è destinato al fallimento.» Saphira chinò la testa fino a portare lo sguardo al livello degli occhi di Ajihad e lo fissò con le nere pupille oblunghe. Si studiarono a vicenda in silenzio, senza battere ciglio. Ajihad fu il primo ad abbassare lo sguardo. «È un vero privilegio conoscerti» disse. È sincero, disse Saphira con rispetto. Si voltò verso Eragon. Digli che sono rimasta molto impressionata sia da Tronjheim che da lui. L’Impero fa bene a temerlo. Ma fagli anche sapere che se avesse deciso di ucciderti, avrei distrutto Tronjheim e lo avrei dilaniato con i miei denti. Eragon esitò, sorpreso dalla veemenza della dragonessa, poi riferì, il messaggio. Ajihad la guardò con serietà. «Non mi sarei aspettato niente di meno da una creatura così nobile... ma dubito che saresti riuscita a superare i Gemelli.» Saphira emise uno sbuffo di derisione. Bah! Eragon capì che cosa intendeva, e disse: «Allora devono essere molto più forti di quanto non sembra. Credo che avrebbero un’amara delusione se mai dovessero affrontare, l’ira di un drago. Forse insieme potrebbero sconfiggere me, ma Saphira mai. Sappi che il drago di un Cavaliere è in grado di potenziare la sua magia oltre le possibilità di uno stregone normale. Brom è sempre stato più debole di me per questo. Credo che in assenza dei Cavalieri, i Gemelli . abbiano sopravvalutato i propri poteri.» Ajihad parve preoccupato. «Brom era considerato uno dei più grandi esecutori di incantesimi. Soltanto gli elfi erano in grado di superarlo. Se quello che mi dici è vero, dobbiamo riconsiderare parecchie cose.» S’inchinò davanti a Saphira. «Comunque sia, sono felice di non aver dovuto far del male a nessuno dei due.» Saphira ricambiò abbassando la grossa testa. Ajihad si erse, di nuovo e riprese la sua aria autorevole. «Orik!» chiamò. Il nano entrò nella stanza e si fermò davanti alla scrivania, a braccia incrociate. Ajihad lo guardò corrucciato e disse: «Mi hai causato un sacco di problemi. Orik. Mi è toccato ascoltare tutta la mattina uno dei Gemelli che si lamentava della tua insubordinazione. Non saranno soddisfatti finché non verrai punito. Purtroppo hanno ragione. È una questione molto seria, che non può essere ignorata. È necessaria una riparazione.» Orik scoccò un’occhiata fuggevole a Eragon, ma il suo viso non tradì alcuna emozione. Parlò in tono spiccio. «I Kull avevano circondato il Kóstha-mérna. Stavano scagliando frecce contro il drago, Eragon e Murtagh, ma i Gemelli non hanno mosso un dito. Come... sheilven, si sono rifiutati di aprire i cancelli, anche se vedevamo Eragon gridare la frase giusta dall’altra parte della cascata, E si sono rifiutati ancora di intervenire quando Eragon non riaffiorava dall’acqua. Forse ho sbagliato, ma non potevo lasciar morire un Cavaliere.» «È vero, non riuscivo a risalire» confermò Eragon. «Sarei annegato se lui non mi avesse aiutato.» Ajihad lo guardò per un istante, poi continuò a interrogare Orik. «E più tardi, perché ti sei opposto ai Gemelli?» Orik alzò il mento con aria di sfida. «Non era giusto che violassero la mente di Murtagh. Certo, se avessi saputo chi era non li avrei fermati.» «No, hai fatto la cosa giusta, ma sarebbe stato molto più semplice se non fossi intervenuto. Non è nostro compito violare la mente di una persona, di chiunque si tratti.» Ajihad si accarezzò la barba. «Le tue azioni sono state onorevoli, ma hai contestato l’ordine diretto di un tuo superiore. La pena per questo è sempre stata la morte.» Orik si irrigidì. «Non potete ucciderlo per questo! Mi stava solo aiutando» esclamò Eragon. «Non hai alcun diritto di interferire» dichiarò Ajihad. «Orik ha infranto la legge e deve subirne le conseguenze.» Eragon fece per protestare ancora, ma Ajihad lo zittì con un gesto della mano. «Tuttavia hai ragione. La sentenza sarà mitigata, date le circostanze attenuanti. Da questo momento. Orik, sei sollevato dal servizio attivo e non potrai partecipare ad alcuna attività militare sotto il mio comando. Intesi?» Il volto di Orik si rabbuiò, ma poi parve solo confuso. Annuì in modo brusco. «Sì.» «E in mancanza dei tuoi compiti regolari, ti nomino guida di Eragon e Saphira per tutta la durata della loro permanenza qui. Dovrai assicurarti che ricevano il meglio di quanto abbiamo da offrire loro. Saphira sarà ospitata sopra Isidar Mithrim. Eragon potrà alloggiare in qualunque appartamento desideri. Quando si sarà ripreso dalle fatiche del viaggio, portalo ai campi di addestramento. Lo aspetteremo» disse Ajihad, con un luccichio divertito negli occhi. Orik si profuse in un ampio inchino. «Capisco.» «Bene, allora potete andare tutti. Manda qui i Gemelli, mentre te ne vai.» Eragon s’inchinò e fece per andarsene, ma poi chiese: «Dove posso trovare Arya? Mi piacerebbe vederla.» «A nessuno è permesso farle visita. Dovrai aspettare finché non sarà lei a venire da te.» Ajihad abbassò lo sguardò sulla scrivania in un chiaro gesto di congedo. 53 Benedici la bimba, Argetlam Nel corridoio, Eragon si stiracchiò le membra indolenzite per il troppo tempo passato seduto. I Gemelli entrarono nello studio di Ajihad e chiusero la porta. Eragon guardò Orik. «Mi dispiace che tu sia finito nei guai per colpa mia» si scusò. «Non preoccuparti» grugnì Orik, arricciandosi una ciocca della lunga barba. «Ajihad mi ha dato quello che volevo.» Perfino Saphira rimase colpita da quella affermazione. «Che cosa vuoi dire?» chiese Eragon. «Non puoi allenarti o combattere, e sei stato obbligato a sorvegliarmi. È questo che volevi?» Il nano ammiccò con aria serena. «Ajihad è un buon capo. Sa come rispettare le leggi e tuttavia agire in maniera equa. Sono stato punito sotto il suo comando, ma io sono anche un suddito di Rothgar. Sotto il suo governo, resto ancora libero di fare quello che voglio.» Eragon capì che non avrebbe mai dovuto dimenticare la duplice lealtà di Orik e la natura divisa dei poteri a Tronjheim. «Quindi Ajihad ti ha affidato un compito ancora più importante, giusto?» Orik ridacchiò sotto i baffi. «Giusto, e tuttavia i Gemelli non possono lamentarsi. Ciò è destinato a irritarli oltre misura. Ajihad è molto scaltro, sissignore. Vieni, giovanotto, sono certo che avrai fame. E dobbiamo sistemare il tuo sputafuoco.» Saphira sibilò. Eragon disse: «Si chiama Saphira.» Orik accennò un inchino. «Le mie scuse, me lo ricorderò.» Staccò dalla parete una lampada dai riflessi aranciati e li scortò lungo il corridoio. «Ci sono altri nel Farthen Dùr che sanno usare la magia?» chiese Eragon, trottando per tenere il passo con la vivace andatura del nano. Teneva Zar’roc stretta contro il fianco, nascondendo il simbolo sul fodero con il braccio. «Pochissimi» disse Orik, con una scrollata di spalle che fece tintinnare la sua cotta di maglia. «E quei pochi sono in grado al massimo di curare qualche livido. Infatti sono tutti al capezzale di Arya perché è grande la forza necessaria a guarirla.» «Tranne i Gemelli.» «Già» borbottò Orik. «E comunque lei non li avrebbe mai voluti accanto; le loro arti non sono fatte per guarire. Il loro talento consiste nel tessere trame e complotti a danno di altri. Deynor, il predecessore di Ajihad, li volle insieme ai Varden perché aveva bisogno del loro aiuto: non puoi combattere contro l’Impero senza stregoni capaci di opporsi ai loro simili sul campo di battaglia. Sono una coppia molesta, ma ci servono.» Entrarono in uno dei quattro tunnel principali che dividevano Tronjheim. Gruppi di nani e umani lo percorrevano su e giù; le loro voci echeggiavano fra le pareti lisce. Le conversazioni si interruppero di colpo quando videro Saphira; decine di sguardi si fissarono su di lei. Orik ignorò gli spettatori e voltò a sinistra, diretto verso uno dei lontani cancelli di Tronjheim. «Dove stiamo andando?» chiese Eragon. «Fuori da queste mura, affinchè Saphira possa volare sulla rocca dei draghi sopra Isidar Mithrim, la Zaffiro Stellato. La roccaforte non ha un tetto: la cima di Tronjheim è a cielo aperto, come quella del Farthen Dùr. Così lei, voglio dire tu, Saphira, potrai volare direttamente sulla roccaforte. È lì che un tempo alloggiavano i Cavalieri in visita a Tronjheim.» «Non sarà freddo e umido lassù, senza il tetto?» obiettò Eragon. «No.» Il nano scosse il capo. «Il Farthen Dùr ci protegge dagli elementi. Non piove e non nevica mai, qui dentro. E poi le pareti della rocca sono disseminate di caverne di marmo per i draghi. C’è riparo più che a sufficienza. Bisogna temere soltanto i ghiaccioli; quando cadono, possono tranciare un cavallo in due.» Starò bene, lo rassicurò Saphira. Una caverna di marmo è più sicura di qualunque altro posto in cui siamo stati. Può darsi... Credi che anche Murtagh starà bene? Ajihad mi sembra un uomo d’onore. A meno che Murtagh non tenti di fuggire, nessuno gli farà del male. Eragon incrociò le braccia, stanco di parlare. Era ancora scosso dal cambiamento delle circostanze rispetto al giorno prima. La loro folle fuga da Gil’ead era ormai conclusa, ma il suo corpo si aspettava ancora di correre e cavalcare. «Dove sono i nostri cavalli?» «Nelle stalle vicino ai cancelli. Li potremo vedere prima di lasciare Tronjheim.» Uscirono da Tronjheim passando per lo stesso cancello da cui erano entrati. I grifoni d’oro sfavillavano di mille riflessi variopinti grazie alle decine di lanterne accese intorno. Il sole si era spostato, durante il lungo colloquio di Eragon con Ajihad; la sua luce non entrava più nel Farthen Dùr attraverso la bocca del cratere. Senza quei raggi turbinosi di polvere, l’interno della montagna cava era di un nero vellutato. L’unica fonte di luce era Tronjheim, che scintillava nell’oscurità irradiando il suo splendore a centinaia di piedi di distanza. Orik indicò il bianco pinnacolo di Tronjheim. «Carne fresca e acqua pura di montagna ti attendono lassù» disse a Saphira. «Quando avrai scelto in quale caverna riposare, ti verrà preparato un comodo giaciglio e nessuno ti disturberà.» «Pensavo che saremmo rimasti insieme. Non voglio separarmi da lei» protestò Eragon. Orik si rivolse a lui. «Cavaliere Eragon, farò qualunque cosa per soddisfarti, ma sarebbe meglio che Saphira aspettasse sulla rocca mentre tu mangi. I tunnel che portano nelle sale dei banchetti non sono abbastanza larghi da farla passare.» «Allora perché non mi portate il cibo alla rocca?» «Perché» rispose Orik con un brevissimo sospiro di esasperazione «il cibo viene preparato qui, ed è una lunga strada fino alla rocca. Ma se desideri, possiamo mandare un servo a portarti il pasto lassù. Ci vorrà un po’ di tempo, ma in questo modo potrai mangiare con Saphira.» Dice sul serio, pensò Eragon, colpito da tanta premura nei suoi confronti. Eppure il modo in cui Orik aveva parlato gli faceva sospettare che in qualche modo il nano lo stesse mettendo alla prova. Sono stanca,disse Saphira. E questa roccaforte mi piacerà, credo. Vai a mangiare, e poi sali da me. Sarà bello riposare insieme senza temere animali selvaggi o soldati. Abbiamo patito gli stenti del viaggio troppo a lungo. Eragon la guardò, pensoso, poi disse a Orik: «Mangerò qui.» Il nano sorrise compiaciuto. Eragon slegò la sella di Saphira perché potesse distendersi senza intralci. Porteresti Zar’roc con te? Sì,rispose lei, e raccolse la spada e la sella con gli artigli. Ma tieni l’arco. Dobbiamo mostrare fiducia verso questa gente, ma non idiozia. Lo so,disse lui, inquieto. Con un balzo poderoso, Saphira si staccò dal suolo e prese il volo nell’aria immota. Il fruscio costante delle sue ali era l’unico rumore nell’oscurità. Quando scomparve oltre il picco di Tronjheim. Orik si lasciò sfuggire un lungo respiro. «Ah, ragazzo, quanto sei fortunato. All’improvviso ho una gran voglia di cieli aperti, di volare, di cacciare come un falco. Ma i miei piedi stanno meglio per terra,,, anzi, preferibilmente sotto.» Battè le mani con un sonoro schiocco. «Dimentico i miei doveri di ospite. So che non hai toccato cibo da quando i Gemelli ti hanno fatto servire quel misero pasto, perciò vieni, andiamo a chiedere ai cuochi qualcosa di sostanzioso!» Eragon seguì di nuovo il nano a Tronjheim. Percorsero un labirinto di corridoi finché non giunsero in un’ampia sala piena di tavoli di pietra, adatti però soltanto ai nani. Le fiamme ardevano in una fila di forni di steatite dietro un lungo bancone. Orik si rivolse in una lingua sconosciuta a un tarchiato nano dal volto rubizzo, che subito portò loro piatti di pietra colmi di funghi e pesce fumanti. Poi Orik accompagnò Eragon lungo una serie di scale tortuose, finché non arrivarono in una piccola alcova ricavata nelle mura esterne di Tronjheim. Si sedettero a terra a gambe incrociate, ed Eragon si gettò sul cibo con avidità, senza dire una parola. Quando ebbero svuotato i piatti. Orik emise un sospiro soddisfatto è prese una lunga pipa. L’accese e disse: «Uno spuntino niente male, ma adesso ci vorrebbe un bel sorso di idromele per mandarlo giù.» Eragon osservò il terreno di sotto. «Qui nel Farthen Dùr praticate l’agricoltura?» «No, la luce del sole basta soltanto per muschio, muffa e funghi. Tronjheim non potrebbe sopravvivere senza le provviste fornite dalle valli attorno: è una delle ragioni per cui molti di noi hanno scelto di vivere altrove, fra i Monti Beor.» «Quindi ci sono altre città di nani?» «Non tante quante vorremmo. E Tronjheim è la più grande.» Appoggiato su un gomito. Orik trasse una lunga boccata di fumo. «Tu hai visto soltanto i livelli più bassi, e quindi non te ne sei accorto, ma gran parte di Tronjheim è disabitata. Più in alto si sale, meno gente si trova. Interi piani sono deserti da secoli. La maggioranza di noi preferisce abitare sotto Tronjheim e il Farthen Dùr, nelle grotte e nei cunicoli scavati dentro la roccia. Nel corso dei secoli abbiamo scavato moltissimo sotto i Monti Beor, tanto che è possibile camminare da un’estremità all’altra della catena senza mai uscire.» «Mi sembra uno spreco, tutto questo spazio inutilizzato qui a Tronjheim» commentò Eragon. Orik annuì. «Alcuni sostengono che sarebbe meglio abbandondare questo posto perché consuma troppe risorse, ma Tronjheim ha un ruolo insostituibile.» «Ossia?» «Nei tempi di sventura può ospitare la nostra intera nazione. Ci sono stati soltanto tre casi nella nostra storia in cui siamo stati costretti a questo passo estremo, ma ogni volta ci ha salvati dalla distruzione certa e totale. Ecco perché la teniamo sempre presidiata, pronta a qualsiasi evenienza.» «Non ho mai visto niente di così magnifico» disse Eragon. Orik sorrise, stringendo la pipa fra i denti. «Mi fa piacere. Ci sono volute intere generazioni per costruire Tronjheim...e la nostra vita dura molto più a lungo di quella umana. Purtroppo. causa del maledetto Impero, pochi estranei hanno avuto accesso alla sua gloria.» «Quanti Varden ci sono?» «Nani o umani?» «Umani. Vorrei sapere quanti hanno lasciato l’Impero.» Orik esalò un lungo sbuffo di fumo, che si allargò lentamente intorno alla sua testa. «Ci sono circa quattromila individui della tua specie. Ma questo non risponde alla tua domanda. Soltanto chi vuole combattere viene qui. Gli altri si trovano nel Surda, sotto la protezione di re Orrin.» Così pochi?pensò Eragon, deluso. Soltanto l’esercito reale era formato da circa sedicimila uomini, senza contare gli Urgali. «Perché Orrin non combatte contro l’Impero?» domandò. «Se mostrasse un’ostilità aperta» rispose Orile. «Galbatorix lo annienterebbe. In verità. Galbatorix lascia in pace il Surda perché lo considera una minaccia minore, ma è un grosso errore, È grazie al sostegno di Orrin che i Varden ricevono gran parte delle armi e delle provviste. Senza di lui, non ci sarebbe modo di resistere all’Impero. «Non ti far scoraggiare dal numero di umani presenti a Tronjheim. Ci sono molti nani, molti di più di quanti ne hai visti, e tutti combatteranno, quando verrà il momento. Anche Orrin ci ha promesso delle truppe, quando scenderemo in guerra contro Galbatorix. E perfino gli elfi si sono impegnati ad aiutarci.» Eragon vagò distrattamente col pensiero fino a toccare quello di Saphira, e la trovò intenta a sbranare con passione un sanguinolento quarto di bue. Si riscosse e notò ancora una volta il martello e le stelle incisi sull’elmo di Orik. «Che cosa significa quel simbolo? L’ho visto anche sul pavimento di Tronjheim.» Orik si tolse la calotta ferrata e fece scorrere un dito ruvido sull’incisione. «È il simbolo del mio clan. Siamo gli Ingietum, fabbri e artigiani del metallo. Il martello e le stelle sono incisi anche sul pavimento di Tronjheim perché era l’insegna personale del nostro fondatore, Korgàn. Un clan che governa, circondato dagli altri dodici. Anche il re Rothgar appartiene alla Dùrgrimst Ingietum, e ha portato grande onore e gloria al nostro casato.» Quando riportarono i piatti al cuoco, incrociarono nel corridoio un nano, che si fermò davanti a Eragon, s’inchinò e lo salutò con rispetto dicendo: «Argetlam.» Il nano si allontanò lasciando Eragon confuso e imbarazzato, ma anche stranamente compiaciuto. Nessuno si era mai inchinato davanti a lui. «Cos’ha detto?» bisbigliò all’orecchio di Orik. Orik si strinse nelle spalle. «È una parola elfica usata un tempo per definire i Cavalieri. Significa “mano d’argento”.» Eragon si guardò la mano guantata, pensando al gedwey ignasia che gli illuminava il palmo. «Vuoi tornare daSaphira?» «C’è un posto dove posso fare il bagno, prima? È da parecchio che porto con me la sporcizia del viaggio. La mia camicia è strappata, sporca di sangue, e puzza. Vorrei cambiarla, ma non ho soldi per comprarmene una nuova. C’è qualche lavoro che posso fare in cambio?» «Vuoi forse insultare l’ospitalità di Rothgar, Eragon?» esclamò Orik. «Finché sarai a Tronjheim, non dovrai comprare niente. Ci ripagherai in altri modi... Ajihad e Rothgar sapranno come. Vieni. Ti mostro dove lavarti, e poi andremo a cercare una camicia pulita.» Condusse Eragon lungo una scala che scendeva nelle viscere di Tronjheim. I corridoi si ridussero a stretti cunicoli, alti appena cinque piedi, ed Eragon dovette procedere chino. Tutte le lanterne erano rosse. «Per non restare accecati dalla luce quando si entra o esce da una grotta buia» spiegò Orik. Entrarono in una stanza spoglia, con una porticina sulla parete opposta, che Orik indicò. «Lì troverai le vasche, e anche spazzole e sapone. Lascia qui i tuoi vestiti. Ne troverai di nuovi quando avrai finito di lavarti.» Eragon lo ringraziò e prese a spogliarsi. Si sentiva oppresso, lì da solo sottoterra, soprattutto se guardava il soffitto bassissimo. Si svestì in fretta. Infreddolito, varcò la soglia per ritrovarsi in un’assoluta oscurità. Tese il piede un poco alla volta finché non incontrò dell’acqua tiepida, e si tranquillizzò. Aleggiava un odore vagamente salmastro, piacevole. Per un momento ebbe paura di allontanarsi dalla porta verso l’acqua più profonda, ma nell’immergersi scoprì che gli arrivava alla cintola. Avanzò a tentoni lungo un muretto viscido finché non trovò il sapone e le spazzole, e cominciò a lavarsi. Infine si lasciò galleggiare, con gli occhi chiusi, godendo del calore. Quando rientrò gocciolante nella stanza illuminata, trovò un asciugamano, una bella camicia di lino e un paio di braghe. I vestiti erano quasi della misura giusta per lui. Soddisfatto e rinfrancato, si avviò lungo il tunnel. Orik lo aspettava con la pipa in mano. Risalirono le scale fino a Tronjheim e uscirono dalla città-montagna. Eragon alzò lo sguardo verso il picco di Tronjheim e chiamò Saphira con la mente. Mentre la dragonessa scendeva, Eragon chiese: «Come fate a comunicare con le persone che sono lassù?» Orik ridacchiò. «È un problema che abbiamo risolto tanto tempo fa. Non l’hai notato, ma dietro gli archi aperti che si affacciano da ogni livello c’è un’unica scala ininterrotta che risale lungo il muro della sala centrale di Tronjheim e arriva fino alla rocca sopra Isidar Mithrirn. La chiamiamo Voi Turin, la Scala Infinita. Certo, non è rapida da salire e scendere in caso di emergenza, e non è comoda per l’uso quotidiano. Infatti per comunicare usiamo le lanterne di segnalazione. C’è anche un altro modo, ma viene usato di rado. Quando fu costruita Voi Turin, accanto a essa venne scavato una specie di canale di scolo. Funziona come un gigantesco scivolo, alto quanto una montagna.» Eragon abbozzò un sorriso. «È pericoloso?» «Non pensare nemmeno di provarci. Lo scivolo è stato costruito per i nani, ed è troppo stretto per un umano. Potresti cadere fuori, per le scale, e cozzare contro gli archi, o finire nel vuoto.» Saphira atterrò a un tiro di lancia da loro, in un crepitio di squame. Mentre salutava Eragon, umani e nani si riversarono da Tronjheim e si strinsero intorno a lei con mormorii di interesse. Eragon osservò la folla con crescente