Preludio allo spazio Arthur C. Clarke I lettori conoscono già Arthur C. Clarke, che ha inaugurato la serie dei romanzi di Urania con «Le sabbie di Marte». Con lo stesso stile avvincente, la stessa precisione di scienziato, Arthur Clarke ci narra ora come gli esseri umani si preparino al primo volo nello spazio: destinazione Luna. Siamo nel 1980 circa. «Per migliaia d’anni» dice l’Autore «la razza umana si è diffusa sulla Terra, finchè l’intero globo non fu esplorato e colonizzato. Ora è arrivato il momento di fare il passo seguente e attraversare lo spazio. L’umanità deve sempre avere nuovi orizzonti, per non sprofondare nella decadenza. La Terra era grande abbastanza per gli uomini dei giorni della diligenza e della nave a vela, ma ora che possiamo farne il giro in poche ore è diventata troppo piccola… E questa conquista è possibile, perchè gli uomini hanno l’eredità del sapere che conquistarono dalla loro comparsa sulla Terra ad oggi. Durante tutti questi secoli, in lontani mondi, sotto soli stranieri, il Tempo ha preparato per l’Uomo i luoghi dove sorgeranno città nuove e uomini nuovi… Molti dei giovani di questa generazione assisteranno certo alla partenza della prima astronave per la Luna.» Questo libro vi farà vivere il momento che segnerà una nuova era per l’umanità, quando il primo uomo supererà la stratosfera per lanciarsi alla conquista degli spazi e delle stelle! Arthur C. Clarke Preludio allo spazio NOTA SULL’AUTORE Arthur Charles Clarke nasce a Minehead in Inghilterra il 16 dicembre 1917. Dopo essere stato istruttore nei radar della Raf, si laurea in matematica e fisica iniziando subito ad interessarsi di divulgazione scientifica. Il suo primo racconto di fantascienza viene pubblicato nel 1946, ma il suo anno boom è il 1951 in cui riesce a pubblicare ben tre romanzi. La popolarità arriva con la sceneggiatura, realizzata a quattro mani con il regista Stanley Kubrick, del film «2001: Odissea nello spazio», a cui fanno seguito altri due film. La sua carriera procede sui binari paralleli della narrativa, della divulgazione scientifica, della ricerca (aeronautica, astronautica e biologia marina). E’ l’ideatore del concetto dei satelliti per telecomunicazioni (che non ha mai pensato di brevettare). Dal 1956 si è trasferito nell’isola di Sri Lanka, da dove continua a tenersi in contatto via satellite, computer e teleconferenze con editori e amici. Prefazione al dopo-Apollo. Il 20 luglio 1969, tutti gli innumerevoli racconti di fantascienza nei quali si era fino a quel giorno narrato del primo sbarco sulla Luna si bloccarono nel tempo, come mosche intrappolate nell’ambra. Adesso noi possiamo riconsiderarli entro una nuova prospettiva, e con interesse veramente rinnovato: perché sappiamo come le cose andarono in realtà, e siamo quindi in grado di valutare l’esattezza di quelle previsioni. In verità — e contrariamente a quel che credono i più — la previsione non è il fine principale cui mirano gli scrittori di fantascienza. Pochi, e forse nessuno tra loro, ha mai asserito: «le cose andranno così». Essi sono per la maggior parte attenti al gioco delle invenzioni, allo sviluppo di nuove idee nel mondo delle scienze e delle scoperte. «E se…?» è il pensiero implicito in tutti gli scritti del genere. «E se l’uomo diventasse invisibile? E se riuscissimo a viaggiare nel futuro? E se ci fosse una vita intelligente in qualche punto dell’universo?» Questi sono i granelli iniziali attorno ai quali lo scrittore modella via via la sua modesta perla. Nessuno poi sarà più sorpreso di lui, se risulterà ch’egli aveva sicuramente previsto il disegno degli eventi futuri. Occorre tuttavia riconoscere che i racconti di viaggi nello spazio costituiscono eccezione a questa regola generale. Anche se le opere più remote, come per esempio «I viaggi sulla Luna e sul Sole» di Cyrano de Bergerac, erano frutto di pura fantasia, la maggior parte dei racconti scritti negli ultimi cent’anni si basavano quanto più possibile sull’esattezza della scienza e sulla prevedibilità dei progressi tecnologici. Chi li scriveva credeva davvero di prevedere il futuro, almeno nei suoi termini generali. E ancor più, i pionieri dell’astronautica usarono a suo tempo la fantasia nel deliberato tentativo di diffondere le loro idee nel grande pubblico. Konstantin Ziolkovskij, Hermann Oberth e Wernher von Braun hanno tutti scritto prima o poi di fantascienza spaziale. E con ciò essi non solo anticipavano il futuro, ma lo creavano. Debbo confessare di aver avuto anch’io nella mente siffatti concetti durante la fase ideativa di questo libro. Lo scrissi nel luglio del 1947, approfittando delle mie vacanze estive come studente al King’s College di Londra. La stesura concreta richiese venti giorni esatti, un primato di cui in seguito non sono più stato capace. Tanta celerità fu in gran parte dovuta al fatto che per più d’un anno avevo badato a fissare le linee del libro, sicché esso era già organicamente delineato nella mia testa ancor prima che mettessi mano alla penna. (E «penna» è il termine appropriato: infatti il testo originale, manoscritto su un certo numero di quaderni per esercitazioni che m’eran rimasti dal tempo in cui militavo nella Royal Air Force, si trova ora presso la Boston University Library.) Nei ventidue anni intercorsi tra la definitiva stesura di questo libro e lo sbarco effettivo sulla Luna, il nostro mondo è mutato fino a diventare quasi irriconoscibile. Le pagine che seguono possono forse servire come utile memento a segnalare il processo attraverso il quale anche l’opinione pubblica sui viaggi spaziali s’è man mano trasformata, in particolare negli Stati Uniti. Nel 1947 sembrava più che ragionevole fare di Londra la base per un Progetto Interplanetario; come dice uno dei miei personaggi inglesi: «Voi americani siete stati sempre alquanto tiepidi riguardo ai voli spaziali, e li avete presi in seria considerazione solo molti anni dopo di noi». Tale giudizio era valido ancora dieci anni dopo che avevo terminato questo libro: cioè, nell’ottobre del 1957, dopo il lancio dello «Sputnik». Oggi è molto difficile immaginare che ancora verso la fine degli anni Cinquanta molti tecnici americani addetti proprio al «settore della missilistica» si facevan beffe di ogni idea riferita al volo spaziale. Pur con alcune importanti eccezioni, il vessillo dell’astronautica fu retto da mani europee: o ex-europee, come Willy Ley, morto, ahimè, solo pochi giorni prima che «Apollo 11» confermasse nei fatti la validità delle idee da lui sognate per oltre un quarantennio. Le modeste cifre di denaro che io allora avevo considerate sufficienti allo sviluppo della ricerca spaziale potranno apparire oggi risibilmente patetiche. Nessuno avrebbe potuto immaginare a quel tempo che non solo milioni, bensì «miliardi» di dollari sarebbero stati stanziati annualmente per i voli spaziali, e che lo sbarco sulla Luna avrebbe rappresentato l’obiettivo primario perseguito da entrambe le Superpotenze mondiali. Ancora negli anni Quaranta appariva decisamente improbabile che i governi interessati fossero disposti a finanziare la ricerca spaziale prima che l’iniziativa privata avesse dimostrato l’attuabilità pratica di quegli inizi sperimentali. Personalmente, posso rivendicare al mio attivo la conferma di qualche modesta profezia da me a suo tempo avanzata: avevo previsto il primo impatto sul suolo lunare entro il 1959, e «Luna secondo» colpì un punto del Mare Imbrium alle ore 21,01 G.M.T. del 13 settembre 1959. Ero a Colombo e attraverso il mio telescopio Questar osservavo con animo pieno di speranza la Luna che tramontava nelle acque dell’Oceano Indiano: ma non riuscii a scorgere alcunché. «Prelude to Space» fu scritto appena due anni dopo il mio testo del 1945 sui satelliti per comunicazione sincroni, e fu quindi il primo lavoro di fantasia in cui veniva considerata l’idea dei «comsats», o «communications satellites». Ho ragione di credere che essa possa in una certa misura aver influito sugli uomini che avrebbero poi trasferito nella realtà un tale sogno. Una previsione di cui molto mi compiaccio è quella contenuta nella frase: «Oberth — ora vecchio di ottantaquattro anni — aveva avviato quella reazione a catena che, lui vivente, avrebbe dato effetto alle prime traversate spaziali». Su un’autorevole rivista degli anni Trenta, il relatore, sottoponendo a disamina le proposte di Oberth, beffardamente concludeva concedendo che sì, quelle proposte potevano forse divenir realtà «prima che l’intero genere umano si fosse estinto sulla faccia della Terra». Ebbene, io sono lieto di attestare che Hermann Oberth, quell’anno non più che settantacinquenne, assistette di presenza al lancio di «Apollo 11», avvenuto a Cape Kennedy, il 16 luglio del 1969. Durante la stesura di questo romanzo, ebbi la grande fortuna di poter accedere ai calcoli che i miei colleghi A.V. Cleaver e L.R. Shepherd (oggi direttore, il primo, del Settore Razzi della Rolls-Royce, chief-executive, il secondo, del Progetto per il reattore nucleare ad alta temperatura, denominato «Dragon») stavano effettuando sul problema della propulsione nucleare dei razzi. Tali dati furono successivamente resi pubblici nel loro classico studio «Il razzo atomico» che apparve sul «Journal of the British Interplanetary Society» per il periodo settembre 1948 — marzo 1949 e fu antesignano in tale ordine di ricerche. Pur se il razzo a propulsione atomica ha richiesto più tempo del previsto prima di diventare una realtà effettiva, prove a piena potenza su prototipi al suolo sono già state effettuate fin dal 1964. I modelli in grado di muoversi nello spazio saranno pronti al momento in cui saranno necessari per affrontare il volo su Marte. In questo mio racconto io ho anticipato nella finzione il ricorso alle tecniche degli appuntamenti orbitali e in particolare, il reimpiego dei «boosters», cioè dei razzi vettori da lanciarsi e rilanciarsi più volte. La mia fantasia non è riuscita a immaginare veicoli del costo di milioni di dollari, come il modulo lunare e il razzo vettore «Saturno 5», destinati l’uno e l’altro a essere eliminati dopo una singola missione. E tuttavia il futuro del volo spaziale poggia su concetti simili a quelli qui descritti: la politica, e non l’economia, hanno dato forma ai sistemi attuali, e la storia non tarderà molto a lasciarseli dietro le spalle. Le blande canzonature che avevo indirizzate al defunto dottor Clive Staples Lewis portarono in un secondo tempo a un’amichevole corrispondenza epistolare e a un incontro diretto che avvenne nel famoso Eastgate pub di Oxford, nel corso del quale Val Cleaver e io tentammo di dimostrare al dottor Lewis (e al suo collega, professor J.R.R. Tolkien) quanto inverosimile fosse il convincimento che attribuiva a ogni aspirante astronauta disposizioni malevole simili a quelle del Weston di «Out of the Silent Planet» (traduzione italiana «Lontano dal pianeta silenzioso»). Lewis finì con l’indursi a un volonteroso compromesso considerando che, se pur pessimi soggetti, quali probabilmente eravamo, il mondo tuttavia sarebbe stato un luogo d’insopportabile uggia se ogni essere umano fosse stato buono. Per quanto sia ben consapevole che ogni propaganda è nemica dell’arte, sono tuttavia orgoglioso del fatto che il tema principale di questa narrazione è il proposito di mostrare quanto assurda sia la volontà di trasferire oltre i limiti della nostra atmosfera le rivalità nazionali. Nel 1947 riassunsi questo concetto nella frase: «Non porteremo frontiere nello spazio». Esattamente venti anni dopo, il Trattato sullo Spazio dell’ONU vietava qualunque forma di rivendicazione nazionale sui corpi celesti. Il trattato fu firmato molto tempestivamente. Solo due anni dopo, Neil Armstrong ed Edwin Aldrin avrebbero scoperto la targa su cui era dichiarato: Qui uomini provenienti dal pianeta Terra misero piede per la prima volta sulla Luna, nel luglio 1969. Siamo venuti con sentimenti di pace a nome dell’umanità tutta. Il preludio è ormai finito. L’atto principale sta per cominciare. E dunque, strizzando amichevolmente l’occhio a Marte, mettiamo in prospettiva Giove… New York 4 agosto 1969. Arthur C. Clarke. 1 Dirk Alexson mise giù il libro e salì la corta rampa che portava al ponte di osservazione. Era ancora troppo presto per vedere la terra, ma l’approssimarsi della fine del viaggio lo aveva reso irrequieto e incapace di concentrarsi. Si avvicinò agli stretti e ricurvi finestrini che si aprivano sul bordo di attacco della grande ala e guardò giù all’oceano informe. Non c’era assolutamente nulla da vedere: da quell’altezza anche la più poderosa tempesta atlantica sarebbe stata invisibile. Osservò per un po’ il grigiore uniforme sottostante, poi si avvicinò allo schermo radar a disposizione dei passeggeri. La linea di luce rotante sullo schermo aveva cominciato a segnalare i primi deboli echi all’estremità del suo raggio. La terra era lì, avanti, a dieci miglia sotto e a duecento miglia di distanza — quella terra che Dirk non aveva mai visto, sebbene a volte fosse per lui più reale del paese in cui era nato. Da quelle rive ora invisibili, più di quattrocento anni prima, i suoi antenati erano partiti verso il Nuovo Mondo alla ricerca di libertà o di fortuna. Ora lui stava ritornando, stava attraversando in meno di tre ore le vastità sulle quali essi avevano faticato per diverse, stremanti settimane. E veniva in una missione che essi, neppure nelle loro più sfrenate fantasie, avrebbero mai immaginato. L’immagine luminosa del Land’s End si era spostata a metà dello schermo radar quando Dirk riuscì a intravedere la linea costiera che avanzava, una striscia scura che quasi si perdeva nelle brume dell’orizzonte. Sebbene non avesse avvertito alcun mutamento di direzione, sapeva che l’aereo di linea ora aveva iniziato la lunga discesa verso l’aeroporto di Londra, a quattrocento miglia di distanza. In pochi minuti avrebbe udito di nuovo, debole ma infinitamente rassicurante, il sibilo rombante dei grandi getti allorché l’aria attorno a lui si fosse ispessita e avesse portato nuovamente alle sue orecchie la loro musica. La Cornovaglia era una macchia grigia che scompariva dietro di loro troppo in fretta perché se ne potessero vedere i dettagli. Per quello che era visibile da lì, re Marco sarebbe potuto essere ancora laggiù, sulle impietose rocce in attesa della nave che avrebbe portato Isotta, e Merlino intento a parlare con i venti e a pensare al proprio destino. Da quell’altezza la terra avrebbe avuto lo stesso aspetto di quando i muratori avevano messo l’ultima pietra alle mura di Tintagel. Ora l’apparecchio stava abbassandosi verso un panorama nebuloso così bianco e abbacinante da far male agli occhi. In un primo momento era sembrato rotto solo da piccole, lievi ondulazioni, ma ora, mentre si levava verso di lui, Dirk si rese conto che le montagne di nubi sottostanti erano di dimensioni himalaiane. Un attimo dopo i picchi erano sopra di lui e l’aereo stava attraversando un enorme passaggio fiancheggiato su entrambi i lati da imponenti pareti di neve. Sbatté involontariamente le palpebre nel vedersi venire addosso quelle bianche scogliere e poi si rilassò quando le nuvole li ebbero circondati tutti e lui non vide più nulla. Lo strato doveva essere stato molto spesso perché aveva appena colto un bagliore di Londra quando avvertì lo choc smorzato dell’atterraggio. Poi i rumori del mondo esterno gli irruppero nella mente — le voci metalliche degli altoparlanti, lo sbattere dei portelli e, al di sopra di tutto questo, l’attutirsi del frastuono delle grandi turbine prima che si fermassero lentamente. Il cemento bagnato, i veicoli in attesa e le grigie nubi basse cancellarono l’ultima impressione di avventura romanzesca. Piovigginava e, quando un trattore ridicolmente piccolo trascinò via il grande veicolo, i suoi fianchi luccicanti lo fecero sembrare una creatura dei mari profondi piuttosto che dei cieli aperti. Dagli alloggiamenti dei getti salivano piccole folate di vapore mentre l’acqua scivolava sull’ala. Con suo grande sollievo, Dirk trovò qualcuno ad accoglierlo alla barriera dei passeggeri. Dopo che il suo nome fu controllato sulla lista dei passeggeri, un uomo robusto e di mezza età gli andò incontro con la mano protesa. «Dottor Alexson?» Felice di conoscervi. Mi chiamo Matthews. Vi accompagno al Quartier Generale a Southbank; devo occuparmi genericamente di voi durante il vostro soggiorno a Londra.» «Mi fa piacere sentirvelo dire» disse sorridendo Dirk. «Suppongo di dover ringraziare McAndrews di questo, vero?» «Vero. Io sono l’assistente alle Pubbliche Relazioni. Ecco, date a me il bagaglio. Useremo la metropolitana; è il mezzo più veloce — e il migliore, dal momento che permette di raggiungere il centro della città senza doversi fare tutta la periferia. Però c’è un inconveniente.» «E quale sarebbe?» Matthews sospirò. «Sareste sorpreso se vi dicessi quanti sono i visitatori che, dopo aver attraversato sani e salvi l’Atlantico, scompaiono nell’underground per non essere mai più rivisti.» Matthews non aveva affatto sorriso nel dare questa poco probabile notizia. Come Dirk avrebbe avuto modo di scoprire, il suo malizioso senso dell’umorismo sembrava accompagnarsi a una totale incapacità di ridere. Una combinazione assolutamente sconcertante. «C’è una cosa che non mi è chiara affatto» cominciò Matthews, mentre il lungo treno rosso si avviava fuori del terminal. «Molti scienziati americani vengono qui da noi, ma mi par di capire che la scienza non sia il vostro campo.» «No, io sono uno storico.» Matthews inarcò le sopracciglia in una domanda quasi udibile. «Penso che debba apparirvi piuttosto strano» continuò Dirk «ma è abbastanza logico. Nel passato, quando la storia veniva fatta, era raro che ci fosse qualcuno in grado di registrarla adeguatamente. Oggigiorno, naturalmente, abbiamo i giornali e il cinema — ma è sorprendente sapere quanti importanti aspetti vengano trascurati semplicemente perché tutti al momento li danno per scontati. Bene, il progetto al quale voi state lavorando è il più grande della storia e, se avrà successo, cambierà il futuro come forse nessun altro singolo evento ha mai fatto. E così la mia università ha deciso che ci sarebbe dovuto essere come testimone uno storico di professione che riempisse i vuoti trascurati da altri.» Matthews annuì. «Sì, è abbastanza ragionevole. Inoltre, sarà anche un piacevole cambiamento per noi non-scienziati. Siamo piuttosto stufi di conversazioni nelle quali tre parole su quattro sono costituite da simboli matematici. Comunque, suppongo voi abbiate una buona preparazione tecnica alle spalle, vero?» Dirk sembrò un po’ a disagio. «A dire il vero» confessò «sono quasi quindici anni che non ho a che fare con la scienza — e nemmeno allora l’ho mai presa molto seriamente. Dovrò imparare passo passo quello che mi serve.» «Non preoccupatevi, abbiamo un corso accelerato per uomini d’affari stanchi e politici perplessi che vi offrirà tutto quanto vi necessita. E sarete sorpreso di scoprire quanto riuscirete ad apprendere semplicemente ascoltando i Boffin che tengono banco.» «I Boffin?» «Santo Dio! Non conoscete questa parola? Risale alla Guerra e indica tutti gli scienziati cervelloni che girano col regolo nel taschino del panciotto. Sarà meglio vi avverta subito che qui usiamo un vocabolario del tutto privato che dovrete apprendere. Nel nostro lavoro sono tante le idee e tanti i concetti nuovi, che abbiamo dovuto inventare parole nuove. Vi sareste dovuto portare appresso anche un filologo.» Dirk era silenzioso. C’erano momenti in cui la pura immensità del suo compito quasi lo sopraffaceva. A un dato momento dei prossimi sei mesi il lavoro che migliaia di uomini avevano svolto per più di mezzo secolo avrebbe toccato l’apice. Sarebbe stato suo dovere, e suo privilegio, esser presente quando la storia fosse stata fatta laggiù, nel deserto australiano all’altro capo del mondo. Egli avrebbe dovuto guardare quegli eventi attraverso gli occhi del futuro e registrarli in modo che nei secoli a venire altri uomini avrebbero potuto ricatturare lo spirito dell’epoca e del tempo. Emersero alla stazione New Waterloo e camminarono per qualche centinaio di metri prima di arrivare al Tamigi. Matthews aveva avuto ragione nel dire che quello era il modo migliore per far la conoscenza di Londra per la prima volta. La spaziosa curvatura del nuovo e bell’Embankment, che risaliva a soli vent’anni prima, catturò lo sguardo di Dirk, che si posò sul fiume spostandosi fino a quando si bloccò sulla cupola di Saint Paul che luccicava, bagnata, sotto un inaspettato raggio di sole. Spostò gli occhi a monte, al di là delle bianche e grandi costruzioni prima di Charing Cross, ma le Camere del Parlamento erano rese invisibili dalla curva del Tamigi. «Una bella vista, eh?» disse Matthews. «Ora ne siamo piuttosto orgogliosi, ma trent’anni fa questa zona era un orrendo guazzabuglio di moli e argini fangosi. Tra l’altro, vedete quella nave laggiù?» «Intendete quella attraccata sull’altra sponda?» «Sì. Sapete che cos’è?» «Non ne ho idea.» «E’ la «Discovery» che all’inizio del secolo portò il capitano Scott nell’Antartide. Spesso, quando vengo al lavoro, la guardo e mi domando che cosa avrebbe pensato lui del viaggetto che «noi» stiamo progettando.» Dirk osservò con aria assorta l’aggraziato scafo di legno, gli alberi snelli e il consunto fumaiolo. La sua mente scivolò nel passato nel modo facile di sempre e gli parve che il lungofiume fosse sparito e che la vecchia nave stesse inoltrandosi, fumando, entro le pareti di ghiaccio, verso una terra sconosciuta. Capiva ciò che provava Matthews e all’improvviso in lui fu molto forte il senso della continuità storica. Il filo che da Scott risaliva a Drake e a Raleigh e a viaggiatori ancor precedenti non era stato spezzato: era cambiata solo la scala delle cose. «Eccoci qui» disse Matthews in tono di orgoglio in cui si avvertiva un accenno di scusa. «Non è imponente come potrebbe, ma quando l’abbiamo costruito non avevamo molto denaro. Se è per questo, non è che ora ne abbiamo.» L’edificio bianco a due piani di fronte al fiume era privo di pretese, ed era stato manifestamente costruito solo pochi anni prima. Era circondato da grandi prati aperti, appena ricoperti da un manto d’erba non troppo rigogliosa. Dirk si disse che probabilmente erano già destinati a future costruzioni. Sembrava che anche l’erba si fosse resa conto di ciò. Tuttavia, visto come andavano le cose nel campo dell’edilizia amministrativa, il Quartier Generale non era poi male, e la vista sul fiume era decisamente molto bella. Sulla facciata all’altezza del secondo piano correva una fila di lettere dalle linee severe e rigorosamente pratiche come il resto dell’edificio. Formavano un’unica parola, ma nel vederla Dirk provò uno strano fremito nelle vene. In certo qual modo sembrava fuori posto lì, nel cuore di una grande città, dove milioni di individui erano presi dalle vicende della vita quotidiana. Era fuori posto quando la «Discovery» si fermò sull’altra sponda, alla fine del suo lungo viaggiare — e parlava di un viaggio ben più lungo di altri che essa o qualunque altra nave avesse mai fatto: INTERPLANETARY. 