disagio. «Faresti meglio ad andare» disse Orik, spingendolo avanti. «Ci rivediamo davanti a questo cancello domattina. Ti aspetterò.» Eragon esitò. «Come faccio a sapere che è mattina?» «Ti farò svegliare da qualcuno. Adesso vai!» Senza indugiare oltre, Eragon si fece largo tra la folla che circondava Saphira e le montò in groppa. Un attimo prima che la dragonessa spiccasse il volo, una vecchia si fece avanti e afferrò la caviglia di Eragon. Il giovane tentò di liberarsi, ma la stretta era tenace come una morsa di ferro. Gli ardenti occhi grigi della donna erano circondati da una fitta ragnatela di rughe; la pelle delle guance ricadeva in pieghe flosce come sacchi vuoti. Nell’incavo del braccio sinistro portava un fagotto lacero. Spaventato, Eragon chiese: «Che cosa vuoi?» La donna inclinò il braccio e un lembo di stoffa del fagotto si aprì, mostrando il volto di un neonato. Con voce roca e disperata, la donna implorò: «Questa bimba è orfana.,, non c’è nessuno che si prenda cura di lei, tranne me, e io sono vecchia e debole. Benedicila col tuo potere. Argetlam. Benedici la sua sorte!» Eragon cercò Orik con lo sguardo, supplicando aiuto, ma il nano si limitò a guardarlo a sua volta, con un’espressione indecifrabile. La folla tacque, aspettando la sua risposta. Gli occhi della donna erano fissi su di lui. «Benedici questa bimba. Argetlam, benedicila» insisteva. Eragon non aveva mai benedetto nessuno. Non era una cosa che si faceva alla leggera in Alagasëia, perché una benedizione poteva facilmente corrompersi e rivelarsi più una maledizione che un augurio, specie se pronunciata con cattivi intenti o senza convizione. Oso prendermi questa responsabilità? si chiese. «Benedicila. Argetlam, benedicila.» Finalmente deciso, cercò una frase o un’espressione da usare. Non gli venne in mente niente. Poi, in un lampo d’ispirazione, pensò all’antica lingua. Sì, sarebbe stata una vera benedizione, pronunciata con parole di potere, da chi aveva il potere. Si chinò e si tolse il guanto dalla mano destra. Posò il palmo sulla fronte della neonata e disse: «Atra giilai un ilian tauthr ono un atra ono waise skòlir fra rauthr.» Le parole lo lasciarono inaspettatamente debole, come se avesse usato la magia. Si rimise il guanto e disse alla donna: «Questo è il massimo che posso fare per lei. Se esistono parole che hanno il potere di ostacolare la sventura, sono queste.». «Ti ringrazio. Argetlam» mormorò la vecchia con un lieve inchino. Si accinse a ricoprire il visetto della bimba, quando Saphira sbuffò e abbassò la testa sulla piccola. L’anziana donna si irrigidì, trattenendo il fiato, Saphira sfiorò col muso la fronte della piccola, poi si rialzò lentamente. La folla emise un’esclamazione soffocata. Sulla fronte della bimba, nel punto in. cui Saphira l’aveva toccata, c’era .una macchia a forma di stella, bianca e lucente come il gedwéy ignasia di Eragon. La donna guardò Saphira con occhi umidi, colmi di gratitudine. Saphira si alzò subito in volo, sferzando gli spettatori attoniti con lo spostamento d’aria prodotto dai suoi poderosi colpi d’ala. Mentre il terreno si allontanava sotto di loro, Eragon trasse un profondo sospiro e le abbracciò stretto il collo. Cosa hai fatto? le chiese. Le ho dato speranza. E tu le hai dato un futuro. Eragon si sentì travolgere da un’improvvisa solitudine, malgrado la presenza di Saphira. Quel luogo era così estraneo: per la prima volta si rese conto con dolore di quanto era lontano da casa. Una casa distrutta, ma era là che aveva lasciato il cuore. Che cosa sono diventato, Saphira? disse. Questo è il mio primo anno dell’età adulta, e già sono stato a consulto con il capo dei Varden. Galbatorix mi insegue e ho viaggiato col figlio di Morzan...e ora c’è anche chi pretende da me una benedizione! Quale saggezza posso dare alla gente che già essa non possegga? Quali gesta posso compiere che un esercito non possa compiere meglio? È una follia! Dovrei tornare a Carvahall, da Roran. Saphira non rispose subito, ma quando vennero, le sue parole furono gentili. Un cucciolo, ecco che cosa sei. Un cucciolo che lotta per sopravvivere nel mondo. Forse come età sono più giovane di te, ma sono molto più vecchia nei pensieri. Non preoccuparti di queste cose. Trova pace in ciò che sei e dove ti trovi. Le persone spesso sanno già cosa fare; a te spetta il compito di mostrare loro il modo... ecco la vera saggezza. E per quanto riguarda le gesta, nessun esercito avrebbe potuto dare la benedizione che hai dato tu. Ma non era niente,protestò lui. Una sciocchezza. No, niente affatto. Quello che hai visto è l’inizio di un’altra storia, un’altra leggenda. Credi che quella bambina si accontenterà di fare la locandiera o la contadina, quando sulla fronte reca il marchio di un drago ed è stata benedetta dalle tue parole? Tu sottovaluti i nostri poteri e quelli del destino. Eragon chinò il capo. È troppo. Ho la sensazione di vivere dentro un’illusione, un sogno dove ogni cosa è possibile. Lo so che eventi straordinari possono succedere, ma sempre a qualcun altro, sempre in qualche luogo e qualche epoca remoti. Eppure io ho trovato il tuo uovo, sono stato addestrato da un Cavaliere e ho duellato con uno Spettro... queste non possono essere le azioni del ragazzo di campagna che sono, o che ero. Qualcosa è cambiato in me. È il tuo wyrda che ti forgia,disse Saphira. Ogni epoca ha bisogno di un eroe... forse questa volta è toccato a te. I ragazzi di campagna non portano il nome del primo Cavaliere, di solito. Il tuo soprannome è stato il principio, e ora tu sei la continuazione. O la fine. Ah,mormorò Eragon, scuotendo il capo. Sembra una sciarada... Ma se è tutto prestabilito, che senso hanno le nostre scelte? O dobbiamo soltanto imparare ad accettare il nostro fato? Eragon,disse Saphira in tono grave, io ti ho scelto da dentro il mio guscio. Ti è stata concessa un’occasione per cui molti morirebbero. Sei infelice per questo? Sgombra la mente da simili pensieri. Non hanno risposta e non ti rendono più felice. Vero,rispose lui, cupo. Tuttavia continuano a tormentarmi. Le cose si sono... guastate... da quando Brom è morto. Anch’io provo una profonda inquietudine,ammise Saphira. Eragon fu molto sorpreso, perché di rado la dragonessa si mostrava turbata. Erano sopra Tronjheim. Eragon guardò in basso, attraverso l’apertura nel suo picco e vide il pavimento della rocca; Isidar Mithrim, il grande zaffiro stellato. Sapeva che sotto non c’era niente, se non la grande sala centrale di Tronjheim, Saphira planò silenziosa sulla roccaforte, ne superò il bordo e atterrò su Isidar Mithrim con un clangore di artigli. Non lo graffierai, così? disse Eragon. Non credo. Questa non è una gemma qualsiasi. Eragon si lasciò scivolare a terra e si volse lentamente tutt’intorno per ammirare l’insolito colpo d’occhio. Erano in una sala circolare, priva di tetto, alta sessanta piedi e larga altrettanto. Sulle pareti si aprivano innumerevoli, buie caverne, alcune non più grandi di un uomo, altre enormi come una casa. Nel marmo erano stati ricavati lucidi gradini perché la gente raggiungesse le grotte più alte. Un arco colossale segnava l’uscita dalla roccaforte. Eragon esaminò la grande gemma sotto i suoi piedi e d’impulso vi si sdraiò sopra. Premette la guancia contro il freddo zaffiro e provò a guardarvi attraverso. Linee distorte e tremolanti punti colorati sfarfallavano dentro la gemma, ma il suo spessore rendeva impossibile distinguere chiaramente che cosa ci fosse sul pavimento della sala, un miglio più sotto. Dobbiamo dormire separati? Saphira scosse la grande testa. No, c’è un letto per te nella mia caverna. Vieni a vedere. Si volse e senza aprire le ali spiccò un balzo che la fece atterrare davanti a una grotta di media grandezza, venti piedi più in alto. Eragon si arrampicò dietro di lei. La caverna era marrone scuro all’interno e più profonda di quanto si fosse aspettato. Le pareti rozzamente scolpite sembravano coperte da rughe naturali della roccia. Addossato alla parete di fondo c’era un enorme cuscino, in grado di ospitare Saphira accoccolata. Accanto c’era un letto incassato nella parete. La caverna era illuminata da un’unica lanterna rossa, schermata da una griglia che ne attenuava il bagliore. Mi piace,disse Eragon. Mi sento al sicuro. Già.Saphira si rannicchiò sul cuscino e rimase a guardarlo. Con un sospiro, Eragon si sedette sul materasso, colto da un’improvvisa stanchezza. Saphira, non hai detto molto da quando siamo qui Che cosa pensi di Tronjheim e diAjihad? Vedremo... A quanto pare, Eragon, siamo coinvolti in un altro tipo di conflitto, qui. Non servono spade e artigli, ma parole e alleanze. Ai Gemelli non siamo piaciuti, perciò il mio consiglio è di stare in guardia contro eventuali loro mosse. Nemmeno i nani si fidano di noi. Gli elfi non vogliono un Cavaliere umano, e così anche loro ci saranno ostili. La cosa migliore che possiamo fare è individuare coloro che detengono il vero potere e farceli amici. E alla svelta, anche. Credi sia possibile restare indipendenti dai capi? Saphira spostò le ali in una posizione più comoda. Ajihad sostiene la nostra libertà, ma potremmo non sopravvivere se non giuriamo la nostra lealtà a un gruppo o all’altro. Credo che lo scopriremo presto. 54 Radice di mandragola e lingua di tritone Eragon si svegliò con le coperte ammucchiate sotto il suo corpo; eppure non aveva freddo. Saphira dormiva ancora sul suo cuscino, e russava con lievi sbuffi regolari. Per la prima volta da quando era entrato nel Farthen Dùr, Eragon si sentiva al sicuro, pieno di speranza. Era al caldo, aveva mangiato e dormito a volontà. La tensione dentro di lui si andava allentando: la tensione accumulata dalla morte di Brom, e anche da prima, da quando aveva lasciato la Valle Palancar. Non ho più paura. Ma Murtagh? Malgrado l’ospitalità dei Vàrden, Eragon non poteva perdonarsi in tutta coscienza di aver provocato, che lo volesse o meno, la prigionia di Murtagh. Doveva risolvere la questione. Il suo sguardo vagò per l’ampio soffitto della caverna, mentre pensava ad Arya. Rimproverandosi per quei sogni a occhi aperti, voltò la testa e guardò il piazzale della rocca. Un grosso gatto era accoccolato davanti all’ingresso della caverna, intento a leccarsi una zampa. L’animale gli scoccò un’occhiata, ed Eragon vide un baluginio di rossi occhi obliqui. Solembum?chiese, incredulo. E chi altri? Il gatto marinaro si scrollò la folta pelliccia e sbadigliò languido, mostrando i denti aguzzi. Si stiracchiò, poi balzò fuori dalla grotta, atterrando con un tonfo su Isidar Mithrim, venti piedi più in basso. Vieni? Eragon guardò Saphira, che nel frattempo si era svegliata e lo fissava immobile. Va’ pure. Starò bene, mormorò. Solembum lo aspettava sotto l’arco che conduceva all’altra parte di Tronjheim. Nel momento in cui i piedi di Eragon toccarono Isidar Mithrim, il gatto marinaro si volse con uno scatto delle zampe e scomparve oltre l’arco. Eragon lo inseguì, strofinandosi gli occhi ancora gonfi di sonno. Passò sotto l’arco e si trovò all’inizio di Voi Turin, la Scala Infinita. Non c’era altro posto dove andare, perciò scese al piano di sotto. Si fermò in una galleria aperta che curvava dolcemente a sinistra lungo il perimetro della sala centrale di Tronjheim. Fra le eleganti colonne che sostenevano gli archi, Eragon vide Isidar Mithrim che scintillava sopra di lui, come anche il pavimento lontano della città-montagna. La circonferenza della sala centrale aumentava procedendo verso il basso. La scala proseguiva oltre il pavimento della galleria verso un livello identico più sotto e scendeva lungo decine di arcate fino a scomparire in lontananza. Lo scivolo correva lungo il margine esterno della scala. In cima a Voi Turin c’era un mucchio di pelli quadrate che servivano ad agevolare la discesa. Alla destra di Eragon, un corridoio polveroso conduceva alle stanze e agli appartamenti di quel piano. Solembum zampettò lungo il corridoio, agitando la coda. Aspetta, disse Eragon. Cercò di raggiungere Solembum, ma ogni volta riusciva appena a intravvederlo prima che sparisse dietro un angolo, verso passaggi abbandonati. Infine, per l’ennesima svolta, vide il gatto marinaro fermo davanti a una porta. Solembum miagolò e la porta parve aprirsi da sola; il gatto scivolò dentro e la porta si richiuse. Eragon si fermò lì davanti, perplesso. Alzò una mano per bussare, quando la porta si aprì di nuovo, e un fascio di luce lo investì. Dopo un attimo di esitazione, fece un passo dentro. Era in un appartamento di due stanze, sontuosamente decorato, con intarsi di legno e piante penzolanti. L’aria era calda, umida e profumata. Dalle pareti e dal basso soffitto pendevano numerose lanterne accese. Cumuli di oggetti affascinanti affollavano il pavimento, nascondendo gli angoli. Nella stanza accanto si intravvedeva un grande letto a colonnine, immerso in un’altra giungla di piante. Al centro della stanza principale, seduta su una sontuosa poltrona di pelle, c’era Angela, la maga indovina. Lo accolse con un largo sorriso. «Che cosa ci fai qui?» esclamò Eragon. Angela si raccolse le mani in grembo. «Be’, perché non ti siedi sul pavimento, così te lo dico? Ti offrirei una sedia, ma quella su cui sono seduta è l’unica che ho.» Eragon si sedette fra due ampolle colme di un acre liquido verde gorgogliante, con la mente invasa dalle domande. «Dunque!» esclamò Angela, protesa verso di lui. «Allora sei un Cavaliere. L’ho sempre sospettato, ma ne ho avuto la conferma soltanto ieri. Sono sicura che Solembum lo sapesse, ma non me l’ha mai detto. Avrei dovuto capirlo non appena mi parlasti di Brom! Saphira... mi piace questo nome, è perfetto per una dragonessa.» «Brom è morto» disse Eragon senza tanti preamboli. «I Ra’zac l’hanno ucciso.» Angela fu colpita dalla notizia. Si avvolse intorno al dito una ciocca dei lunghi riccioli e mormorò: «Mi dispiace, mi dispiace davvero.» Eragon sorrise amaro. «Ma non sei sorpresa, vero? In fondo avevi previsto la sua morte.» «Non sapevo chi sarebbe morto» disse lei, scuotendo il capo. «Ma no... non sono sorpresa. Ho incontrato Brom una volta o due. Non apprezzava il mio atteggiamento frivolo nei riguardi della magia. Lo irritava.» Eragon aggrottò la fronte. «A Teirm ridesti del suo destino e dicesti che era una specie di burla. Perché?» Il volto di Angela si fece serio per un istante. «A pensarci adesso, dire una cosa del genere è stato di pessimo gusto da parte mia, ma non sapevo che cosa gli sarebbe accaduto. Come posso spiegarti? In un certo senso. Brom era condannato. Era il suo wyrda fallire in ogni impresa tranne una, anche se non per colpa sua. Fu scelto come Cavaliere, ma il suo drago fu ucciso. Si innamorò di una donna, ma fu il suo affetto che la portò alla rovina. E fu scelto, presumo, per sorvegliarti e addestrarti, ma alla fine ha fallito anche in questo. L’unica cosa in cui ha avuto successo è stato uccidere Morzan; non avrebbe potuto compiere un’impresa migliore.» «Brom non mi ha mai parlato di una donna» ribatte Eragon. Angela scrollò le spalle. «L’ho saputo da qualcuno che non può aver mentito. Ma non ne parliamo più! La vita va avanti, e non dovremmo disturbare i morti con i nostri affanni.» Raccolse una manciata di vimini dal pavimento e cominciò a intrecciarli con abili movimenti, mostrando che considerava chiuso il discorso. Eragon esitò, poi si arrese. «D’accordo. Ma che cosa ci fai qui a Tronjheim, invece di essere a Teirm?» «Ah, finalmente una domanda interessante» disse Angela. «Dopo aver sentito pronunciare il nome di Brom durante la tua visita, ho avuto la sensazione che il passato stesse tornando in Alagasëia. La gente mormorava che l’Impero stesse cercando un Cavaliere. Sapevo che l’uovo di drago in mano ai Varden doveva essersi schiuso, e così ho chiuso il negozio e mi sono messa in viaggio per saperne di più.» «Sapevi dell’uovo?» «Naturale: non sono una stupida. Guarda che sono al mondo da molto più tempo di quanto tu non creda. È difficile che mi sfugga qualcosa.» Fece una pausa e si concentrò sul lavoro d’intreccio. «Comunque, sapevo di dover raggiungere i Varden al più presto. È quasi un mese ormai che sono qui, anche se questo posto non mi piace molto... odora troppo di muffa per i miei gusti. E nel Farthen Dùr sono tutti così seri e altezzosi. Probabilmente sono tutti destinati a una fine tragica, in un modo o nell’altro.» Trasse un lungo sospiro, un’espressione ironica sul volto. «E i nani sono soltanto una massa di babbei superstiziosi che si accontentano di picconare rocce per tutta la vita. L’unico lato positivo del Farthen Dùr è che qui crescono un sacco di funghi e licheni interessanti.» «Allora perché resti?» le chiese Eragon con un sorriso. «Perché mi piace essere lì dove accadono eventi importanti» rispose Angela, inclinando la testa da un lato. «E poi, se fossi rimasta a Teirm, Solembum sarebbe partito senza di me, e a me piace la sua compagnia. Ma dimmi, quali avventure ti sono capitate da quando ci siamo visti?» Per tutta l’ora che seguì, Eragon raccontò in breve le esperienze degli ultimi due mesi e mezzo. Angela lo ascoltò in silenzio, ma quando il giovane fece il nome del suo compagno di viaggio, esclamò sdegnata: «Murtagh!» Eragon annuì. «Mi ha rivelato lui la sua identità. Ma fammi finire il racconto, prima di esprimere qualsiasi giudizio.» Proseguì la sua storia. Quando ebbe finito. Angela sprofondò pensierosa nella poltrona, il lavoro d’intreccio abbandonato sulle gambe. Senza preavviso, Solembum sbucò da chissà quale nascondiglio e le saltò in grembo. Si acciambellò, sotto le carezze distratte di Angela, e guardò Eragon con occhi penetranti. «Affascinante» commentò Angela. «Galbatorix alleato con gli Urgali, e Murtagh finalmente allo scoperto... Ti consiglio di stare in guardia, con lui, ma Ovviamente sai già quali pericoli corri.» «Murtagh si è dimostrato un amico fidato e un prezioso alleato» ribatte Eragon con fermezza. «Sarà... ma stai attento.» Angela fece una pausa, poi aggiunse, in tono disgustato: «E c’è la questione di questo Spettro. Durza. Credo che al momento sia la minaccia.più grave per i Varden, a parte Galbatorix. Odio gli Spettri... praticano la forma più sacrilega di magia, dopo la negromanzia. Mi piacerebbe infilzargli il cuore con uno spillone e darlo in pasto ai porci!» Eragon rimase sconcertato dalla sua improvvisa veemenza. «Non capisco. Brom mi ha detto che gli Spettri sono stregoni che usano gli spiriti per compiere il proprio volere, ma perché questo li rende così malvagi?» Angela scosse la testa. «Non è così. Gli stregoni normali sono appunto questo, normali... né meglio né peggio di tutti noi. Usano le loro capacità magiche per controllare gli spiriti e il potere degli spiriti. Gli Spettri tuttavia rinunciano a quel controllo per conquistare un potere maggiore e permettono al proprio corpo di essere controllato dagli spiriti. Purtroppo, soltanto gli spiriti maligni cercano di possedere gli umani, e una volta insediati, non se ne vanno più. Questa possessione può avvenire per sbaglio, se uno stregone evoca uno spirito più forte di lui. Il problema è che una volta creato uno Spettro, è terribilmente difficile ucciderlo. Come sono certa saprai, soltanto due persone. Laetri l’Elfo e Irnstad il Cavaliere, sono riusciti in questa impresa.» «L’ho sentito dire.» Eragon fece un ampio gesto con la mano. «Come mai vivi quassù? Non è scomodo, restare così isolata? E come hai fatto a portare qui tutta questa roba?» Angela gettò indietro la testa e rise di gusto. «Vuoi saperlo proprio? Mi nascondo. Quando sono arrivata a Tronjheim, ho passato qualche giorno in pace... finché una delle guardie che mi ha fatto entrare nel Farthen Dùr ha cominciato a raccontare in giro chi sono. A quel punto tutti i maghi di qui, anche se nessuno di loro merita tale appellativo, hanno preso a insistere perché mi unissi alla loro setta segreta. Specie quei due drajl di Gemelli che la controllano. Alla fine ho minacciato di trasformarli in rospi... scusa, in rane, ma quando nemmeno questo li ha fermati, sono salita quassù nel cuore della notte. È stato meno complicato di quanto tu creda, per una con le mie capacità.» «Hai permesso ai Gemelli di esaminarti la mente prima di entrare nel Farthen Dùr?» chiese Eragon. «Io sono stato costretto a lasciarli frugare fra i miei ricordi.» Un lampo di gelo balenò negli occhi di Angela. «I Gemelli non avrebbero mai osato esaminarmi, per paura di ciò che avrei potuto fare loro. Oh, sì, avrebbero voluto, ma sapevano che lo sforzo li avrebbe ridotti a due mentecatti balbettanti. Frequento questo posto da molto prima che i Varden cominciassero a scrutare la mente delle persone... e non ho alcuna intenzione di consentire che lo facciano adesso.» Sbriciò nell’altra stanza e disse: «Bene! È stata una conversazione molto istruttiva, ma temo che sia ora che tu te ne vada. La mia pozione di radici di mandragola e lingua di tritone sta per bollire, e devo sorvegliarla. Torna quando avrai tempo, E ti prego, non dire a nessuno che sono qui. Non vorrei dover traslocare di nuovo. Mi seccherebbe parecchio... e tu non vuoi vedermi seccata, vero?» «Manterrò il tuo segreto» promise Eragon, e si alzò. Solembum balzò giù dalle gambe di Angela, mentre anche lei si alzava. «Bene!» esclamò l’indovina. Eragon la salutò e uscì. Solembum lo guidò di nuovo alla roccaforte, poi si congedò con un guizzo di coda prima di scivolare via. 55 Il re della montagna Sulla roccaforte, Eragon trovò un nano ad attenderlo. Dopo essersi inchinato e aver borbottato «Argetlam» il nano aggiunse, con un pesante accento: «Bene. Sveglio. Knurla Orik ti aspetta.» S’inchinò di nuovo e corse via. Saphira balzò giù dalla sua caverna e atterrò accanto a lui. Teneva Zar’roc fra gli artigli. A che cosa serve? domandò lui, accigliato. Saphira inclinò la testa. Prendila. Sei un Cavaliere e dovresti portare la spada di un Cavaliere. Zar’roc ha un passato di sangue, ma questo non deve modificare le tue azioni. Plasma un nuovo futuro per lei, e portala con orgoglio. Sei sicura? Ricorda il consiglio di Ajihad. Saphira sbuffò, e un ricciolo di fumo le risalì dalle narici. Portala, Eragon. Se desideri mantenerti al di sopra delle forze in gioco, non farti influenzare dai pensieri altrui. Come vuoi, disse Eragon esitante, allacciandosi la spada alla vita. Si arrampicò in groppa alla dragonessa, e Saphira spiccò il volo dalla cima di Tronjheim. C’era abbastanza luce nel Farthen Dùr ora che la massa nebulosa delle pareti del cratere, cinque miglia in ogni direzione, era visibile. Mentre scendevano a spirale verso la base della città-montagna, Eragon raccontò a Saphira del suo incontro con Angela. Non appena furono atterrati vicino a uno dei cancelli di Tronjheim. Orik corse loro incontro. «Il mio sovrano, re Rothgar, desidera vedervi entrambi. Fate in fretta.» Eragon smontò da Saphira e seguì il nano dentro Tronjheim. Saphira li seguì senza difficoltà. Ignorando gli sguardi dei curiosi lungo il corridoio. Eragon chiese: «Dove incontreremo Rothgar?» Senza rallentare. Orik rispose: «Nella sala del trono, sotto la città. Sarà un’udiènza privata come atto di otho, di fede. Non occorre che ti rivolga a lui in nessun modo speciale, ma parlagli con rispetto. Rothgar si adira facilmente, ma è saggio e un esperto conoscitore della mente degli uomini, perciò rifletti prima di parlare.» Una volta entrati nella sala centrale di Tronjheim. Orik imboccò una delle due scale discendenti che fiancheggiavano il corridoio di fronte. Era quella di destra, che curvava dolcemente verso l’interno fino a riprendere la direzione da cui erano venuti. L’altra si univa a questa per formare un’ampia scalinata fiocamente illuminata, che terminava, dopo cento piedi, davanti a una porta di granito a due battenti. Su entrambi era incisa una corona a sette punte. Sette nani erano a guardia di ciascun lato della porta. Impugnavano picconi di metallo brunito e indossavano elmi tempestati di gemme. Mentre Eragon. Orik e Saphira si avvicinavano, i nani picchiarono per terra col manico dei loro picconi. Un cupo rimbombo echeggiò per le scale. I due battenti si aprirono verso l’interno. Davanti a loro c’era una sala scura, lunga un buon tiro di freccia. La sala del trono era una caverna naturale; le pareti erano costellate di stalagtiti e stalagmiti, ciascuna più grossa di un uomo. Il pavimento scuro era liscio e levigato. In fondo alla sala c’era un trono nero che ospitava una figura immobile. Orik s’inchinò. «Il re vi aspetta.» Eragon posò una mano sul fianco di Saphira, e i due avanzarono insieme. Le porte si chiusero alle loro spalle, lasciandoli soli nella penombra della sala con il re. Ogni loro passo echeggiava nella sala mentre avanzavano verso il trono. Nei recessi fra le stalattiti e le stalagmiti erano incassate grandi statue. Ogni scultura raffigurava un re dei nani con la corona, seduto sul trono; i loro occhi vuoti fissavano in lontananza, i. volti rugosi fermati in espressioni feroci. Un nome era cesellato con le rune sotto ogni paio di piedi. Eragon e Saphira avanzarono solennemente tra le due file di monarchi defunti. Superarono oltre quaranta statue; poi c’erano oscure nicchie vuote, in attesa dei re futuri. Si fermarono al cospetto di Rothgar, in fondo alla sala. Anche il re dei nani sedeva come una statua su un trono ricavato da un unico blocco di marmo nero, tozzo, disadorno e tagliato con estrema precisione. Il sovrano emanava una grande forza, una forza che risaliva ai tempi antichi in cui i nani avevano governato in Alagasëia, senza interferenze di elfi o umani. In testa, al posto della corona, portava un elmo rotondo, d’oro tempestato di diamanti e rubini. Il suo volto era arcigno, segnato dal tempo e solcato da rughe di esperienza. Sotto la fronte sporgente e le sopracciglia cespugliose brillavano occhi scuri e penetranti. Sul torace massiccio indossava una cotta di maglia. Portava la lunga barba bianca infilata nella cintura, e in grembo teneva un potente martello da guerra con il simbolo del clan dì Orik inciso sulla testa. Eragon si piegò goffamente su un ginocchio. Saphira rimase eretta. Il re si mosse, come svegliandosi da un lungo sonno, e borbottò: «Alzati. Cavaliere, non occorre che mi tributi alcun omaggio.» Rialzandosi, Eragon incontrò gli occhi impescrutabili di Rothgar. Il re lo squadrò severo, poi disse con voce gutturale: «Àz knurl deimi lanok. Attenzione, la roccia cambia. Un vecchio detto che usa da noi. E oggi la roccia cambia molto in fretta, davvero.» Accarezzò l’impugnatura del martello. «Non ti ho potuto ricevere prima, come ha fatto Ajihad, perché sono stato costretto a occuparmi dei miei nemici all’interno dei clan. Pretendevano che ti negassi asilo e ti cacciassi dal Farthen Dùr. Mi ci è voluto molto per convincerli del contrario.» «Ti ringrazio» disse Eragon. «Non sapevo che il mio arrivo avrebbe causato tanti problemi.» Il re accettò i ringraziamenti, poi levò una mano nodosa e indicò le statue lontane. «Guarda. Cavaliere Eragon, dove i miei predecessori siedono sui loro troni scolpiti. Sono quarantuno, e io sono il quarantaduesimo. Quando da questo mondo passerò nelle mani degli dei, la mia hìrna verrà aggiunta a quella schiera. La prima statua è quella del nostro antenato Korgan, che forgiò questa mazza. Volund. Per otto millenni, fin dall’alba della nostra razza, i nani hanno governato sotto il Farthen Dùr. Siamo le ossa della terra, più antichi sia dei leggiadri elfi che dei selvaggi draghi.» Saphira si mosse appena. Rothgar si protese dal trono, la voce profonda e rauca. «Sono vecchio, umano, anche secondo il nostro modo di contare gli anni. Vecchio abbastanza da aver visto i Cavalieri nella loro fuggevole gloria, vecchio abbastanza da aver parlato con il loro ultimo comandante. Vrael, che mi venne a rendere omaggio fra queste stesse mura. Sono pochi i vivi che possono dire altrettanto. Ricordo i Cavalieri e come si immischiavano nei nostri affari. Ma ricordo anche la pace che mantenevano e che rendeva possibile viaggiare illesi da Tronjheim a Narda. «E.ora tu sei di fronte a me… una tradizione perduta che si rinnova. Dimmi, e parla sinceramente, perché sei venuto nel Farthen Dùr? Sono a conoscenza degli eventi che ti hanno spinto a fuggire dall’Impero, ma quali sono le tue intenzioni, adesso?» «Per adesso, Saphira e io vogliamo soltanto recuperare le forze a Tronjheim» rispose Eragon. «Non siamo qui per creare problemi, solo per trovare asilo dai pericoli che abbiamo affrontato per tanti mesi. Ajihad vorrebbe mandarci dagli elfi, ma finché non lo fa, per noi va benissimo restare qui.» «Dunque è soltanto il desiderio di sicurezza che vi ha condotti qui?» chiese Rothgar. «Vuoi vivere a Tronjheim e dimenticare le tue questioni con l’Impero?» Eragon scosse il capo, respingendo con orgoglio quell’affermazione. «Se Ajihad ti ha parlato del mio passato, dovresti sapere che l’Impero mi ha causato tanto dolore che non sarò soddisfatto finché non lo vedrò ridotto in cenere. Ma oltre a questo, voglio aiutare coloro che non possono opporsi a Galbatorix, compreso mio cugino. Possiedo la forza per aiutarli, quindi devo.» Il re parve soddisfatto dalla risposta. Si rivolse a Saphira e chiese: «Drago, tu che cosa pensi in proposito? Per quale ragione siete venuti?» Saphira arricciò il labbro di sopra per emettere un cupo ringhio. Digli che ho sete del sangue dei nostri nemici e attendo con desiderio il giorno in cui cavalcheremo in battaglia contro Galbatorix. Non provo indulgenza né pietà per i traditori e i distruttori di uova, come quel falso re. Mi ha tenuta prigioniera per oltre un secolo e anche adesso possiede due dei miei fratelli, che farò di tutto per liberare, E digli anche che ti giudico pronto per questo compito. Eragon fece una smorfia a quelle parole, ma le riferì puntualmente a Rothgar. Il re arricciò un angolo della bocca in una smorfia di cupo divertimento; le sue rughe si fecero ancora più profonde. «Vedo che i draghi non sono cambiati nel corso dei secoli.» Picchiò le nocche sul granito del trono. «Sai perché questo sedile è stato scolpito in modo così squadrato? Perché nessuno ci si possa sedere comodo. Io non ci sto comodo e me ne separerò senza rimpianti quando verrà il momento. Che cosa ti rammenta i tuoi doveri, Eragon? Se l’Impero dovesse cadere, prenderai il posto di Galbatorix e rivendicherai il suo regno?» «Non cerco la corona né il comando» disse Eragon, corrucciato. «Essere un Cavaliere comporta già enormi responsabilità. No, non voglio il trono di Urù’baen... a meno che non ci sia nessuno disposto a farlo, o abbastanza competente.» Rofhgar lo ammonì con aria grave: «Certo saresti un re migliore di Galbatorix, ma nessuna razza dovrebbe avere un capo che non invecchia e non lascia il trono. Il tempo dei Cavalieri è passato, Eragon. Non risorgeranno più... nemmeno se le altre uova di Galbatorix dovessero schiudersi.» Un’ombra gli attraversò il viso quando il suo sguardo si posò sul fianco di Eragon. «Vedo che porti la spada di un nemico; mi era stato detto, e mi è stato detto anche che hai viaggiato col figlio di un Rinnegato. Non mi piace vedere quell’arma.» Tese una mano. «Ma vorrei esaminarla.» Eragon estrasse Zar’roc dal fodero e la porse al re, dal lato dell’impugnatura. Rothgar la prese e fece scorrere lo sguardo esperto sulla rossa lama che rifletteva la luce delle lanterne. Ne saggiò la punta con il palmo e disse: «Una lama forgiata da maestri. Gli elfi di rado scelgono di fabbricare spade... preferiscono archi e picche... ma quando lo fanno, i risultati sono impareggiabili. Questa è una lama segnata dalla cattiva sorte; non sono contento di vederla nel mio regno. Ma portala pure, se vuoi: forse la sua sorte è cambiata.» Restituì Zar’roc a Eragon, che la rinfoderò. «Mio nipote ti è stato utile durante questi primi giorni di permanenza?» «Chi?» Rothgar inarcò un sopracciglio cespuglioso. «Orik, il figlio di mia sorella minore. Ha servito sotto Ajihad a dimostrazione del mio sostegno ai Varden, ma a quanto pare è stato esonerato per tornare al mio comando. Mi ha fatto piacere sapere che hai preso le sue difese.» Eragon capì che quello era un altro segno di otho, di fede, da parte di Rothgar. «Non avrei potuto chiedere una guida migliore.» «Bene» disse il re, chiaramente soddisfatto. «Purtroppo non posso trattenermi oltre con te. I miei consiglieri mi aspettano per discutere di alcune questioni. Ma c’è un’ultima cosa che devi sapere: se desideri avere il sostegno dei nani all’interno del mio regno, devi prima dimostrare quanto vali. Abbiamo la memoria lunga e non prendiamo decisioni affrettate. Le parole non servono a niente senza i fatti.» «Lo terrò a mente» disse Eragon con un inchino. Rothgar annuì con aria regale. «Potete andare, adesso.» Eragon si volse insieme a Saphira, e ripercorsero la sala del re della montagna. Orik li aspettava dall’altro lato dei portali di pietra, con un’espressione ansiosa. Mentre risalivano verso la sala centrale di Tronjheim, domandò: «È andato tutto bene? Siete stati accolti con benevolenza?» «Mi è parso di sì. Il tuo re è molto cauto» commentò Eragon. «Ecco come ha fatto a sopravvivere così a lungo.» Non mi piacerebbe proprio trovarmi di fronte a un Rothgar infuriato, osservò Saphira. Eragon le scoccò un’occhiata. Già, nemmeno a me. Non sono sicuro di quello che pensa di te... Ho la netta impressione che non ami i draghi, anche se non l’ha detto apertamente. Saphira sembrò divertita. In questo si è dimostrato molto saggio, soprattutto perché mi arriva a stento al ginocchio. Al centro di Tronjheim, sotto lo sfavillante Isidar Mithrim. Orik disse: «La tua benedizione di ieri ha messo in subbuglio i Varden. È stato come infastidire un alveare. La bambina che Saphira ha toccato viene acclamata come una futura eroina. Lei e la sua tutrice sono state alloggiate in un appartamento lussuosissimo. Tutti parlano del tuo miracolo, e tutte le madri umane ti cercano per farti fare lo stesso ai loro piccoli.» Eragon si guardò intorno, allarmato. «Che cosa dovremmo fare?» «A parte pensare prima di agire?» disse Orik, seccato. «Farti vedere il meno possibile. Nessuno avrà accesso alla roccaforte, perciò lassù non sarai disturbato.» Eragon non aveva ancora voglia di tornare alla rocca. Era mattina, e voleva esplorare Tronjheim con Saphira. Ora che erano lontani dall’Impero, non c’era ragione perché restassero separati; ma era impossibile non attirare l’attenzione con lei al suo fianco. Saphira, che cosa vuoi fare? Lei gli sfiorò un braccio col muso squamoso. Io torno sulla rocca. C’è qualcuno che voglio incontrare. Tu fai un giro, guardati intorno, come ti pare. D’accordo, disse lui, ma chi devi incontrare? Saphira si limitò a strizzare uno degli enormi occhi azzurri prima di imboccare uno dei quattro tunnel principali di Tronjheim. Eragon spiegò a Orik dove era diretta, poi aggiunse: «Vorrei fare colazione. E più tardi mi piacerebbe visitare meglio Tronjheim... è un posto straordinario. Non desidero ancora cominciare l’addestramento. Magari domani.» Orik annuì, la folta barba che rimbalzava sul torace rotondo. «In questo caso, ti piacerebbe visitare la biblioteca di Tronjheim? È molto antica e conserva alcune pergamene di inestimabile valore. Potresti trovare interessante leggere una storia di Alagasëia che non sia stata corrotta dalle mani di Galbatorix.» Con una fitta di nostalgia, Eragon ricordò di quando Brom gli aveva insegnato a leggere. Si chiese se ne era ancora capace; era passato tanto tempo dall’ultima volta che aveva visto qualcosa di scritto. «Sì, andiamo.» «Perfetto.» Dopo che ebbero mangiato. Orik condusse Eragon attraverso una miriade di corridoi, fino alla loro destinazione. Quando furono sotto l’arco intagliato che portava alla biblioteca, Eragon lo varcò con deferenza. L’ampia sala assomigliava a una foresta. File di eleganti colonne svettavano verso l’oscuro soffitto nervato, cinque piani più in alto. Fra i pilastri erano incuneati scaffali di marmo nero, spalla a spalla. Mensole gremite di pergamene coprivano le pareti, intervallate da tre angusti passaggi raggiungibili grazie ad altrettante scale a chiocciola. A intervalli regolari tutto intorno c’erano coppie di panche di pietra l’una di fronte all’altra, e in mezzo tavoli le cui basi sembravano sorgere dal pavimento stesso. Nella biblioteca erano conservati innumerevoli libri e pergamene. «Questa è la vera eredità della nostra razza» disse Orik. «Qui si conservano gli scritti dei nostri più grandi re e studiosi, dall’antichità fino ai nostri giorni. Qui sono archiviate le canzoni e le storie composte dai nostri artisti. Questa biblioteca potrebbe essere il nostro tesoro più prezioso. Tuttavia non vi sono conservate soltanto opere dei nani: ci sono anche opere umane. La vostra è una razza dalla vita breve ma prolifica. Abbiamo pochissime informazioni sugli elfi. Custodiscono gelosamente i loro segreti.» «Quanto posso restare?» chiese Eragon, avviandosi verso i primi scaffali. «Quanto desideri. Vieni da me se hai qualche domanda.» Eragon scorse i volumi con sommo piacere, sfilando dalle mensole quelli con le copertine o i titoli più interessanti. Scoprì con piacere che i nani usavano le stesse rune degli umani per scrivere, ma rimase deluso quando si accorse quanto gli era difficile leggere, dopo mesi privi di esercizio. Passò di libro in libro, addentrandosi sempre di più nella vasta biblioteca. Alla fine si immerse in una traduzione delle poesie di Dóndar, il decimo re dei nani. Mentre scorreva le righe eleganti, sentì un suono di passi avvicinarsi dall’altro lato dello scaffale. Il rumore lo fece sussultare, ma si rimproverò per la sciocca reazione: non poteva certo essere l’unico frequentatore della biblioteca. Malgrado ciò, ripose in silenzio il libro e si allontanò, i sensi in guardia. Era stato vittima di agguati troppe volte per ignorare quella strana sensazione. Udì ancora i passi: questa volta appartenevano a due persone. Teso, si infilò in un varco, cercando di ricordare dove aveva lasciato Orik. Voltò un angolo e rimase di stucco nel trovarsi faccia a faccia con i Gemelli. I Gemelli erano immobili, spalla a spalla, un’espressione impassibile sui volti pallidi. I loro occhi da serpente lo scrutarono truci. Le loro mani, nascoste fra le pieghe dei manti purpurei, si torsero appena. Si inchinarono entrambi, ma il loro gesto fu insolente e beffardo. «Ti stavamo cercando» disse uno. La sua voce era sgradevole come quella dei Ra’zac. Eragon represse un brivido. «Per quale ragione?» Dilatò la mente e raggiunse Saphira. La dragonessa reagì subito, unendo i propri pensieri ai suoi. «Da quando ti sei incontrato con Ajihad, volevamo... chiederti scusa per le nostre azioni.» Le parole suonavano false, ma in un modo che Eragon non poteva smascherare. «Siamo venuti a renderti omaggio.» Eragon avvampò di còllera mentre i due si inchinavano ancora. Attento! lo ammonì Saphira. Il giovane tenne a freno il proprio istinto. Non poteva permettersi di perdere le staffe davanti a quei due. Gli venne un’idea, e con un sorriso affettato rispose: «Oh, no, sono io che vi devo rendere omaggio. Senza la vostra approvazione, non avrei mai potuto entrare nel Farthen Dùr.» Fece un inchino per ciascuno, mettendoci quanto più veleno possibile. Gli occhi dei Gemelli lampeggiarono d’irritazione, ma i due ricambiarono il sorriso e dissero: «Siamo onorati che uno così.... importante... come te abbia tanta stima di noi. Ti siamo debitori per le tue parole gentili.» Questa volta toccò a Eragon sentirsi irritato. «Me ne ricorderò se ne avrò bisogno.» Saphira s’intromise nei suoi pensieri. Stai esagerando. Non dire niente di cui potresti pentirti. Quei due ricorderanno ogni parola da poter usare contro dì te. Già è diffìcile senza che ti ci metta anche tu! ribatte Eragon. Saphira si ritirò con un breve ringhio esasperato. I Gemelli si avvicinarono, con un lieve fruscio dei manti sul pavimento. Le loro voci suonarono più cordiali. «Ti cercavamo anche per un’altra ragione. Cavaliere. I pochi maghi che vivono a Tronjheim hanno formato un gruppo. Ci chiamiamo Du Vrangr Gata, ossia il...» «Il Tortuoso Cammino, lo so» li interruppe Eragon, ricordando quello che aveva detto Angela in proposito. «La tua conoscenza dell’antica lingua è sorprendente» disse un Gemello in tono lusinghiero. «Come dicevamo. Du Vrangr Gata ha sentito parlare delle tue gesta potenti, e siamo venuti a portarti l’invito di entrare a far parte del gruppo. Saremmo molto onorati di avere uno della tua levatura come membro. E credo che potremmo essere in grado di assisterti.» «In che modo?» L’altro Gemello rispose: «Noi due abbiamo acquisito molta esperienza nelle cose magiche. Potremmo guidarti….mostrarti gli incantesimi che abbiamo scoperto e insegnarti parole di potere. Nulla ci renderebbe più felici che poterti assistere, in piccola parte, nel tuo cammino verso la gloria. In cambio non ci devi niente, ma nel caso che lo ritenessi opportuno, potresti condividere con noi qualche frammento delle tue conoscenze.» Il volto di Eragon si oscurò quando capì che cosa gli stavano chiedendo. «Credete che io sia uno sciocco?» esclamò infuriato. «Non accetterò mai di diventare vostro allievo perché possiate imparare le parole che Brom mi ha insegnato! Ah, chissà che rabbia avete provato, quando non siete riusciti a rubarmele dalla mente.» I Gemelli gettarono all’improvviso la maschera di cordialità. «Non si scherza con noi, ragazzo! Noi