2 L’ufficio era piccolo e lui avrebbe dovuto dividerlo con due disegnatori giovani, ma si affacciava sul Tamigi e, quando era stanco dei rapporti e delle pratiche, poteva sempre posare lo sguardo sulla grande cupola che fluttuava sopra Ludgate Hill. Di tanto in tanto Matthews o il suo capo entravano a fare due chiacchiere, ma di solito lo lasciavano in pace, sapendo che era ciò che egli desiderava. Era ansioso di essere lasciato in pace fino a quando non avesse preso visione totale delle centinaia di rapporti e di libri che Matthews gli aveva procurato. La Londra del ventesimo secolo era ben lontana dall’Italia rinascimentale, ma le tecniche apprese quando scriveva la sua tesi su Lorenzo il Magnifico ora gli erano molto utili. Riusciva a capire, quasi con una sola occhiata, che cosa era irrilevante e che cosa doveva essere studiato con attenzione. Di lì a pochi giorni le linee generali della storia erano state completate e lui era già in grado di arricchirle di particolari. Il sogno era molto più antico di quanto avesse immaginato. Duemila anni prima i Greci avevano intuito che la Luna era un mondo non dissimile dalla Terra e nel secondo secolo dopo Cristo lo scrittore satirico Luciano aveva scritto il primo dei romanzi interplanetari. C’erano voluti più di diciassette secoli per colmare l’abisso tra la finzione e la realtà — e quasi tutti i progressi erano stati fatti negli ultimi cinquant’anni. L’era moderna era iniziata nel 1923, allorché un oscuro professore transilvano di nome Hermann Oberth aveva pubblicato un «pamphlet» intitolato: «Il Razzo nello Spazio Interplanetario». In esso egli aveva sviluppato per la prima volta la matematica del volo spaziale: sfogliando le pagine di una delle poche copie ancora esistenti, Dirk aveva stentato a credere che da un inizio così piccolo fosse conseguita una struttura così enorme. Oberth — ora un vecchio ottantaquattrenne — aveva dato l’avvio alla reazione a catena che, lui ancora vivente, avrebbe portato all’attraversamento dello spazio. Nel decennio prima della Seconda Guerra Mondiale i discepoli tedeschi di Oberth avevano perfezionato il razzo a combustibile liquido. Inizialmente anch’essi avevano sognato di conquistare lo spazio, ma quel sogno era stato dimenticato con l’avvento di Hitler. La città sulla quale così spesso gli occhi di Dirk si posavano recava ancora le cicatrici di quell’epoca, di trent’anni prima, quando i grandi razzi erano piombati dalla stratosfera in un tumulto di aria lacerata. Meno di un anno dopo si era levata quella cupa alba nel deserto del New Mexico, quando era parso che il Fiume del Tempo si fosse fermato per un attimo per poi avventarsi ribollente in un nuovo canale, verso un futuro mutato e ignoto. Con Hiroshima era venuta la fine della guerra e la fine di un’epoca: finalmente il potere e la macchina si erano uniti e la strada verso lo spazio si era aperta, sgombra. Era stata una strada ripida e c’erano voluti trent’anni per salirla — trent’anni di trionfi e di strazianti delusioni. E, man mano che conosceva gli uomini che lo attorniavano e ascoltava i loro racconti e le loro conversazioni, Dirk aggiungeva dettagli personali che rapporti e riassunti non avrebbero mai potuto fornire. «L’immagine televisiva non era troppo chiara, ma di secondo in secondo andava rafforzandosi fino a che ci ha dato una buona immagine. Quello fu il più grosso brivido della mia vita — essere il primo uomo che vedeva l’altra faccia della Luna. Andarci sarà un po’ deludente.» «… l’esplosione più spaventosa che si sia mai vista. Quando ci siamo alzati ho sentito Goering dire: «Se questo è il meglio che siete in grado di fare, comunicherò al Fuhrer che l’intera faccenda è stata uno spreco di denaro». Avreste dovuto vedere la faccia di von Braun…» «La KX 14 è ancora lassù: compie un’orbita ogni tre ore, il che è proprio quello che volevamo. Ma la dannata radiotrasmittente si è guastata al momento del lancio, cosicché abbiamo finito per non avere mai i dati registrati dagli strumenti.» «Io stavo guardando attraverso il riflettore da 12 pollici quando quella massa di polvere di magnesio ha colpito la Luna, a circa quindici chilometri da Aristarco. Se si dà un’occhiata verso il tramonto si può benissimo vedere il cratere che ha scavato.» Qualche volta Dirk invidiava quegli uomini. Loro avevano uno scopo nella vita, anche se si trattava di uno scopo che lui non riusciva a capire appieno. Mandare le loro grandi macchine a migliaia di miglia nello spazio doveva dar loro un senso di potere. Ma il potere era pericoloso e spesso corrompeva. C’era da fidarsi delle forze che esse avrebbero riportato nel mondo? E del mondo stesso quando le avesse avute? Malgrado il suo background intellettuale, Dirk non si sentiva del tutto libero dalla paura della scienza che si era diffusa dal periodo delle grandi scoperte dell’era vittoriana. Nel suo nuovo ambiente si sentiva non solo isolato, ma a volte anche un po’ nervoso. Le poche persone con cui parlava erano invariabilmente pronte a dargli aiuto ed educate, ma una certa timidezza e la sua preoccupazione di riuscire a padroneggiare nel più breve tempo possibile i presupposti storici dell’argomento lo tenevano lontano da qualsiasi coinvolgimento sociale. L’atmosfera dell’organizzazione gli piaceva, era democratica in modo quasi aggressivo, e più avanti gli sarebbe stato abbastanza facile conoscere tutte le persone che voleva. Al momento, gli unici contatti che Dirk aveva con chiunque fosse fuori del dipartimento delle Pubbliche Relazioni avvenivano durante le ore dei pasti. La piccola mensa dell’Interplanetary era frequentata, a turni, da tutto il personale, dal direttore generale in giù. Era gestita da un gruppo molto intraprendente portato alla sperimentazione e, anche se di tanto in tanto avveniva qualche catastrofe culinaria, il cibo era di solito molto buono. Per quanto poteva dire Dirk, l’orgoglio con cui all’Interplanetary si vantavano di avere la miglior cucina del Southbank poteva essere pienamente giustificato. Dato che l’orario del pranzo di Dirk era, come Pasqua, una festa mobile, lui era solito incontrare ogni giorno facce nuove, e ben presto finì per conoscere di vista quasi tutti i membri importanti dell’organizzazione. Nessuno gli badava: l’edificio era pieno di uccelli di passo provenienti da università e società industriali di tutto il mondo ed era ovvio che lui era considerato come uno dei tanti scienziati in visita. Il suo college, attraverso le ramificazioni dell’ambasciata statunitense, era riuscito a trovargli un appartamentino ammobiliato a qualche centinaio di metri da Grosvenor Square. Ogni mattina lui raggiungeva a piedi la stazione di Bond Street e prendeva la metropolitana fino a quella di Waterloo. Aveva imparato presto a evitare la ressa del primo mattino, ma raramente arrivava molto più tardi dei numerosi «senior members» del personale dell’Interplanetary. Gli orari strani erano abituali nel Southbank: sebbene lui a volte restasse nell’edificio fino a mezzanotte, c’era sempre una qualche attività — i cui rumori di solito provenivano dai settori ricerche. Spesso, per schiarirsi le idee e fare un po’ di esercizio, andava a fare una passeggiata per i corridoi deserti prendendo mentalmente appunti sui settori interessanti che forse un giorno avrebbe visitato ufficialmente. Imparò su quel luogo molto di più in questo modo che non dal materiale illustrativo elaborato e molto corretto prestatogli da Matthews — e che si faceva di continuo reimprestare. Spesso Dirk vedeva attraverso porte semiaperte lo spettacolo rivelatore di laboratori e officine in gran disordine, nei quali tecnici dall’aria cupa se ne stavano seduti a fissare qualche apparecchiatura che manifestamente si rifiutava di comportarsi come dovuto. Se era molto tardi la scena era ammorbidita da una nube di fumo di tabacco e invariabilmente un bricco elettrico e una teiera malridotta occupavano il posto d’onore nei pressi. Di tanto in tanto Dirk arrivava nel mezzo di qualche trionfo tecnico e, se non ci stava attento, veniva invitato a festeggiare con quell’ambiguo liquido che i tecnici continuavano a preparare. Così giunse a scambiare un cenno del capo con moltissime persone, pur conoscendo il nome di meno di una dozzina di loro. A trentatré anni Dirk Alexson provava ancora una certa timidezza riguardo al mondo quotidiano che lo attorniava. Si sentiva più felice nel passato, tra i suoi libri e, anche se aveva visitato piuttosto estesamente gli Stati Uniti, aveva trascorso tutta la vita negli ambienti accademici. I colleghi lo consideravano un lavoratore solido e serio, con una capacità quasi intuitiva di arrivare a capo di situazioni complicate. Nessuno sapeva se sarebbe diventato un grande storico, ma il suo studio sui Medici era stato riconosciuto come importante. Gli amici non erano mai riusciti a capire come una persona dal temperamento piuttosto placido come lui avesse potuto analizzare con tanta meticolosità i motivi e il comportamento di quella esuberante famiglia. Pareva fosse stato il puro caso a portarlo da Chicago a Londra, e di ciò sembrava rendersi conto. Qualche mese prima l’influenza di Walter Pater aveva cominciato a svanire: il piccolo affollato palcoscenico dell’Italia rinascimentale aveva iniziato a perdere il proprio fascinose si poteva applicare un termine così blando a quel microcosmo di intrighi e di assassinii. Quella non era stata la prima volta che aveva cambiato interesse e temeva non sarebbe stata l’ultima, perché Dirk Alexson stava ancora cercando un lavoro al quale poter dedicare la propria vita. In un momento di depressione aveva confessato al suo Rettore che probabilmente solo nel futuro poteva esserci qualcosa che lo avrebbe veramente attratto. Quella lamentela casuale e semiseria aveva coinciso con una lettera della Fondazione Rockefeller e, ancor prima di rendersene conto, Dirk si era ritrovato in viaggio per Londra. Nei primi giorni era stato ossessionato dallo spettro della propria incapacità, ma ora sapeva che questo gli succedeva sempre quando iniziava un nuovo lavoro e la cosa aveva smesso di essere più di un’irritazione. Dopo circa una settimana pensava di aver ormai un’idea abbastanza chiara dell’organizzazione nella quale si era così inaspettatamente trovato. La fiducia cominciò a tornargli, dandogli modo di rilassarsi un po’. Sin dai tempi dell’università teneva un diario, anche se disordinatamente — di solito trascurato, tranne che in concomitanza di occasionali crisi —, e ora aveva ricominciato ad annotarvi le proprie impressioni e gli eventi quotidiani della propria vita. Questi appunti, scritti per se stesso, lo avrebbero messo in grado di dare un ordine ai propri pensieri e in seguito avrebbero potuto costituire la base per la storia ufficiale che un giorno avrebbe dovuto scrivere. «Oggi, 3 marzo 1978, sono a Londra esattamente da una settimana — e non ho visto nulla, tranne le zone attorno a Bond Street e a Waterloo. Quando il tempo è bello, Matthews e io siamo soliti andare a fare una passeggiata lungo il fiume, dopo pranzo. Attraversiamo il ponte «Nuovo» (costruito solo da una quarantina d’anni!) e camminiamo lungo il fiume secondo la direzione che in quel momento ci vien voglia di prendere, riattraversandolo di nuovo a Charing Cross o a Blackfriars. Ci sono un gran numero di variazioni a seconda che si vada in senso orario o antiorario. «Alfred Matthews è sulla quarantina, e io lo trovo molto gentile. Ha uno straordinario senso dell’umorismo, ma non l’ho mai visto sorridere — è completamente impassibile. Sembra conoscere il proprio lavoro molto bene — molto meglio, direi, di McAndrews, che si suppone sia il suo capo. Mac ha una decina di anni di più: come Alfred, dopo essersi laureato in giornalismo, è entrato nelle pubbliche relazioni. E’ una persona magra, dall’aria affamata, che di solito parla con un lieve accento scozzese che scompare completamente quando è eccitato. Questo dovrebbe dimostrare qualcosa, ma non riesco a immaginare che cosa. Non è una cattiva persona, ma non penso sia molto intelligente. E’ Alfred a fare tutto il lavoro e tra i due non c’è grande amore. A volte è difficile restare in buoni rapporti con entrambi. «La settimana prossima spero di cominciare a conoscere gente e di allargare il mio campo di indagine. In particolare voglio conoscere il personale — ma starò lontano dagli scienziati fino a quando non ne saprò un po’ di più sulla propulsione e sulle orbite interplanetarie. Alfred mi insegnerà tutto al riguardo la prossima settimana — così dice. Spero anche di scoprire come mai si sia formato un ibrido tanto straordinario come l’Interplanetary. Sembra un compromesso tipicamente britannico, e c’è ben poco sulla carta riguardo alla sua formazione e alla sua origine. L’intera istituzione è una massa di paradossi. Vive in una condizione di bancarotta cronica, eppure è responsabile di una spesa di circa dieci milioni all’anno (sterline, e non dollari). Il governo mette ben poco il becco nella sua amministrazione e, per certi versi, essa appare autocratica quanto la B.B.C. Ma quando viene attaccata in Parlamento (il che succede un mese sì e uno no) c’è sempre qualche ministro che scatta in piedi per difenderla. Forse, dopo tutto, Mac è un organizzatore migliore di quanto io immagini! «Ho detto che è «britannico», ma naturalmente non lo è. Circa un quinto dello staff è americano. In mensa però ho sentito ogni concepibile accento. E’ internazionale come lo è la segreteria delle Nazioni Unite, anche se sono gli inglesi a fornire la maggior parte della forza motrice e del personale amministrativo. Perché debba essere così non lo so, forse Matthews potrà spiegarmelo. «Un altro interrogativo: a parte gli accenti, è molto difficile trovare una vera distinzione tra le varie nazionalità. Ciò è forse dovuto alla natura sovrannazionale — per minimizzare — del loro lavoro? E se resterò abbastanza a lungo perderò anch’io le mie radici?» 3 Per cinque miglia, diritta come una freccia, la pista di metallo luccicante avanzava sulla distesa del deserto. Puntava verso nordovest in mezzo al cuore morto del continente, e all’oceano, e anche oltre. Su quella terra, una volta degli aborigeni, nel corso dell’ultima generazione molte strane forme si erano levate rombando. La più grande e la più potente di queste poggiava in fondo alla pista di lancio, lungo la quale si sarebbe avventata verso il cielo. In quella valle, tra le basse colline, dal deserto era sorta una piccola città. Una città costruita per uno scopo — rappresentato dalle cisterne di combustibile e dalla centrale elettrica in fondo alla pista di cinque miglia. Lì si erano riuniti scienziati e tecnici provenienti da tutti i Paesi del mondo. E lì la «Prometheus», la prima di tutte le navi spaziali, era stata assemblata nel corso degli ultimi tre anni. Il Prometeo della leggenda aveva portato il fuoco dal cielo sulla terra, la «Prometheus» inglese del ventesimo secolo avrebbe portato il fuoco atomico nella casa degli Dei e avrebbe dimostrato che l’Uomo con i propri sforzi si era finalmente liberato dalle catene che lo avevano tenuto ancorato al suo mondo per un milione di anni. Nessuno sembrava sapere chi avesse dato alla nave spaziale quel nome. In realtà, non si trattava di una nave singola, ma di due macchine separate. Con notevole mancanza di inventiva, i disegnatori avevano battezzato i due elementi che la componevano «Alpha» e «Beta». Solo la componente superiore era un vero razzo. «Beta», per darle il suo vero nome, era un «atodite ipersonico». Di norma, la maggior parte della gente lo chiamava autoreattore atomico, un modo più semplice e più espressivo al contempo. Era stata fatta molta strada per passare dalle bombe volanti della Seconda Guerra Mondiale alla «Beta» di 200 tonnellate che sfiorava l’atmosfera a migliaia di miglia orarie. Eppure entrambe operavano in base allo stesso principio: l’uso della velocità in avanti per fornire la compressione al getto. La differenza sostanziale stava nel combustibile. Le V-1 bruciavano idrocarburi; la «Beta» bruciava plutonio e la sua gittata era praticamente illimitata. Fino a quando le prese d’aria dinamiche avessero raccolto e compresso il tenue gas dall’alta atmosfera, la fornace al calor bianco della pila atomica l’avrebbe fatto erompere dai getti. Solo quando alla fine l’aria si fosse fatta troppo sottile per fornire potenza o supporto, essa avrebbe avuto bisogno di iniettare nella pila il metano dei serbatoi di combustibile, e con ciò sarebbe diventata un razzo puro. La «Beta» poteva abbandonare l’atmosfera, ma non avrebbe mai potuto sfuggire completamente alla Terra. Il suo compito era duplice. Il primo era quello di trasportare i serbatoi di combustibile nell’orbita attorno alla Terra e di lasciarveli a girare come piccole lune fino a quando fossero stati necessari. E solo quando ciò fosse avvenuto essa avrebbe spinto «Alpha» nello spazio. La nave più piccola a quel punto avrebbe fatto rifornimento in orbita libera attingendo ai serbatoi in attesa, quindi avrebbe acceso i motori per staccarsi dalla Terra e compiere il suo viaggio verso la Luna. Continuando a girare pazientemente, la Beta avrebbe atteso fino a che la nave spaziale fosse tornata. Alla fine del suo viaggio di mezzo milione di miglia, l’«Alpha» avrebbe avuto a stento combustibile sufficiente per entrare in un’orbita parallela. A questo punto, l’equipaggio e le attrezzature sarebbero stati trasferiti nella «Beta» in attesa, ancora fornita di combustibile sufficiente a riportarli sani e salvi sulla Terra. Era un progetto elaborato, ma, anche con l’energia atomica, era ancora l’unica strada praticabile per fare il viaggio attorno alla Luna con un razzo che pesava non meno di diverse migliaia di tonnellate. Inoltre, c’erano diversi altri vantaggi. «Alpha» e «Beta» avrebbero potuto svolgere i loro compiti separati con un’efficienza che nessuna nave singola avrebbe potuto sperare di portare a compimento. Era impossibile combinare in un unico veicolo la capacità di volare attraverso l’atmosfera terrestre e quella di atterrare sulla Luna priva d’aria. Quando fosse giunto il momento di effettuare il viaggio successivo, l’«Alpha» sarebbe stata lì a circolare attorno alla Terra, pronta ad essere rifornita nello spazio e rimessa in uso. Nessun viaggio successivo sarebbe mai stato difficile quanto lo era stato il primo. Perché ora ci sarebbero stati motori più efficienti; e più tardi ancora, quando fosse stata fondata la colonia lunare, sulla Luna vi sarebbero state stazioni di rifornimento. Poi sarebbe stato facile. I voli spaziali sarebbero diventati un’offerta commerciale — anche se ciò non sarebbe accaduto prima di mezzo secolo. Frattanto, la «Prometheus», alias «Alpha» e «Beta», luccicava sotto il sole australiano, mentre i tecnici lavoravano su di essa. Si stavano installando e controllando le ultime apparecchiature: il momento del suo destino era imminente. In capo a poche settimane, se tutto fosse andato bene, essa avrebbe portato le speranze e le paure dell’umanità nelle solitarie profondità al di là del Cielo. 