siamo quelli che esamineranno le tue capacità magiche. E potrebbe essere molto spiacevole. Ricorda, basta un semplice incantesimo mal formulato per uccidere qualcuno. Sarai anche un Cavaliere, ma noi siamo più forti di te.» Eragon rimase imperturbabile, anche se il suo stomaco si torceva dolorosamente. «Prenderò in considerazione la vostra off erta, ma,..», «Aspettiamo la tua risposta per domani. E fa’ in modo che sia quella giusta.» Si congedarono con un sorriso gelido e si allontanarono. Eragon restò dov’era, torvo. Non accetterò mai di unirmi al Du Vrangr Gaia, non m’importa quello che faranno. Dovresti parlare con Angela, disse Saphira. Lei ha già avuto a che fare con i Gemelli. Forse potrà assistere mentre ti esaminano. In questo modo potrebbe impedire che ti facciano del male. Buona idea. Eragon vagò tra gli scaffali finché non trovò Orik seduto su una panca, intento a lucidare la sua ascia di guerra. «Vorrei tornare alla rocca» gli disse. Il nano infilò il manico dell’ascia in un passante di pelle che aveva alla cintura, poi scortò Eragon al cancello, dove lo attendeva Saphira. Intorno a lei si era già radunato un folto gruppo di curiosi. Eragon li ignorò, si arrampicò sul dorso della dragonessa, e insieme volarono verso la rocca. Bisogna risolvere il problema alla svelta. Non puoi permettere che i Gemelli ti minaccino, disse Saphira mentre atterrava su Isidar Mithrim. Lo so. Ma vorrei evitare di farli arrabbiare. Potrebbero essere nemici molto pericolosi. Smontò in fretta, tenendo la mano su Zar’roc. Li vuoi forse come alleati? Eragon scosse il capo. Non proprio... domani dirò loro che non mi unirò al Du Vrangr Gaia. Eragon lasciò Saphira nella sua caverna e decise di fare un giro. Voleva vedere Angela, ma non ricordava la strada per raggiungere il suo nascondiglio, e non c’era Solembum. a guidarlo. Vagò per i corridoi deserti, sperando di incontrare Angela per caso. Quando cominciava a essere stanco di vedere stanze vuote e grigie pareti tutte uguali, ritornò verso la rocca. Mentre si avvicinava alla caverna, sentì qualcuno che parlava, là dentro. Si fermò per origliare, ma la voce tacque. Saphira? Chi c’è con te? Una donna...Ha un tono dì comando. La distraggo mentre tu entri. Eragon sganciò l’anello di sicurezza di Zar’roc. Orik ha detto che non ci sarebbero stati intrusi sulla rocca: perciò chi può essere? cercò di controllarsi, poi entrò, la mano alla spada. Una giovane donna era in piedi al centro della sala e guardava con curiosità Saphira, che aveva fatto capolino dalla grotta. Lo zaffiro stellato emanava una luce rosata che metteva ancora più in risalto la sua carnagione, scura come quella di Ajihad. Indossava un lungo abito di velluto violaceo, dal taglio elegante. Alla cintura portava un pugnale tempestato di gemme in un fodero di cuoio lavorato. Eragon incrociò le braccia, aspettando che la donna lo notasse. Lei continuò a guardare Saphira, poi fece una graziosa riverenza e chiese. «Di grazia, potresti dirmi dove posso trovare il Cavaliere Eragon?» Gli occhi di Saphira brillarono di malizia. Con un sorriso, Eragon disse: «Sono qui.» La donna si voltò di scatto, portando la mano al pugnale. Il suo volto era bellissimo, con gli occhi a mandorla, le labbra carnose e gli zigomi rotondi. Si tranquillizzò e fece un nuovo inchino. «Sono Nasuada» disse. Eragon accennò un inchino. «È chiaro che sai chi sono, ma che cosa vuoi da me?» Nasuada sorrise in modo incantevole. «Mio padre. Ajihad, ti manda un messaggio. Vuoi ascoltarlo?» Il capo dei Varden non aveva dato a Eragon l’impressione di essere tagliato per il matrimonio e la paternità. Si domandò chi fosse la madre di Nasuada: doveva essere una donna fuori dal comune per aver attirato l’attenzione di Ajihad. «Naturalmente.» Nasuada alzò il mento e recitò: «Ajihad è lieto che tutto stia andando bene, ma ti suggerisce di astenerti da azioni clamorose come la benedizione di ieri, poiché creano più problemi di quanti ne risolvano. Inoltre ti prega di sottoporti quanto prima all’esame... gli occorre sapere quali sono le tue capacità prima di mandare messaggi agli elfi.» «E sei salita fin quassù solo per dirmi questo?» chiese Eragon, pensando alla lunghezza di Voi Turin. Nasuada scosse il capo. «Ho usato il montacarichi che serve a trasportare le merci ai livelli più alti. Avremmo potuto mandarti il messaggio in un altro modo, ma ho pensato che sarebbe stato meglio consegnartelo di persona, anche per avere modo di conoscerti.» «Vuoi restare?» chiese Eragon, indicando la grotta di Saphira. Nasuada diede in una risatina leggera. «No, sono attesa da un’altra parte. Mio padre ti manda a dire anche che puoi far visita a Murtagh, se lo desideri.» Un’espressione pensosa alterò i suoi lineamenti sereni. «Ho conosciuto Murtagh... È ansioso di parlarti. Sembra così solo: dovresti proprio andare a trovarlo.» E spiegò a Eragon come raggiungere la cella di Murtagh. Eragon la ringraziò per le informazioni, poi chiese: «Notizie di Arya?.Sta meglio? Posso vederla? Orik non ha saputo dirmi molto.» La giovane sorrise maliziosa. «Arya si sta riprendendo in fretta, come tutti gli elfi. Nessuno può vederla, tranne mio padre. Rothgar e i guaritori. Hanno trascorso molto tempo con lei per sapere che cosa è successo durante la sua prigionia.» I suoi occhi corsero a Saphira. «Ora devo andare. C’è qualcosa che devo riferire a mio padre da parte tua?» «No, tranne il mio desiderio di vedere Arya. E ringrazialo di tutto cuore per l’ospitalità che ci ha mostrato.» «Lo farò senz’altro. Addio. Cavaliere Eragon. Spero di rivederti presto.» Si congedò con un inchino e uscì dalla rocca a testa alta. Se davvero è salita fin quassù solo per incontrarmi... montacarichi o non montacarichi... questo incontro nascondeva di più che qualche chiacchiera, osservò Eragon. Già, disse Saphira, e ritrasse la testa nella caverna. Eragon si arrampicò da lei e rimase sorpreso nel vedere Solembum acciambellato nell’incavo del collo della dragonessa. Il gatto marinaro faceva le fusa, agitando come un piumino la coda dalla punta nera. I due lo guardarono con insolenza, come per dire: “E allora?” Eragon scosse il capo e scoppiò a ridere. Saphira, era Solembum che volevi vedere? Entrambi ammiccarono e risposero: Sì. Tanto per sapere, disse lui, ancora in preda all’ilarità. Aveva la sensazione che i due sarebbero diventati amici: le loro personalità erano molto simili, ed erano entrambe creature magiche. Sospirò, liberandosi di parte della tensione della giornata mentre slacciava Zar’roc. Solembum, sai dov’è Angela? Non sono riuscito a trovarla, e ho bisogno di un consiglio. Solembum si stiracchiò affondando le zampe nel dorso squamoso di Saphira. È da qualche parte a Tronfheim. Quanto torna? Presto. Quanto presto? domandò impaziente. Devo parlarle oggi stesso. Non così presto. Il gatto marinaro si rifiutò di dare altre spiegazioni, malgrado le insistenze di Eragon. Il giovane si arrese e si accovacciò con le spalle appoggiate al fianco di Saphira. Le fusa di Solembum erano un sottofondo regolare, che gli pulsava nella testa. Domani devo, andare da Murtagh, pensò, rigirandosi l’anello di Brom intorno al dito. 56 La prova di Arya La mattina del terzo giorno a Tronjheim, Eragon si alzò riposato, traboccante di nuove energie. Allacciò Zar’roc alla cintura e si mise a tracolla l’arco e la faretra. Dopo un volo esplorativo con Saphira all’interno del Farthen Dùr, incontrò Orik vicino a uno dei quattro cancelli principali di Tronjheim. Eragon gli chiese di Nasuada. «Una ragazza straordinaria» commentò Orik con un’occhiata di disapprovazione alla spada. «È profondamente devota a suo padre, e lo aiuta in ogni occasione. Credo che faccia per Ajihad più di quanto lui non sappia... ci sono state volte in cui ha manovrato i suoi nemici senza nemmeno rivelarglielo.» «Chi è sua madre?» «Non lo so. Ajihad era solo quando arrivò con Nasuada appena nata qui nel Farthen Dùr. Non ha mai detto da dove venivano.» E così anche lei è cresciuta senza conoscere sua madre. Scacciò via il triste pensiero. «Mi sento in forma, ma ho bisogno di usare i muscoli. Dove devo andare per questo esame di Ajihad?» Orik indicò il Farthen Dùr. «I campi di addestramento si trovano a mezzo miglio da Tronjheim, anche se da qui non li puoi vedere perché sono alle spalle della città-montagna. È una vasta area dove si allenano sia i nani che gli umani.» Vengo anch’io, disse Saphira. Eragon lo riferì a Orik, che si lisciò la barba con aria perplessa. «Forse non è una buona idea. Ci sarà parecchia gente ai campi; potreste attirare troppa attenzione.» Saphira ringhiò. Io vengo! E la questione finì lì. Il frastuono dei combattimenti li raggiunse ancora prima che arrivassero ai campi: il clangore dell’acciaio contro l’acciaio, i sibili e i tonfi sordi delle frecce scagliate su bersagli imbottiti, i crepitii e gli schiocchi delle aste di legno, e le grida degli uomini impegnati nei duelli di allenamento. Il rumore era confuso, ma ogni gruppo seguiva il proprio ritmo e il proprio schema. La maggior parte del terreno era occupata da un folto gruppo di fanti che lottavano con scudi e alabarde alte quanto un uomo, schierati in formazione. Poco lontano si addestravano centinaia di guerrieri armati di spade, mazze, picche, bastoni, mazzafruste, scudi di ogni forma e dimensione; ce n’era uno che brandiva un forcone. Quasi tutti i combattenti indossavano cotte di maglia ed elmetti rotondi; le armature complete non erano comuni. C’erano tanti nani quanti umani, anche se i due gruppi si tenevano separati. Alle spalle dei guerrieri, una lunga fila di arcieri si allenava a scoccare frecce contro grigi pupazzi imbottiti. Prima che Eragon avesse il tempo di chiedersi che cosa fare, un uomo barbuto, la testa e le spalle massicce coperte da un lungo cappuccio di maglia, si avvicinò a grandi passi. Il resto del suo corpo era protetto da rozzi indumenti di pelle di bue ancora coperti di peli. Una spada enorme - lunga quasi quanto quella di Eragon - gli pendeva a tracolla. L’uomo scoccò una rapida occhiata a Saphira ed Eragon, come per valutare quanto fossero pericolosi, poi borbottò: «Knurla Orik. Sei stato via un sacco. Non mi è rimasto nessuno per allenarmi.» Orik sorrise. «Forse perché massacri tutti con quel tuo spadone mostruoso.» «Tutti tranne te» lo corresse l’altro. «Questo perché sono più veloce di quel gigante che sei.» L’uomo guardò di nuovo Eragon. «Mi chiamo Fredric. Ho ricevuto l’ordine di scoprire che cosa sai fare. Quanto sei forte?» «Forte abbastanza» rispose Eragon. «Devo esserlo, per. poter combattere con la magia.» Fredric scosse il capo; il suo cappuccio tintinnò come un sacchetto di monete. «Qui non c’è posto per la magia. A meno che tu non abbia prestato servizio in un esercito, dubito che tu abbia combattuto per più di qualche minuto. Qui dobbiamo scoprire se sarai in grado di resistere per una battaglia lunga ore, o anche settimane, se ci sarà un assedio. Quali altre armi sai usare, oltre alla spada e all’arco?» Eragon ci pensò. «Soltanto i pugni.» «Bella risposta!» rise Fredric. «Bene, cominciamo con il tiro con l’arco. Quando si sarà fatto un po’ di spazio nel campo, passeremo...» S’interruppe all’improvviso, il volto corrucciato, lo sguardo fisso oltre le spalle di Eragon. I Gemelli avanzavano impettiti verso di loro; le teste calve spiccavano pallide sopra i manti purpurei. Orik bofonchiò qualcosa nella propria lingua, mettendo mano all’ascia che teneva infilata nella cintura. «Vi ho detto di stare alla larga dai campi di addestramento» esclamò Fredric, muovendo qualche passo con aria minacciosa. In confronto al suo corpo massiccio, i Gemelli avevano l’aria di fragili fuscelli. Lo guardarono con arroganza. «Ajihad ci ha ordinato di esaminare le capacità magiche di Eragon... prima che tu lo sfinisca a furia di roteare pezzi di metallo.» Gli occhi di Fredric lampeggiarono di collera. «Perché non può esaminarlo qualcun altro?» «Nessuno è abbastanza potente» sbuffarono sdegnosi i Gemelli, Saphira emise un cupo brontolio, e dalle narici le salirono spirali di fumo che i Gemelli ignorarono a bella posta. «Seguici» ordinarono a Eragon, e si diressero verso una zona deserta del campo. Eragon si strinse nelle spalle e obbedì, seguito da Saphira. Dietro di sé, udì Fredric rivolgersi a Orik. «Dobbiamo impedire a quei due di spingersi troppo oltre.» «Lo so» rispose Orik a bassa voce. «ma non posso ancora intervenire. Rothgar è stato chiaro: non potrà più proteggermi se succede di nuovo.» Eragon si sforzò di tenere a bada l’apprensione. I Gemelli potevano anche conoscere più parole e tecniche, ma lui ricordava bene quello che gli aveva detto Brom: i Cavalieri sono più forti degli stregoni comuni. Sarebbe bastato questo a contrastare il potere congiunto dei Gemelli? Non preoccuparti; ti aiuterò io, disse Saphira. Anche noi siamo in due. Eragon le sfiorò un fianco, confortato dalle sue parole. I Gemelli lo guardarono e chiesero: «Qual è la tua risposta, Eragon?» . Senza badare alle espressioni sconcertate dei suoi compagni, Eragon si limitò a rispondere un secco no. Rughe profonde si disegnarono agli angoli della bocca dei Gemelli. Si volsero in modo da controllare Eragon con la coda dell’occhio e si chinarono per tracciare un pentacolo sul terreno. Si misero al centro del simbolo magico e dissero, perentorii «Cominciamo subito. Dovrai compiere le azioni che ti indicheremo. Ecco tutto.» Uno dei Gemelli frugò sotto il manto, estrasse una pietra levigata grande quanto un pugno e la posò a terra. «Sollevala all’altezza degli occhi» Questo è facile, commentò Eragon con Saphira. «Stern reisa!» La pietra ondeggiò, poi cominciò a sollevarsi lentamente da terra; ad appena un piede di altezza, un’inaspettata resistenza la bloccò a mezz’aria. Sulle labbra dei Gemelli affiorò un sorriso beffardo. Eragon li guardò infuriato: stavano cercando di ostacolarlo! Se si fosse stancato subito, poi non sarebbe riuscito a compiere azioni più impegnative. I Gemelli erano sicuri che le loro forze combinate lo avrebbero stancato. Ma nemmeno io sono solo, ruggì Eragon tra sé. Saphira, ora! La dragonessa unì la propria mente alla sua, e la pietra balzò in alto, fermandosi tremolante all’altezza dei loro occhi. Lo sguardo dei Gemelli trasudava veleno. «Molto... bene» sibilarono. Fredric seguiva nervoso la dimostrazione di magia. «Ora fai muovere la pietra in circolo.» Di nuovo Eragon si trovò a combattere contro i loro sforzi di fermarlo, e di nuovo – con grande rabbia dei due - prevalse. Gli esercizi crebbero per complessità e difficoltà finché Eragon non fu costretto a scegliere con cautela le parole da usare. E ogni volta i Gemelli lo ostacolavano con tenacia, pur senza mostrare la minima traccia di tensione. Fu solo grazie all’aiuto di Saphira che Eragon riuscì a resistere. In una brevissima pausa tra un esercizio e l’altro, le chiese: Perché insistono tanto? Avrebbero dovuto capire di che cosa siamo capaci fin da quando mi hanno scrutato la mente. La dragonessa inclinò la testa da un lato, pensierosa. Sai una cosa? disse lui in un lampo di comprensione. Credo che stiano sfruttando questa occasione per scoprire quali parole antiche conosco, e magari impararne di nuove. Allora parla sottovoce, in modo da non farti sentire, e usa le parole più elementari. Da quel momento in poi, Eragon pronunciò soltanto le parole più comuni per compiere gli esercizi. Ma trovare modi per farle funzionare allo stesso modo di una lunga frase richiese il suo massimo impegno. La ricompensa furono le smorfie deluse che facevano i Gemelli ogni volta che lui riusciva nel compito. Per quanto si sforzassero, non riuscirono mai a fargli usare nuove parole nell’antica lingua. Era passata più di un’ora, ma i Gemelli non davano cenno di voler smettere, Eragon aveva caldo e una gran sete, ma non avrebbe mai dato loro la soddisfazione di chiedere una tregua. Lo sottoposero a parecchie prove: manipolazione dell’acqua, creazione e lancio di globi infuocati, cristallomanzia, giochi di destrezza con le pietre, indurimento del cuoio, congelamento di oggetti, controllo della direzione di una freccia, cura di lievi ferite. Eragon prese a domandarsi quando ancora ci voleva perché si trovassero a corto di idee. Finalmente i Gemelli alzarono le mani e dissero: «C’è soltanto un’ultima cosa da fare. È abbastanza semplice... chiunque si ritenga esperto di magia dovrebbe riuscirci senza problemi.» Uno di loro si sfilò un anello dal dito e lo porse a Eragon. «Evoca l’essenza dell’argento.» Eragon fissò l’anello, perplesso. Che cosa si aspettavano che facesse? Che cos’era l’essenza dell’argento? E come si evocava? Saphira non ne aveva idea, e i Gemelli si guardarono bene dal dirlo. Il ragazzo non aveva mai imparato come si dice argento nell’antica lingua, anche se sapeva che doveva far parte del nome argetlam. Preso dalla disperazione, elaborò una combinazione di ethgri, “invoca”, e arget. Si erse in tutta la sua statura, e fece appello agli ultimi residui di potere rimasti; dischiuse le labbra per parlare, quando una voce chiara e vibrante risuonò alle sue spalle. «Basta!» La parola gli scivolò addosso come un rivolo d’acqua fredda, eppure aveva un che di familiare, come le note accennate di una melodia nota. Si sentì formicolare la nuca. Si volse lentamente verso la sua fonte. Arya! Una striscia di cuoio le cingeva la fronte per tenere a bada la ricca massa di capelli neri, che le ricadevano sulle spalle come una cascata di inchiostro. Al fianco portava la spada sottile, a tracolla l’arco. Le sue forme snelle erano coperte da semplici indumenti di pelle nera, troppo modesti per una figura così bella. Era più alta della maggior parte degli uomini, e il suo portamento era perfettamente equilibrato e rilassato. Il volto immacolato non rifletteva alcuno degli orrendi abusi che aveva subito. I suoi occhi smeraldini fissavano ardenti i due Gemelli, diventati all’improvviso ancora più pallidi per la paura. Si avvicinò con passo felpato e disse in tono calmo e minaccioso: «Vergogna! Gli avete chiesto qualcosa che soltanto un maestro è in grado di fare. Vergogna! I vostri metodi sono vili e meschini. Vergogna! Avete detto ad Ajihad che non conoscete le capacità di Eragon, pur sapendo che è molto competente. Ora andatevene!» Arya aggrottò la fronte con fare minaccioso, le sopracciglia oblique aggrottate come due saette convergenti, e indicò l’anello nella mano di Eragon. «Arget!» esclamò con voce decisa. L’argento scintillò, e un’immagine spettrale dell’anello si materializzò accanto a esso. Erano identici, anello e immagine, ma l’apparizione sembrava più pura e scintillava come metallo incandescente. A quella vista, i Gemelli si voltarono e si allontanarono in fretta, i mantelli svolazzanti sopra i calcagni. L’anello immateriale svanì dalla mano di Eragon, lasciando dietro di sé soltanto il circoletto d’argento. Orik e Fredric si irrigidirono, guardando Arya con sospetto. Saphira si accovacciò, pronta a scattare. L’elfa li squadrò uno per uno. I suoi occhi obliqui si soffermarono su Eragon. Poi si volse e s’incamminò verso il centro del campo di addestramento. I guerrieri cessarono di allenarsi e la fissarono a bocca aperta. Sul campo aleggiava un silenzio carico di timore reverenziale. Eragon la seguì, inesorabilmente attratto dal suo fascino. Saphira gli parlò, ma lui rimase sordo ai suoi commenti. Intorno all’elfa si formò un fitto capannello di gente, ma lei, giunta al centro del campo, si voltò, guardò soltanto Eragon negli occhi ed esclamò: «Rivendico il diritto di misurarmi con te. Sfodera la spada.» Vuole duellare con me! Ma non desidera farti del male, credo, osservò Saphira, esortandolo con una lieve spinta del nuiso. Vai e fatti onore. Io resterò a guardare. Eragon fece un timido passo avanti, accettando a malincuore la sfida. Si sentiva esausto dopo tutte le magie evocate per i Gemelli, e soprattutto esposto allo sguardo di tanti spettatori. Per giunta. Arya non poteva essere in condizioni di duellare: erano passati soltanto due giorni da quando aveva preso il Nettare di Tunivor. Smorzerò i colpi per non farle male, si disse. Si fronteggiarono al centro della cerchia di guerrieri. Arya impugnò la spada con la sinistra. L’arma era più sottile di quella di Eragon, ma altrettanto lunga e affilata. Il giovane estrasse Zar’roc dal lucido fodero e mantenne la lama rossa puntata verso il basso. Per un lungo istante rimasero immobili, elfa e umano, a studiarsi a vicenda. A Eragon balenò in mente il ricordo dei tanti duelli con Brom. Avanzò cauto. Con uno scatto fulmineo, invece. Arya si lanciò verso di lui, mirando alle costole. Eragon parò il colpo d’istinto, e le loro lame cozzarono creando una pioggia di