4 «Mi stavo chiedendo» disse McAndrews «quando mi avreste posto questa domanda. La risposta è piuttosto complicata.» «Mi stupirei molto» rispose in tono asciutto Dirk «se fosse tortuosa quanto le macchinazioni della famiglia Medici.» «Forse no; fino ad ora non abbiamo usato l’assassinio, anche se spesso avremmo desiderato farlo. Signorina Reynolds, vi spiace prendere le telefonate mentre io parlo con il dottor Alexson? Grazie.» «Bene, come sapete, le fondamenta dell’astronautica — la scienza del viaggio spaziale — sono state poste abbastanza solidamente alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Le «V-2» e l’energia atomica avevano convinto quasi tutti che lo spazio poteva essere attraversato, qualora qualcuno avesse voluto farlo. In Inghilterra e negli States esistevano svariate società che sostenevano attivamente l’idea che dovessimo andare sulla Luna e sui pianeti. Hanno fatto progressi sicuri ma lenti fino agli anni Cinquanta, quando le cose hanno realmente cominciato a cambiare. «Nel 1959, come voi — ehm — forse ricorderete, il missile guidato dall’esercito americano, «Orphan Annie», ha colpito la Luna con a bordo venticinque libbre di polvere illuminante. Da quel momento il pubblico cominciò a rendersi conto che il viaggio spaziale non era qualcosa che appartenesse a un lontano futuro, ma avrebbe potuto diventare una realtà nel corso di una generazione. L’astronomia cominciò a sostituire la fisica atomica diventando la scienza prioritaria e la lista di iscrizione alle società missilistiche prese ad allungarsi di continuo. Ma un conto era lanciare un proiettile senza equipaggio sulla Luna, e tutt’altro farvi atterrare una nave spaziale vera e propria e riportarla sulla Terra. Alcuni pessimisti ritenevano che per questo sarebbe occorso ancora un centinaio di anni. «In questo Paese c’erano moltissime persone che non intendevano aspettare tanto. Ritenevano che l’attraversamento dello spazio fosse essenziale al progresso, come lo era stata quattrocento anni prima la scoperta del Nuovo Mondo. Esso avrebbe aperto nuove frontiere e dato alla razza umana un obiettivo così stimolante da mettere in ombra le differenze nazionali e da porre nella vera prospettiva i conflitti tribali dell’inizio del ventesimo secolo. Le energie che avrebbero potuto essere usate nelle guerre sarebbero state impiegate appieno nella colonizzazione dei pianeti — cosa che sicuramente ci avrebbe tenuti occupati per un bel po’ di secoli. Comunque questa era la teoria.» McAndrews fece un sorrisetto. «Naturalmente c’erano anche molti altri buoni motivi. Sapete quanto turbolento sia stato il periodo dell’inizio degli anni Cinquanta. La tesi del cinico riguardo al volo spaziale fu riassunta nella famosa frase: «L’energia atomica rende i viaggi interplanetari non solo possibili ma imperativi!». Fintanto che fosse rimasta confinata sulla Terra, l’umanità avrebbe avuto troppe uova in un unico cesto piuttosto fragile. «Tutto questo fu realizzato da un gruppo stranamente assortito di scienziati, scrittori astronomi pubblicisti e uomini d’affari nella vecchia Società Interplanetaria. Con un piccolissimo capitale, iniziarono la pubblicazione di «Spaceward», che si ispirò al successo della rivista americana «National Geographic Society». Ciò che la N.G.S. aveva fatto per la Terra ora, si sosteneva, avrebbe potuto essere fatto per il Sistema Solare. «Spaceward» fu un tentativo di rendere il pubblico «azionista», per così dire, della conquista dello spazio. Essa soddisfaceva i nuovi interessi per l’astronomia e coloro che vi si abbonavano avevano la sensazione di contribuire a finanziare il primo volo spaziale. «Alcuni anni prima questo progetto non sarebbe andato a buon fine, ma ora i tempi erano maturi. In pochi anni il numero degli abbonati in tutto il mondo raggiunse il quarto di milione e nel 1962 fu fondata la «Interplanetary», che aveva lo scopo di svolgere ricerche sui problemi del volo spaziale. Inizialmente essa non fu in grado di offrire gli stipendi dei grandi istituti missilistici sponsorizzati dal governo ma, a poco a poco, attirò i migliori scienziati. Costoro preferivano lavorare a un progetto costruttivo, anche con emolumenti inferiori, piuttosto che fare missili per il trasporto di bombe atomiche. I primi tempi l’organizzazione fu anche aiutata da qualche inatteso colpo di fortuna finanziario. Quando nel 1965 morì l’ultimo erede di una famiglia milionaria inglese, egli privò il Tesoro di quasi tutto il proprio patrimonio, facendone un Fondo Fiduciario a nostro uso. «Sin dall’inizio la «Interplanetary» fu un’organizzazione su scala mondiale ed è sostanzialmente dovuto al caso che il suo quartier generale si trovi a Londra. Avrebbe potuto benissimo essere in America e moltissimi dei vostri compatrioti sono tuttora molto seccati che non sia così. Ma per una qualche ragione voi americani siete stati sempre un po’ conservatori riguardo al volo spaziale e avete cominciato a prenderlo sul serio solo qualche anno dopo di noi. Comunque non ha importanza: i tedeschi ci hanno battuti entrambi. «Inoltre, dovete tener presente che l’America è un paese troppo piccolo per le ricerche astronautiche. Sì, lo so che sembra strano, ma se guarderete una carta che indichi la densità di popolazione capirete cosa intendo. Ci sono solo due posti al mondo veramente confacenti alla ricerca sui razzi a lungo raggio. Uno è il deserto del Sahara, e anche questo è un po’ troppo vicino alle grandi città europee, l’altro è il deserto dell’Australia occidentale dove, nel 1947, il Governo britannico iniziò a costruire il suo grande poligono missilistico. E’ lungo più di duemila miglia e al di là di esso vi sono altre duemila miglia di oceano il che fa un totale di oltre tremila miglia. In nessuna parte degli Stati Uniti è possibile lanciare con sicurezza un razzo anche per sole cinquecento miglia. Quindi è in parte per un caso geografico che le cose sono andate in questo modo. «Dove ero rimasto? Oh sì, al 1960 o giù di lì. Fu più o meno in quel periodo che iniziammo a diventare veramente importanti. Per due ragioni che non sono molto conosciute. A quel punto un intero settore della fisica nucleare era arrivato a una stasi. Gli scienziati della Atomic Development Authority ritenevano di poter iniziare la reazione idrogeno-elio — e non mi riferisco alla reazione tritio della vecchia bomba H — ma gli esperimenti cruciali erano stati molto saggiamente vietati. Nel mare c’è una bella quantità di idrogeno! E così i fisici nucleari se ne stavano tutti seduti a mangiarsi le unghie in attesa che noi fossimo in grado di costruire per loro laboratori nello spazio. Allora non avrebbe avuto importanza se qualcosa fosse andato male. Il sistema solare si sarebbe limitato ad acquisire un secondo sole e piuttosto provvisorio. L’ADA voleva anche che noi abbandonassimo i pericolosi prodotti di fissione delle pile, che erano troppo radioattivi perché si potessero tenere sulla Terra, ma che un giorno avrebbero potuto essere utili. «La seconda ragione non era altrettanto spettacolare, ma era forse di importanza ancor più immediata. Le grandi società radiofoniche e telegrafiche dovevano assolutamente uscire nello spazio, questo era l’unico modo in cui avrebbero potuto diffondere la televisione in tutto il mondo e fornire un servizio universale di comunicazione. Come ben sapete, le onde cortissime del radar e della televisione non assecondano la curvatura della Terra, ma viaggiano in linee praticamente rette, di modo che una stazione può mandare segnali solo fino all’orizzonte. Per superare questa difficoltà erano stati costruiti dei relé aerotrasportati, ma ci si rese conto che la soluzione finale sarebbe stata raggiunta solo quando fosse stato possibile costruire stazioni di ripetitori a migliaia di miglia sopra la Terra, lune artificiali che probabilmente avrebbero viaggiato in orbite di ventiquattro ore, cosicché sarebbero apparse ferme nel cielo. Senza dubbio voi avete letto tutto su queste idee, quindi ora non mi dilungherò su di esse. «E così, entro il 1970 circa ottenemmo il sostegno di alcune delle più grandi organizzazioni tecniche mondiali, con fondi praticamente illimitati. Erano state costrette a venire da noi, perché noi avevamo tutti gli esperti. Inizialmente purtroppo vi furono alcuni contrasti, e i Dipartimenti di Ricerca non ci hanno mai del tutto perdonato per aver sottratto loro tutti i migliori scienziati. Ma, nel complesso, andavamo abbastanza d’accordo con la ADA, la Westinghouse, la General Electric, la B.T.H. e le altre. Come probabilmente avrete notato, tutte hanno qui dei loro uffici. Sebbene ci diano sovvenzioni molto sostanziose, i servizi tecnici che ci forniscono sono assolutamente impagabili. Non penso che senza il loro aiuto saremmo arrivati dove siamo in vent’anni.» Seguì una breve pausa. E Dirk emerse da quel torrente di parole come uno spaniel che arranchi faticosamente fuori da un ruscello di montagna. McAndrews parlava troppo in fretta, ripetendo ovviamente frasi e interi paragrafi che riproponeva da anni. Dirk ebbe l’impressione che quasi tutto ciò che l’altro aveva detto provenisse da altre fonti e non fosse affatto originale. «Non avevo idea» disse «di quanto fossero estese le vostre ramificazioni.» «Credetemi, questo è ancora nulla!» esclamò McAndrews. «Penso che non esistano molte grandi industrie che non siano convinte che noi possiamo aiutarle in qualche modo. Le società di cavi risparmieranno centinaia di milioni quando potranno sostituire le loro stazioni e linee di terra con alcuni ripetitori nello spazio; l’industria chimica sarà…» «Oh, non lo metto in dubbio! Mi stavo chiedendo da dove venisse tutto il denaro e adesso capisco di che cosa grossa si tratta.» «Non dimenticate» lo interruppe Matthews, che se n’era stato seduto in un silenzio rassegnato «il nostro più importante contributo all’industria.» «E cioè?» chiese Dirk. «La possibilità di fornire vuoto ad alta gradazione per riempire lampadine elettriche e tubi elettronici.» «Tralasciando le solite facezie di Alfred» disse McAndrews in tono severo «è perfettamente vero che quando potremo costruire laboratori nello spazio la fisica in generale farà tremendi passi avanti. E potete immaginare con quanta impazienza gli astronomi attendono di avere osservatori che non siano mai disturbati dalle nuvole.» «Io so adesso» disse Dirk contando sulla punta delle dita ««come» sia nata la Interplanetary, e anche che cosa spera di fare. Ma trovo tuttora assai difficile definire esattamente che cosa è.» «Giuridicamente è un’organizzazione senza scopo di lucro («E come!» interferì Matthews sottovoce) il cui obiettivo è, come dice il suo statuto, «di effettuare ricerche sul volo spaziale!». Originariamente aveva ottenuto i fondi dalla Spaceward, ma questa non ha più legami ufficiali con noi, ora che è collegata alla National Geographic — anche se ne ha moltissimi non ufficiali. Oggi la maggior parte del denaro di cui disponiamo proviene da sovvenzioni governative e da società industriali. Quando i viaggi interplanetari avranno raggiunto la commercializzazione, come l’aviazione attuale, probabilmente noi evolveremo in qualcosa di diverso. Tutta questa faccenda presenta un mucchio di angolazioni politiche e nessuno può dire cosa succederà quando si comincerà a colonizzare i pianeti.» McAndrews fece una risatina, un po’ di scusa, un po’ di difesa. «Come probabilmente verrete a scoprire, in questo posto circolano molti sogni. Ci sono persone che pensano di dare l’avvio alla realizzazione di utopie scientifiche su mondi adeguati, e ogni sorta di cose del genere. Ma lo scopo immediato è puramente tecnico: dobbiamo scoprire come sono i pianeti, prima di decidere in che modo usarli.» Nell’ufficio calò il silenzio e per un attimo nessuno parve aver voglia di parlare. Per la prima volta Dirk si rese conto di quanto veramente immenso fosse l’obiettivo per il quale tutta quella gente lavorava. Si sentiva sopraffatto e piuttosto impaurito. L’umanità era pronta ad essere scaraventata nello spazio, pronta ad affrontare la sfida di mondi spogli e inospitali, mai conosciuti dall’uomo? Non poteva esserne sicuro, e nella profondità della propria mente si sentiva terribilmente turbato. 5 Visto dalla strada, il 53 di Rochdale Avenue, S.W.5 sembrava una di quelle residenze in stile neogiorgiano che gli agenti di borsa di maggior successo dell’inizio del ventesimo secolo avevano eretto a rifugio della propria vecchiaia. L’edificio era piuttosto arretrato rispetto alla strada, con prati e aiuole disposti con gusto, ma piuttosto trascurati. Quando il tempo era bello, come di tanto in tanto avvenne nella primavera del 1978 qualche volta si potevano vedere cinque giovanotti che eseguivano maldestri lavori di giardinaggio con attrezzi inadeguati. Era evidente che lo facevano solo per rilassarsi e che la loro mente era molto lontana da lì, quanto un passante mai avrebbe potuto indovinare. Era stato un segreto molto ben conservato, in gran parte perché gli stessi organizzatori del servizio di sicurezza erano ex giornalisti. Per quanto si sapeva, l’equipaggio della «Prometheus» non era stato ancora scelto, mentre di fatto il suo addestramento era iniziato più di un anno prima. Era proseguito con sommessa efficienza, a meno di cinque miglia da Fleet Street e purtuttavia assolutamente al riparo dalla curiosità sfrenata del pubblico. Era improbabile che vi fosse mai stata al mondo più di una manciata di uomini in grado di pilotare una nave spaziale. Nessun altro lavoro aveva mai richiesto quell’unica combinazione di caratteristiche fisiche e mentali. Il pilota perfetto doveva non solo essere un astronomo di prima classe, un esperto in ingegneria e uno specialista in elettronica, ma anche essere in grado di operare efficientemente sia quando era «in assenza di peso» sia quando l’accelerazione del razzo lo faceva pesare un quarto di tonnellata. Nessun singolo individuo avrebbe potuto soddisfare queste esigenze e vari anni prima era stato deciso che l’equipaggio di una nave spaziale doveva consistere di almeno tre uomini, due dei quali avrebbero dovuto essere in grado di rilevare i compiti del terzo in caso di emergenza. L’Interplanetary ne stava addestrando cinque; due erano riserve, in caso di qualche malattia sopraggiunta all’ultimo momento. Nessuno finora sapeva quali sarebbero state le due riserve. Pochi dubitavano che Victor Hassell sarebbe stato il comandante. A ventott’anni, era l’unico uomo al mondo ad aver accumulato oltre cento ore in caduta libera. Questo record era stato puramente accidentale. Due anni prima Hassell aveva portato in orbita un razzo sperimentale e aveva fatto trenta volte il giro della Terra prima di riuscire a riparare il guasto che si era creato nei circuiti di accensione, e a ridurre la velocità a sufficienza per tornare alla base. Il suo rivale più prossimo, Pierre Leduc, aveva a proprio merito solo venti ore di volo orbitale. Gli altri tre uomini non erano affatto piloti professionisti. Arnold Clinton, l’australiano, era ingegnere elettronico, nonché specialista in computers e controlli automatici. L’astronomia era rappresentata dal brillante giovane americano Lewis Taine, la cui prolungata assenza dall’osservatorio di Mount Palomar ora stava richiedendo elaborate spiegazioni. L’Atomic Development Authority aveva fornito James Richards, esperto in sistemi di propulsione nucleare. Essendo un maturo trentacinquenne, di norma veniva chiamato dai colleghi «nonno». La vita alla «nursery», come coloro che condividevano il segreto avevano battezzato il reparto, abbinava le caratteristiche del collegio, del monastero e della base operativa di bombardieri. Era colorata dalla personalità dei cinque «allievi» e dagli scienziati in visita che arrivavano in un flusso senza fine a impartire le loro conoscenze o, a volte, a riprendersele con gli interessi. Era una vita molto operosa, ma molto felice, perché aveva uno scopo, un obiettivo. C’era soltanto un’ombra, un’ombra inevitabile. Quando fosse venuto il momento di decidere, nessuno avrebbe saputo chi sarebbe stato abbandonato sulle sabbie del deserto, a guardare la «Prometheus» scomparire nel cielo fino a quando il rombo dei suoi getti non si fosse più sentito. Allorché Dirk e Matthews entrarono in punta di piedi nel fondo della stanza, era in pieno svolgimento una conferenza sull’astronavigazione. Il conferenziere lanciò loro un’occhiata ostile, ma i cinque uomini seduti attorno a lui non degnarono neppure di un’occhiata gli intrusi. Cercando di farsi notare il meno possibile, Dirk li studiò mentre la sua guida gli faceva i loro nomi bisbigliandoglieli sommessamente all’orecchio. Aveva riconosciuto Hassell dalle fotografie viste sui giornali, ma gli altri gli erano sconosciuti. Con una certa sorpresa, Dirk notò che non si conformavano a nessun tipo particolare. Le uniche cose che avevano in comune erano l’intelligenza, l’età e l’attenzione con cui seguivano. Di tanto in tanto ponevano domande al conferenziere e Dirk riuscì a capire che stavano discutendo delle manovre di atterraggio sulla Luna. Tutta la conversazione era talmente al di sopra delle sue possibilità che presto si stancò di ascoltare e fu felice quando Matthews gli fece un cenno interrogativo, indicando la porta. Quando furono in corridoio, si rilassarono e accesero una sigaretta. «Bene» disse Matthews «ora che avete visto le nostre cavie, che pensate di loro?» «Mi è difficile dare un giudizio. Mi piacerebbe incontrarli in modo informale e parlare un po’ con loro da soli.» Matthews fece un anello di fumo e restò a osservarlo pensoso mentre si spandeva nell’aria. «Non sarebbe una cosa facile. Come potete immaginare, non hanno molto tempo libero. Quando hanno finito qui, normalmente scompaiono dietro una cortina fumogena e ritornano in famiglia.» «Quanti di loro sono sposati?» «Leduc ha due figli; e così pure Richards. Vic Hassell si è sposato circa un anno fa. Gli altri sono scapoli.» Dirk si chiese che cosa pensassero le mogli dell’intera faccenda. Per un certo verso non sembrava giusto nei loro confronti. Si chiese anche se quegli uomini considerassero il proprio un normale lavoro o se provassero l’esaltazione — non c’era nessun’altra parola adatta — che ovviamente aveva ispirato i fondatori dell’Interplanetary. Adesso erano giunti a una porta sulla quale compariva la scritta: VIETATO L’ACCESSO — SOLO PER LO STAFF TECNICO! Matthews provò a spingerla ed essa si aprì. «Che sbadati!» esclamò. «E, a quanto sembra, qui attorno non c’è nessuno. Entriamo. Penso che questo sia il posto più interessante che io conosca, anche se non sono uno scienziato.» Quest’ultima era una delle frasi favorite di Matthews e, probabilmente, nascondeva un complesso di inferiorità ben controllato. In realtà lui e McAndrews sapevano di scienza molto più di quanto volessero far credere. Dirk lo seguì nella semioscurità e, quando l’altro ebbe schiacciato il pulsante e il locale fu illuminato dalla luce, ebbe un sussulto di stupore. Si trovava in una stanza-di-controllo, circondato da banchi di pulsanti e di misuratori. L’unico arredo era costituito da tre lussuosi sedili sospesi in un complesso sistema di giunti cardanici. Tese la mano a toccarne uno e questo prese a ondeggiare lievemente avanti e indietro. «Non toccate nulla» si affrettò ad ammonirlo Matthews. «Nel caso che non lo abbiate notato, noi non dovremmo essere qui.» Da una rispettosa distanza, Dirk esaminò lo spiegamento di pulsanti e comandi. Di alcuni, basandosi sull’etichetta apposta su di essi, poteva immaginare lo scopo, ma di altri assolutamente no. Di continuo comparivano le parole «Manuale» e «Auto». Quasi altrettanto diffuse erano «Combustibile», «Temperatura critica», «Pressione» e «Raggio dalla Terra». Altre, quali «Interruttore di emergenza», «Allarme Aereo» e «Sganciamento pila», avevano un sapore decisamente minaccioso. Un terzo e ancor più enigmatico gruppo forniva materiale a infinite speculazioni. «Alt. Trig. Sinc.», «Neut. Count» e «Video Mix» erano gli esempi più rappresentativi di questa categoria. «Ci sarebbe quasi da pensare» disse Matthews «che la casa sia pronta da un momento all’altro, vero?» Naturalmente è una simulazione della sala di controllo dell’«Alpha». Li ho visti addestrarsi lì ed è affascinante stare a osservarli, anche se non si capisce affatto cosa stia succedendo.» Dirk fece una risata un po’ forzata. «E’ un po’ surreale ritrovarsi davanti al pannello di controllo di una nave spaziale in una tranquilla periferia londinese.» «La settimana prossima non sarà tranquilla. Informeremo della cosa la stampa, e probabilmente saremo linciati per averla tenuta segreta per tanto tempo.» «La settimana prossima?» «Sì, se tutto va secondo i piani. A quel punto la «Beta» dovrebbe aver passato i tests finali di piena velocità e noi staremo preparando i bagagli per l’Australia. Tra l’altro, avete visto quei filmati dei primi lanci?» «No.» «Ricordatemi allora di mostrarveli — sono terribilmente impressionanti.» «Finora che ha fatto?» «Quattro miglia e mezza il secondo a pieno carico. Poco meno della velocità orbitale, ma tutto ha funzionato alla perfezione. E’ un peccato, però, che non si possa provare l’«Alpha» prima del vero volo.» «E quando lo si effettuerà?» «Non è stato ancora stabilito, ma sappiamo che il lancio verrà fatto quando la Luna entrerà nel primo quarto. La nave allunerà nella regione del Mare Imbrium quando è ancora primo mattino. Il rientro è stabilito per il tardo pomeriggio, quindi avranno circa dieci giorni terrestri di tempo.» «Perché il Mare Imbrium in particolare?» «Perché è piatto, ne è stata fatta una mappa accurata, e offre uno degli scenari più interessanti della Luna. Inoltre, le navi spaziali sono «sempre» atterrate lì dai tempi di Jules Verne. Immagino sappiate che il suo nome significa «Mare delle Piogge».» «Molto tempo fa me la cavavo piuttosto bene in latino» disse Dirk in tono asciutto. Matthews arrivò più vicino al punto di sorridere di quanto lo fosse mai stato fino a quel momento. «Me lo immagino. Ma andiamocene di qui prima che ci scoprano. Visto abbastanza?» «Sì, grazie. E’ un po’ sconvolgente, ma non molto peggio della carlinga di un jet transcontinentale.» «Lo sarebbe se sapeste che cosa succede dietro tutti quei pannelli» disse Matthews cupamente. «Arnold Clinton — il re dell’elettronica — una volta mi ha detto che soltanto nei circuiti di calcolo e comando vi sono tremila valvole. E ve ne debbono essere svariate centinaia nelle apparecchiature di comunicazione.» Dirk quasi non lo stava sentendo. Aveva cominciato a rendersi conto, per la prima volta, di come stesse rapidamente scorrendo la sabbia del tempo. Quando era arrivato, quindici giorni prima, il lancio gli era sembrato un evento remoto che si sarebbe verificato in un futuro indefinito. Questa era l’impressione generale del mondo esterno; ora sembrava completamente falsa. Si girò verso Matthews, in preda a un sincero stupore. «Il vostro Dipartimento di Pubbliche Relazioni» si lamentò «a quanto pare ha sviato tutti con molta efficienza. Qual era lo scopo?» «Una semplice questione di politica» rispose l’altro. «Nei tempi andati dovevamo parlare molto e fare promesse spettacolari per riuscire ad attirare l’attenzione. Ora preferiamo dire il meno possibile, fino a quando tutto non sia bell’e pronto. E’ l’unico modo per evitare voci assurde e fantastiche e il conseguente senso di delusione. Ricordate la KY 15? Fu la prima nave con equipaggio che raggiunse un’altitudine di un migliaio di miglia, ma mesi prima che fosse pronta, tutti pensavano che stessimo per mandarla sulla Luna. E quindi, quando essa fece esattamente ciò per cui era stata approntata, ovviamente tutti rimasero delusi. Perciò oggi a volte definisco il mio ufficio il «Dipartimento della Pubblicità in Negativo». Sarà davvero un sollievo quando l’intera faccenda sarà finita e potremo rimetterci in moto.» Questo, pensò Dirk, era un modo molto egoistico di vedere le cose. A lui sembrava che i cinque uomini che aveva appena visto avessero ben migliori motivi per desiderare che «l’intera faccenda fosse finita». 