scintille. Zar’roc schizzò da un lato come una mosca infastidita. L’elfa non approfittò della breccia nella difesa dell’avversario, ma piroettò a destra, i lunghi capelli fluttuanti, e cercò di colpire l’altro fianco. Eragon riuscì a stento a parare il colpo e indietreggiò frenetico, sbalordito dalla ferocia e dalla velocità dell’elfa. Troppo tardi ricordò gli ammonimenti di Brom, secondo il quale anche l’elfo più debole poteva facilmente sconfiggere un umano. Aveva le stesse probabilità di sconfiggere Arya che aveva avuto con Durza. Lei attaccò ancora, questa volta mirando alla testa. Lui si abbassò sotto la lama affilata come un rasoio. Ma allora perché lei stava… giocando con lui? Per qualche secondo fu troppo impegnato a difendersi per capire, poi comprese: Vuole scoprire quanto sono bravo. A quel punto cominciò a esibirsi nella più complicata serie di attacchi che conosceva. Passava da una posizione all’altra, modificandole e ricombinandole in ogni modo possibile. Ma per quanta inventiva dimostrasse, la spada di Arya era sempre lì a bloccare la sua. Contrastava ogni sua azione con grazia disinvolta. Impegnati in una danza feroce, i loro corpi si univano e si separavano al ritmo delle spade. A volte quasi si toccavano, i muscoli tesi ad appena un soffio di distanza, ma poi lo slancio stesso li divideva, facendoli volteggiare per poi incontrarsi ancora. Le loro forme si allacciavano e si separavano come spirali di fumo sospinte dal vento. Eragon non avrebbe mai potuto dire quanto durò il duello. Sembrava che il tempo si fosse dissolto per lasciare spazio soltanto ad azione e reazione. Zar’roc diventava sempre più pesante e i muscoli del braccio gli bruciavano a ogni colpo. Alla fine, mentre lui tentava un affondo. Arya si spostò appena di lato e la punta della sua spada si posò sullo zigomo di Eragon con una rapidità sovrannaturale. Eragon s’impietrì quando sentì il gelido metallo a contatto con la pelle. I muscoli gli tremavano per lo sforzo. A stento si accorse del cupo brontolio emesso da Saphira e delle acclamazioni rauche dei guerrieri in circolo. Arya abbassò la spada e la ripose nel fodero. «Hai superato la prova» disse con somma calma in mezzo al fracasso. Frastornato, Eragon raddrizzò la schiena lentamente. Fredric era di fianco a lui e gli dava grandi pacche sulle spalle. «Un capolavoro di scherma! Ho perfino imparato qualche nuova mossa, guardando voi due. E l’elfa... meravigliosa!» Ma ho perso, protestò lui in silenzio. Orik si complimentò con un largo sorriso ma Eragon non aveva occhi che per Arya, immobile e silenziosa. Lei mosse appena un dito verso una collinetta a circa un miglio dal campo di addestramento, poi si volse e si allontanò. La folla si divise in due ali di umani e nani ammutoliti, per lasciarla passare. Eragon si rivolse a Orik. «Devo andare. Più tardi tornerò sulla rocca.» Rinfoderò Zar’roc e salì in groppa a Saphira. La dragonessa si alzò in volo sul campo, che si trasformò in un mare di facce tutte rivolte verso di lei. . Mentre volavano verso la collinetta, Eragon vide Arya correre sotto di loro con passi lievi e agili. Saphira commentò: La trovi attraente, vero? Sì, ammise lui, e arrossì. Il suo viso ha più carattere di quello della maggior parte degli umani, sbuffò lei, ma è troppo lungo, sembra quello di un cavallo, e nel complesso è troppo esile e piatta. Eragon guardò Saphira stupito. Sei gelosa!. Impossibile. Non sono mai gelosa, ribattè lei, offesa. In questo caso sì, ammettilo! rise lui. La dragonessa fece schioccare le fauci. No che non lo sono! Eragon sorrise e scrollò il capo, ma preferì non insistere. Saphira atterrò bruscamente sul poggio, facendolo sobbalzare in malo modo, Eragon scivolò a terra senza commentare. Arya arrivò poco dopo; Eragon non aveva mai visto nessuno correre così veloce e senza sforzo. Quando arrivò in cima alla collinetta, l’elfa respirava tranquillamente, come se avesse fatto una passeggiata. D’improvviso a corto di parole, Eragon abbassò lo sguardo. Lei gli passò accanto e si rivolse a Saphira. «Skulblaka, eka celòbra Ono un mulabra ono un onr Shur’tugal né haina. Atra nosu waìse fricai.» Eragon non riconobbe la maggior parte delle parole, ma Saphira evidentemente comprese il messaggio, perché fece frullare le ali e squadrò Arya con espressione curiosa. Poi annuì, mormorando di gola. Arya sorrise. «Sono felice di vedere che ti sei ripresa» disse Eragon. «Non sapevamo se saresti sopravvissuta.» «Ecco perché sono venuta qui oggi» disse lei, voltandosi. La sua voce morbida aveva un forte accento esotico, e vibrava appena come se fosse sul punto di mettersi a cantare. «Sono in debito con te. Mi hai salvato la vita. Non lo dimenticherò mai.» «Non... non è stato niente» balbettò Eragon imbarazzato, pur sapendo che non era vero. Si affrettò a cambiare discorso. «Come sei finita a Gil’ead?» Il volto di lei fu attraversato da un’ombra di dolore, e l’elfa distolse lo sguardo. «Vieni, camminiamo.» Scesero dal poggio e si addentrarono nel Farthen Dùr. Eragon rispettò il silenzio di Arya mentre passeggiavano. Saphira li seguiva. Infine Arya alzò la testa e parlò con la grazia della sua razza: «Ajihad mi ha detto che eri presente quando è apparso l’uovo di Saphira.» «Sì.» Per la prima volta, Eragon si rese conto dell’energia che doveva essere stata necessaria per trasportare l’uovo per le decine di leghe che separavano la Du Weldenvarden dalla Grande Dorsale. Anche solo tentare un simile gesto voleva dire andare incontro al disastro, se non alla morte. Le parole dell’elfa furono gravi. «Allora sappi una cosa: nel momento stesso in cui lo raccoglievi, io venivo catturata da Durza.» La sua voce era carica di amarezza e dolore. «Era lui a comandare gli Urgali che mi tesero l’agguato e uccisero i miei compagni. Faolin e Glenwing. Chissà come sapeva dove aspettarci... non eravamo preparati. Mi drogarono e mi portarono a Gil’ead. Lì Durza fu incaricato da Galbatorix di scoprire dove avevo mandato l’uovo e tutto ciò che sapevo di Ellesméra.» I suoi occhi erano di ghiaccio, la mascella serrata. «Durza tentò in tutti i modi, per mesi, senza successo. Quando non ci riuscì nemmeno con la tortura, ordinò ai suoi soldati di usarmi a loro piacere. Per fortuna ebbi ancora la forza per annebbiare le loro menti e renderli incapaci. Infine Galbatorix ordinò di portarmi a Urù’baen. A questa notizia ebbi davvero paura, perché ero troppo debole nel corpo e nella mente per resistergli. Se non fosse stato per te, sarei finita davanti a Galbatorix nel giro di una settimana.» Eragon rabbrividì. Era sorprendente sapere a che cosa era sopravvissuta. Il ricordo delle sue ferite era ancora vivido nella sua memoria. Dolcemente, chiese: «Perché mi dici tutto questo?» «Perché tu sappia da che cosa mi hai salvata. Non credere che possa ignorare il tuo gesto.» Eragon chinò la testa umilmente. «Che cosa farai adesso... tornerai a Ellesméra?» «No, non subito. C’è tanto da fare, qui. Non posso abbandonare i Varden. Ajihad ha bisogno del mio aiuto. Oggi ti ho visto alla prova sia con le armi che con la magia. Brom ti ha insegnato bene. Sei pronto per proseguire il tuo addestramento.» «Vuoi dire a Ellesméra?» «Sì.» Eragon avvertì una punta dì irritazione. Lui e Saphira non avevano dunque voce in capitolo? «Quando?» «Questo si deve ancora decidere, ma comunque non prima di qualche settimana.» Almeno ci danno altro tempo, pensò Eragon, Saphira gli disse qualcosa, e lui a sua volta chiese ad Arya: «Che cosa volevano da me i Gemelli?» Le labbra ben disegnate di Arya si curvarono in una smorfia. «Qualcosa che nemmeno loro sanno fare. È possibile pronunciare il nome di un oggetto nell’antica lingua ed evocarne l’essenza. Ci vogliono anni di esercizio e grande disciplina, ma la ricompensa è il totale controllo sugli oggetti. Ecco perché il vero nome di ciascuno è tenuto segreto, perché se fosse noto a un individuo malvagio, potrebbe dominarti.» «È strano» disse Eragon dopo un istante. «ma prima di essere catturato a Gil’ead, ti ho vista più di una volta in sogno. Era come la divinazione... e in seguito sono stato in grado di vederti.,. ma sempre durante il sonno.» Arya strinse le labbra, pensierosa. «C’erano momenti in cui avvertivo un’altra presenza accanto a me, ma ero spesso confusa e febbricitante. Non ho mai sentito parlare, né nelle leggende né nella storia, di qualcuno capace di divinare nel sonno.» «Nemmeno io capisco» disse Eragon, guardandosi le mani. Si rigirò l’anello di Brom intorno all’indice. «Che cosa significa il tatuaggio che hai sulla spalla? Sai, non avevo intenzione di vederlo, ma stavo curando le tue ferite... non ho potuto farne a meno. È uguale al simbolo su quest’anello.» «Hai un anello con lo yawé?» esclamò lei, incredula. «Sì. Era di Brom. Vedi?» Le porse l’anello. Arya esaminò lo zaffiro, poi disse lentamente: «È un pegno dato soltanto ai più preziosi amici degli elfi…tanto prezioso, in effetti, che non si usa da secoli. O almeno, così credevo. Non ho mai saputo che la regina Islandazi avesse una così alta considerazione di Brom.» «Allora non dovrei portarlo» disse Eragon, temendo di apparire presuntuoso. «No, tienilo, invece. Ti darà protezione se dovessi imbatterti nel mio popolo, e potrebbe aiutarti a conquistare i favori della regina. Non dire a nessuno del mio tatuaggio. È un segreto da non rivelare.» «D’accordo.» Parlare con Arya gli piacque immensamente, e avrebbe voluto che la conversazione durasse di più. Quando si separarono, Eragon continuò a passeggiare nel Farthen Dùr, chiacchierando con Saphira. Malgrado le sue insistenze, la dragonessa si rifiutò di raccontargli che cosa le aveva detto Arya. Alla fine rivolse i suoi pensieri a Murtagh e a quanto gli aveva suggerito Nasuada. Mangerò qualcosa e poi andrò a fargli visita, decise. Mi aspetti? Così torniamo insieme sulla rocca. Ti aspetto... vai, rispose Saphira. Con un sorriso riconoscente, Eragon corse a Tronjheim, pranzò nell’angolo buio di una cucina, poi seguì le istruzioni di Nasuada fino a raggiungere una piccola porta grigia, sorvegliata da un umano e da un nano. Quando chiese di entrare, il nano bussò tre volte alla porta, poi aprì la serratura. «Basta che tu ci dia una voce quando vorrai uscire» disse l’uomo con un sorriso amichevole. La cella era calda e bene illuminata, con un tavolino e una brocca in un angolo e uno scrittoio, con tanto di penne e inchiostro, nell’altro. Il soffitto era decorato da figure di lacca; il pavimento coperto da un folto tappeto. Murtagh era disteso su un solido letto, intento a leggere una pergamena. Alzò gli occhi sorpreso ed esclamò allegro: «Eragon! Ci contavo proprio, che venissi!» «Come.,. voglio dire, pensavo... » «Pensavi che mi avessero gettato in chissà quale buco fetido a masticare gallette» disse Murtagh, alzandosi a . sedere con un sogghigno. «A dire il vero, mi aspettavo la stessa cosa, ma. Ajihad mi ha concesso questi lussi purché me ne stia buono. E mi portano anche una quantità enorme di cibo, e mi danno tutti i libri che chiedo. Se non sto attento, mi trasformerò in un grasso topo di biblioteca.» Eragon rise e sedette accanto a lui. «Ma non sei arrabbiato? In fondo sei prigioniero.» «Oh, all’inizio lo ero» ammise Murtagh con una scrollata di spalle. «Ma più ci pensavo, più mi rendevo conto che meglio di così non potevo stare. Se anche Ajihad mi avesse lasciato libero, avrei passato la maggior parte del tempo in camera mia.» «Perché?» «Lo dovresti capire. Nessuno si sarebbe sentito a suo agio con me nei dintorni, sapendo chi sono, e la gente mi avrebbe guardato storto, mormorando malignità. Ma ora basta parlare di questo: sono ansioso di conoscere le novità. Avanti, racconta.» Eragon gli riferì gli eventi degli ultimi due giorni, compreso il suo incontro con i Gemelli nella biblioteca. Quando ebbe terminato, Murtagh poggiò indietro la schiena per riflettere. «Sospetto» disse «che Arya sia più importante di noi due messi insieme. Considera quanto hai saputo: è una maestra di scherma, esperta di magia, e, cosa ancora più importante, è stata scelta per sorvegliare l’uovo di Saphira. Non può essere un personaggio comune, nemmeno tra gli elfi.» Eragon concordò. Murtagh fissò il soffitto. «Sai, trovo questa prigionia stranamente confortante. Per una volta nella mia vita non devo temere niente. So che dovrei... eppure questo posto mi fa sentire in pace. E un buon sonno la notte aiuta.» «Capisco quello che intendi» disse Eragon amaramente. Si spostò in un punto più comodo del letto. «Nasuada ha detto che ti è venuta a trovare. Ha detto qualcosa di interessante?» Lo sguardo di Murtagh si perse nel vuoto. Poi il giovane scosse il capo. «No, voleva soltanto conoscermi. Non pare una principessa? E il suo portamento! Quando è comparsa sulla soglia, per un attimo mi è sembrata una delle dame di corte di Galbatorix. Ho visto mogli di conti e duchi che al suo confronto sembrano più adatte a un porcile che alla nobiltà.» Eragon lo ascoltò infervorarsi con crescente apprensione. Potrebbe non voler dire nulla, si disse. Stai saltando alle conclusioni. Eppure quella sensazione inquietante non lo abbandonava. Cercando di liberarsene, chiese: «Quanto pensi di restare, chiuso qui, Murtagh? Non puoi nasconderti per sempre.» Murtagh fece un vago gesto noncurante, ma le sue parole furono dense di significato. «Per ora sono contento di come sto e di poter riposare. Non c’è ragione di cercare asilo altrove, né di sottomettermi all’esame dei Gemelli. Non dubito che alla fine mi stancherò di tutto questo, ma per adesso... sto bene.» 57 L’ombra della guerra Saphira svegliò Eragon con un brusco colpo di muso, graffiandogli la guancia con le ruvide squame. «Ahi!» esclamò il giovane, alzandosi a sedere. La caverna era immersa nell’oscurità, rischiarata appena dal tenue bagliore di una lanterna schermata. Fuori dalla rocca. Isidar Mithrim sfavillava di mille colori nella sua ghirlanda di lanterne. All’ingresso della caverna c’era un nano molto agitato che si torceva le mani. «Devi venire. Argetlam! Grossi guai... Ajihad ti chiama. Non c’è tempo!» «Che succede?» chiese Eragon. Il nano si limitò a scuotere il capo, la lunga barba ondeggiante. «Vieni.. subito! Carkna bragha! Ora!» Eragon allacciò Zar’roc alla cintola, afferrò arco e frecce e sellò Saphira. Addio nottata di sonno, brontolò lei, accucciandosi per far salire Eragon in groppa. Lui sbadigliò sonoramente mentre Saphira si lanciava fuori dalla grotta. Orik li stava aspettando con espressione cupa quando atterrarono davanti ai cancelli di Tronjheim. «Vieni, ci sono anche gli altri.» Li guidò attraverso Tronjheim fino allo studio di Ajihad. Lungo il tragitto, Eragon lo tempestò di domande, ma Orik rispose soltanto: «Nemmeno io so niente... aspetta di sentire Ajihad.» La porta della biblioteca fu aperta da due guardie robuste. Ajihad era in piedi dietro la scrivania, intento a studiare una mappa. C’erano anche Arya e un uomo dalle braceia nerborute. Ajihad alzò lo sguardo. «Bene, eccoti qui, Eragon. Ti presento Jòrmundur, il mio vicecomandante.» I due si salutarono, poi rivolsero l’attenzione ad Ajihad. «Vi ho svegliati perché. siamo tutti in grave pericolo. Mezz’ora fa un nano è sbucato da uno dei tunnel abbandonati sotto Tronjheim. Era ferito e sanguinante, gridava frasi sconnesse, ma è riuscito a riferire che un esercito di Urgali si trova a un giorno di marcia da qui.» Un silenzio sconcertato riempì la stanza. Poi Jòrmundur esplose in una serie di imprecazioni e cominciò a fare domande insieme a Orik. Arya non parlò. Ajihad alzò una mano. «Silenzio! C’è dell’altro. Gli Urgali non si stanno avvicinando sulla terra, ma sottoterra. Sono nei tunnel… stiamo per essere attaccati dal basso.» Eragon alzò la voce. «Perché i nani non l’hanno scoperto prima? Come hanno fatto gli Urgali a trovare i tunnel?» «Riteniamoci fortunati di averlo scoperto ora!» urlò Orik. Tutti tacquero per ascoltarlo. «Ci sono centinaia di tunnel che attraversano i Monti Beor, disabitati fin dal giorno in cui vennero scavati. Gli unici nani che li frequentano sono degli stravaganti che non vogliono contatti con gli altri. Potremmo addirittura non essere mai stati avvertiti.» Ajihad indicò la mappa, ed Eragon si avvicinò. Illustrava la metà meridionale di Alagasëia, ma a differenza di quella di Eragon, mostrava l’intera catena dei Monti Beor nel dettaglio. Il dito di Ajihad indicò la sezione dei Beor confinante con il margine orientale del Surda. «Qui» disse «è il punto da cui il nano dichiara di venire.» «Orthiad!» esclamò Orile. Davanti all’espressione interrogativa di Jòrmundur, spiegò: «È un antico insediamento di nani che fu abbandonato quando Tronjheim fu completata. Ai suoi tempi era la maggiore delle nostre città. Ma nessuno ci vive più da secoli.» «Ed è tanto vecchia che alcuni dei tunnel sono crollati» aggiunse Ajihad. «Ecco come supponiamo che l’abbiano scoperta dalla superficie. Sospetto che Orthìad adesso venga chiamata Ithro Zhàda. È lì che la colonna di Urgali che inseguiva Eragon e Saphira doveva andare, e sono sicuro che è il luogo verso il quale gli Urgali sono migrati per tutto l’anno. Da Ithrò Zhàda possono raggiungere qualsiasi punto dei Monti Beor. Hanno il potere di distruggere sia i Varden che i nani.» Jòrmundur si chinò sulla mappa, studiandola con attenzione. «Sai quanti Urgali ci sono? E se sono accompagnati dalle truppe di Galbatorix? Non possiamo organizzare la difesa se non sappiamo quanto è grande l’armata.» Ajihad rispose con aria afflitta. «Non abbiamo notizie certe, ma la nostra sopravvivenza dipende dalla seconda domanda. Se Galbatorix ha ingrossato le fila degli Urgali con i propri soldati, allora non abbiamo scampo. Ma se non l’ha fatto, forse perché non vuole ancora scoprire le carte della sua alleanza con quei mostri, o per qualche altra ragione, allora abbiamo una possibilità. Né Orrin né gli elfi possono aiutarci con così poco preavviso. Comunque sia, ho inviato a entrambi dei messaggeri con la notizia della nostra sventura. Almeno non verranno colti di sorpresa se soccombiamo.» Si passò una mano sulla fronte scura. «Ho già parlato con Rothgar, e abbiamo deciso una strategia. La nostra unica speranza consiste nell’arginare gli Urgali in tre dei tunnel più grandi e incanalarli nel Farthen Dùr perché non possano sciamare a Tronjheim come locuste. «Ho bisogno di voi, Eragon e Arya, per aiutare i nani a far crollare gli altri tunnel. Il lavoro è troppo grande per mezzi normali. Due gruppi di nani sono già all’opera: uno fuori Tronjheim, e l’altro sotto. Eragon, tu andrai con il gruppo all’esterno. Arya, tu con quello sottoterra; Orik vi guiderà.» «Perché non facciamo crollare tutti i tunnel, invece di lasciare integri i più grandi?» domandò Eragon. «Perché» disse Orik «questo costringerebbe gli Urgali ad aggirare le macerie, e magari a prendere una direzione che non vogliamo, E poi se ci isoliamo da soli potrebbero attaccare altre città di nani, che non saremmo in grado di aiutare in tempo.» «C’è un’altra ragione» intervenne Ajihad. «Rothgar mi ha detto che Tronjheim posa su di un labirinto di gallerie così intricato che se venisse troppo indebolito intere zone della città potrebbero sprofondare. Non possiamo rischiare un disastro del genere.» Jòrmundur ascoltò attentamente, poi chiese: «Non ci sarà dunque nessun combattimento dentro Tronjheim? Hai detto che gli Urgali verranno incanalati all’esterno della città, nel Farthen Dùr.» Ajihad si affrettò a rispondere: «Proprio così. Non possiamo difendere l’intero perimetro di Tronjheim, è troppo vasto per le nostre forze, così procederemo a sigillare tutti i passaggi e i cancelli che conducono alla città. Questo costringerà gli Urgali a uscire allo scoperto sulla piana che circonda Tronjheim, dove ci sarà spazio più che sufficiente per le manovre delle nostre truppe. Dato che gli Urgali hanno accesso ai tunnel, non possiamo rischiare una battaglia su vasta scala. Finché restano qui, saremo in costante pericolo che si facciano strada dal sottosuolo di Tronjheim. Se questo accade, saremo in trappola, attaccati sia dall’esterno che dall’interno. Dobbiamo impedire agli Urgali di prendere Tronjheim. Se ci riescono, dubito che avremo la forza di ricacciarli indietro.» «E le nostre famiglie?» chiese Jòrmundur. «Non voglio vedere mia moglie e mio figlio uccisi dagli Urgali.» Le rughe sul volto di Ajihad si fecero più profonde. «Stiamo facendo fuggire tutte le donne e i bambini verso le valli attorno. Se veniamo sconfitti, le guide li scorteranno nel Surda. È il massimo che ho potuto fare, date le circostanze.» Jormundur celò a stento il proprio sollievo.. «Signore, anche Nasuada partirà?» «Lei non vorrebbe, ma certo, sì, partirà.» Tutti gli occhi erano puntati su Ajihad mentre drizzava le spalle e annunciava: «Gli Urgali arriveranno fra poche ore. Sappiamo che sono molti, ma dobbiamo difendere il Farthen Dùr. Il fallimento significherebbe la caduta dei nani, la morte dei Varden... e alla fine anche la sconfitta del Surda e degli elfi. Questa è una battaglia che non possiamo perdere. Ora andate ed eseguite gli ordini! Jormundur, raduna gli uomini!» Uscirono in fretta dallo studio e si separarono: Jormundur corse alle caserme. Orik e Arya scesero le scale che conducevano nel sottosuolo, Eragon e Saphira s’infilarono in uno dei quattro principali corridoi di Tronjheim. Malgrado l’ora, la città-montagna era in fermento come un formicaio: gente che correva ovunque, scambiandosi messaggi e portando fagotti in cui aveva raccolto i propri averi. Eragon aveva già combattuto e ucciso prima, ma l’angoscia per la battaglia imminente gli stringeva il cuore in una morsa di paura. Non aveva mai avuto l’occasione di prepararsi a uno scontro, e ora che poteva, si sentiva sopraffatto dal terrore. Non aveva paura quando doveva affrontare pochi nemici - sapeva di poter facilmente sconfiggere tre o quattro Urgali grazie a Zar’roc e alla magia—ma in un conflitto più esteso tutto poteva accadere. Uscirono da Tronjheim e cercarono i nani che avrebbero dovuto aiutare. Senza il sole o la luna, l’interno del Farthen Dùr era buio come nerofumo, illuminato da scintillanti lanterne che danzavano nel cratere. Forse sono sul lato opposto di Tronjheim, suggerì Saphira. Eragon assentì e le salì in groppa. Volarono intorno a Tronjheim finché videro un gruppo di lanterne. Saphira si abbassò verso di loro, e con un lieve fruscio d’ali atterrò accanto a un gruppo di nani sbigottiti, impegnati a scavare con i picconi. Eragon spiegò in fretta il motivo della sua presenza. Un nano dal naso adunco gli disse: «C’è un tunnel a quattro iarde sotto di noi. Qualunque aiuto possiate darci, sarà gradito.» «Se sgomberate l’area sopra il tunnel, vedrò che cosa posso fare» disse Eragon. Il nano nasuto lo guardò dubbioso, ma ordinò, agli altri di allontanarsi. Eragon respirò a fondo, preparandosi a usare la magia. Avrebbe potuto spostare tutto il terreno dal tunnel, ma aveva bisogno di conservare energie per dopo. Allora decise di tentare di far crollare il tunnel applicando la forza sulle zone deboli del soffitto. «Thrysta deloi» mormorò, inviando tentacoli di potere nel sottosuolo. Quasi subito incontrarono uno strato di roccia. Lo ignorò e scese più giù, finché non percepì il vuoto della galleria. Allora cominciò a cercare i punti deboli nella volta. Ogni volta che ne trovava uno, lo spingeva, lo allungava, lo allargava. Era un lavoro faticoso, ma non più di quanto lo sarebbe stato scavare a mani nude. Non faceva progressi visibili, e i nani erano sempre più impazienti. Eragon perseverò. Poco dopo fu ricompensato da uno schianto sonoro che riverberò fino in superficie. Si udì un crepitio persistente, poi il terreno franò verso l’interno come acqua risucchiata da un canale, lasciando una fenditura larga sette iarde. Mentre i nani ostruivano il tunnel con i detriti, il nano nasuto accompagnò Eragon alla galleria seguente. Fu più difficile, ma Eragon riuscì a replicare l’impresa. Nelle ore che seguirono, fece crollare almeno mezza dozzina di tunnel in tutto il Farthen Dùr, con l’aiuto di Saphira. La luce cominciò a filtrare dal piccolo squarcio di cielo sopra di loro. Non bastava per vedere, ma contribuì a risollevare lo spirito di Eragon. Il ragazzo volse le spalle alle rovine crollate dell’ultima galleria e si guardò intorno. Un massiccio esodo di donne e bambini, insieme ai Varden più anziani, si riversava fuori Tronjheim. Tutti portavano provviste, indumenti e le loro cose più care. Li scortava un drappello di soldati, perlopiù ragazzi e anziani. La maggior parte dell’attività, tuttavia, si svolgeva alla base di Tronjheim, dove i Varden e i nani stavano radunando l’esercito, diviso in tre battaglioni. Ogni divisione recava il vessillo dei Varden: un drago bianco con una rosa fra gli artigli, sopra una spada puntata verso il basso, in campo viola. Gli uomini erano silenziosi e accigliati. Le lunghe chiome spuntavano da sotto gli elmi. Molti guerrieri avevano soltanto una spada e uno scudo, ma c’erano parecchie file di lancieri e picchieri. Nella retroguardia, gli arcieri saggiavano le corde dei propri archi. I nani erano schierati in assetto di guerra. Cotte d’armi d’acciaio brunito li coprivano fino alle ginocchia, e al braccio sinistro portavano grossi scudi rotondi con gli emblemi dei loro clan. Corte spade pendevano loro dalla cintura, mentre nella mano destra impugnavano asce da guerra o picconi. Le gambe erano coperte da gambali di maglia fitta. Indossavano elmetti di ferro e stivali borchiati di ottone. Una piccola figura si staccò dal battaglione più lontano e corse verso Eragon e Saphira. Era Orik, armato come gli altri nani. «Ajihad vuole che ti unisca all’esercito» disse. «Non ci sono più tunnel da far crollare. C’è cibo per entrambi.» Eragon e Saphira seguirono Orik in una tenda, dove trovarono pane e acqua per Eragon e un mucchio di carne secca per la dragonessa. Mangiarono senza lamentarsi; era sempre meglio che patire i morsi della faine. Quando ebbero finito. Orik disse loro di aspettare e scomparve tra le fila del suo battaglione. Tornò poco dopo con un gruppo di nani carichi di placche metalliche di varia foggia. Orik ne sollevò un pezzo e lo porse a Eragon. «Che cos’è?» domandò Eragon, accarezzando il metallo lucido, ricco di preziose incisioni e filigrana d’oro. In alcuni punti era spesso più di un pollice e molto pesante. Nessun uomo poteva combattere con quel peso, e comunque erano troppi pezzi, per un’armatura sola. «Un regalo da parte di Rothgar» disse Orik, compiaciuto. «Giace fra i nostri tesori da tanto di quel tempo che ce n’eravamo quasi dimenticati. È stato forgiato in un’altra epoca, prima della caduta dei Cavalieri.» «Sì, ma a cosa serve?» chiese Eragon. «È un’armatura per draghi, diamine! Non crederai che i draghi combattano senza protezione! Le armature complete sono piuttosto rare perché ci vuole troppo tempo per farle e perché i draghi non le gradiscono molto. A ogni modo, Saphira non è ancora troppo grande: questa dovrebbe andarle bene.» Un’armatura per draghi! Mentre Saphira annusava uno dei pezzi, Eragon le chiese: Che cosa ne pensi? Proviamo, disse lei, con uno scintillio feroce negli occhi. Dopo un’immane fatica, Eragon e Orik fecero qualche passo indietro per ammirare il risultato. Il lungo collo di Saphira, tranne le punte che sporgevano dal dorso, era rivestito di placche triangolari sovrapposte. Il ventre e il torace erano protetti dalle placche più robuste, mentre le più leggere le coprivano la coda. Le zampe e la schiena erano completamente rivestite. Soltanto le ali erano scoperte. Una singola placca modellata le foderava la testa, laasciandole libera la mascella inferiore per mordere e dilaniare. Saphira provò a inarcare il collo, e l’armatura si flesse insieme a lei con tutta naturalezza. Mi rallenterà un poco, ma servirà a fermare le frecce. Come sono? Terrificante, rispose Eragon, sincero, Saphira emise un mormorio di compiacimento. Orik raccolse il resto della ferraglia da terra. «Ho portato un’armatura anche per te; ce n’è voluto, per trovarne una della tua taglia. Forgiamo di rado armature per umani o elfi. Non so per chi sia stata fatta questa, ma non è mai stata usata e credo che ti servirà.» Eragon s’infilò una lunga cotta di maglia e cuoio che gli arrivava fino alle ginocchia. Gli pesava sulle spalle e tintinnava a ogni gesto. Allacciò Zar’roc sopra l’armatura, cosa che impediva alla maglia di spostarsi. In testa provò prima una calotta di pelle, poi un cappuccio di maglia; la sua scelta cadde infine su un elmo d’oro e d’argento. Bracciali e schinieri completavano la protezione, insieme a un paio di guanti di maglia. Orik gli porse un grande scudo con l’emblema di una quercia. Sapendo che quello che lui e Saphira avevano ricevuto valeva moltissimo. Eragon s’inchinò e disse; «Ringrazio te e Rothgar per questi doni, che sono stati molto apprezzati.» «Non aver fretta di ringraziare» disse Orik ammiccando. «Aspetta di vedere se l’armatura ti salverà la vita.» I guerrieri intorno cominciarono a marciare, e i tre battaglioni si disposero in diverse zone del Farthen Dùr. Non sapendo bene che cosa fare, Eragon guardò Orik, che rispose con una scrollata di spalle e disse; «Suppongo che dobbiamo seguirli.» Si accodarono a un battaglione diretto verso una parete del cratere, Eragon chiese notizie degli Urgali, ma Orik sapeva soltanto che nelle ultime galleriedel sottosuolo erano stati appostati degli esploratori, che ancora non avevano dato notizie. Il battaglione si fermò davanti a uno dei tunnel crollati. I nani avevano ammassato i detriti perché nessuno potesse arrampicarsi facilmente dal basso. Questo dev’essere uno dei punti dove dovremo costringere gli Urgali a emergere, osservò Saphira. Centinaia di lanterne erano state appese a pali infissi nel terreno, ed emanavano una luce simile a quella del sole nel tardo pomeriggio. Una fila di fuochi ardeva lungo i bordi del soffitto crollato del tunnel; sopra le fiamme ribollivano grossi pentoloni di pece. Eragon distolse lo sguardo con un moto di repulsione. Era un modo terribile di uccidere qualcuno, perfino un Urgali. Lunghi pali appuntiti vennero conficcati in fila nel terreno per fare da barriera fra il battaglione e il tunnel, Eragon vide l’occasione di dare una mano e si unì a un gruppo di uomini che scavavano trincee fra i pali. Anche Saphira li aiutò, spostando mucchi enormi di terra con le zampe. Mentre lavoravano. Orik si allontanò per andare a controllare la costruzione di una barricata a protezione degli arcieri, Eragon bevve riconoscente da un otre d’acqua che veniva passato di mano in mano. Dopo aver terminato le trincee e averle riempite di pali aguzzi, Saphira ed Eragon si riposarono. Orik tornò e li trovò seduti vicini. Si asciugò la fronte. «Tutti gli uomini e i nani sono sul campo di battaglia. Tronjheim è stata sigillata. Rothgar comanda il battaglione alla nostra sinistra. Ajihad quello davanti a noi.» «E il nostro?» «Jòrmundur.» Orik si sedette con un gemito e posò a terra l’ascia, Saphira richiamò l’attenzione di Eragon con un colpetto del muso. Guarda. Il giovane strinse d’istinto la spada quando vide Murtagh avvicinarsi con Tornac. Portava un elmo, uno scudo dei nani e il suo spadone. Orik imprecò e balzò in piedi, ma Murtagh si affrettò a spiegare: «Calma, è tutto a posto. Ajihad mi ha liberato.» «E perché lo avrebbe fatto?» chiese Orik. Murtagh sorrise amaro. «Ha detto che questa è l’occasione per dimostrare le mie buone intenzioni. Evidentemente non crede che io rappresenti un grosso problema anche se disertassi.» Eragon annuì per dargli il benvenuto, allentando la stretta su Zar’roc. Murtagh era un combattente straordinario e spietato, proprio il genere di compagno che voleva al suo fianco in battaglia. «Come facciamo a sapere che non menti?» ribatte Orik. «Perché lo dico io» annunciò una voce risoluta alle spalle. Ajihad avanzò tra di loro, armato per la battaglia con un robusto giustacuore d’acciaio e una spada dall’impugnatura d’avorio. Posò una mano sulla spalla di Eragon e lo guidò in disparte per non farsi sentire dagli altri. Squadrò l’armatura. «Bene, vedo che Orik ha fatto un ottimo lavoro.» «Sì… notizie dai tunnel?» «Non ancora.» Ajihad si appoggiò alla spada. «Uno dei Gemelli resterà a Tronjheim. Salirà sulla rocca e osserverà la battaglia da lì, e attraverso suo fratello mi trasmetterà le informazioni. So che tu puoi parlargli con la mente. Mi occorre che tu riferisca ai Gemelli qualunque, dico qualunque cosa di insolito che vedrai in battaglia. E io ti invierò gli ordini attraverso dì loro. Capito tutto?» Il pensiero di essere legato ai Gemelli lo riempì di disgusto, ma sapeva che era necessario. «Sì.» Ajihad fece una pausa, poi disse: «Tu non sei un soldato di fanteria o di cavalleria, come quelli che sono abituato a comandare. In battaglia potrebbe essere diverso, ma credo che tu e Saphìra sarete più al sicuro sul terreno. In aria, sareste un bersaglio perfetto per gli arcieri Urgali. Combatterai in sella a Saphira?» Eragon non aveva mai combattuto a cavallo, meno che mai su Saphira. «Non so che cosa faremo. Quando sono su Saphira, sono troppo alto per combattere chiunque, se non un Kull.» «Ci saranno moltissimi Kull, temo» disse Ajihad. Si raddrizzò e sfilò la spada dal terreno. «L’unico consiglio che posso darti è di evitare rischi inutili. I Varden non possono permettersi di perderti.» E con questo si voltò e se ne andò. Eragon tornò da Orik e Murtagh e si accovacciò accanto a Saphira, appoggiando lo scudo alle ginocchia. I quattro aspettavano in silenzio, come le centinaia di guerrieri intorno a loro. La luce che pioveva dall’apertura del Farthen Dùr si affievolì via via che il sole spariva dietro l’orlo del cratere. Eragon si volse a contemplare l’accampamento e s’impietrì, col cuore in gola. A trenta piedi da lui sedeva Arya, con l’arco appoggiato in grembo. Pur sapendo che era irragionevole, Eragon aveva sperato che si fosse unita alle altre donne fuori dal Farthen Dùr. Preoccupato, si alzò e le si avvicinò. «Anche tu combatterai?» «Farò quello che devo» rispose lei impassibile. «Ma è troppo pericoloso!» . Arya si rabbuiò. «Non mi sottovalutare, umano. Gli elfi addestrano sia i maschi che le femmine al combattimento. Non sono una delle vostre donnette che fuggono davanti al pericolo. Mi è stato affidato il compito di proteggere l’uovo di Saphira, e ho fallito. La mia breoal è stata disonorata e maggiore vergogna ricadrebbe su di lei se non proteggessi te e Saphira su questo campo. Dimentichi che sono più forte con la magia di chiunque, qui, compreso te. Se arriva lo Spettro, chi potrà sconfiggerlo se non io? E chi ne ha il diritto più di me?» Eragon la guardò ammtitolito, riconoscendo suo malgrado che aveva ragione. «Allora bada a te stessa» disse. Poi, per disperazione, aggiunse nell’antica lingua; «Wiol pòmnuria ilian.» Per la mia felicità. Arya distolse lo sguardo inquieta; la folta frangia le celava il volto. Fece scorrere la mano sul lucido arco e mormorò: «È il mio wyrda, trovarmi qui. Devo ripagare il mio debito.» Eragon si volse di scatto e tornò a grandi passi da Saphira. Murtagh lo guardò incuriosito. «Che cos’ha detto?» «Niente.» Immersi nei propri pensieri, col passare delle ore i difensori sprofondarono in un silenzio sempre più cupo. Il cratere del Farthen Dùr piombò ancora una volta nelle tenebre, rischiarate soltanto dal bagliore sanguigno delle lanterne e dei fuochi su cui ribolliva la pece, Eragon studiava l’intreccio della propria cotta di maglia, poi scoccava rapide occhiate all’indirizzo di Arya. Orik strofinava una pietra da cote sulla lama della sua ascia, esaminando il taglio fra una passata e l’altra; il raspare del metallo era irritante. Lo sguardo di Murtagh era perso nel vuoto. Di tanto in tanto, qualche messaggero correva per l’accampamento, facendo scattare in piedi i guerrieri; ma era sempre un falso allarme. Gli uomini e i nani erano sempre più tesi; spesso si udivano esplosioni di collera. La cosa peggiore del Farthen Dùr era l’assenza del vento: l’aria era immobile, morta. A peggiorare le cose, il fumo dei falò e delle lanterne si addensava rendendo l’aria calda e soffocante. Mentre la notte invecchiava, il campo di battaglia divenne mortalmente silenzioso. I muscoli di tutti dolevano per la tensione dell’attesa, Eragon fissava il buio con occhi vacui e palpebre pesanti. Ogni tanto si scuoteva, nel tentativo di riprendersi dal torpore. Alla fine Orik disse: «È tardi. Dovremmo dormire. Se succede qualcosa, gli altri ci sveglieranno.» Murtagh borbottò, ma Eragon era troppo stanco per lamentarsi. Si rannicchiò accanto a Saphira, usando lo scudo come cuscino. Mentre chiudeva gli occhi, vide Arya ancora sveglia, che li guardava. I suoi sogni furono confusi e inquietanti, popolati da bestie cornute e minacce invisibili. Più volte sentì una voce chiedere: “Sei pronto?” Ma non c’era mai risposta. Tormentato da simili visioni, il suo sonno fu agitato e snervante, finché qualcosa non gli toccò il braccio. Si svegliò di soprassalto. 58 La battaglia di Farthen Dûr «È cominciata» gli annunciò Arya con espressione dolente. Le truppe nell’accampamento erano già deste e vigili, le armi in pugno. Orik roteò la scure per sciogliere i muscoli del braccio. Arya incoccò una freccia, pronta a scagliarla. «Qualche minuto fa è arrivato un esploratore da uno dei tunnel» disse Murtagh a Eragon. «Gli Urgali stanno arrivando.» Insieme guardarono il nero ingresso della galleria attraverso le schiere di guerrieri e le file di pali appuntiti. Passò un lungo minuto, poi un altro, e un altro. Senza distogliere gli occhi dal tunnel, Eragon salì in groppa a Saphira, reggendo il peso rassicurante di Zar’roc. Al suo fianco, Murtagh montò su Tornac. Poi un uomo gridò: «Li sento!» I guerrieri s’irrigidirono; le mani si strinsero intorno alle armi. Nessuno si muoveva; nessuno respirava. Da qualche parte, un cavallo nitrì. Roche grida di Urgali squarciarono l’aria mentre sagome nere eruttavano dall’apertura del tunnel. Al comando stabilito, i calderoni di pece bollente vennero inclinati verso la fenditura, riversando fiumi di liquido ustionante nella bocca famelica della galleria. I mostri ulularono di dolore, agitando le braccia. Una torcia venne scagliata sulla pece ribollente, intrappolando gli Urgali in un inferno. Nauseato, Eragon guardò oltre la piana del Farthen Dùr e vide gli altri due battaglioni impegnati nella stessa carneficina. Rinfoderò Zar’roc e incordò l’arco. Altri Urgali presto spensero i fuochi di pece e si. arrampicarono dai tunnel, calpestando i corpi bruciati dei compagni. Si ammassarono, compatti come un solido muro davanti agli uomini e ai nani. Dietro la palizzata che Orik aveva aiutato a costruire, la prima linea di arcieri liberò una pioggia di frecce. Eragon e Arya aggiunsero i loro dardi allo sciame fatale e li videro falciare i ranghi degli Urgali. La linea dei mostri vacillò, minacciando di spezzarsi, ma i nemici si ripararono con gli scudi e sostennero l’attacco. Di nuovo gli arcieri tirarono, ma gli Urgali continuavano ad affiorare a un ritmo spaventoso. Eragon era sconvolto dalla loro quantità. Dovevano ucciderli uno per uno? Gli parve un compito impossibile. L’unica nota incoraggiante era il fatto di non vedere soldati di Galbatorix con gli Urgali. Non ancora, almeno. L’esercito avversario formava una solida massa di corpi che sembrava estendersi all’infinito. Vessilli logori e macchiati furono innalzati dal folto dei mostri. Lugubri note echeggiarono nel Farthen Dùr quando i corni di guerra risuonarono. L’intero gruppo di Urgali caricò con selvagge grida di guerra. Si lanciarono contro le file di pali appuntiti, coprendoli di sangue viscido e corpi inerti, mentre i ranghi dell’avanguardia venivano schiacciati contro le difese. Una nube di frecce nere volò oltre la barriera, ricadendo sui difensori accovacciati. Eragon si nascose dietro lo scudo, e Saphira si coprì la testa. Le frecce tintinnarono innocue contro la sua armatura. Respinta dai picchetti, l’orda degli Urgali esitò, confusa. I Varden si raggrupparono in attesa del nuovo assalto. Dopo una breve pausa, le grida di guerra risuonarono ancora, mentre gli Urgali riprendevano le forze. L’attacco fu feroce. L’impeto portò gli Urgali attraverso la foresta di paletti, dove ima linea di picchieri scagliò freneticamente le armi contro i mostri, nel tentativo di arrestare la marea. I picchieri opposero resistenza, ma l’orrida massa di Urgali era inarrestabile, e furono sopraffatti. Con la prima linea di difesa spezzata, i corpi principali delle due forze si scontrarono per la prima volta. Un ruggito assordante si levò dagli uomini e dai nani mentre si lanciavano nella mischia. Saphira levò un cupo bramito e si scagliò nel cuore della battaglia, immergendosi in un turbine di rumori e azioni confuse. Con le zanne e gli artigli, la dragonessa dilaniò un Urgali. I suoi denti erano letali quando una spada, la sua coda un maglio gigantesco. In sella, Eragon parò il colpo di mazza di un capo Urgali, proteggendole le ali vulnerabili. Zar’roc sembrava lieta che tanto sangue scorresse lungo la sua lama cremisi. Con la coda dell’occhio, Eragon vide Orik mozzare teste di Urgali con precisi fendenti della sua ascia. A fianco del nano c’era Murtagh su Tornac, il volto distorto da un ghigno malevolo: furente, roteava la spada, sbaragliando ogni avversario. Poi Saphira si volse, ed Eragon