6 «Finora» scrisse sul diario Dirk quella sera «ho avuto solo un assaggio dell’Interplanetary. Matthews mi ha fatto orbitare attorno a sé come un pianeta minore devo raggiungere la velocità parabolica e scappare altrove. (Sto cominciando a impadronirmi del linguaggio, come lui aveva previsto!) La gente che ora voglio conoscere è costituita dagli scienziati e dagli ingegneri che sono la vera forza propulsiva dell’organizzazione. Che cosa li muove, per dirla in parole crude? Sono semplicemente una massa di Frankenstein interessati unicamente a un progetto tecnico, senza alcuna considerazione per le sue conseguenze? Oppure loro vedono invece, forse più chiaramente di McAndrews e Matthews, dove porterà tutto questo? M. e M. a volte mi ricordano una coppia di agenti immobiliari che cercano di vendere la Luna. Stanno facendo un lavoro, e lo stanno facendo bene ma qualcuno, inizialmente, deve averli ispirati. E, in ogni caso, sono a un secondo grado gerarchico. «Il Direttore Generale, il giorno in cui sono arrivato e ci siamo intrattenuti per cinque minuti, mi è sembrato una personalità molto interessante — ma è difficile che io possa andare da lui a catechizzarlo! Il suo vice sarebbe stato l’ideale, dal momento che siamo entrambi californiani, ma lui non è ancora tornato dagli States. «Domani prenderò visione del corso «Astronautica Senza Fatica», che Matthews mi aveva promesso al mio arrivo. Dovrebbe trattarsi di una pellicola didattica in sei rotoli, e non ho potuto vederla prima perché nessuno in questa serra di geni è stato capace di riparare un proiettore da 35 millimetri. Quando lo avrò visto tutto, Alfred giura che sarò in grado di poter dire la mia con gli astronomi. «Da bravo storico, suppongo che non dovrei avere pregiudizi di sorta e che dovrei essere capace di guardare l’attività dell’Interplanetary con occhio spassionato. Non sta andando così. Ho cominciato a preoccuparmi sempre di più delle conseguenze finali di questo lavoro e le banalità che Alfred e Mac continuano a tirar fuori non mi soddisfano affatto. Suppongo che sia così, perché ora sono ansioso di arrivare a conoscere i più eminenti scienziati e di apprendere i loro punti di vista. Allora forse potrò giudicare, ammesso che il mio lavoro consista nel giudicare. ««Più tardi». Certo che è il mio lavoro. Basta guardare Gibbon, basta guardare Toynbee. Se uno storico non trae conclusioni (giuste o sbagliate) si riduce a essere un archivista. ««Ancora più tardi». Come avevo potuto dimenticare? Stasera sono andato in Oxford Circus con uno dei nuovi autobus a turbina. Sono molto silenziosi, ma se ci si mette in ascolto con attenzione si può sentirli cantare tra sé in una vaga e molto alta tonalità di soprano. I londinesi ne sono oltremodo orgogliosi, dal momento che sono i primi al mondo ad averli. Non capisco come mai una cosa semplice come un autobus abbia potuto richiedere, per essere realizzato, lo stesso tempo di una nave spaziale, ma loro mi dicono che è così. Qualcosa che ha a che vedere con l’economia ingegneristica. «Ho deciso di raggiungere a piedi l’appartamento e, uscendo da Bond Street, ho visto una carrozza dorata e trainata da cavalli che sembrava saltar fuori dritta dritta dal Pickwick. Stava portando la merce di un certo sarto, credo, e sulla scritta ornamentale si leggeva: «Fond. 1768». «Questo genere di cose fa sì che per gli stranieri i britannici appaiano gente sconcertante. Naturalmente McAndrews avrebbe detto che sono gli inglesi, non i britannici, i pazzi — ma io mi rifiuto di fare questa sottile distinzione.» 7 «Voi mi scuserete se vi lascio» disse Matthews «ma, sebbene sia un film molto bello, farei crollare il palazzo con le mie urla se dovessi rivederlo per l’ennesima volta. A occhio e croce, l’avrò visto almeno una cinquantina di volte.» «Non c’è problema» disse ridendo Dirk, che stava sprofondato nella poltrona del piccolo auditorio. «E’ la prima volta che mi ritrovo ad essere l’unico spettatore di un film, quindi sarà un’esperienza nuova.» «D’accordo. Tornerò quando sarà finito. Se volete rivedere qualche rotolo, chiamate l’operatore.» Dirk si appoggiò allo schienale che, rifletté, non era sufficientemente comodo per incoraggiare una persona a rilassarsi e a prendere le cose alla leggera. Il che dimostrava un grande buon senso del designer, dal momento che quel cinema era un locale strettamente funzionale. Il titolo lampeggiò sullo schermo. LA STRADA PER LO SPAZIO Consulenza tecnica ed effetti speciali della Interplanetary. Prodotto dalla Eagle-Lion. Lo schermo era buio: poi, al centro, comparve una stretta striscia di luce stellare. Lentamente si ampliò e Dirk si rese conto di essere sotto gli emisferi che si stavano aprendo di una qualche grande cupola di osservatorio. Il campo celeste cominciò a espandersi: lui stava muovendosi verso di esso. «Per duemila anni» disse una voce pacata «gli uomini hanno sognato di viaggiare in altri mondi. Le storie del volo interplanetario sono tantissime, ma soltanto nei nostri giorni è stata perfezionata la macchina che ha reso possibili questi sogni.» Contro il campo celeste si stagliò una sagoma scura — qualcosa di sottile, appuntito, come smanioso di allontanarsi. La scena si illuminò e le stelle svanirono. Rimase solo il grande razzo, lo scafo argenteo luccicante nella luce solare, mentre se ne stava posato sul deserto. Le sabbie parvero ribollire allorché l’accensione le divorò, poi il gigantesco proiettile prese a salire con regolarità, come lungo un cavo invisibile. La cinepresa si sollevò verso l’alto, il razzo fu visto in prospettiva, quindi svanì nel cielo. Poco meno di un minuto dopo restava soltanto la tortuosa scia di vapore. «Nel 1942» continuò il narratore «fu lanciato in segreto dalle rive del Baltico il primo dei grandi razzi moderni. Era la «V-2» che avrebbe dovuto distruggere Londra. Dato che si tratta del prototipo di tutte le altre successive macchine, nonché della nave spaziale stessa, esaminiamola nei particolari.» Seguirono una serie di disegni in sezione della «V-2» raffiguranti tutti i componenti essenziali — i serbatoi del combustibile, il sistema di pompaggio e il motore stesso. Il funzionamento della macchina fu fatto vedere per mezzo di cartoni animati con tale chiarezza che nessuno avrebbe potuto non capirlo. «La «V-2»«continuò la voce «era in grado di raggiungere quote superiori alle cento miglia e dopo la Guerra fu usata estensivamente per le ricerche nella ionosfera.» Seguirono poi alcune immagini spettacolari di lanci effettuati verso la fine degli anni Quaranta nel New Mexico e alcune ancor più spettacolari di partenze fallite e di altri tipi di incidenti. «Come potete vedere, non sempre era affidabile, e fu presto sostituita da macchine più potenti e immediatamente controllabili quali…» L’affusolata sagoma a torpedine fu sostituita da lunghi aghi sottili che salivano fischiando nel cielo e tornavano fluttuando sotto gonfi paracadute. Uno dopo l’altro, record di velocità e altitudine venivano sfondati. E nel 1959… «Questa è la «Orphan Annie» in fase di montaggio. Era a quattro stadi separati, o «gradini», ciascuno dei quali si staccava a esaurimento del propellente. Il suo peso iniziale era di cento tonnellate — il peso del carico utile era solo di venticinque libbre. Ma quel carico utile di polvere di magnesio è stato il primo oggetto terrestre che ha raggiunto un altro mondo.» La Luna riempì lo schermo con i suoi crateri di un biancore luccicante e con le sue lunghe ombre che si estendevano nette e nere sulle pianure desolate. Aveva superato di poco i due quarti e la linea frastagliata di divisione racchiudeva un grande ovale di oscurità. A un tratto, nel cuore di quella terra nascosta, una minuscola ma brillante scintilla luminosa si accese per un momento, quindi scomparve. «Orphan Annie» aveva concluso il proprio destino. «Ma tutti quei razzi erano puri proiettili: nessun essere umano si era ancora elevato al di sopra dell’atmosfera per rientrare sano e salvo sulla Terra. Il primo veicolo guidato dall’uomo che ha trasportato un unico pilota a una quota di duecento miglia è stato l’«Aurora Astralis» lanciato nel 1962. A questo punto tutta la ricerca sui razzi a lunga gittata si svolgeva sulle grandi basi sperimentali costruite nel deserto australiano. «Dopo l’«Aurora» vennero altre navi ancor più potenti e, nel 1970 Lonsdale e McKinley, a bordo di un veicolo americano, effettuarono i primi voli orbitali attorno al mondo, girandovi tre volte attorno prima di atterrare.» Seguì una sequenza mozzafiato, ovviamente molto accelerata, che mostrava quasi tutta la Terra che ruotava sotto, a un ritmo enorme. Per un attimo Dirk ebbe un capogiro e quando si fu ripreso la voce stava parlando della forza di gravità. Spiegò come tenesse tutto attaccato alla Terra e come si indebolisse con la distanza, senza però mai svanire del tutto. Altri disegni animati mostrarono come a un corpo si potesse imprimere una velocità tale da farlo ruotare in perpetuo attorno al mondo, bilanciando la forza di gravità e la forza centrifuga, proprio come fa la Luna nella propria orbita. La cosa veniva illustrata da un uomo che si faceva girare attorno alla testa un sasso legato all’estremità di un pezzo di corda. Piano piano allungava la corda, continuando però a far ruotare il sasso sempre più lentamente. «Vicino alla Terra» spiegò la voce «i corpi, per poter rimanere in orbite stabili, devono viaggiare a cinque miglia al secondo, mentre la Luna, a un quarto di milione di miglia di distanza in un campo gravitazionale molto più debole, deve muoversi a solo un decimo di tale velocità. «Ma che cosa succede se un corpo, per esempio un razzo, lascia la Terra a più di cinque miglia al secondo? Guardate…» Sullo schermo comparve un modello della Terra che fluttuava nello spazio. Sopra l’equatore si muoveva un minuscolo punto che tracciava un percorso circolare. «Ecco un razzo che viaggia a cinque miglia al secondo appena fuori dell’atmosfera. Come potete vedere, il suo percorso costituisce un cerchio perfetto. Ora, se ne aumentiamo la velocità a sei miglia al secondo, il razzo continua a girare attorno alla Terra in un’orbita chiusa, ma il suo percorso è diventato un’ellissi. Man mano che la velocità aumenta, l’ellissi si allunga e il razzo si spinge sempre più fuori nello spazio, ma ritorna sempre. «Tuttavia, se aumentiamo la velocità a sette miglia al secondo, l’ellissi diventa una parabola — ecco, così — e il razzo è sfuggito per sempre. La forza di gravità terrestre non potrà mai ricatturarlo; e adesso esso viaggia attraverso lo spazio come una minuscola cometa fatta dall’uomo. Se la Luna fosse nella posizione giusta le andrebbe a sbattere contro come la «Orphan Annie».» Ovviamente quella era l’ultima cosa che una nave spaziale dovesse fare. Seguiva poi una lunga spiegazione, che mostrava tutti gli stadi di un ipotetico viaggio lunare. Il commentatore spiegava quanto propellente bisognava trasportare ai fini di un atterraggio sicuro e quanto altro ce ne voleva ai fini di un ritorno altrettanto sicuro. Accennò appena ai problemi della navigazione nello spazio e spiegò quali misure si potevano prendere per la sicurezza dell’equipaggio. Infine concluse: «Con i razzi a propulsione chimica abbiamo ottenuto molto, ma se vogliamo conquistare lo spazio e non solo limitarci a farvi incursioni di breve durata dobbiamo imbrigliare le forze illimitate dell’energia atomica. Al momento i razzi a propulsione atomica sono ancora allo stadio dell’infanzia, sono pericolosi e insicuri, ma entro pochi anni li avremo perfezionati e l’umanità avrà compiuto il primo grande passo lungo la Strada verso lo Spazio». La voce si era fatta più alta e nel sottofondo si udivano i ritmi pulsanti di una musica. Poi a Dirk parve di essere sospeso, immobile, nello spazio, a qualche centinaio di piedi da terra. Fece appena in tempo a individuare qualche edificio isolato e a rendersi conto che si trovava in un razzo appena lanciato. Poi il senso del tempo ritornò: il deserto cominciò ad allontanarsi a velocità crescente, una catena di basse colline comparve alla vista e subito dopo la si vide piatta in prospettiva. L’immagine ruotava lentamente e ad un tratto il campo visivo di Dirk fu attraversato da una linea costiera. La scala si ridusse immensamente e, con un senso improvviso di choc, egli si rese conto che ora stava vedendo tutta la costa dell’Australia meridionale. Ora il razzo non stava più accelerando, ma si allontanava dalla Terra a una velocità non molto lontana dalla velocità di fuga. Comparvero alla vista le isole gemelle della Nuova Zelanda — e poi, ai margini dello schermo, si vide una linea bianca che per un attimo a Dirk parve una nube. Si sentì un nodo alla gola quando si rese conto che stava guardando i ghiacci perenni dell’Antartide. Ricordò la «Discovery» attraccata a meno di mezzo miglio di distanza. Lui, con un solo sguardo, poteva abbracciare tutta intera la Terra sulla quale Scott e i suoi compagni, meno di una vita prima, avevano lottato ed erano morti. E poi i limiti del mondo gli si pararono davanti. Quindi la girostabilizzazione meravigliosamente efficiente cominciò ad attenuarsi e la cinepresa si allontanò nello spazio. Per un lungo momento, così gli parve, vi furono oscurità e notte, poi, senza alcun preavviso, la cinepresa inquadrò in pieno il Sole e lo schermo fu illuminato di luce. Quando la Terra ritornò, Dirk vide l’intero emisfero allargato sotto di sé. L’immagine si bloccò di nuovo e la musica tacque, ed egli ebbe il tempo per riconoscere i continenti e gli oceani su quel mondo sottostante remoto e non familiare. Per lunghi minuti quel globo lontano rimase lì, sospeso davanti ai suoi occhi; poi, lentamente, si dissolse. La lezione era finita. Ma lui non l’avrebbe dimenticata presto. 8 In complesso i rapporti di Dirk con i due giovani disegnatori con cui condivideva l’ufficio erano cordiali. I due non capivano bene quale fosse la sua posizione ufficiale (il che, pensava Dirk a volte, faceva sì che fossero in tre a non saperlo) e di conseguenza lo trattavano con uno strano miscuglio di deferenza e di familiarità. Tuttavia c’era un aspetto che lo infastidiva moltissimo. Lui pensava che di fronte al volo interplanetario si potessero adottare due soli atteggiamenti. O si era favorevoli o si era contrari. Quello che non riusciva a capire era la totale indifferenza. Quei ragazzotti (lui naturalmente aveva ben cinque anni di più) che si guadagnavano da vivere nel cuore stesso dell’Interplanetary non sembravano avere il minimo interesse per il progetto. Facevano disegni ed effettuavano calcoli con lo stesso entusiasmo con cui avrebbero potuto preparare disegni per lavatrici invece che navi spaziali. Tuttavia erano disposti a dimostrare una qualche vivacità quando si trattava di difendere la propria posizione. «Il vostro guaio, Doc» gli disse un pomeriggio il più anziano dei due, Sam «è che prendete la vita troppo sul serio. Non va bene. Fa male alle arterie e cose del genere.» «Se non ci fosse qualcuno che si preoccupa un po’«ribatté Dirk «i pigroni come voi e Bert non troverebbero lavoro.» «E che c’è di male?» disse Bert. «Dovrebbero esserci grati. Se non fosse perché ci sono tipi come Sam e come me, non avrebbero nulla di cui preoccuparsi e morirebbero di frustrazione. Come succede comunque alla maggior parte di loro.» Sam spostò la sigaretta. (Usava forse la colla per tenerla appesa al labbro inferiore a quella improbabile angolazione?) «Voi vi agitate sempre per il passato, che è morto e sepolto, o per il futuro, che non saremo qui a vedere. E allora perché, tanto per cambiare, non vi rilassate e non vi divertite un po’?» «Io mi sto divertendo» ribatté Dirk. «Non penso che voi vi rendiate conto che c’è gente alla quale si dà il caso che il lavoro piaccia.» «Ingannano se stessi nel pensarlo» spiegò Bert. «E’ tutta una questione di condizionamento. Noi siamo abbastanza furbi per evitarlo.» «Secondo me» disse Dirk in tono di ammirazione «se continuerete a dedicare tanta energia a trovare scuse per evitare di lavorare, riuscirete a creare una nuova filosofia. La filosofia del futilitismo.» «Avete inventato la parola adesso?» «No» confessò Dirk. «Lo avevo intuito. E’ sembrato che l’aveste lì bella e pronta per l’occasione.» «Ditemi» chiese Dirk «non provate curiosità intellettuale per nulla?» «Non in particolare. Fintanto che so da dove arriva il mio prossimo stipendio.» Lo stavano prendendo in giro, ovviamente, e sapevano che lui lo sapeva. Dirk sorrise e continuò: «Mi sembra che il settore delle Pubbliche Relazioni abbia trascurato l’esistenza di una piccola, graziosa oasi di inerzia proprio sulla soglia di casa. Io credo che a voi non importi un fico se la «Prometheus» raggiungerà o meno la Luna!». «Non direi questo» protestò Sam. «Ci ho scommesso cinque sterline.» Prima che Dirk riuscisse a trovare una risposta sufficientemente spiritosa, la porta si spalancò e comparve Matthews. Sam e Bert, con movimenti perfettamente misurati che sfuggivano all’occhio, si reimmersero subito nei loro disegni. Matthews aveva manifestamente fretta. «Volete un tè gratis?» chiese. «Dipende. Dove?» «Alla Camera dei Comuni. Mi avete detto l’altro giorno che non ci eravate mai stato.» «Sembra interessante. Di che si tratta?» «Prendete la vostra roba e vi racconterò tutto strada facendo.» Quando furono sul tassì, Matthews si rilassò e spiegò. «Spesso ci capitano lavori come questo. Sarebbe dovuto venire Mac, ma è dovuto andare a New York e non rientrerà per un altro paio di giorni. E allora ho pensato che forse vi sarebbe piaciuto accompagnarmi. Ufficialmente potrete comparire come uno dei nostri consulenti legali.» «Vi ringrazio del pensiero» disse grato Dirk. «Chi vedremo?» «Un caro vecchio che si chiama Sir Michael Flannigan. E’ un «tory» irlandese, e lo è molto. Alcuni suoi elettori non amano queste nuove navi spaziali — probabilmente in realtà non si sono mai abituati ai fratelli Wright, quindi tocca a noi andare a spiegare di che si tratta. " «Sono certo che riuscirete a dissipare tutti i suoi dubbi» commentò Dirk mentre superavano il municipio e imboccavano il ponte di Westminster. «Lo spero; ho un’argomentazione che secondo me dovrebbe sistemare tutto.» Passarono sotto l’ombra del Big Ben, e proseguirono per un centinaio di metri fiancheggiando il grande edificio gotico. L’ingresso davanti al quale si fermarono era costituito da un’arcata poco vistosa che immetteva in un lungo corridoio che sembrava molto lontano dal rumore del traffico della piazza esterna. Lì faceva fresco e c’era silenzio, e Dirk si sentì sopraffatto dall’atmosfera di antichità e tradizioni secolari. Dopo aver salito una breve rampa di scale si trovarono in una grande camera dalla quale si irraggiavano dei corridoi in diverse direzioni. Lì si aggirava una piccola folla e altre persone sedevano in atteggiamento di attesa su panche di legno. Sul lato destro un banco di ricevimento, vicino al quale c’era un robusto agente di polizia in alta tenuta, casco e tutto. Matthews si avvicinò al banco e prese un modulo, che riempì e consegnò all’agente. Per un po’ non successe nulla, poi comparve un ufficiale in divisa che urlò una sfilza di parole del tutto incomprensibili, quindi prese i moduli dall’agente, dopo di che scomparve in uno dei corridoi. «Che diavolo ha detto?» sibilò Dirk nel silenzio calato all’improvviso. «Ha detto che il signor Jones, Lady Carruthers, e qualcun altro di cui non ho capito il nome, al momento non sono presenti.» Il messaggio evidentemente fu capito da tutti perché il gruppo di elettori, seccati, cominciò a uscire dalla stanza, privato della preda. «Adesso dobbiamo aspettare» disse Matthews. «Ma non dovrebbe essere una lunga attesa, dato che la nostra visita è stata annunciata.» Nei successivi dieci minuti di tanto in tanto vennero fatti altri nomi e qualche membro del Parlamento arrivò ad accogliere i propri ospiti. Occasionalmente Matthews indicava qualche notabile del quale Dirk non aveva mai sentito parlare, sebbene facesse del proprio meglio per non farlo capire. Poi notò che il poliziotto li stava indicando a un uomo giovane e alto, molto lontano dall’idea che lui aveva di un anziano baronetto irlandese. L’uomo venne verso di loro. «Piacere» disse. «Io mi chiamo Fox. Sir Michael è impegnato ancora per qualche momento, e mi ha chiesto di occuparmi di voi. Forse vi farà piacere assistere al dibattito fino a che Sir Michael non si sarà liberato.» «Certamente» disse Matthews un po’ troppo entusiasticamente, e Dirk pensò che quell’esperienza non doveva essere del tutto nuova per il suo collega, mentre lui era felice di quell’occasione e di assistere ad un’assemblea del Parlamento. Seguirono la loro guida per interminabili corridoi, passando sotto innumerevoli arcate, e finalmente il giovane li affidò a un commesso anziano che avrebbe potuto benissimo aver assistito al suggello della Magna Charta. «Vi troverà lui un buon posto» assicurò Mister Fox. «Sir Michael sarà da voi tra qualche minuto.» Lo ringraziarono e seguirono il commesso su per una scala a chiocciola. «Chi è quello?» chiese Dirk. «Robert Fox, il deputato del partito laburista di Taunton» spiegò Matthews. «C’è una cosa da dire riguardo alla Camera: tutti aiutano