vide Arya scavalcare con un agile balzo il corpo senza vita di un avversario. Un Urgali investì con furia cieca un nano ferito e si scagliò contro la zampa destra di Saphira, quella davanti. La sua spada slittò sull’armatura in.una pioggia di scintille. Eragon lo colpì alla testa, ma Zar’roc rimase impigliata nelle sue corna e gli fu strappata di mano. Eragon imprecò, e da Saphira si tuffò sull’Urgali, schiacciandogli il muso con lo scudo. Liberò Zar’roc dalle corna e fece appena in tempo a evitare la carica di un altro Urgali. Saphira, ho bisogno di te! gridò, ma la confusione della battaglia li aveva separati. All’improvviso un Kull si avventò su di lui, con la mazza pronta a colpire. Sapendo che non avrebbe avuto il tempo di levare lo scudo per proteggersi, Eragon urlò; «Jierda!» La testa del Kull scattò all’indietro con uno schianto secco: gli si era spezzato il collo. Altri quattro Urgali placarono la sete di sangue di Zar’roc, poi Murtagh piombò con Tornac fra gli assalitori. «Salta su!» gridò, e si sporse dal fianco del destriero per issare Eragon in sella. Galopparono verso Saphira, circondata da dodici lancieri Urgali che la pungolavano con le loro armi. Erano già riusciti a perforarle entrambe le ali, e il suo sangue bagnava il terreno. Ogni volta che si avventava contro uno degli Urgali, gli altri serravano i ranghi e le puntavano le lance contro gli occhi, costringendola a indietreggiare. Cercava di spazzare via le lance a colpi di artìgli, ma gli Urgali balzavano indietro e la evitavano. La vista di Saphira insanguinata riempì di furia Eragon. Smontò da Tornac con un grido selvaggio e infilzò l’Urgali più vicino affondandogli Zar’roc nel petto fino all’elsa, nella frenesia di salvare la dragonessa. Il suo assalto le fornì l’occasione di liberarsi. Con un calcio fece volare via un Urgali, poi trottò verso di lui. Eragon si afferrò a una delle punte dorsali e le montò in sella. Murtagh alzò la mano in segno di saluto e si lanciò alla carica di un altro manipolo di Urgali. In tacita intesa con Eragon, Saphira spiccò il volo e si levò sugli eserciti in lotta, cercando un attimo di tregua dalla frenesia. Il ragazzo aveva il respiro affannato, ì muscoli ancora tesi, pronti a respingere un altro attacco. Ogni fibra del suo essere formicolava di energia, e si sentiva più vivo che mai. Saphira volò in circolo tanto a lungo da permettere a entrambi di recuperare le forze, poi scese verso gli Urgali, sfiorando il terreno per evitare di essere facilmente avvistata. Piombò sui nemici da dietro, dove erano radunati gli arcieri. Prima che gli Urgali se ne rendessero conto, Eragon mozzò la testa di due arcieri; Saphira ne sventrò altri tre. Riprese quota in fretta al suono dell’allarme, salendo oltre la portata delle frecce. Ripeterono la tattica su un altro versante dell’esercito nemico. La velocità e la scaltrezza di Saphira, combinate con la scarsa illuminazione, rendevano quasi impossibile per gli Urgali prevedere dove avrebbe attaccato poco dopo. Eragon usava l’arco quando Saphira era in aria, ma presto si ritrovò a corto di frecce. L’unica cosa che gli rimase nella faretra fu la magia ma voleva conservarla fino al momento in cui fosse stata assolutamente necessaria. I voli di Saphira sui combattenti fornirono a Eragon una straordinaria visione di come procedeva lo scontro. Nel Farthen Dùr erano in corso tre battaglie distinte, una per ogni tunnel aperto. Gli Urgali erano svantaggiati dalla dispersione delle forze, e dall’incapacità di far uscire tutto l’esercito in una volta dalle gallerie. Anche così, però, i Varden e i nani non riuscivano a impedire ai mostri di avanzare e ripiegavano lentamente verso Tronjheim. I difensori sembravano insignificanti contro la massa di Urgali, che erano sempre più numerosi via via che sciamavano dai tunnel. I gruppi di Urgali si stringevano intorno a diversi stendardi, ciascuno a rappresentare un clan, ma non era chiaro chi fosse il comandante in capo di tutte le truppe. I clan si ignoravano a vicenda, come se ricevessero ordini da qualcun altro. Eragon sperava di individuare presto il comandante, così da poterlo uccidere. Rammentando gli ordini di Ajihad, prese a passare informazioni ai Gemelli. Parvero molto interessati alla notizia dell’apparente mancanza di un capo fra gli Urgali e lo interrogarono a fondo. Lo scambio fu breve e formale. Infine i Gemelli, gli dissero: Hai l’ordine di assistere Rothgar; le cose stanno andando male per il suo battaglione. Vado, rispose Eragon. Saphira volò rapida verso i nani assediati, abbassandosi in direzione di Rothgar. Protetto da un’armatura d’oro, il re dei nani era alla testa di un gruppo di sudditi e brandiva Volund, il martello dei suoi antenati. La sua barba bianca catturò il bagliore delle lanterne quando il nano alzò il viso verso Saphira. Nei suoi occhi brillò una scintilla di ammirazione. Saphira atterrò accanto ai nani e si volse per affrontare gli Urgali all’assalto. Perfino il più ardito dei Kull vacillò davanti alla sua ferocia, e questo permise ai nani di sferrare per primi l’attacco. Eragon cercò di tenere Saphira al sicuro. Il suo fianco sinistro era protetto dai nani, ma di fronte e a destra ribolliva una fiumana di nemici. Il ragazzo non ebbe pietà per loro e sfruttò ogni vantaggio, usando la magia dove Zar’roc non arrivava. Una lancia rimbalzò sul suo. scudo, ammaccandolo, lasciandogli una spalla contusa. Scrollandosi di dosso il dolore, fracassò il cranio di un Urgali, confondendo ossa e cervello con il metallo. Guardava con timore reverenziale Rothgar che, pur molto vecchio sia per gli uomini che per i nani, in battaglia era ancora insuperabile. Nessun Urgali, che fosse Kull o altro, riusciva ad affrontare il re dei nani e le sue guardie e a sopravvivere. Ogni volta che Volund colpiva, il gong della morte suonava per un altro nemico. Dopo che una. lancia ebbe trafitto uno dei suoi guerrieri. Rothgar afferrò l’arma e con forza inaudita la rispedì al mittente, a oltre venti iarde di distanza. Un tale eroismo contagiò Eragon, che corse qualche rischio in più per dimostrarsi all’altezza del potente re. Si lanciò verso un gigantesco Kull piuttosto lontano e per poco non cadde di sella. Prima che riprendesse l’equilibrio, il Kull schivò le difese di Saphira e roteò la spada. Il colpo si abbattè sull’elmo di Eragon, spingendolo all’indietro. Stordito, con la vista annebbiata e le orecchie ronzanti, Eragon tentò di rimettersi dritto, ma il Kull era già pronto a sferrare un altro colpo. Mentre il braccio del Kull calava, una sottile lama d’acciaio comparve all’improvviso dal suo torace. Ululando, il mostro rovinò a terra. Dietro lui sorrideva Angela. La maga indossava un lungo manto rosso sopra una superba corazza con decori di smalto nero e verde. Portava una strana arma, un lungo bastone di legno con una lama su ciascuna estremità. Angela fece un cenno a Eragon, poi corse via, roteando il bastone spada come un derviscio. Vicino a lei c’era Solembum, sotto le sembianze di un ragazzino dai capelli irti. Impugnava un piccolo pugnale nero, i denti aguzzi scoperti in un ringhio felino. Ancora frastornato dal colpo alla testa, Eragon riuscì a raddrizzarsi sulla sella. Saphira si alzò in volo e rimase in aria il tempo per farlo riprendere. Mentre scrutava la piana del Farthen Dùr, il ragazzo vide con suo sommo sgomento che tutti e tre i fronti versavano in cattive acque. Né Ajihad, né Jormundur, né Rothgar riuscivano a fermare gli Urgali. Erano troppi. Eragon si chiese quanti Urgali poteva uccidere in una volta facendo ricorso alla magia. Conosceva fin troppo bene i propri limiti,. Se ne avesse uccisi tanti da fare la differenza, probabilmente sarebbe stato un suicidio. Forse era proprio quello che serviva per vincere. La battaglia continuava incessante, ora dopo ora. I Varden e i nani erano sfiniti, ma gli Urgali ricevevano sempre rinforzi freschi. Per Eragon era un incubo. Anche se lui e Saphira combattevano allo stremo, c’era sempre un altro Urgali a prendere il posto di quello appena Ucciso. Gli faceva male tutto il corpo, soprattutto la testa. Ogni volta che usava la magia, perdeva un po’ più di energia. Saphira era in condizioni migliori, ma le sue ali erano trafitte da tante piccole ferite. Mentre parava un colpo, i Gemelli lo chiamarono con urgenza. Si sentono forti rumori sotto Tronjheim. Sembra che gli Urgali stiano cercando di scavare sotto la città! Tu e Arya dovete venire subito per far crollare le gallerie che stanno scavando. Eragon si liberò dell’avversario con un affondo. Veniamo subito. Cercò Arya e la vide impegnata con un gruppo di Urgali. Saphira aprì un varco per l’elfa, lasciando una scia di corpi schiacciati, Eragon le tese una mano e disse: «Sali!» Arya saltò in groppa a Saphira senza esitare. Cinse la vita di Eragon con il braccio destro e continuò a impugnare la spada insanguinata nella sinistra. Mentre Saphira si dava lo slancio per spiccare il volo, un Urgali corse verso di lei ululando e la colpì in pieno petto con un’ascia. Saphira ruggì di dolore e barcollò, proprio mentre le sue zampe si staccavano da terra. Dispiegò le ali con uno schiocco sonoro per riprendere l’equilibrio ed evitare di schiantarsi al suolo, poi virò bruscamente da un lato, sfiorando il terreno con la punta dell’ala destra. Sotto di loro, l’Urgali ritrasse il braccio, pronto a scagliare l’ascia. In quell’istante. Arya gridò e alzo il palmo, e un globo di energia color smeraldo guizzò dalla sua mano contro l’Urgali, uccidendolo sul colpo. Con uno sforzo colossale, Saphira recuperò l’assetto di volo e si alzò, sfiorando le teste dei guerrieri. Si allontanò dal campo di battaglia con potenti colpi d’ala. Respirava con affanno. Stai bene? le domandò Eragon, preoccupato. Non riusciva a vedere dov’era stata colpita. Sopravviverò, rispose lei, ma la parte davanti della mia armatura è schiacciata verso l’interno. Mi fa male e mi impedisce di muovermi. Ce la fai ad arrivare sulla rocca? ... vedremo. Eragon riferì ad Arya le condizioni di Saphira. «Resterò io con Saphira quando atterreremo» si offrì l’elfa. «E quando l’avrò liberata dall’armatura, ti raggiungerò.» «Grazie» disse lui. Il volo fu faticoso per Saphira, che planava ogni volta che poteva. Quando ebbero raggiunto la rocca, atterrò pesantemente su Isidar Mithrim, dove avrebbero dovuto trovarsi i Gemelli per assistere alla battaglia: ma il luogo era deserto. Eragon balzò a terra e trasalì nel vedere i danni provocati dall’Urgali. Quattro placche metalliche del pettorale di Saphira erano state schiacciate verso l’interno, diminuendo la sua capacità di piegarsi e respirare. «Buona fortuna» le disse, posandole una mano sul fianco; poi corse via sotto l’arco. Si fermò e lanciò un’imprecazione. Era in cima a Voi Turin, la Scala Infinita. Preoccupato com’era per le condizioni di Saphira, non aveva pensato a come scendere fino alla base di Tronjheim, dove gli Urgali stavano facendo irruzione. Non c’era tempo di usare le scale. Guardò lo stretto canale di scolo che correva al fianco dei gradini, afferrò uno dei cuscinetti di pelle e si gettò. Lo scivolo di pietra era liscio come legno laccato. Con la pelle sotto di sé, accelerò quasi all’istante a una velocità spaventosa, mentre le pareti scorrevano indistinte ai lati e la curva dello scivolo lo premeva contro il muro. Eragon si distese per andare ancora più veloce. L’aria ruggiva intorno all’elmo, facendolo vibrare come un segnavento in una bufera. Lo scivolo era troppo stretto per lui, e più di una volta fu pericolosamente vicino a essere sbalzato fuori, ma se teneva le braccia e le gambe aderenti al corpo, tutto sarebbe filato liscio. Fu una discesa rapidissima, ma gli ci vollero comunque una decina di minuti per raggiungere il fondo. Il canale terminava bruscamente ed Eragon continuò a scivolare sul pavimento di corniola ancora per diverse iarde. Quando finalmente si fermò, era troppo stordito per camminare. Al primo tentativo di alzarsi gli venne il voltastomaco, così si accovacciò, la testa tra le mani, e aspettò che il mondo smettesse di vorticare. Quando si sentì meglio, si alzò e si guardò intorno, circospetto. La grande sala era deserta, il silenzio irreale. Da Isidar Mithrim filtrava la consueta luce rosata, Esitò - dove doveva andare? - poi espanse la mente in cerca dei Gemelli. Niente. S’impietrì nel sentire un forte rimbombo risuonare per tutta Tronjheim. Un’esplosione squarciò l’aria. Una lunga lastra del pavimento si deformò e saltò in aria, per oltre trenta piedi. Taglienti schegge di pietra si sparsero ovunque quando la lastra ricadde con uno schianto. Eragon incespicò all’indietro, sgomento, cercando a tentoni l’impugnatura di Zar’roc. Le figure mostruose degli Urgali presero a salire dalla voragine nel pavimento. Eragon esitò. Doveva fuggire? O restare e chiudere il tunnel? Se anche fosse riuscito a sigillarlo prima che gli Urgali lo attaccassero, probabilmente stavano aprendo altre brecce nel suolo di Tronjheim. Non poteva trovarsi in tutti i posti a un tempo per impedire alla città-montagna di cadere nelle grinfie del nemico. Ma se corro a uno dei cancelli di Tronjheim e lo faccio saltare, i Varden potranno riprendere . Tronjheim senza bisogno di un assedio. Prima che potesse decidere, un soldato alto, con un’armatura completamente nera, emerse dal tunnel e lo guardò dritto negli occhi. Era Durza. Lo Spettro impugnava la pallida spada graffiata da Ajihad. Al braccio portava uno scudo nero.e rotondo, con un’insegna cremisi. Il suo elmo nero recava ricchi decori, come quello di un generale, e intorno gli svolazzava un lungo manto di pelle di serpente. La follia ardeva nei suoi occhi rossicci, la follia di colui che detiene il potere e si trova nella posizione di usarlo. Eragon sapeva che non sarebbe mai stato abbastanza veloce o forte da sfuggire al nemico che aveva di fronte. Avvertì subito Saphira, pur sapendo che era impossibile per lei venire a salvarlo. Tese i muscoli in posizione di guardia e ripassò quanto gli aveva insegnato Brom sul fatto di affrontare un avversario capace di usare la magia. Non era incoraggiante. E Ajihad aveva detto che gli Spettri si potevano uccidere soltanto con un colpo al cuore. Durza lo guardò con disprezzo e disse: «Kaz jtierl traz-hid! Otrag bagh.» Gli Urgali studiarono Eragon sospettosi e formarono un cerchio intorno al perimetro della sala. Durza si avvicinò lentamente a Eragon, con un’espressione di trionfo. «E così, mio giovane Cavaliere, ci incontriamo ancora. Sei stato sciocco a sfuggirmi, a Gil’ead. Alla fine, non è servito ad altro che a peggiorare le cose.» «Non mi prenderai mai vivo» ringhiò Eragon. «Tu credi?» disse lo Spettro, irridente. La luce dello zaffiro stellato conferiva alla sua pelle un colore ancor più cinereo. «Non vedo il tuo amico Murtagh ad aiutarti. Non può fermarmi, ora. Nessuno può!» Eragon si sentì pervadere dal terrore. Come fa a sapere di Murtagh? Sforzandosi di assumere un tono beffardo, esclamò: «Come ci si sente a essere trapassati da una freccia?» Il volto di Durza s’irrigidì per un istante. «Sarò ripagato col sangue per quanto mi è stato fatto. Ora dimmi dove si nasconde il tuo drago.» «Mai.» Il contegno dello Spettro vacillò. «Allora ti costringerò a dirmelo!» La, sua spada sibilò nell’aria. Nel momento in cui Eragon parava il colpo con lo scudo, un maglio gli penetrò nel cervello. Lottando per proteggere la sua coscienza, respinse Durza e attaccò con la propria mente. Eragon aggredì con tutte le sue forze le strenue difese erette intorno alla mente di Durza: invano. Fece roteare Zàr’roc, cercando di prendere Durza alla sprovvista. Lo Spettro parò il fendente senza sforzo, poi fece un affondo con uno scatto fulmineo. La punta della spada colse Eragon fra le costole, forandogli la cotta di maglia e mozzandogli il fiato. La maglia però scivolò e la lama gli mancò il fianco per un soffio. Un attimo di distrazione era quello che occorreva a Durza per entrare nella mente di Eragon e assumerne il controllo. «No!» gridò Eragon, scagliandosi contro lo Spettro. Afferrò Durza, cercando di bloccargli il braccio che teneva la spada. Durza tentò di tagliargli la mano, ma era protetta dal guanto di maglia, che fece scivolare la lama. Mentre Eragon gli sferrava un calcio su uno stinco. Durza ringhiò e lo colpì da dietro con lo scudo nero, mandandolo a terra. Eragon sentì il sapore del sangue in bocca; il collo gli pulsava. Ignorando le ferite, rotolò su un fianco e scagliò il proprio scudo contro Durza. Malgrado la superiore rapidità dello Spettro, lo scudo pesante lo colpì al fianco. Mentre Durza vacillava, Eragon lo ferì al braccio con Zar’roc. Un rivolo di sangue colò lungo il braccio dello Spettro. Eragon respinse lo Spettro con la mente e penetrò nelle sue difese indebolite. Un fiume di immagini lo avvolse all’improvviso, scorrendogli nella coscienza... Durza da ragazzo che viveva come un nomade con i suoi genitori nelle vaste pianure. La tribù li aveva abbandonati, chiamando suo padre spergiuro. Ma non era Durza all’epoca, era Carsaib... il nome che sua madre ripeteva pettinandogli i capelli... Lo Spettro si voltò su se stesso, il viso ridotto a una maschera di dolore. Eragon tentò di controllare il torrente di ricordi, ma la loro forza era soverchiante. In piedi su una collina, davanti alla tomba dei suoi genitori, pianse perché non avevano ucciso anche lui. Poi si voltò e si allontanò barcollando, verso il deserto... Durza affrontò Eragon. Un terribile odio emanava dai suoi occhi rossi. Eragon era su un ginocchio, quasi in piedi, e lottava per sigillare la mente. Gli apparve il vecchio, chino su Carsaib moribondo su una duna di sabbia. I giorni che ci erano voluti a Carsaib per riprendersi e la paura che lo aveva colto quando aveva scoperto che il suo salvatore era uno stregone. Come lo aveva implorato di insegnargli il controllo degli spiriti. Come alla fine Haeg aveva acconsentito. Lo chiamava “Ratto del Deserto”... Eragon era in piedi. Durza caricò, la spada levata, dimenticando lo scudo nella sua furia. I giorni trascorsi ad allenarsi sotto il sole cocente, sempre all’erta, in cerca delle lucertole che catturavano per cibarsi. Come il suo potere cresceva lentamente, dandogli orgoglio e fiducia. Le settimane trascorse a curare il maestro, ammalato dopo un incantesimo fallito. La gioia di quando Haeg si era ripreso... Non c’era tempo per reagire... non c’era tempo... I banditi che avevano attaccato durante la notte, uccidendo Haeg. La rabbia che Carsaib aveva provato e gli spiriti che aveva evocato per vendicarsi. Ma gli spiriti erano più forti di quanto avesse previsto. Lo tradirono e si impossessarono del suo corpo e della sua mente. Aveva gridato. Era... IO SONO DURZA! La spada si abbattè con violenza sulla schiena di Eragon, lacerando metallo e carne. Il ragazzo urlò di dolore e cadde di nuovo in ginocchio. La sofferenza lo faceva stare piegato in due e sopprimeva ogni pensiero. Vacillò, appena cosciente del sangue che gli scorreva, copioso sulle reni. Durza disse qualcosa che non riuscì a capire. Col cuore gonfio di angoscia, Eragon alzò gli occhi al cielo, il volto rigato di lacrime. Era finita, l Varden e i nani distrutti. Lui era stato sconfitto. Saphira si sarebbe immolata per salvarlo - lo aveva già fatto - e Arya sarebbe stata catturata di nuovo o uccisa. Perché doveva finire così? Che giustizia era? Tutto per niente. Mentre guardava Isidar Mithrim scintillare sopra il suo corpo martoriato, un lampo di luce esplose nei suoi occhi, accecandolo. Un istante dopo, la sala risuonò di un rumore assordante. Poi i suoi occhi si schiarirono, e rimase a bocca aperta per lo stupore. Lo zaffiro stellato era infranto. Un enorme ventaglio di frammenti acuminati pioveva verso il lontano pavimento, i muri trafitti da mille schegge. Al centro della sala, intenta a calare in picchiata, c’era Saphira. Dalle sue fauci spalancate eruttò una vampa di fuoco gialla e azzurra. Sul suo dorso cavalcava Arya: i capelli al vento, le mani alzate, i palmi scintillanti di magica luce verde. Il tempo parve rallentare mentre Eragon vide Durza alzare la testa verso il soffitto. Prima la sorpresa, poi la rabbia deformò i lineamenti dello Spettro. Con un ringhio sprezzante, alzò la mano e la puntò contro Saphira, le labbra pronte a mormorare una parola. Un’insospettabile riserva di energia divampò dentro Eragon, richiamata dai più profondi recessi del suo essere. Le sue dita si strinsero intorno all’elsa di Zar’roc. Sfondò la barriera della mente e prese controllo della magia. Tutto il suo dolore e.la sua rabbia si concentrarono in un’unica parola: «Brisingr!» Zar’roc fiammeggiò di luce rossa, la lama percorsa da una vampa senza calore… Si