tutti. I partiti non contano tanto quanto si potrebbe credere da profani.» Si rivolse al commesso. «Di che cosa stanno discutendo?» «Del Secondo Paragrafo della Legge sulla regolamentazione delle Bevande Analcoliche» rispose l’altro con voce funerea. «Oh santo Cielo!» esclamò Matthews. «Speriamo che sia davvero questione di pochi minuti!» I banchi in alto della galleria permettevano loro di vedere bene la camera in cui avveniva la discussione. Le fotografie che aveva visto rendevano l’ambiente familiare a Dirk che, però, si era sempre immaginato una scena molto animata con i deputati che si alzavano per urlare «Obiezione!», oppure, ancor meglio, «Vergogna!», «Ritirate quella, mozione! «e da altro rumoreggiare caratteristico. Invece vide una trentina di apatici gentiluomini accasciati sui banchi, mentre un ministro di fresca nomina leggeva un elenco non molto avvincente di prezzi e profitti. A un tratto due membri decisero simultaneamente di averne avuto abbastanza e, con scarso rispetto per l’oratore, se ne andarono frettolosamente — senza dubbio, pensò Dirk, alla ricerca di bevande non particolarmente analcoliche. La sua attenzione, dalla scena di sotto, si spostò ed egli prese a esaminare la grande stanza. Sembrava molto ben conservata, considerati gli anni che aveva ed era meraviglioso pensare alle scene storiche cui aveva assistito nel corso dei secoli risalendo fino a… «E’ piuttosto bella, vero?» gli bisbigliò Matthews. «E’ stata finita nel 1950, sapete?» Dirk tornò al presente con un sobbalzo. «Santo Cielo! Pensavo fosse vecchia di secoli!» «Oh no. Hitler ha annientato quella precedente durante il blitz.» Dirk si sentì irritato con se stesso per non essersene ricordato e tornò a prestare attenzione al dibattito. Ora c’erano quindici membri del governo, mentre quelli dei partiti conservatore e laburista sui banchi dell’Opposizione si riducevano a tredici. La porta a pannelli alla quale davano la schiena si aprì all’improvviso e una faccia tonda li guardò con un sorriso raggiante. Matthews scattò in piedi mentre il loro ospite li salutava, scusandosi. Fuori, sul corridoio, quando fu possibile parlare di nuovo a voce alta, vennero fatte le presentazioni e i due seguirono Sir Michael per altri corridoi sino al ristorante. Dirk pensò che non aveva mai visto tanti metri quadri di «boiserie» nella sua vita. Il vecchio baronetto doveva aver passato da un po’ la settantina, ma camminava con passo spedito e aveva una carnagione quasi da cherubino. Il cranio calvo alla sommità lo faceva tanto rassomigliare a un abate medievale, che Dirk ebbe l’impressione di essere appena entrato in Glastombury o Wells prima dello scioglimento dei monasteri. Eppure, se avesse chiuso gli occhi, l’accento di Sir Michael lo avrebbe portato immediatamente nella metropolitana di New York. L’ultima volta che aveva sentito una parlata del genere era stato quando un vigile gli aveva appioppato una multa perché era passato senza rispettare lo stop. Sedettero a un tavolo e Dirk rifiutò con garbo il caffè che gli veniva offerto. Durante il tè discussero di banalità, evitando l’argomento principale di quell’incontro, che fu affrontato quando uscirono su una lunga terrazza che fiancheggiava il Tamigi, uno scenario molto più vivace, non poté fare a meno di pensare Dirk, della Camera in cui si era svolto il dibattito. Qua e là si vedevano gruppetti di persone, in piedi o sedute, che discutevano accaloratamente, e c’era un intenso viavai di messi. Ogni tanto i deputati si liberavano «en masse» dei propri ospiti e, scusatisi con loro, si precipitavano a votare. Durante una di queste lacune Matthews fece del proprio meglio per spiegare a Dirk la procedura parlamentare. «Vi renderete conto» gli disse «che la maggior parte del lavoro viene svolta nelle commissioni. Di fatto, solo gli specialisti o i membri particolarmente interessati sono presenti alla Camera; gli altri, a meno che non si dibatta su qualcosa di molto importante, di norma se ne stanno a lavorare a rapporti o a intrattenere gli elettori nei loro piccoli uffici disseminati nel palazzo.» «E ora, ragazzi» tuonò Sir Michael al suo ritorno portando un vassoio con dei drinks che aveva preso strada facendo «parlatemi di questo vostro progetto di andar sulla Luna.» Matthews si schiarì la gola e Dirk immaginò che la sua mente stesse analizzando freneticamente tutte le possibili mosse di apertura. «Be’, Sir Michael» iniziò «è solo una logica estensione di ciò che la mente dell’uomo ha fatto da quando è iniziata la storia. Per migliaia di anni la razza umana si è diffusa nel mondo fino a che l’intero globo è stato esplorato e colonizzato. Ora è giunto il momento di fare il passo successivo e di attraversare lo spazio diretti su altri pianeti. L’umanità deve sempre avere nuove frontiere, nuovi orizzonti. Altrimenti, presto o tardi, ripiomberà nella decadenza. Il viaggio interplanetario è il prossimo passo del nostro sviluppo e sarà opportuno farlo prima di essere costretti dalla mancanza di materie prime o di spazio. E ci sono anche motivi psicologici per il volo spaziale. Molti anni fa qualcuno ha paragonato la nostra piccola Terra a una boccia piena di pesci rossi nella quale la mente umana non avrebbe potuto continuare a circolare per sempre senza rischiare la stagnazione. Il mondo ai tempi delle carrozze e delle imbarcazioni a vela era sufficientemente grande per il genere umano, ma, ora che possiamo girarlo in un paio d’ore, è diventato davvero troppo piccolo.» Matthews si appoggiò allo schienale osservando l’effetto della sua tattica d’urto. Per un momento Sir Michael parve un po’ frastornato, poi si riprese rapidamente e tracannò quanto gli restava del drink. «E’ piuttosto impressionante» commentò con voce un po’ afflitta. «Ma che farete quando sarete arrivati sulla Luna?» «Dovete capire» disse Matthews incalzandolo senza rimorsi «che la Luna è soltanto l’inizio. Certo, quindici milioni quadrati di miglia è un buon inizio, ma noi guardiamo ad essa come al primo gradino per balzare verso i pianeti. Come sapete, là non c’è aria né acqua, e quindi le prime colonie dovranno essere completamente racchiuse. Ma la bassa gravità renderà facile costruire grandissime strutture e sono già stati fatti progetti per intere città edificate sotto enormi cupole trasparenti.» «A me sembra» disse Sir Michael in tono furbesco «che vi porterete appresso le vostre «bocce di pesci rossi»!» Matthews fu quasi lì lì per sorridere. «Un punto a vostro favore» concesse. «Ma probabilmente la Luna sarà per lo più usata dagli astronomi e dai fisici per le ricerche scientifiche. Per loro è di enorme importanza, e quando potranno costruire laboratori e osservatori lassù, si dischiuderanno nuove aree di conoscenza.» «E questo farà del mondo un posto migliore o più felice?» «Questo, come sempre, dipende dall’essere umano. La conoscenza è neutra, ma «bisogna» possederla per fare il bene o il male.» Matthews fece un ampio gesto a indicare il grande fiume che scorreva pigro davanti a loro, tra i suoi argini affollati. «Tutto quello che vedo, tutto, del nostro mondo moderno, è stato reso possibile dalla conoscenza che gli uomini hanno acquisito in tempi lontani. E la civiltà non è statica: se si ferma muore.» Per un po’ vi fu silenzio. Quasi a dispetto di sé, Dirk si sentì colpito profondamente. Si chiese se si era sbagliato nel ritenere Matthews solo un efficiente venditore, bravo nel propagandare gli ideali altrui. Si trattava unicamente di uno strumentista di talento in grado di eseguire un brano musicale con grande maestria tecnica, ma senza un vero sentimento? Non poteva esserne certo. Anche quando la loro conoscenza si era approfondita, l’incertezza era rimasta. Matthews, per quanto estroverso, celava dentro di sé profonde riserve che Dirk non sarebbe mai riuscito a sondare. In ciò, anche se in niente altro, egli possedeva tutti i requisiti di quella favolosa creatura che era il tipico inglese. «Ho ricevuto un bel po’ di lettere» disse di lì a un po’ Sir Michael «da amici miei in Irlanda, ai quali quest’idea non garba affatto e che sostengono che non abbiamo mai avuto l’intenzione di lasciare la Terra. Che cosa devo dir loro?» «Ricordate loro la storia» ribatté Matthews. «Dite che siamo esploratori e chiedete che non dimentichino che un tempo qualcuno ha dovuto scoprire l’Irlanda!» Lanciò un’occhiata a Dirk, come a dire: «E adesso statemi a sentire!». «Immaginate che siamo a cinquecento anni fa, Sir Michael, e che io mi chiami Cristoforo Colombo. Voi volete sapere perché sono ansioso di salpare verso Occidente attraverso l’Atlantico e io ho cercato di spiegarvelo. Non so se vi abbia convinto: può darsi che voi non siate particolarmente interessato a che sia aperta una nuova strada per le Indie. Ma questo è il punto importante — nessuno di noi può immaginare quanto questo viaggio significherà per il mondo. «Ditelo ai vostri amici, Sir Michael, dite di pensare a quale sarebbe stata la differenza per l’Irlanda se l’America non fosse mai stata scoperta». La Luna è un posto più grande del Nord e Sud America messi insieme — ed è solo il primo e il più piccolo dei mondi che raggiungeremo.» Il grande atrio era quasi deserto quando si accomiatarono da Sir Michael. Lui sembrava ancora un po’ sconcertato quando si strinsero la mano e si separarono. «Spero che questo metta per un po’ a tacere la questione irlandese» disse Matthews mentre uscivano dall’edificio nell’ombra della Victoria Tower. «Che ne pensate del vecchio ragazzo?» «Mi è parso un bel tipo d’uomo. Darei molto per sentirlo mentre spiega le vostre idee ai suoi elettori.» «Sì» rispose Matthews «sarebbe piuttosto divertente.» Fecero qualche metro, superarono l’entrata principale e si diressero verso il ponte. Poi Michael disse all’improvviso: «Ma voi che pensate di tutto questo?» Dirk nicchiò. «Penso di esser d’accordo con voi, dal punto di vista logico» rispose. «Ma per un certo verso non sento nel vostro stesso modo. In seguito, forse, ci riuscirò, ma adesso proprio non posso saperlo.» Lanciò un’occhiata alla grande città che lo attorniava, pulsante di vita e di commerci. Sembrava senza età ed eterna come le colline: qualunque cosa avesse portato il futuro, sicuramente non sarebbe mai morta! Eppure Matthews aveva ragione e lui, tra tutti avrebbe dovuto riconoscerlo. La civiltà non avrebbe mai potuto fermarsi. Sul suolo sul quale stava camminando ora avevano camminato un tempo i mammut emersi dai canneti sulla riva del fiume. Loro, e non gli uomini-scimmia che li osservavano dall’interno delle caverne, erano stati padroni di quella terra. Ma poi si era levato il giorno della scimmia: le foreste e le paludi avevano ceduto il passo davanti alla potenza delle sue macchine. Ora Dirk sapeva che la storia era solo all’inizio. Persino in quel momento, su lontani mondi, sotto strani soli, il Tempo e gli Dei stavano preparando per l’Uomo le sedi di città ancora a venire. 9 Sir Robert Derwent, dottore in lettere, membro della Royal Society, Direttore Generale della Interplanetary, era un tipo dall’aspetto piuttosto rude che, invariabilmente, alla gente ricordava il defunto Winston Churchill. La rassomiglianza era un po’ sciupata dalla sua passione sfrenata per le pipe, delle quali, secondo le voci, possedeva due varietà: la «Normale» e quella di «Emergenza». Il modello «Emergenza» veniva spesso tenuto carico in modo da poter essere messo in azione immediatamente, quando fosse arrivato un visitatore non bene accetto. Si supponeva che la mistura segreta usata a tale scopo fosse costituita per lo più da foglie di tè solforate. Sir Robert aveva una personalità così singolare che, attorno a lui, era sorta una gran messe di leggende. Molte di queste erano state elaborate dai suoi assistenti, che sarebbero andati all’inferno per il loro capo — e di frequente lo facevano, dato che il suo linguaggio non era quello che normalmente ci si aspettava da un ex Astronomo Reale. Egli non aveva rispetto per persone o proprietà, e alcune sue reazioni a famosi ma non eccessivamente intelligenti interlocutori erano rimaste storiche. Persino Sua Maestà, in una storica occasione, era stata ben contenta di sfuggire alle sue bordate. Eppure, nonostante questa immagine esteriore, era un uomo dal cuore gentile e molto sensibile. Svariate persone lo sospettavano, ma molto poche avevano potuto provarlo con propria soddisfazione. A sessant’anni e tre volte nonno, Sir Robert sembrava piuttosto un quarantacinquenne ben conservato. Come il suo celebre «doppio», egli attribuiva questo a un’attenta trascuratezza di ogni e qualsiasi elementare norma salutistica e a una costante assunzione di nicotina. Una volta un brillante giornalista lo aveva opportunamente definito: «Un Francis Drake scientifico — uno degli esploratori astronomici della Seconda Età Elisabettiana». C’era poco o nulla di elisabettiano nel Direttore Generale, mentre stava seduto alla scrivania intento alla lettura della corrispondenza quotidiana, avvolto in una vaga nuvola di fumo. La vagliava a un ritmo stupefacente, accatastando le missive in piccole pile man mano che le finiva. A tratti, ne buttava qualcuna direttamente nel cestino per la carta straccia, dal quale il suo staff l’avrebbe accuratamente recuperata per includerla in una voluminosa cartelletta dall’elegante titolo: «SCIOCCHEZZAIO». Quasi l’un per cento della posta in arrivo all’Interplanetary finiva sotto quella categoria. Aveva appena terminato allorché la porta dell’ufficio si aprì e il dottor Groves, consulente psicologico dell’Interplanetary, entrò con una cartella piena di rapporti. Sir Robert lo guardò con aria accigliata. «Bene, uccello del malaugurio, che cosa sono tutte queste chiacchiere e queste voci riguardo al giovane Hassell? Pensavo fosse tutto sotto controllo.» Groves aveva un’espressione preoccupata mentre posava i rapporti. «Anch’io, fino a qualche settimana fa. Fino ad allora tutti e cinque i ragazzi erano in buona forma e non davano segni di tensione. Poi, abbiamo osservato che Vic era preoccupato per qualcosa e io ieri sera ho affrontato la questione con lui.» «Si tratta di sua moglie, immagino.» «Sì. L’intera faccenda è assai spiacevole. Vic è proprio il genere di padre che crea problemi anche nei momenti migliori, e Maude Hassell non sa che quando il bambino arriverà, lui probabilmente sarà in viaggio verso la Luna.» Il D.G. inarcò le sopracciglia. «Sai già che è un maschio?» «Il trattamento Weismann-Mathers è sicuro al 95 per cento. Vic voleva un maschio — nel caso non tornasse.» «Capisco. E come pensi che reagirà la signora Hassell quando verrà a saperlo? Naturalmente non sappiamo ancora se Vic farà parte dell’equipaggio.» «Penso che reagirà bene. Ma è Vic quello che si sta preoccupando. Come ti sentivi tu quando hai avuto il primo figlio?» Sir Robert sorrise. «Questo vuol dire andare a scavare nel passato. Si dà il caso che anch’io fossi lontano — in una spedizione, per vedere un’eclissi. Per poco non ho spaccato un coronografo, quindi capisco il punto di vista di Vic, ma è una dannata seccatura; dovrai cercar di ragionare con lui. Digli di chiarire la cosa con la moglie, ma di assicurarsi che lei non ne parli con nessuno. Ci sono altre complicazioni possibili in vista? «Non che io possa prevedere. Ma non si può mai dire. " «No, non si può, vero?» Gli occhi del direttore generale si spostarono sul piccolo motto incorniciato dietro la scrivania. Dal punto in cui stava seduto, il dottor Groves non riusciva a leggerlo, ma sapeva a memoria quali erano le parole che sempre lo avevano incuriosito: «C’è sempre una cosa dimenticata Ogni volta che il mondo va bene». Un giorno avrebbe dovuto chiedere da dove venivano quelle parole. 10 A duecentosettanta miglia al di sopra della Terra, «Beta» stava facendo il suo terzo giro del globo. Costeggiando l’atmosfera come un piccolo satellite, completava una rivoluzione ogni novanta minuti. Se il pilota non avesse riacceso i motori sarebbe rimasta lì per sempre alle frontiere dello spazio. Eppure «Beta» era una creatura dell’alta atmosfera più che delle profondità dello spazio. Come quei pesci che, qualche volta, arrancano fino alla riva, essa si stava avventurando fuori del suo vero elemento e le sue grandi ali ora erano inutili teli di metallo rovente sotto il sole violento. E non sarebbero servite fino a quando non fosse tornata nell’aria molto più sotto. Fissata sulla parte posteriore della «Beta» c’era una torpedine affusolata che, a un primo sguardo, avrebbe potuto essere scambiata per un altro razzo. Invece non aveva oblò di osservazione, non aveva ugelli di motore, non recava traccia di carrello d’atterraggio. La sagoma sottile di metallo non aveva quasi alcun rilievo, come una bomba gigantesca in attesa di essere sganciata. Era il primo dei contenitori di combustibile per l’«Alpha» e pieno di tonnellate di metano, che sarebbero state pompate nei serbatoi della nave spaziale quando essa fosse stata pronta a compiere il suo viaggio. La «Beta» sembrava sospesa, immobile, contro il cielo color ebano, mentre la Terra ruotava sotto di essa. I tecnici a bordo della nave, intenti a controllare gli strumenti e a riferire i dati alle basi di controllo sul pianeta sottostante, non avevano una particolare fretta. Per loro faceva poca differenza girare attorno alla Terra una o dozzine di volte. Sarebbero stati nella loro orbita fino a che non fossero stati completamente soddisfatti dei testa meno che, come aveva notato l’ingegnere capo — non fossero stati costretti a scendere prima per mancanza di sigarette. Ora minuscole nuvole di gas fuoriuscivano lungo la linea di contatto tra la «Beta» e il serbatoio del combustibile che le stava sopra. I bulloni esplosivi erano stati tranciati: molto lentamente, a pochi centimetri al minuto, il grande serbatoio cominciò ad allontanarsi lentamente dalla nave. Nello scafo della «Beta» si aprì un portello e due uomini fluttuarono all’esterno con le loro tute spaziali rigide. Mentre piccoli sbuffi di gas uscivano dai sottili cilindri, si diressero verso il serbatoio che si stava allontanando e presero a ispezionarlo attentamente. Uno dei due aprì un minuscolo portello e prese a far rilevazioni mentre l’altro iniziava a controllare lo scafo con un rilevatore di fuga portatile. Per circa un’ora non apparve altro, a parte alcuni sbuffi occasionali di vapore che fuoriuscivano dai getti di guida ausiliari della «Beta». Il pilota la stava facendo ruotare in modo che puntasse contro il proprio movimento orbitale e, chiaramente, eseguiva la manovra con calma. Ora tra la «Beta» e il serbatoio di combustibile che si era portato dalla Terra c’erano circa cento piedi. Era difficile rendersi conto che durante la loro lenta separazione i due corpi avevano quasi fatto un giro della Terra. Gli ingegneri in tuta avevano finito il proprio compito. Lentamente tornarono alla nave in attesa e il portello si chiuse nuovamente alle loro spalle. Seguì un’altra lunga pausa, mentre il pilota aspettava l’esatto momento in cui cominciare a frenare. Improvvisamente, dalla poppa della «Beta» schizzò una scia di incandescenza insopportabile. I gas al calor bianco sembravano formare una barra di luce solida. Quando i motori avessero cominciato a dare la spinta, gli uomini a bordo avrebbero ripreso il peso normale. Ogni cinque secondi la «Beta» perdeva cento miglia orarie di velocità. Stava uscendo dalla propria orbita e presto sarebbe ricaduta sulla Terra. L’intollerabile fiamma dei razzi atomici lampeggiò e si spense. Di nuovo i piccoli getti di controllo sputacchiarono vapore: ora il pilota aveva fretta mentre faceva di nuovo girare la nave attorno al suo asse. Fuori, nello spazio, un orientamento era buono come un altro — ma, entro pochi minuti, la nave sarebbe entrata nell’atmosfera e doveva essere puntata nella direzione del suo movimento. L’attesa del primo contatto con la Terra sarebbe sempre stata un momento di tensione. Per gli uomini che si trovavano a bordo esso arrivò sotto forma di una lieve ma irresistibile tensione delle cinghie che li tenevano legati alle poltrone. Lentamente aumentò minuto per minuto, fino a che si udì il lievissimo rumore frusciante penetrare attraverso le pareti isolanti. Stavano scambiando l’altitudine con la velocità — velocità che potevano perdere solo per la resistenza dell’aria. Se lo scambio fosse avvenuto troppo in fretta, le ali massicce si sarebbero spaccate, lo scafo si sarebbe trasformato in metallo fuso e la nave sarebbe piombata come una meteora rovinosa per centinaia di miglia di cielo. Le ali avevano ripreso a vibrare nell’aria rarefatta che scorreva dietro di loro a diciottomila miglia orarie. Anche se le superfici di governo erano per il momento inutili, presto la nave avrebbe risposto pigramente ai loro comandi. Pure senza l’uso dei suoi motori, il pilota avrebbe potuto scegliere un punto di atterraggio quasi in qualsiasi zona della Terra. Stava portando un aliante ipersonico la cui velocità gli aveva fornito un raggio grande quanto il mondo intero. Molto lentamente la nave stava assestandosi nella stratosfera e perdeva velocità di minuto in minuto. A poco più di mille miglia orarie le prese d’aria dinamica degli statoreattori furono aperte e le fornaci atomiche presero a luccicare di una vita micidiale. Scie di aria bruciante fuoriuscivano dagli ugelli, e in quella scia la nave stava lasciandosi dietro il familiare color rosso-marrone dell’ossido d’azoto. Stava di nuovo viaggiando nell’atmosfera, saldamente sotto controllo, e poteva ancora una volta dirigersi verso casa. Il test finale si era concluso. A quasi trecento miglia più in alto, passando dalla notte al giorno ogni quaranta minuti, il primo serbatoio di combustibile ruotava nella sua eterna orbita. Entro pochi giorni i suoi compagni sarebbero stati lanciati nella stessa rotta con gli stessi mezzi. Sarebbero stati uniti in attesa del momento in cui avrebbero riversato il loro contenuto nei serbatoi vuoti dell’«Alpha» per spedire la nave spaziale nel suo viaggio verso la Luna. 11 Come diceva Matthews, il «Dipartimento di Pubblicità in Negativo» finalmente si era messo in marcia — e una volta avviato acquistò rapidamente la massima velocità. Il lancio riuscito del primo contenitore di combustibile e il ritorno senza incidenti della «Beta» dimostravano che tutto quello di cui si poteva avere il controllo funzionava alla perfezione. L’equipaggio, che ora aveva finito l’addestramento, tra qualche giorno sarebbe partito per l’Australia, cosicché l’esigenza della segretezza non c’era più. A Southbank, man mano che arrivavano i rapporti della Stampa riguardanti la prima visita alla «nursery», la mattinata assumeva un tono di grande allegria. I collaboratori scientifici dei grandi quotidiani avevano come al solito pubblicato resoconti ragionevolmente precisi: ma i giornali di minor rilievo, che avevano inviato cronisti sportivi, critici teatrali o chiunque avevano avuto sottomano, avevano pubblicato storie davvero meravigliose. Matthews trascorse la maggior parte della giornata in uno stato di allegria mista a mortificazione, lanciando un fuoco di sbarramento telefonico genericamente in direzione di Fleet Street. Dirk lo avvertì che sarebbe stato saggio tener da parte quasi tutta l’indignazione in attesa dell’arrivo dei rapporti della stampa transatlantica. Hassell, Leduc, Clinton, Richards e Taine divennero subito il bersaglio di una curiosità quasi senza precedenti. La storia della loro vita (attentamente diffusa in ciclostile dal settore Pubbliche Relazioni) fu subito pubblicata a puntate sui giornali di tutto il mondo. Proposte di matrimonio cominciarono a piovere da ovunque, calando imparzialmente sugli sposati e sugli scapoli. Lettere imploranti arrivarono pure a iosa: come Richards osservò in tono asciutto: «Tutti, a eccezione degli agenti assicurativi, vogliono venderci «qualcosa»». Ora il programma dell’Interplanetary si stava avviando verso il traguardo con la scorrevolezza di un’operazione militare. Di lì a una settimana l’equipaggio e tutto lo staff di più alto grado sarebbero partiti per l’Australia. Con loro sarebbero andati tutti quelli che fossero riusciti a trovare un pretesto confacente. Nei giorni che seguirono nell’edificio si vedevano circolare facce dall’aria preoccupata. Gli impiegati più giovani avevano cominciato a scoprire all’improvviso di avere zie malate a Sydney o cugini indigenti a Camberra, che richiedevano la loro immediata presenza. L’idea di fare un party era nata, sembrava, nella mente del direttore generale ed era stata raccolta entusiasticamente da McAndrews, seccato per non averci pensato lui. Sarebbero stati invitati tutto il personale della sede centrale nonché moltissimi esponenti del mondo industriale, la stampa, le università e le innumerevoli organizzazioni con cui la Interplanetary aveva a che fare. Dopo aver sfrondato il più possibile la lista degli invitati e dopo grandi bruciori di stomaco erano stati inviati poco più di settecento inviti. Persino il Capo Contabile, che ancora ribolliva al pensiero delle duemila sterline da segnare sotto la voce «Spese di rappresentanza», era stato ridotto al silenzio sotto la minaccia di essere escluso. C’era chi pensava che questi festeggiamenti erano prematuri e che sarebbe stato meglio attendere il ritorno della «Prometheus». A questi critici fu fatto notare che molti di coloro che avevano lavorato al progetto dopo il lancio non sarebbero tornati a Londra, ma nei rispettivi Paesi. Questa era l’ultima occasione per riunirli tutti. Pierre Leduc riassunse il pensiero dell’equipaggio dicendo: «Se torneremo, ci faranno tante feste che ci basteranno per il resto della vita. Se «non» torneremo, allora mi sembra opportuno che ci offriate un buon commiato». L’albergo scelto per i baccanali era uno dei migliori di Londra, ma non tanto lussuoso da far sentire a proprio agio solo pochi dirigenti e praticamente nessuno scienziato. Era stato solennemente promesso che i discorsi sarebbero stati ridotti al minimo, in modo da lasciare il maggior tempo possibile alla festa vera e propria. Ciò garbava a Dirk, che odiava i discorsi e aveva una particolare inclinazione per i banchetti e i buffet. Arrivò dieci minuti prima dell’ora ufficiale e trovò Matthews che andava avanti e indietro per l’atrio affiancato da un paio di muscolosi camerieri. Glieli indicò senza sorridere. «I miei scagnozzi» disse. «Se guardate attentamente potrete vedere il rigonfio nelle loro giacche. Ci aspettiamo un assalto, in particolare di quel gruppo di Fleet Street che non è stato invitato. Temo che stasera dovrete badare a voi stesso. Comunque quei tizi che hanno sul risvolto la scritta «steward» vi daranno indicazioni sugli ospiti, nel caso vogliate conoscerne qualcuno in particolare.» «D’accordo» rispose Dirk, consegnando al guardaroba cappotto e cappello. «Spero che, mentre tenete il forte, troverete il tempo di buttar giù qualcosa di tanto in tanto.» «Le mie riserve di emergenza sono ben organizzate. Tra l’altro, se volete bere, rivolgetevi agli uomini con la scritta «Tecnico del combustibile». Abbiamo dato alle bevande il nome di qualche propellente per razzi, quindi nessuno saprà che cosa beve finché non l’avrà bevuto… se mai berrà. Ma vi darò un consiglio.» «E cioè?» «Astenetevi dal toccare l’«idrato di idrazina!»» «Grazie per l’avvertimento» ribatté ridendo Dirk. Qualche minuto dopo però fu sollevato nel rendersi conto che Matthews lo aveva preso in giro e che non erano stati usati simili mascheramenti. Nella mezz’ora successiva l’albergo si riempì in fretta. Dirk non conosceva più di una persona su venti e si sentiva un po’ come un pesce fuor d’acqua. Di conseguenza se ne stette più vicino al bar di quanto fosse consigliabile per lui. Di tanto in tanto salutava con un cenno del capo qualche conoscente, la maggior parte dei quali però era troppo impegnata altrove per fargli compagnia. Fu piuttosto contento quando un altro invitato solo come lui gli si sedette a fianco in cerca di compagnia. Cominciarono a parlare del più e del meno, ma di lì a un po’ la conversazione prese inevitabilmente a orientarsi verso l’imminente avventura. «Tra l’altro» disse lo sconosciuto «non vi ho visto fino ad ora alla Interplanetary. Siete qui da molto tempo?» «Solo da tre settimane circa» rispose Dirk. «Sono qui per un lavoro particolare per l’Università di Chicago» «Davvero?» Dirk si sentiva ciarliero e l’altro sembrava mostrare un interesse lusinghiero per la conversazione. «Devo scrivere la storia ufficiale del primo viaggio e degli eventi che hanno portato ad esso. Questo viaggio sarà una delle cose più importanti che siano mai accadute e pertanto è necessario avere una registrazione completa per il futuro.» «Ma certo ci saranno migliaia di rapporti tecnici, oltre a tutti i resoconti dei giornali, no?» «E’ verissimo, ma dimenticate che saranno scritti per i contemporanei, e si baseranno su elementi che possono essere familiari solo ai lettori odierni. Io devo cercare di star fuori del Tempo, per così dire, e di fornire un resoconto che possa essere capito appieno tra diecimila anni.» «Fiuuuh, che lavoro!» «Sì: è diventato possibile solo in questi ultimi tempi grazie ai nuovi sviluppi dello studio del linguaggio e del significato e al perfezionamento del vocabolario simbolico. Ma temo di annoiarvi.» Con sua irritazione l’altro non lo contraddisse. «Suppongo» disse lo sconosciuto in tono casuale «che avrete conosciuto la gente di qui piuttosto bene, voglio dire, vi trovate in una situazione privilegiata.» «Questo è vero, mi hanno trattato molto bene e mi hanno aiutato per quanto hanno potuto.» «Ecco il giovane Hassell!» esclamò il suo interlocutore. «Ha l’aria un po’ preoccupata, ma l’avrei anch’io nei suoi panni. Siete riuscito a conoscere bene l’equipaggio?» «Non ancora, ma spero di poterlo fare. Ho parlato un paio di volte con Hassell e con Leduc, ma è tutto qui.» «Secondo voi, chi sarà scelto per fare il viaggio?» Dirk stava per esprimere il suo opinabile punto di vista sull’argomento quando vide che Matthews dall’altra parte della stanza gli faceva cenni frenetici. Per un attimo gli sfrecciarono per la mente allarmanti ipotesi su eventuali pecche del proprio abbigliamento, poi un lento sospetto si fece strada in lui e, dopo aver abborracciato una scusa, si liberò dello sconosciuto. Pochi minuti dopo Matthews confermò le sue paure. «Mike Wilkins è uno dei migliori… un tempo lavoravamo insieme al «News», ma per amor di Dio state attento a quello che gli dite! Se aveste ucciso vostra moglie, lui riuscirebbe a cavarvelo di bocca ponendovi domande sul clima.» «Tuttavia non penso che potrei dirgli cose che lui già non sa.» «Non vi illudete. Ancor prima che ve ne rendiate conto vi ritroverete citato sui giornali come «un importante funzionario della Interplanetary», e io sarò costretto a mandare le solite smentite inutili.» «Capisco. Quanti altri giornalisti ci sono tra gli invitati?» «Ne è stata «invitata» circa una dozzina» disse cupamente Matthews. «Eviterei conversazioni confidenziali con gente che non conoscete. Ora vi prego di scusarmi… devo tornare al mio dovere di sorvegliante.» Dirk pensò che per lui la festa non doveva essere un gran divertimento. Il Dipartimento Pubbliche Relazioni sembrava ossessionato dal problema della sicurezza che, a suo parere, era stato sopravvalutato. Tuttavia riusciva a capire il terrore di Matthews per le interviste non ufficiali, delle quali aveva visto alcuni effetti raccapriccianti. Per un po’ di tempo, dopo, la sua attenzione fu completamente attratta da una ragazza sorprendentemente graziosa che sembrava essere arrivata senza accompagnatore — cosa che gli parve piuttosto sbalorditiva di per sé. Dopo molte esitazioni si era deciso a farsi avanti quando gli risultò fin troppo evidente che l’accompagnatore in questione era semplicemente stato impegnato altrove con gli ospiti fino a quel momento. Dirk non aveva perso l’occasione: non ne aveva mai avuta una. Si rituffò nelle proprie riflessioni filosofiche. Comunque il suo morale salì notevolmente durante la cena. Il cibo era eccellente e persino il discorso del Direttore Generale (e questo poneva un limite a quelli degli altri) durò solo dieci minuti. Per quanto Dirk riuscì a ricordare, si era trattato di un discorso oltremodo spiritoso, farcito di battute allusive che in certi settori della sala provocarono fragorose risate e in altri pallidi sorrisi. Alla Interplanetary c’era sempre stato il gusto di ridere di se stessi, ma solo di recente ci si era potuti permettere il lusso di farlo in pubblico. I restanti pochi discorsi furono ancora più brevi: apparve chiaro che alcuni degli oratori avrebbe voluto avere più tempo, ma nessuno si azzardò a prenderselo. Poi finalmente McAndrews, che per tutta la serata si era comportato come un efficientissimo maestro di cerimonia, propose un brindisi al successo della «Prometheus» e del suo equipaggio. Dopo seguirono le danze ai dolci e nostalgici ritmi così popolari alla fine degli anni Settanta. Dirk, che anche al suo meglio era un pessimo ballerino, fece alcuni giri attorno alla pista con la signora Matthews e con le mogli di altri funzionari, finché una crescente diminuzione della coordinazione muscolare gli fece capire che doveva smettere. Allora sedette e si mise a osservare quel che succedeva, con occhio benevolo, dicendosi che tutti i suoi amici erano tanto brave persone e disapprovando lievemente quei ballerini che com’è ovvio avevano portato a bordo un po’ troppo carburante. Doveva essere circa mezzanotte quando all’improvviso si rese conto che qualcuno gli stava rivolgendo la parola. (Non si era addormentato, ovviamente, ma era gradevole poter chiudere gli occhi di tanto in tanto.) Si girò con movimenti rallentati finché si trovò davanti un uomo di mezza età che lo osservava piuttosto divertito dalla sedia vicina. Notò stupito che non indossava l’abito da sera e che la cosa non sembrava preoccuparlo affatto. «Ho visto il vostro distintivo» disse l’uomo a mo’ di presentazione. «Anch’io sono Sigma Xi. Sono tornato dalla California solo stasera. Troppo tardi per la cena.» Dunque questo spiegava l’abbigliamento, si disse Dirk e si sentì piuttosto soddisfatto di sé per aver fatto una deduzione tanto brillante. Gli strinse la mano, contento di conoscere un collega californiano, anche se non riuscì a capire il suo nome. Gli parve che suonasse come Mason, ma in realtà la cosa non gli importava. Chiacchierarono per un po’ di cose americane, e specularono sulle probabilità che i democratici avevano di tornare al potere. Dirk sosteneva che ancora una volta i Liberali sarebbero stati l’ago della bilancia e fece alcuni commenti brillanti sui vantaggi e sugli svantaggi del sistema tripartitico. Abbastanza stranamente, l’altro non parve colpito dalla sua intelligenza e riportò la conversazione sull’Interplanetary. «Non siete qui da molto, vero?» chiese. «Come vi trovate?» Dirk glielo disse con tutti i particolari. Gli spiegò qual era il suo lavoro, dilungandosi generosamente sul suo scopo e sulla sua importanza. Quando avesse finito il suo lavoro, tutte le ere successive e ogni immaginabile pianeta si sarebbero resi esattamente conto di che cosa avesse significato la conquista dello spazio per l’era che l’aveva conseguita. L’amico sembrava molto interessato, anche se nella sua voce si avvertiva un che di divertito, cosa per la quale Dirk avrebbe forse dovuto rimproverarlo con gentilezza ma con fermezza. «Che contatti avete avuto con il settore tecnico?» chiese l’altro. «A dir la verità» gli rispose mestamente Dirk «intendevo occuparmi di questo nell’ultima settimana, ma, sapete, gli scienziati mi impauriscono un po’. Inoltre c’è Matthews che mi è stato di grande aiuto, ma ha le proprie idee su ciò che dovrei fare e io non voglio offenderlo.» Quella era un’affermazione deplorevolmente debole, ma conteneva molta verità. Matthews aveva organizzato tutto un po’ troppo completamente. Il pensiero di Alfred gli riportò alla mente qualcosa e subito provò un grave sospetto. Guardò attentamente l’altro, deciso a non farsi più prendere all’amo. Il bel profilo e la fronte alta e intelligente erano rassicuranti, ma a questo punto Dirk era troppo esperto per farsi trarre in inganno. Pensò che Alfred sarebbe stato orgoglioso del modo in cui lui evitava di dare risposte precise alle domande del suo compagno. Era un peccato, naturalmente, visto che si trattava di un americano, e che aveva fatto una lunga strada per arrivare a fare uno scoop; tuttavia la sua lealtà doveva andar per prima ai suoi ospiti. L’altro si doveva essere reso conto che non stava ricavando nulla, perché di lì a un po’ si alzò e fece un sorriso enigmatico. «Penso» disse accomiatandosi «che potrei mettervi in contatto con le persone giuste del settore tecnico. Telefonatemi domani all’interno 3. Non dimenticate… 3.» Poi se ne andò, lasciando Dirk in uno stato mentale molto confuso. Evidentemente le sue paure erano state infondate: quel tipo apparteneva alla Interplanetary. Oh be’, non c’era niente da fare! L’ultima cosa che ricordò chiaramente fu di essersi accomiatato da Matthews nell’atrio. Alfred appariva ancora irritantemente vivace e pieno di energia ed era molto soddisfatto per il successo del party — anche se, a quanto gli accennò, di tanto in tanto aveva avuto qualche patema d’animo. «Quando le danze si sono animate troppo ho avuto paura che il pavimento crollasse. Vi rendete conto che questo avrebbe tardato di almeno mezzo secolo la conquista dello spazio?» Dirk non si sentiva particolarmente interessato a simili speculazioni metafisiche, ma, prima di dare un’assonnata buonanotte all’altro, ricordò improvvisamente lo sconosciuto californiano. «Tra l’altro» disse «ho chiacchierato con un altro americano… in un primo momento ho pensato fosse un giornalista. E appena arrivato in città, dovete averlo visto, non indossava l’abito da sera. Mi ha detto di telefonargli domani all’interno non ricordo più quale. Sapete chi è?» Gli occhi di Matthews lampeggiarono divertiti. «Avete pensato fosse un altro giornalista, vero? Spero che vi siate ricordato dell’avvertimento che vi ho dato.» «Sì» disse orgogliosamente Dirk. «Non gli ho detto assolutamente nulla, anche se non avrebbe avuto importanza qualora lo avessi fatto, vero?» Matthews lo spinse su un taxi e sbatté la portiera, poi si chinò sul finestrino aperto e si accomiatò dicendo: «No, no di certo. Quello era solo il professor Maxton, il Vice Direttore Generale. Andate a letto e dormiteci su!» 12 Dirk riuscì ad arrivare in ufficio in tempo per il pranzo — un pasto che, aveva notato, non sembrava molto popolare. Non aveva mai visto prima d’allora così poca gente alla mensa. Quando chiamò l’interno 3 e disse timidamente chi era, il professor Maxton parve contento di sentire la sua voce e lo invitò subito ad andare da lui. Dirk trovò il Vice Direttore Generale nell’ufficio adiacente a quello di Sir Robert Dervent quasi assediato da casse da imballaggio e trucioli. Il vice gli spiegò che contenevano speciali apparecchiature per i collaudi che dovevano essere spedite per aereo in Australia immediatamente. La loro conversazione fu interrotta di continuo dagli ordini e dai contrordini che il professore dava ai suoi assistenti che controllavano le proprie attrezzature. «Mi scuso se sono stato un po’ troppo disinvolto ieri sera» disse Dirk in tono di scusa. «Il fatto è che non ero proprio perfettamente in me.» «Questo l’ho capito» disse in tono asciutto Maxton. «Dopo tutto, avevate diverse ore di vantaggio su di me! Ehi, stupido, non portare quel registratore rovesciato! Scusate, Alexson, non parlavo con voi.» Si interruppe per riprender fiato. «Questa è una faccenda infernale… non si sa mai che cosa possa servire ed è quasi certo che alla fine ci si dimentica di portar via le cose più importanti.» «A che cosa serve tutta questa roba?» chiese Dirk, impressionato dal dispiegamento di attrezzature luccicanti e dallo spettacolo del maggior numero di valvole termoioniche che avesse mai visto tutte insieme nella sua vita. «Attrezzatura post mortem» disse Maxton in modo sintetico. «I dati principali rilevati dagli strumenti dell’«Alpha» vengono trasmessi alla Terra. Se qualcosa va storto, almeno sapremo cosa sarà successo.» «Dopo l’allegria di ieri sera, questa non è una conversazione molto rincuorante.» «No, ma molto pratica. Con questo sistema si potrebbero risparmiare milioni di dollari, nonché moltissime vite. Negli Stati Uniti ho saputo tutto del vostro progetto e l’ho trovato un’idea molto interessante. Chi l’ha avuta?» «La Fondazione Rockefeller, divisione Storia e Documentazione. " «Mi fa piacere che finalmente gli storici si siano resi conto che la Scienza ha una parte importante nella modellatura del mondo. Quando ero ragazzo i loro testi non erano altro che manualetti di fatti militari. Poi hanno tenuto banco i deterministi economici, fino a che i neofreudiani li hanno sgominati con grandi massacri. Solo ora siamo riusciti a mettere costoro sotto controllo, quindi speriamo di poter finalmente ottenere una visione equilibrata.» «Esattamente quello a cui miro io» disse Dirk. «Mi rendo conto che l’uomo che ha fondato l’Interplanetary è stato ispirato da ogni sorta di motivi, e io voglio scoprirli e analizzarli il più profondamente possibile. Per quanto riguarda il materiale, Matthews mi ha fornito tutto quello di cui avevo bisogno.» «Matthews? Oh, il tipo delle Pubbliche Relazioni. Pensano di essere loro i padroni del posto… non credete a nulla di quanto vi dicono, soprattutto riguardo a noi.» Dirk rise. «Pensavo che l’Interplanetary fosse una grande famiglia felice.» «In complesso andiamo abbastanza d’accordo, soprattutto ai vertici; quanto meno, presentiamo al mondo esterno un fronte unito. Come categoria, secondo me gli scienziati lavorano insieme meglio di chiunque altro, soprattutto quando hanno un obiettivo comune. Ma esistono sempre personalità incompatibili, e sembra vi sia anche una inevitabile rivalità tra i gradi, tecnici e non. A volte si tratta solo di scontri bonari che però nascondono una certa dose di amarezza.» Mentre Maxton parlava, Dirk lo osservava molto attentamente. Si era confermato nella prima impressione che aveva avuto. Il V.D.G. non era solo chiaramente un uomo di grande e viva intelligenza, ma anche di vasta cultura e sensibilità. Dirk si chiese come fosse il suo rapporto con il suo collega altrettanto brillante ma violentemente inflessibile, Sir Robert. Due personalità così contrastanti non potevano che andare molto d’accordo o esattamente il contrario. A cinquant’anni, il professor Maxton era considerato il più insigne ingegnere atomico del mondo. Aveva avuto una parte importantissima per quanto atteneva allo sviluppo dei sistemi a propulsione nucleare per gli apparecchi aerei, e le unità di propulsione della «Prometheus» erano per lo più basate sui suoi progetti. Il fatto che un uomo del genere, che avrebbe potuto chiedere qualunque prezzo all’industria, fosse disposto a lavorare lì, con uno stipendio quasi nominale, a Dirk pareva una cosa molto significativa. Maxton chiamò un giovanotto biondo sulla trentina che stava passando in quel momento. «Vieni un attimo qui, Ray, ho un altro lavoro per te» Il giovane si avvicinò con espressione mesta. «Spero che non sia niente di pesante. Stamattina ho una forte emicrania.» Il V.D.G. sorrise a Dirk, ma, dopo un’evidente esitazione, rinunciò a fare commenti. Lo presentò concisamente. «Il dottor Alexson — Ray Collins, il mio assistente personale. La specializzazione di Ray è l’iperdinamica, un’abbreviazione piuttosto relativa di aerodinamica ipersonica, nel caso non lo sappiate. Il dottor Alexson è uno specialista in storia, e quindi penso che tu ti stia chiedendo che cosa ci fa qui. Lui spera di diventare il Gibbon dell’aeronautica.» «Non