scagliò in avanti… E colpì Durza dritto al cuore. Durza, esterrefatto, abbassò lo sguardo sulla lama che gli sporgeva dal petto. La sua bocca era aperta, ma invece di parole ne sgorgò un ululato terrificante. La spada cadde dalle dita prive di forza. Afferrò Zar’roc come volesse strapparsela dalla carne, ma la lama era conficcata in profondità. Poi la pelle di Durza divenne trasparente: sotto di essa non c’erano carne né ossa, ma un turbinio notturno. Gridò ancora più forte mentre le tenebre pulsavano, spaccandogli la pelle. Con un ultimo grido. Durza si lacerò dalla testa ai piedi, liberando le tenebre che si divisero in tre rivoli, pronti a fuggire attraverso le mura di Tronjheim, fuori dal Farthen Dùr. Lo Spettro era morto. All’improvviso svuotato di ogni energia, Eragon cadde riverso, con le braccia spalancate. Sopra di lui, Saphira e Arya avevano quasi raggiunto terra, sembrava che stessero per schiantarsi al suolo insieme ai resti di Isidar Mithrim. Mentre la sua vista si annebbiava, Saphira. Arya e la miriade di frammenti, tutto parve fermarsi e restare immobile, a mezz’aria. 59 Il Saggio Dolente Frammenti di ricordi dello Spettro continuavano a vorticare nella mente di Eragon, un delirio di eventi oscuri ed emozioni travolgenti che gli impediva di pensare. In balìa del turbine, non sapeva chi era né dove si trovava, Era troppo debole per liberarsi dalla presenza estranea che gli offuscava la mente. Immagini violente, crudeli, del passato dello Spettro gli esplosero dietro gli occhi finché il suo spirito non gridò di dolore a quelle visioni sanguinose. Una pila di cadaveri davanti a lui... innocenti uccisi per ordine dello Spettro. Vide altri corpi interi villaggi strappati alla vita per mano o per bocca del demone. Non c’era scampo alla carneficina che lo circondava. Vacillò come la fiamma di una candela, incapace di resistere alla marea del Male. Pregò perché qualcuno lo liberasse da quell’incubo, ma non c’era nessuno a guidarlo. Se solo avesse ricordato che cos’era: un ragazzo o un uomo, un cattivo o un eroe, uno Spettro o un Cavaliere. Tutto era confuso in una frenesia priva di significato. Era perduto per sempre in quel viluppo tumultuoso. All’improvviso, una massa di ricordi, suoi ricordi, si aprì un varco nella nube lugubre lasciata dalla mente malvagia dello Spettro. Tutti gli eventi da quando aveva trovato l’uovo di Saphira gli apparvero nella fredda luce della rivelazione: i successi e i fallimenti; le persone e le cose care che aveva perso e i doni lucenti del fato generoso. Per la prima volta fu orgoglioso di essere soltanto chi era. Come per ribellarsi al nuovo barlume di fiducia in se stesso, le tenebre soffocanti dello Spettro lo assalirono di nuovo. La sua identità sì perse nel vuoto mentre l’incertezza e la paura gli consumavano le percezioni. Chi era, per pensare di poter sfidare i poteri di Alagasëia e restare vivo? Lottò contro i pensieri sinistri dello Spettro, debolmente, al principio, poi sempre più forte. Mormorò parole nell’antica lingua e scoprì che gli davano la forza di resistere alle ombre che gli affollavano la mente. Le sue difese ancora vacillavano, ma cominciò lentamente a raccogliere i frammenti della sua coscienza per formare un guscio luminoso intorno al nucleo. Fuori dalla sua mente era consapevole di un dolore così forte da minacciare di togliergli la vita, ma qualcosa, o qualcuno, sembrava tenerlo a bada. Era ancora troppo débole per schiarirsi del tutto la mente, ma era abbastanza lucido da passare in rassegna le sue esperienze fin da Carvahall. Dove sarebbe andato adesso... e chi gli avrebbe mostrato la via? Senza Brom, non c’era nessuno a guidarlo o a fargli da maestro. Vieni da me. Si ritrasse al contatto di un’altra coscienza, così vasta e potente da parere una montagna torreggiantè su di lui. Era colui che bloccava il dolore, si rese conto. Come nella mente di Arya, anche in questo scorreva una musica: corde d’ambra che vibravano di una magistrale malinconia. Finalmente osò chiedere: Chi sei? Uno che può aiutarti. Con un bagliore di pensiero non espresso, l’influenza dello Spettro venne spazzata via come una ragnatela fastidiosa. Libero dal peso opprimente, Eragon lasciò che la sua mente si espandesse fino a toccare una barriera oltre la quale non gli era permesso di andare. Ti ho protetto come meglio ho potuto, ma sei così lontano che non ho potuto far altro che schermarti dal dolore. Di nuovo: Chi sei, tu che fai questo? Un cupo brontolio. Sono Osthato Chetòwa, il Saggio Dolente. E Togiro Ikonoka, lo Storpio Che è Sano. Vieni da me, Eragon, poiché io ho le risposte che cerchi. Non sarai al sicuro finché non mi troverai. Ma come faccio a trovarti se non so dove sei? domandò Eragon, disperato. Fidati di Arya e va’ con lei a Ellesméra... io sarò lì. Ho aspettato molte stagioni, perciò non indugiare, o potrebbe essere troppo tardi... Tu sei più grande di quanto credi, Eragon. Pensa a quello che hai fatto e rallegrati, perché hai liberato la terra da un grande male. Hai compiuto un’impresa che nessun altro avrebbe potuto compiere. Molti sono in debito con te. Lo straniero aveva ragione; quello che aveva fatto era degno di onore e rispetto. Non era importante sapere quali prove lo attendevano: ormai non era più una pedina nel gioco del potere. Era andato oltre, ed era qualcos’altro, qualcosa di più. Era diventato ciò che voleva Ajihad: indipendente da qualsiasi re o capo. Avvertì l’approvazione mentre arrivava a questa conclusione. Stai imparando, disse il Saggio Dolente, e si avvicinò. Una visione passò da lui a Eragon: un’esplosione di colorì gli sbocciò nella mente, trasformandosi in una figura vestita di bianco, in piedi su una collina inondata di sole, È tempo che ti riposi, Eragon. Quando ti sveglierai, non parlare di me a nessuno, disse la figura con dolcezza, il volto oscurato da una nebbia d’argento. Ricorda, devi andare dagli elfi. Ora dormi....Alzò una mano, come per benedirlo, e la pace avvolse Eragon. Il suo ultimo pensiero fu che Brom sarebbe stato fiero di lui. «Svegliati» ordinò una voce. «Svegliati, Eragon, hai dormito fin troppo.» Si mosse di malavoglia, odiando quella voce. Il calore che lo avvolgeva era troppo confortevole per abbandonarlo. La voce squillò ancora. «Alzati. Argetlam! C’è bisogno di te!» Si costrinse ad aprire gli occhi e si ritrovò disteso su un letto, sepolto sotto strati di morbide coperte. Angela era seduta accanto a lui, e lo fissava con attenzione. «Come ti senti?» gli chiese. Disorientato e confuso, lasciò vagare lo sguardo per la stanza. «Non... non lo so» disse, con la bocca secca e dolorante. «Allora non muoverti. Dovresti risparmiare le energie» disse Angela, passandosi una mano fra i riccioli. Eragon vide che indossava ancora la corazza. Perché? Un accesso di tosse gli fece girare la testa e dolere tutto il corpo. Si sentiva le membra pesanti e febbricitanti. Angela raccolse da terra un corno dorato e glielo porse. «Tieni, bevi.» Il fresco idromele gli irrigò la gola, rinfrescandolo. Il calore gli esplose nello stomaco e gli riportò colore sulle guance. Tossì di nuovo, peggiorando il mal di testa. Come sono arrivato qui? C’era una battaglia... stavamo perdendo... poi Durza e... «Saphira!» esclamò, alzandosi di scatto. Rimpiombò sui cuscini in preda alle vertigini e chiuse gli occhi, assalito dalla nausea. «Saphira sta bene? Gli Urgali stavano vincendo... lei stava cadendo. E Arya!» «Sono vive» lo rassicurò Angela. «e stavano aspettando che ti svegliassi. Ti va di vederle?» Eragon annuì debolmente. Angela si alzò e aprì la porta. Arya e Murtagh entrarono, mentre Saphira fece capolino dalla soglia, troppo stretta per farla passare. Il suo petto vibrò mentre mormorava di gioia, gli occhi radiosi. Sorridendo, Eragon le sfiorò la mente con sollievo e gratitudine. È bello rivederti, piccolo, disse lei con tenerezza. Anche per me, ma come...? Gli altri vogliono spiegarti, perciò lascio fare a loro. Hai sputato fuoco! Ti ho vista! Sì, ammise lei con orgoglio. Sorrise debolmente, ancora confuso, poi guardò Arya e Murtagh. Entrambi erano feriti: Arya aveva il braccio fasciato, Murtagh la testa. Murtagh sogghignò. «Era ora che ti svegliassi. Siamo rimasti seduti in corridoio per ore.» «Che cosa... cosa è successo?» chiese Eragon. Arya aveva l’espressione triste, ma Murtagh era radioso. «Abbiamo vinto! È stato incredibile! Quando gli spiriti dello Spettro... se erano quelli... sono volati via dal Farthen Dùr, gli Urgali hanno smesso di combattere per vederli andare. È stato come se in quel momento venissero liberati da un sortilegio, perché i loro clan all’improvviso si sono messi a combattere l’uno contro l’altro. L’intero esercito si è disintegrato in.pochi minuti. Alla fine li abbiamo sconfitti!» «Sono tutti morti?» chiese Eragon. Murtagh scosse il capo. «No, molti sono fuggiti nei tunnel. I Varden e i nani sono impegnati a stanarli, ma ci vorrà del tempo. Io stavo dando una mano finché un Urgali non mi ha colpito la testa e sono stato spedito qui.» «Non ti metteranno di nuovo sotto chiave?» Il volto dell’amico si fece serio. «In questo momento non importa a nessuno. Un sacco di Varden e di nani sono morti; i sopravvissuti si stanno riprendendo dalla battaglia. Ma almeno tu hai motivo di essere felice. Sei un eroe! Tutti parlano di come hai ucciso Durza. Se non fosse stato per te, avremmo perso.» Eragon rimase turbato dalle parole di Murtagh, ma le respinse per riflettervi più tardi. «Dov’erano i Gemelli? Non li ho trovati dove avrebbero dovuto essere... non sono riuscito a parlare con loro. Avevo bisogno del loro aiuto.» Murtagh si strinse nelle spalle. «Mi hanno detto che stavano combattendo con valore contro un gruppo di Urgali entrati a Tronjheim da qualche altra parte. Probabilmente erano troppo impegnati per parlarti.» Per qualche ragione il discorso non reggeva.. ma Eragon non seppe dire perché. Si rivolse ad Arya. I grandi occhi splendenti dell’elfa non lo avevano abbandonato un istante, da quando era entrata. «Come mai non vi siete schiantate? Tu e Saphira stavate...» La sua voce si spense. L’elfa rispose lentamente: «Quando hai detto a Saphira di Durza, stavo ancora tentando di toglierle l’armatura danneggiata. Il tempo di liberarla ed era già troppo tardi per scivolare lungo Voi Turin... saresti stato catturato prima che raggiungessi il fondo. E Durza ti avrebbe ucciso pur di non permettermi di salvarti.» Il rammarico venò la sua voce. «Perciò ho fatto l’unica cosa che poteva distrarlo: ho infranto lo zaffiro stellato.» E io l’ho portata giù, aggiunse Saphira. Eragon si sforzò di comprendere, mentre un altro attacco di vertigini lo costringeva a chiudere gli occhi. «Ma perché nessuno dei frammenti ha colpito me o voi?» «Sono stata io a fermarli. Quando eravamo quasi a terra, li ho tenuti sospesi, poi li ho calati piano fino a terra: altrimenti si sarebbero infranti in mille schegge che ti avrebbero ucciso» dichiarò Arya con semplicità. Le sue parole tradirono il grande potere che aveva. Angela aggiunse amareggiata: «Già, e comunque ci è mancato poco. Ci sono volute tutte le mie capacità per mantenerti in vita.» Una fitta di inquietudine percorse Eragon, al ritmo della sua testa pulsante. La mia schiena.... Ma non sentiva fasciature intorno al corpo. «Da quanto sono qui?» chiese con trepidazione. «Soltanto un giorno e mezzo» rispose Angela. «Sei stato fortunato che io fossi nei paraggi, altrimenti ti ci sarebbero volute settimane per guarire... sempre che fossi sopravvissuto.» Allarmato, Eragon si tolse le coperte di dosso e protese una mano dietro la schiena per toccarsela. Angela gli afferrò il polso con una piccola mano, gli occhi colmi di apprensione. «Eragon... devi capire, i miei poteri non sono come i tuoi o quelli di Arya. Dipendono dalle erbe e dalle pozioni. Ci sono dei limiti a ciò che posso fare, specie con una...» Eragon si liberò con uno strattone e allungò le dita dietro la schiena, tastandosi la pelle. Era liscia e calda, intatta. I muscoli si flettevano sotto i polpastrelli mentre si muoveva. Fece scivolare la mano più su, verso la nuca, e trovò un bozzo duro, largo mezzo pollice. Lo seguì verso il basso con orrore crescente. Il colpo di Durza gli aveva lasciato una profonda ferita che si allungava dalla spalla destra fino al fianco sinistro. Gli occhi di Arya si colmarono di pietà mentre mormorava: «Hai pagato un prezzo terribile per il tuo gesto, Eragon Ammazzaspettri.» Murtagh rise una risata triste. «Già. Adesso siamo uguali.» Eragon si sentì sgomento, e chiuse gli occhi. Era marchiato. Poi ricordò qualcosa di quando era privo di sensi. Uno storpio che era sano... Togira Ikonoka. Aveva detto: Pensa a quello che hai fatto e rallegrati, perché hai liberato la terra da un grande male. Hai compiuto un’impresa che nessun altro avrebbe potuto compiere. Molti sono in debito con te... Vieni da me, Eragon, perché io ho le risposte che cerchi. Un senso di pace e di conforto lo pervase. Verrò. Glossario L’antica lingua Nota: Poiché Eragon non è ancora esperto dell’antica lingua, le sue parole e i suoi commenti non sono stati tradotti letteralmente, per risparmiare ai lettori la sua atroce grammatica. Tuttavia le citazioni di altri personaggi sono state lasciate intatte. Ai varden abr du Shur’tugals gata vanta: Un Guardiano dei Cavalieri chiede passaggio. Aiedail: la Stella del Mattino Arget: argento Argetlam: Mano d’Argento Atra giilai un ilian tauthr ono un atra ono waìse skòlir fra i rauthr: Che la fortuna e la felicità ti assistano e che tu possa essere protetta dalla sventura. Bòetq istalri!: Incendio, divampa! Breoal: famiglia; casa Brisingr: fuoco Deloi moi!: Terra, cambia! Delois: una pianta a foglie verdi e infiorescenze purpuree Domia abr Wyrda: Dominio del Fato (libro) Dras: città Draumr kòpa: Rifletti l’immagine. Du grind huildr!: Cancello, fermati! “Du Silbena Datia”: “Le Nebbie Sospiranti” (un canto poetico) Du Sùndavar Freohr: La Morte delle Ombre Du Vrangr Gata: Il Tortuoso Cammino Du Weldenvarden: La Foresta dei Guardiani Edoc’sil: inespugnabile Eitha: vai; parti Eka al fricai un Shur’tugal!: Sono un Cavaliere e un amico! Ethgrì: invoca Fethrblaka, eka weohnata néiat haina ono. Blaka eom iet lam: Uccello, non ti farò del male. Vola sulla mia mano. Garjzla: luce Gath un reisa du rakr!: Compatta e solleva la nebbia! Gedwéy ignasia: palmo luccicante Gèuloth du knìfr!: Smussa la lama! Helgrind: i Cancelli della Morte Iet: mio (informale) Jierda: spezza: colpisci Jierda theirra kalfis!: Spezzagli gli stinchi! Martin! Wyrda! Hugin!: Memoria! Fato! Pensiero! Moi stenr!: Pietra, cambia! Nagz reisa!: Coperta, sollevati! Osthato Chetowa: il Saggio Dolente Pòmnuria: mio (formale) Ristvak’baen: il Luogo del Dolore (ben usato qui e in Urù’baen, la capitale dell’Impero è sempre un’espressione che indica tristezza, sofferenza) Seithr: strega Shur’tugal: Cavaliere dei Draghi Skulblaka, eka celòba ono un mulabra ono un onr Shur’tugal né haina. Atra nosu waise fricai: Drago, ti rendo onore e non intendo fare del male né a te né al tuo Cavaliere. Ti chiedo amicizia. Slytha: dormi Stenr reisa!: Pietra, sollevati! Thrysta: spingi; comprimi Thrysta deloi: Comprimi la terra. Thverr stenr un atra eka hórna!: Attraversa la pietra e fammi sentire! Togira Ikonoka: lo Storpio Che è Sano Tuatha du orothrim: la Temperanza dello Sventato (uno dei livelli di addestramento dei Cavalieri) Varden: guardiani Vóndr: un ramoscello dritto e sottile Waise heill!: Guarisci! Wiol pòmnuria ilian: Per la mia felicità. Wyrda: fato; destino Yawé: pegno di fiducia La lingua dei nani Akh Guntéreaz dorzàda!: Per amor di Guntéra! Àz knurl deimi lanok: Attenzione, la roccia cambia. Barzul: maledizione, sventura Carkna bragha!: Grave pericolo! Dùrgrimst: clan (letteralmente il nostro casato, la nostra dimora) Egraz Carn: uomo calvo Farthen Dùr: Nostro Padre Hìrna: statua; effigie Ilf carnz orodiim: È il fato, l’obbligo di ciascuno Ingietum: metallurgici; fabbri Isidar Mithrim: Zaffiro Stellato Knurl: pietra; roccia Knurla: nano (letteralmente, uomo di pietra) Kóstha-mérna: Pie di Monte (un lago) Oei: sì; affermativo Otho:fede Sheilven: codardi Tronjheim: Elmo dei Giganti Voi Turin: la Scala Infinita La lingua degli Urgali Drajl: larve Ithro Zhàda (Orthiad): la Rovina dei Ribelli Kaz jtierl trazhid! Otrag bagh: Non attaccate! Circondatelo. Ushnark: padre Ringraziamenti Ho creato io Eragon, ma il suo successo è il risultato di entusiastici sforzi di amici, familiari, fan, bibliotecari, insegnanti, studenti, dirigenti scolastici, distributori, librai, e molti altri. Vorrei poterli citare tutti per nome, ma la lista è molto, troppo lunga. Voi sapete chi siete, e vi ringrazio! Eragon è stato pubblicato la prima volta all’inizio del 2002, dalla società editrice dei miei genitori, la Paolini International LLC. Avevano già pubblicato tre libri, e perciò ci è sembrato naturale fare lo stesso con Eragon. Sapevamo che Eragon sarebbe piaciuto a un vasto pubblico di lettori; la nostra sfida era diffondere la voce. Durante il 2002 e rinizio del 2003, ho viaggiato in lungo e in largo per gli Stati Uniti, partecipando a più di centotrenta presentazioni in scuole, librerie e biblioteche. Mia madre e io ci siamo occupati dell’organizzazione di tutti gli eventi. Al principio mi limitavo a due presentazioni al mese, ma via via che diventavamo più bravi, il nostro tour si è allargato tanto che mi sono ritrovato quasi sempre in viaggio. Ho conosciuto migliaia di persone meravigliose, molte delle quali sono diventate amiche e seguaci fedeli. Una di queste è Michelle Frey, che oggi è la mia editor di Knopf Books for Young Readers: fu lei che mi propose di acquistare Eragon. Inutile a dirsi, fui incantato all’idea che la Knopf fosse interessata al mio libro. Perciò ci sono due gruppi di persone che meritano i miei ringraziamenti. Il primo ha partecipato alla produzione dell’edizione di Eragon della Paolini International LLC, mentre il secondo è responsabile dell’edizione Knopf. Ecco le anime coraggiose che hanno contribuito alla nascita di Eragon. La banda originaria: mia madre, per la sua impagabile matita rossa e gli ineffabili consigli su virgole, virgolette, punti e virgola, e altre mostruosità del genere; mio padre per il suo spietato e prezioso lavoro di revisione e di messa a punto dei miei vaghi e indocili pensieri, per aver dato un formato elettronico al libro, progettato la copertina e ascoltato un numero insopportabile di presentazioni; nonna Shirley per avermi aiutato a creare un inizio e una fine soddisfacenti; mia sorella per i consigli sulla trama, per l’umorismo con cui ha accettato di essere raffigurata come un’erborista in Eragon, e per le lunghe ore passate a photoshoppare l’occhio di Saphira; Kathy Tyers per avermi fornito i mezzi per una brutale ma necessaria riscrittura dei primi tre capitoli; John. Taliaferro per la sua consulenza e la rilettura; un fan di nome Tornado Eugene Walker che ha intercettato un certo numero di errori di stampa nelle bozze; e Donna Overall per l’amore che ha dimostrato per la storia, per i suoi consigli di editing e uniformazione, e l’occhio scrupoloso per tutto ciò che riguarda ellissi, lineette, capoversi, rientri, paragrafi, ecc. Se esiste un vero Cavaliere dei Draghi, è lei, pronta ad accorrere in aiuto degli scrittori smarriti nelle Paludi delle Virgole. E ringrazio la mia famiglia per avermi sempre sostenuto di cuore, e per aver letto questa saga più volte di quanto un essere umano possa ragionevolmente sopportare. La banda nuova: Michélle Frey, che non solo si è così innamorata della storia da rischiare su un fantasy epico scritto da un adolescente, ma è anche riuscita a sveltire il ritmo di Eragon grazie al suo lungimirante lavoro di editing; il mio agente, Simon Lipskar, che mi ha aiutato a trovare la casa migliore per Eragon; Chip Gibson e Beverly Horowitz per la loro meravigliosa offerta; Lawrence Levy per il suo umorismo e i consigli legali; Judith Haut, un fenomeno della pubblicità; Daisy Kline per l’incredibile campagna di marketing; Isabel Warren-Lynch, che ha progettato la splendida copertina, l’interno e la mappa; John Jude Palencar, che ha dipinto l’immagine di copertina (ho dedicato a lui la Valle Palancar molto prima che lavorasse a Eragon; Artie Bennett, il decano dei revisori di bozze, l’unico essere umano vivente che ha capito la differenza tra divinare e indovinare; e tutta la squadra della Knopf che ha reso possibile questa avventura. Infine, un ringraziamento speciale ai miei personaggi, che hanno affrontato con coraggio i pericoli che li ho costretti a incontrare, e senza i quali non avrei avuto una storia. Che la vostra spada resti affilata!      Christopher Paolini