per scrivere «Declino e Caduta dell’Interplanetary», spero. Piacere di conoscervi.» «Voglio che tu aiuti il dottor Alexson per qualsiasi informazione di ordine tecnico. L’ho appena salvato dalle grinfie della gente di McAndrews, quindi avrà probabilmente qualche idea piuttosto singolare riguardo alle cose.» Si girò a guardare il caos che lo circondava, disse che i suoi assistenti lo stavano boicottando e spostò un altro scatolone. «Sarà meglio che vi spieghi» continuò «sebbene, probabilmente, lo saprete già, che il nostro piccolo impero tecnico ha tre importanti divisioni. Ray è uno degli esperti in volo aereo; lui si occupa di far arrivare senza intoppi di sorta la nave nell’atmosfera — in entrambe le direzioni — con il minimo di guai. Il suo settore era guardato dall’alto dai segugi dello spazio, che consideravano l’atmosfera come una sciocchezza. Ora però hanno cambiato tono, visto che abbiamo dimostrato loro come usare l’aria come ricchissima scorta di combustibile, quanto meno per la prima parte del viaggio.» Questo era uno dei cento o più punti che Dirk non aveva capito appieno. Si annotò mentalmente di metterlo al primo posto della lista di domande che doveva porre. «Poi ci sono gli astronomi e i matematici, che costituiscono un piccolo, autonomo e ristretto gruppo, sebbene abbiano subìto una notevole infiltrazione da parte degli ingegneri elettronici e relativi calcolatori. Loro, naturalmente, devono eseguire i calcoli attinenti alle orbite e svolgere tutto il nostro lavoro matematico che, in realtà, è piuttosto consistente. Sir Robert stesso è responsabile delle loro attività. «E infine ci sono gli ingegneri missilistici, che Dio li benedica. Non ne troverete molti qui, perché sono già quasi tutti in Australia. E così, questo è il panorama generale, sebbene abbia trascurato vari gruppi, quali gli addetti alle comunicazioni e al controllo e gli esperti medici. Ora vi lascio a Ray che baderà a voi.» A quelle parole Dirk ebbe un lieve sussulto. Aveva la sensazione che troppe persone dovessero «badare a lui». Collins lo portò in un piccolo ufficio non molto distante, dove sedettero e si offrirono reciprocamente una sigaretta. Dopo aver fumato pensosamente per qualche momento, l’esperto in aerodinamica sollevò un pollice verso la porta e disse: «Che ne pensate del Capo?». «Sono un po’ parziale. Proveniamo dallo stesso Stato. Sembra un uomo notevole, colto e al contempo brillante dal punto di vista tecnico. Una combinazione insolita. Ed è stato molto utile conoscerlo.» Collins cominciò a manifestare entusiasmo. «E’ assolutamente vero. E’ il miglior capo con cui si possa lavorare e credo che non abbia nemmeno un nemico. Questo a differenza di Sir Robert, che dozzine e dozzine di persone conoscono solo superficialmente.» «Ho visto una sola volta il Direttore Generale. Non ho ancora capito bene che tipo è.» Collins rise. «Ci vuole molto tempo per abituarsi a D.G. - che certo non ha il fascino disinvolto del professor Maxton. Se si fa male un lavoro il D.G. ti fa una lavata di capo, mentre il professore ti lancia un’occhiata addolorata che ti fa sentire come un avvelenatore di bambini professionista. Entrambe le tecniche funzionano alla perfezione, ma tutti sono entusiasti di Sir Robert non appena lo conoscono.» Dirk esaminò la stanza con un interesse più che superficiale. Era la tipica stanza da disegno, con un tavolo illuminato dall’interno che occupava un intero angolo. Le pareti erano coperte da grafici elaborati e oscuri, intervallati da fotografie di razzi che si staccavano dal suolo spettacolarmente diretti verso luoghi remoti. Un posto d’onore era stato dato a una magnifica veduta della Terra da un’altezza di almeno mille miglia. Dirk si disse che doveva essere stata tratta dal film che Matthews gli aveva mostrato. Sulla scrivania di Collins c’era una foto di genere completamente diverso: il ritratto di una ragazza molto carina che lui ebbe l’impressione di aver visto un paio di volte a pranzo. Collins notò il suo interesse; visto che non diede spiegazioni, Dirk pensò che non fosse sposato e che, come lui, fosse uno scapolo ottimista. «Suppongo» disse l’altro «abbiate visto il nostro film «Strada per lo Spazio!»» «Sì. Mi è parso bellissimo.» «Fa risparmiare un mucchio di chiacchiere e spiega molto chiaramente alcune idee di base. Ma ora, naturalmente, è abbastanza superato e io penso che voi siate ancora molto all’oscuro degli ultimi sviluppi, in particolare riguardo alla propulsione atomica della «Prometheus»» «E’ vero» confermò Dirk. «Per me è un mistero totale.» Collins gli fece un sorriso un po’ stupito. «Questo ci sconcerta un po’«si lamentò. «Da un punto di vista tecnico è molto più semplice del motore a combustione, che tutti capiscono benissimo. Ma, per chissà quale ragione, la gente dà per scontato che la propulsione atomica debba essere incomprensibile, e quindi non fa il minimo sforzo per capirla.» «Io lo farò» ribatté Dirk ridendo. «A voi il resto. Ma, per favore, ricordate che voglio solo sapere quanto basta per riuscire a seguire quello che succede. Non intendo diventare un progettatore di navi spaziali.» 13 Per trent’anni il mondo era andato lentamente crescendo nella persuasione che un giorno gli uomini avrebbero raggiunto i pianeti. Le profezie dei primi pionieri dell’astronautica si erano avverate tante volte, da quando i primi razzi avevano raggiunto la stratosfera, che pochi ormai si dimostravano increduli a questo riguardo. Il piccolo cratere vicino ad Aristarchus e i filmati televisivi dell’altra faccia della Luna erano conseguimenti innegabili. Eppure c’era stato qualcuno che li aveva deplorati e anche denunziati. Per l’uomo della strada il volo interplanetario era ancora qualcosa di enorme e un po’ terrificante, appena poco sotto l’orizzonte della vita quotidiana. La gente fino a quel momento non aveva particolari sentimenti riguardo al volo spaziale, tranne la vaga consapevolezza che la «Scienza» lo avrebbe reso realtà in un futuro indefinito. Tuttavia, due distinti tipi di mentalità avevano invece preso l’astronautica molto seriamente, anche se per motivi diversissimi. L’impatto praticamente simultaneo che il razzo a lungo raggio e la bomba atomica avevano avuto sulla mente dei militari degli anni Cinquanta aveva prodotto una gran quantità di profezie raccapriccianti da parte degli esperti in assassinio meccanizzato. Per alcuni anni si era parlato molto di basi lunari o anche — più appropriatamente — marziane. La tardiva scoperta da parte dell’esercito degli Stati Uniti, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, del progetto di costruire basi spaziali fatto vent’anni prima da Oberth, aveva riattizzato idee che chiamare «alla Wells» significava sottovalutare molto. Nel suo trattato più importante, «Wege zur Raumschiffahrt», Oberth aveva parlato della costruzione di grandi «specchi spaziali» che avrebbero potuto far convergere la luce solare sulla Terra, con scopi pacifici o con l’intento di incenerire città nemiche. Egli stesso non aveva mai preso molto sul serio quest’ultima idea e molti erano rimasti sorpresi due decenni dopo quando era stata solennemente accolta. Il fatto che sarebbe stato oltremodo facile bombardare la Terra dalla Luna e molto difficile attaccare la Luna dalla Terra aveva indotto molti disinibiti esperti militari a dichiarare che, per il bene della pace, proprio i loro Paesi dovevano conquistare il nostro satellite prima che lo facesse qualche altro rivale dalle intenzioni bellicose. Tali argomentazioni furono molto comuni nel decennio successivo allo sganciamento della bomba atomica ed erano un tipico sottoprodotto della paranoia politica di quel periodo. Man mano che il mondo tornava alla sanità mentale e all’ordine, morirono senza che alcuno le rimpiangesse. Una seconda e forse più importante corrente d’opinione, mentre ammetteva che il viaggio interplanetario era possibile, vi si opponeva per motivazioni mistiche o religiose. Secondo l’«opposizione teologica», come veniva di norma definita, l’uomo, se si fosse allontanato troppo dal proprio mondo, avrebbe disobbedito a qualche editto divino. Secondo una frase di uno dei primi e più brillanti critici dell’Interplanetary, il rettore dell’Università di Oxford, C.S. Lewis, le distanze astronomiche erano «una disposizione da quarantena» data da Dio. Se l’uomo le avesse superate, sarebbe stato colpevole di qualcosa di non molto lontano dalla blasfemia. Dal momento che queste tesi non si basavano sulla logica, erano assolutamente inconfutabili. Di tanto in tanto l’Interplanetary aveva provato a controbatterle, facendo notare che le stesse obiezioni avrebbero benissimo potuto essere poste a tutti gli esploratori che erano esistiti fino ad allora. Le distanze astronomiche che l’uomo del ventesimo secolo poteva superare in pochi minuti con le onde radio erano una barriera inferiore a quella che dovevano essere apparsi i grandi oceani ai suoi antenati dell’età della pietra. Senza dubbio, in tempi preistorici, ci doveva essere stato qualcuno che aveva scosso la testa e profetizzato il disastro, allorché i giovani della tribù erano andati alla ricerca di nuove terre nel terrificante e sconosciuto mondo che li circondava. Ma era un bene che la ricerca fosse stata fatta prima della discesa travolgente dei ghiacciai dal Polo. Un giorno i ghiacciai sarebbero tornati, e questa era la minore delle condanne che potevano abbattersi sulla Terra prima che essa avesse portato a termine la sua corsa. Alcune di tali condanne potevano solo essere ipotizzate, ma almeno una era quasi sicuramente in attesa, negli anni a venire. Arriva un momento nella vita di ogni stella in cui il delicato equilibrio delle sue fornaci atomiche deve saltare, in un modo o in un altro. Nel lontano futuro i discendenti dell’uomo potrebbero trovarsi a vedere, dal punto sicuro in cui si trovassero su altri pianeti l’ultimo bagliore del loro pianeta natio mentre sprofonda tra le fiamme del detonante Sole. Un’obiezione al volo spaziale che questi critici portavano avanti era all’apparenza più convincente. Dal momento che l’uomo, sostenevano, aveva causato tanta infelicità sul suo mondo, ci si poteva fidare che si sarebbe comportato bene su altri mondi? E, soprattutto, l’infelice storia della conquista e della riduzione in schiavitù di una razza da parte di un’altra si sarebbe ripetuta senza fine e perennemente, quando la cultura umana si fosse estesa da un mondo all’altro? Contro questa obiezione non ci poteva essere alcuna risposta del tutto convincente: solo uno scontro di fedi contrastanti — l’antico conflitto tra pessimismo e ottimismo, tra coloro che credevano nell’Uomo e quelli che non vi credevano. Però gli astronomi avevano dato un contributo al dibattito, sottolineando la falsità dell’analogia storica. L’uomo, la cui civiltà aveva occupato solo un periodo equivalente a un milionesimo della vita del pianeta, probabilmente non avrebbe trovato su altri mondi razze abbastanza primitive da poter sfruttare o rendere schiave. Qualunque nave si fosse apprestata ad attraversare lo spazio con l’idea di costruire un impero interplanetario, avrebbe potuto trovarsi alla fine del viaggio con le stesse speranze di conquista di una flotta di canoe da guerra piene di selvaggi che entrasse lentamente nel porto di New York. L’annuncio del probabile lancio della «Prometheus» di lì a poche settimane aveva riacceso tutte quelle speculazioni e molte altre. Stampa e radio parlavano quasi esclusivamente di questo e per qualche tempo gli astronomi guadagnarono non poco scrivendo articoli cautamente ottimistici sul Sistema Solare. Un’indagine della Gallup svolta in Gran Bretagna in quel periodo mostrò che il quarantun per cento del pubblico considerava una buona cosa il viaggio interplanetario, il ventisei per cento era contrario e il trentatré per cento non aveva opinioni. Queste cifre — in particolare quel trentatré per cento — provocarono un certo sconforto a Southbank e molte riunioni nel Dipartimento delle Pubbliche Relazioni, ora più indaffarato che mai. Il solito esiguo rivolo di visitatori dell’Interplanetary ora si era ingrossato fino a diventare una poderosa ondata che portava con sé alcuni personaggi molto strani. Matthews aveva elaborato una procedura standard per trattare con la maggior parte di costoro. Alla gente che voleva fare il primo viaggio veniva offerto un giro nella gigantesca centrifuga del Settore Medico, dove si raggiungevano accelerazioni pari a dieci volte la gravità. Pochissimi avevano accettato quell’offerta e quelli che lo avevano fatto, quando si erano ripresi, erano stati consegnati al Settore Dinamica, dove i matematici avevano inferto il colpo di grazia ponendo loro domande alle quali era impossibile rispondere. Tuttavia nessuno aveva trovato un modo efficace per trattare i veri pazzi — anche se a volte era possibile neutralizzarli mediante una sorta di reazione reciproca. Uno dei desideri inappagati di Matthews era quello di ricevere contemporaneamente la visita di qualcuno convinto che la Terra fosse piatta e di qualcuno di quei pazzi ancora più stravaganti persuasi che il mondo stia all’interno di una sfera vuota. Era sicuro che questo avrebbe scatenato un dibattito oltremodo divertente. Ben poco si poteva fare per quegli aspiranti esploratori balzani — di solito zitelle di mezza età — che già avevano una conoscenza perfezionata del Sistema Solare ed erano fin troppo ansiosi di impartirla agli altri. Matthews era stato abbastanza ottimista nello sperare — ora che l’attraversamento dello spazio era così imminente — che non sarebbero stati tanto ansiosi di vedere le proprie idee messe alla prova della realtà. In questo fu deluso. E uno sfortunato membro del suo staff venne adibito a tempo pieno a dar retta a quelle signore che davano resoconti molto vivaci e contrastanti delle cose lunari. Più serie e significative erano le lettere e i commenti pubblicati sui grandi quotidiani, lettere delle quali molte esigevano risposte ufficiali. Un oscuro canonico della Chiesa d’Inghilterra scrisse una lettera vigorosa e molto pubblicizzata su «The Time», in cui denunciava l’Interplanetary e il suo operato. Sir Robert Derwent passò prontamente all’azione dietro le quinte e, come spiegò poi, «buttò sul tavolo» un arcivescovo. Correva voce che avesse di riserva anche un cardinale e un rabbino, nel caso gli attacchi fossero provenuti da altri quartieri. Nessuno rimase particolarmente sorpreso allorché un generale di brigata in pensione, che negli ultimi trent’anni doveva essere vissuto in stato di dormiveglia, quasi «comatoso» alla periferia di Aldershot, chiese di sapere quali passi venivano fatti per annettere la Luna al Commonwealth. Simultaneamente un generale era uscito da un lungo letargo ad Atlanta per chiedere al Congresso di fare della Luna il Cinquantesimo Stato. Analoghe richieste venivano fatte in quasi tutti i Paesi del mondo — con la possibile eccezione della Svizzera e del Lussemburgo —, mentre gli specialisti di diritto internazionale si rendevano conto che stavano per essere travolti da una crisi da molto tempo preannunciata. A questo punto Sir Robert Derwent diffuse il famoso manifesto che era stato approntato molti anni prima proprio in previsione di quel giorno. Diceva: «Speriamo di poter lanciare entro poche settimane la prima nave spaziale. Non sappiamo se avremo successo, ma ormai la possibilità di raggiungere i pianeti è quasi nelle nostre mani. Questa generazione si trova sull’orlo dell’oceano dello spazio e si sta preparando alla più grande avventura di tutta la storia. «C’è chi è ancora radicato a tal punto nel passato da credere che il pensiero politico dei nostri antenati possa essere applicato su altri mondi. Costoro parlano addirittura di annettere la Luna nel nome di questa o quella nazione, dimenticando che l’attraversamento dello spazio ha richiesto lo sforzo congiunto di scienziati di tutti i Paesi del mondo. «Oltre la stratosfera non ci sono nazionalità: gli ipotetici mondi che potremo raggiungere saranno eredità comune a tutti gli uomini — a meno che altre forme di vita non se ne siano già appropriate. «Noi che ci siamo sforzati di mettere l’umanità sulla strada che porta alle stelle facciamo la seguente solenne dichiarazione, ora e per il futuro: «Non porteremo frontiere nello spazio».» 14 «Suppongo di poter presumere» disse Collins in tono un po’ dubbioso «che avete afferrato tutto riguardo ai comuni razzi e capite come funzionano nel vuoto.» «Mi rendo conto» rispose Dirk «che buttandosi alle spalle molta materia, quando si è a grande velocità, c’è necessariamente un rinculo.» «Bene. E’ sorprendente vedere quante persone sono tuttora convinte che un razzo debba avere «qualcosa contro cui si spinga», come sostengono invariabilmente tutti. Capirete quindi il motivo per cui un disegnatore di razzi cerca sempre di ottenere il massimo possibile di velocità — e un po’ di più — dal getto che porta in avanti il veicolo. Ovviamente, la velocità dello scarico determina la velocità che il razzo raggiungerà. «I vecchi razzi chimici, come la «V-2», avevano velocità di getto di una o due miglia al secondo. Con prestazioni del genere portare un carico di una tonnellata alla Luna e ritorno avrebbe richiesto svariate migliaia di «tonnellate» di combustibile, il che non era fattibile. Ciò che tutti volevano era poter disporre di combustibile senza peso. Il che virtualmente è stato reso possibile grazie alle reazioni atomiche, che sono più potenti di quelle chimiche di un milione o più di volte. L’energia rilasciata dalle poche libbre di materia delle prime bombe atomiche avrebbe potuto portare un migliaio di tonnellate sulla Luna — e ritorno. «Ma sebbene l’energia sia stata rilasciata, nessuno sapeva con esattezza come usarla ai fini della propulsione. Questo piccolo problema è stato risolto solo recentemente, e ci sono voluti trent’anni per produrre i razzi atomici molto inefficienti che abbiamo oggi. «Considerate il problema da questo punto di vista: nel razzo chimico otteniamo lo scarico bruciando un combustibile e lasciando che i gas caldissimi acquistino velocità espandendosi attraverso un ugello. In altre parole, scambiamo il calore con la velocità: più sarà calda la camera di combustione, più rapidamente il getto uscirà da essa. Otterremmo lo stesso risultato anche senza bruciare combustibile, ma limitandoci a scaldare la camera di combustione con qualche fonte esterna. In altre parole, potremmo fare un razzo pompando in un’unità di riscaldamento qualunque gas volessimo — persino l’aria — e lasciando poi che si espanda attraverso un ugello. D’accordo?» «Sì. Fino a questo punto è chiaro.» «Bene. Ora, come sapete, si può ottenere tutto il calore che si vuole da una pila atomica costruendola con materiali sempre più ricchi. Ovviamente, se si strafà, la pila fonderà in una pozza di uranio liquido sulla cui superficie ribollirà il carbonio. Naturalmente, molto prima che succeda una cosa del genere, qualsiasi persona di buonsenso si affretterebbe a tornare giù.» «Volete dire che potrebbe levarsi come una bomba atomica?» «No, non potrebbe, però una fornace radioattiva inavvicinabile potrebbe essere, in un suo modo tranquillo, altrettanto pericolosa. Ma non fate quella faccia allarmata — è una cosa che non può succedere quando si siano prese le più elementari precauzioni. A questo punto abbiamo dovuto disegnare un reattore atomico che portasse il flusso di gas a una temperatura davvero altissima — almeno 4000 gradi centigradi. Considerato che tutti i metalli conosciuti fondono a temperatura molto più bassa, è stato un bel problema! «La nostra risposta è stata un reattore costituito da una lunga e sottile pila di plutonio, in un’estremità della quale viene pompato il gas, che si scalda man mano che penetra. Il risultato finale è un nucleo centrale di gas intensamente caldo nel quale possiamo concentrare o convogliare il calore da elementi circostanti. Al centro la temperatura del getto supera i 6000 gradi centigradi — un piccolo sole —, ma nei punti in cui tocca le pareti è soltanto un quarto di essa. «Fino a questo punto non ho ancora detto quale gas useremo. Certo voi vi renderete conto che più leggero è — parlando in termini rigorosi, più è basso il suo peso molecolare —, più velocemente uscirà dal getto. Dato che l’idrogeno è il più leggero di tutti gli elementi, esso sarebbe il combustibile ideale, seguito abbastanza da vicino dall’elio. Tra l’altro, dovrei spiegarvi che continuiamo a usare la parola «combustibile» anche se, in effetti, non lo bruciamo, ma lo usiamo semplicemente come un fluido attivo.» «Ecco una cosa che mi ha sempre lasciato perplesso» confessò Dirk. «I razzi chimici di una volta si trasportavano appresso i propri serbatoi di ossigeno, ed è piuttosto sconcertante scoprire che quelli attuali non fanno nulla del genere.» Collins rise. «Potremmo addirittura usare l’elio come «combustibile»«rispose «anche se questo non brucerebbe affatto, né prenderebbe parte ad alcuna reazione chimica. «Comunque, anche se l’idrogeno sarebbe il fluido ideale, non è possibile trasportarlo. Allo stato liquido bolle a una temperatura terribilmente bassa ed è così leggero che una nave spaziale dovrebbe essere dotata di serbatoi grandi come gasometri. E allora lo combiniamo con carbonio sotto forma di metano liquido C.H.4 —, che non è difficile da maneggiare e ha una giusta densità. Nel reattore esso si disgrega in carbonio e idrogeno. Il carbonio è un po’ una seccatura, perché tende a rapprendersi e a inceppare i congegni. A intervalli regolari ce ne liberiamo spegnendo il getto principale e pulendo il motore con un getto di ossigeno. E’ un bello spettacolo pirotecnico. «Questo quindi è il principio dei motori delle navi spaziali. Ottengono velocità di scarico tre volte superiore a quella di qualsiasi razzo chimico, ma anche così ci dobbiamo portare appresso un’enorme quantità di combustibile. E poi abbiamo ogni sorta di altri problemi cui non ho accennato: il peggiore è stato quello di riuscire a proteggere l’equipaggio dalle radiazioni della pila. «L’«Alpha» è il componente superiore della «Prometheus», pesa circa 300 tonnellate, 240 delle quali sono costituite dal combustibile. Se parte da un’orbita attorno alla Terra può solo arrivare sulla Luna e ritornare con una piccola riserva. «Come sapete, dev’essere portata fino a quell’orbita dalla «Beta». Questa è un’ala volante pesantissima, che viaggia ad altissima velocità, anch’essa spinta da getti atomici. Parte come uno statoreattore, usando l’aria come «combustibile», e solo quando lascia l’atmosfera attinge ai propri serbatoi di metano. Come vi renderete conto, il fatto di non dover trasportare alcun carburante per questo primo stadio del viaggio è di enorme utilità. «Al decollo la «Prometheus» pesa cinquecento tonnellate, ed è non soltanto la più veloce, ma anche la più pesante di tutte le macchine volanti. Per farla levare la Westinghouse ha costruito nel deserto una pista di lancio elettrica lunga cinque miglia. Ci è costata quasi quanto la nave stessa, ma e ovvio che sarà usata ripetutamente. «Per riassumere, quindi: lanciamo insieme i due componenti, che salgono fino a che l’aria diventa troppo rarefatta perché sia possibile continuare a far funzionare gli statoreattori; a questo punto la «Beta» inizia a usare i propri serbatoi di combustibile e raggiunge il suo apogeo a una quota di circa trecento miglia. L’«Alpha», naturalmente, non ha usato alcun combustibile; di fatto quando la «Beta» la porta su i suoi serbatoi sono quasi vuoti. «Una volta che la «Prometheus» sia arrivata ai serbatoi di combustibile che abbiamo lasciato lassù a ruotare, i due veicoli si separano. L’«Alpha» si aggancia ai serbatoi con dei tubi e pompa a bordo il combustibile. Ci siamo già esercitati su questo genere di cose e sappiamo che è fattibile, si chiama «rifornimento orbitale» ed è decisamente la chiave di tutto, perché ci consente di operare in stadi diversi. Sarebbe del tutto impossibile costruire una gigantesca nave spaziale in grado di fare il viaggio fino alla Luna e ritorno con un singolo carico di combustibile. «Una volta rifornita, l’«Alpha» spinge i motori fino a raggiungere quelle due miglia al secondo in più di velocità che le consentono di uscire dalla propria orbita e arrivare alla Luna. Raggiunge la Luna dopo quattro giorni, vi rimane una settimana, quindi ritorna e rientra nella stessa orbita di prima. L’equipaggio si trasferisce sulla «Beta», che intanto ha continuato a girare pazientemente col suo pilota molto annoiato (e che non avrà alcuna pubblicità), e viene riportata sulla Terra. E’ tutto qui. Che ci potrebbe essere di più semplice?» «Mi stupisco che non sia stato fatto tanti anni fa» disse ridendo Dirk. «Questa è la solita reazione» ribatté Collins con finto disgusto. «Per un estraneo non è facile rendersi conto di quali siano i tremendi problemi che debbono essere superati quasi a ogni stadio del lavoro. Ecco perché ci vogliono tempo e denaro. Non sarebbe stato possibile nemmeno ora, senza la ricerca su scala mondiale che è stata fatta in questi ultimi trent’anni. Gran parte del nostro lavoro è consistita nel raccogliere i risultati del lavoro di altri e nell’adattarli poi alle nostre esigenze.» «Secondo voi» chiese Dirk pensosamente «quanto è costata la «Prometheus?»» «E’ quasi impossibile dirlo. In questa macchina è stata convogliata tutta la ricerca mondiale di due generazioni, a partire dagli anni Venti. Bisognerebbe includere i due miliardi di dollari spesi per il progetto della bomba atomica, le centinaia di milioni di marchi che i tedeschi hanno investito a Peenemünde e le decine e decine di milioni spesi dal governo britannico in Australia.» «Sono d’accordo, ma dovrete pure avere un’idea di quanto denaro sia stato di fatto investito per la «Prometheus» stessa.» Be’, anche qui abbiamo avuto gratis assistenza tecnica di valore incalcolabile, e attrezzature. Comunque il professor Maxton una volta ha calcolato che la nave è costata circa dieci milioni di sterline in ricerca e cinque milioni per la costruzione vera e propria. Il che significa — ci ha fatto notare qualcuno — che stiamo comprando la Luna a una sterlina per miglio quadrato! Non sembra molto, e naturalmente le navi successive costeranno molto meno. Tra l’altro, a mio parere, stiamo recuperando le spese del primo viaggio con i diritti cinematografici e radiofonici. Ma poi chi se ne frega del denaro?» Il suo sguardo si posò sulla fotografia della lontana Terra e la sua voce assunse di colpo un tono pensoso. «Stiamo per ottenere la libertà per l’universo intero e tutto ciò che questo comporta. Non penso che sia possibile valutare ciò in termini di sterline e dollari. Alla lunga la conoscenza paga sempre in denaro sonante, ma è pur sempre assolutamente senza prezzo.» 15 L’incontro di Dirk con il professor Maxton e con Raymond Collins segnò una inconsapevole svolta nel suo pensiero e addirittura nel suo modo di vivere. Aveva l’impressione, forse sbagliata, di aver trovato la fonte delle idee che McAndrews e Matthews gli avevano passato di seconda mano. Nessuno avrebbe potuto essere più diverso dal freddo e spassionato scienziato dei romanzi di quanto lo fosse il Vice Direttore Generale. Non solo era un valentissimo ingegnere, ma era anche del tutto conscio dell’importanza del suo lavoro. Sarebbe stato affascinante scoprire i motivi che avevano portato lui e i suoi colleghi a occuparsi di quelle ricerche. Per quel che Dirk aveva visto, non sembrava probabile che la motivazione fosse il potere personale. Bisognava guardarsi dalle illusioni, ma questi uomini sembravano essere animati da un disinteresse personale che scaldava il cuore. L’Interplanetary era mossa da uno zelo missionario che la competenza tecnica e il senso dell’umorismo avevano salvato dal fanatismo. Dirk era consapevole solo in parte degli effetti che il nuovo ambiente in cui era capitato avevano sul suo carattere. Stava perdendo molta della propria diffidenza; l’idea di incontrare sconosciuti, che fino a non molto tempo prima lo riempiva di apprensione o quanto meno lo irritava, non era più un problema Per la prima volta in vita sua era in compagnia di uomini che stavano plasmando il futuro, e non solo interpretando il morto passato. Anche se lui era solo uno spettatore, cominciava a condividere con quella gente le emozioni e a partecipare ai loro trionfi e alle loro sconfitte «Sono molto colpito» scrisse nel diario quella sera «dal professor Maxton e dal suo staff. Secondo me hanno una visione molto più chiara e più vasta degli obiettivi della Interplanetary di tutti i non tecnici che ho conosciuto. Matthews, ad esempio, parla sempre dei progressi scientifici che si faranno quando avremo raggiunto la Luna. Invece, forse perché danno per scontata questa cosa, gli scienziati sembrano più interessati alle ripercussioni culturali e filosofiche. Ma non devo generalizzare su casi che potrebbero non essere tipici. «Ora sento di avere un’idea ben chiara di tutta l’organizzazione. A questo punto si tratta per lo più di inserire i particolari, cosa che dovrei essere in grado di fare con i miei appunti e con la massa di fotocopie che ho messo insieme. Non ho più l’impressione di essere uno straniero che guarda funzionare una macchina incomprensibile. Di fatto ora sento di essere quasi parte dell’organizzazione — anche se non debbo lasciarmi coinvolgere troppo. E’ impossibile restare neutrale, ma un «certo» distacco è necessario. «Fino ad ora avevo svariati dubbi e molte riserve riguardo al volo spaziale. Nel mio subconscio mi sembrava che fosse una cosa troppo grande per l’uomo. Al pari di Pascal, ero terrificato dal silenzio e dal vuoto dello spazio infinito. Ora capisco che sbagliavo. «L’errore che commettevo era il solito vecchio errore di aggrapparmi al passato. Oggi conosco uomini che pensano in milioni di miglia con la naturalezza con cui io penso in migliaia. C’era un tempo in cui mille miglia erano una distanza che andava oltre la comprensione. Ora invece tale distanza costituisce lo spazio tra un pasto e l’altro. Questo mutamento di scala sta per verificarsi di nuovo — e a una velocità senza precedenti. «Ora vedo che i pianeti non sono lontani quanto la nostra mente immagina. La «Prometheus» impiegherà cento ore per raggiungere la Luna, e in questo frattempo comunicherà con la Terra e avrà addosso gli occhi di tutto il mondo. Che piccola cosa sembra il viaggio interplanetario, se lo confrontiamo con le settimane, i mesi e gli anni dei grandi viaggi del passato! «Tutto è relativo. E verrà sicuramente il giorno in cui la nostra mente abbraccerà il Sistema Solare come ora fa con la Terra. E allora, probabilmente, quando gli scienziati staranno guardando pensosamente le stelle, molti diranno: «Non vogliamo il volo interstellare! I nove pianeti sono bastati ai nostri antenati e bastano anche a noi!».» Posò la penna sorridendo e lasciò che la sua mente spaziasse nel regno della fantasia. L’Uomo avrebbe mai affrontato quella stupenda sfida e mandato le proprie navi nel golfo tra le stelle? Ricordò una frase che aveva letto una volta: «Le distanze interplanetarie sono di un milione di volte più grandi di quelle a cui siamo abituati nella vita quotidiana, ma le distanze interstellari lo sono svariati milioni di volte di più». La sua mente vacillò a quel pensiero, ma lui continuò ad aggrapparsi alla frase: «tutto è relativo». In poche migliaia di anni l’Uomo era passato dalla giunca alla nave spaziale. Che altro ancora avrebbe potuto fare negli eoni a venire? 16 Sarebbe falso ipotizzare che i cinque uomini sui quali erano puntati gli occhi di tutto il mondo si considerassero audaci avventurieri in procinto di rischiare la vita in uno stupendo gioco d’azzardo scientifico. Erano tutti tecnici dotati di spirito pratico e realistico che non intendevano minimamente prender parte a un qualsivoglia azzardo — per lo meno per quanto riguardava la loro vita. Un rischio c’era, naturalmente, ma si rischiava anche prendendo il treno delle 8.10 per raggiungere la City. Ognuno di loro aveva reagito a modo proprio alla pubblicità della settimana precedente. Se l’erano aspettata e si erano preparati bene. Hassell e Leduc si erano già trovati sotto gli occhi del pubblico e sapevano come trarre godimento da quell’esperienza evitandone gli aspetti più irritanti. Gli altri tre membri dell’equipaggio, ritrovandosi di colpo famosi, tendevano a stare uniti come a darsi protezione l’un l’altro. Una mossa fatale, perché li rese facile preda dei giornalisti. Clinton e Taine erano ancora sufficientemente nuovi all’esperienza delle interviste per esserne compiaciuti, ma il loro collega canadese, Jimmy Richards, le detestava. Le sue risposte, di non grande aiuto inizialmente, si fecero sempre più brusche col passar del tempo poiché era arcistufo di rispondere sempre alle medesime domande. In un’occasione rimasta famosa, angariato da una giornalista particolarmente prepotente, si era comportato in modo ben meno che cavalleresco. Secondo la descrizione che prese a circolare in seguito grazie a Leduc, l’intervista era andata pressappoco nel seguente modo: «Buongiorno, signor Richards. Vi spiacerebbe rispondere a qualche domanda per il «West Kensington Clarion»?» Richards (annoiato ma ancora passabilmente cortese): «Certo, anche se tra pochi minuti ho appuntamento con mia moglie». «Siete sposato da molto?» «Da dodici anni.» «Oh! Bambini?» «Due: entrambe femmine, se ricordo bene.» «Vostra moglie approva che ve ne voliate via dalla Terra così?» «Sarà bene che lo faccia.» (Pausa durante la quale l’intervistatrice si rende conto che, per una volta, la sua ignoranza della stenografia non costituirà un handicap). «Suppongo abbiate sempre provato un violento impulso ad andare tra le stelle, a — ehm — piazzare la bandiera dell’umanità su altri mondi, vero?» «No. Non ci ho mai pensato fino a un paio di anni fa.» «E allora come mai siete stato scelto per questo volo?» «Perché sono il secondo miglior ingegnere atomico del mondo.» «E il primo chi è?» «Il professor Maxton, che è troppo prezioso perché si rischi la sua vita.» «Vi sentite nervoso?» «Oh sì. Ho paura dei ragni, dei blocchi di plutonio che abbiano più di 30 centimetri di diametro e di tutto quello che fa rumore di notte.» «Intendevo dire… siete nervoso all’idea di questo viaggio?» «Sono terrorizzato. Guardate, vedete che tremo?» (Dimostrazione. Danni di lieve entità alla mobilia.) «Che cosa vi aspettate di trovare sulla Luna?» «Una gran quantità di lava e pochissimo altro.» L’intervistatrice assume un’aria smarrita e ovviamente si sta apprestando a sganciarsi. «Vi aspettate di trovare qualche forma di vita sulla Luna?» «Molto probabile che ci sia. Appena arriveremo mi aspetto di sentire un colpo al portello e una voce che dirà: «Vi dispiacerebbe rispondere a qualche domanda per il ‘Selenites Weekly’?».» Naturalmente non tutte le interviste erano come questa e bisogna prendere atto che Richards giurò che tutta la faccenda era stata inventata da Leduc. La maggior parte dei giornalisti che si occupavano delle attività dell’Interplanetary erano laureati in materie scientifiche e passati poi al giornalismo. Il loro era un compito ingrato, dal momento che i giornali spesso guardavano a loro come intrusi e gli scienziati come apostati. Forse nessuna singola cosa aveva attratto il pubblico interesse più del fatto che due membri dell’equipaggio avrebbero costituito solo delle riserve e che sarebbero rimasti sulla Terra. Per un certo periodo di tempo, le speculazioni sulle dieci possibili combinazioni divennero così diffuse che i bookmakers presero a interessarsene. Era generalmente dato per scontato che, dal momento che Hassell e Leduc erano entrambi piloti di razzi, ne sarebbe stato scelto solo uno. Poiché questo genere di discussioni avrebbe potuto avere cattivi effetti sugli uomini, il Direttore Generale mise in chiaro che nessuna di quelle argomentazioni era valida. Grazie al loro addestramento, «qualunque» gruppo di tre uomini avrebbe formato un equipaggio efficiente. Accennò al fatto, senza prometterlo definitivamente, che la scelta finale avrebbe potuto essere fatta per ballottaggio, ma nessuno — tanto meno i cinque uomini in questione — ci credette sul serio. La preoccupazione di Hassell per il bambino che doveva nascere era giunta a conoscenza di tutti. Il che non aiutava. Era cominciata come un piccolo turbamento nel profondo della sua mente, che egli, per molto tempo, era però riuscito a tenere sotto controllo. Man mano che le settimane erano passate, tuttavia, aveva cominciato a preoccuparsi sempre più, finché la sua efficienza aveva preso a risentirne. Quando se ne era reso conto, si era preoccupato ancora di più, e così il processo si era accelerato. Dal momento che la sua paura non era per se stesso ma riguardava una persona che amava, e dato ch’era fondata, c’era poco che gli psicologi avrebbero potuto fare al riguardo. Non potevano consigliare a un uomo col suo carattere e col suo temperamento di farsi eliminare dalla spedizione. Potevano solo stare a guardare: e Hassell sapeva benissimo che lo stavano osservando. 17 Durante i giorni precedenti l’Esodo, Dirk trascorse poco tempo a Southbank. Era impossibile lavorare lì: quelli che stavano per partire per l’Australia erano troppo affaccendati a fare i bagagli e a riordinare i loro affari, mentre quelli che non sarebbero andati erano di un umore poco incline alla collaborazione. L’irrefrenabile Matthews era stato uno dei sacrificati: McAndrews lo avrebbe lasciato al comando. Una soluzione molto ragionevole, però i due uomini non si parlavano più. Dirk era molto contento di tenersi fuori dalla loro strada, soprattutto perché si erano un po’ irritati per la sua diserzione a favore degli scienziati. Vedeva ugualmente poco Maxton e Collins, dato e il Dipartimento Tecnico era in uno stato di trambusto organizzato. Evidentemente era stato deciso che in Australia si sarebbe potuto aver bisogno di «tutto». Solo Sir Robert Derwent sembrava perfettamente soddisfatto in mezzo al disordine e Dirk rimase stupefatto quando un mattino fu convocato nel suo ufficio. Questo accadde in uno dei pochi giorni in cui si recava al Quartier Generale. Era il suo primo vero incontro con il Direttore Generale, dalla breve presenzione avvenuta il giorno del suo arrivo. Entrò un po’ timidamente, pensando a tutte le voci che aveva sentito su Sir Robert. Il D.G. probabilmente notò e capì la sua diffidenza, perché i suoi occhi rivelarono un luccichio divertito mentre gli stringeva la mano e gli indicava la poltrona su cui sedersi. La stanza non era più grande dei molti altri uffici che Dirk aveva visto a Southbank, ma, essendo collocata su uno spigolo dell’edificio, offriva una vista impareggiabile. Si poteva vedere tutto il lungofiume da Charing Cross al London Bridge. Sir Robert non perse tempo e andò subito al dunque. «Il professor Maxton mi ha detto del vostro incarico» iniziò. «Suppongo che ci abbiate messi tutti nella vostra boccia di vetro a dibatterci in attesa di essere infilzati affinché i posteri possano esaminarci, vero?» «Spero, Sir Robert» rispose Dirk sorridendo «che il risultato finale non sia altrettanto statico. Non sono qui per registrare primariamente i fatti, bensì le influenze e i motivi.» Il Direttore Generale picchiettò pensosamente le dita sulla scrivania, poi, con voce pacata, osservò: «E quali motivi, secondo voi, sottenderebbero il nostro lavoro?» La domanda, posta in modo così diretto, lo colse alla sprovvista. «Sono molto complessi» cominciò in tono difensivo. «Momentaneamente direi che rientrano in due classi: una materiale e una spirituale.» «Mi riesce piuttosto difficile» ribatté il D.G. con voce mite «immaginare una terza categoria.» Dirk fece un sorriso un po imbarazzato. «Forse sono un po’ troppo generico. Quello che intendo dire è questo: i primi uomini che portarono seriamente avanti l’idea del viaggio interplanetario erano visionari innamorati di un sogno. ll fatto che fossero anche dei tecnici non conta: erano essenzialmente artisti che usavano la loro scienza per creare qualcosa di nuovo. Se il volo spaziale non avesse avuto nessun concepibile uso pratico, essi avrebbero continuato a desiderarlo egualmente. «La loro era una motivazione spirituale, come l’ho definita io. Forse «intellettuale» è un termine più confacente. Non si può analizzarlo in modo più approfondito, perché rappresenta un basilare impulso umano: quello della curiosità. Dal punto di vista materiale, voi ora vedete grandi nuove industrie e processi ingegneristici, e il desiderio che hanno le miliardarie società di comunicazione di sostituire le miriadi di trasmettitori terrestri con due o tre stazioni nello spazio. Questo è l’aspetto Wall Street del quadro, che, naturalmente, è sopravvenuto molto tempo dopo.» «E, secondo voi» lo incalzò inesorabile Sir Robert «quale predomina?» Ora Dirk cominciava a sentirsi del tutto a proprio agio. «Prima che arrivassi a Southbank» disse «pensavo all’Interplanetary — quando ci pensavo — come a un gruppo di tecnici a caccia di dividendi scientifici. Questo è ciò che fingevate di essere, e avete ingannato moltissima gente. La descrizione può adattarsi a qualcuno dei membri dei gradi intermedi della vostra organizzazione, ma non è vera per i vertici.» Dirk tirò indietro la corda del suo arco e mirò a un invisibile bersaglio fuori nell’oscurità. ««Penso che l’Interplanetary sia gestita — e lo sia sempre stata — da visionari, poeti, se preferite, che per caso sono anche scienziati. A volte il camuffamento non riesce molto bene.»«Seguì un silenzio. Di lì a un po’ Sir Robert, con voce piuttosto sommessa, sebbene con l’accenno di una risatina, disse: «E’ un’accusa che ci è già stata fatta. Noi non lo abbiamo mai negato, questo. Qualcuno una volta ha detto che tutta l’attività umana è una forma di gioco. Non ci vergogniamo di voler giocare con le navi spaziali.» «E mentre giocate» disse Dirk «cambierete il mondo e magari anche l’Universo.» Ora vedeva Sir Robert in un altro modo. Non vedeva più quella testa decisa da mastino, con l’ampia fronte, perché all’improvviso si era ricordato della descrizione che Newton aveva dato di sé, come di un bambinetto che raccoglieva sassolini dai vivaci colori sulla spiaggia dell’oceano della conoscenza. Sir Robert Derwent, come tutti i grandi scienziati, era quel bambino. Dirk pensava che, in ultima analisi, lui avrebbe attraversato lo spazio per nessun’altra ragione se non per quella di guardare dai luccicanti picchi lunari la Terra passare dalla notte al giorno, o per vedere gli anelli di Saturno in tutta la loro inimmaginabile gloria, colmare il cielo della sua luna più vicina. 18 La consapevolezza che quello era l’ultimo giorno che avrebbe trascorso a Londra riempiva Dirk di un rimpianto colpevole. Rimpianto perché praticamente non aveva visto nulla della città, colpevole perché non poteva fare a meno di avere la sensazione che ciò fosse in parte colpa sua. Era vero ch’era stato occupatissimo, ma guardando alle settimane trascorse, era difficile credere che gli fosse stato impossibile visitare il British Museum almeno due volte, o addirittura vedere anche una sola volta la Cattedrale di Saint Paul. Non sapeva quando avrebbe rivisto Londra, perché sarebbe tornato direttamente in America. Era una bella giornata, ma piuttosto fredda, con la solita possibilità di pioggia imminente. Non c’era lavoro da fare nel suo appartamento, perché tutte le carte erano già state imballate e adesso erano già a metà strada. Salutò quei membri dello staff dell’Interplanetary che non avrebbe più rivisto; la maggior parte degli altri li avrebbe incontrati di buon mattino il giorno dopo all’aeroporto di Londra. Matthews, che sembrava esserglisi affezionato, si era quasi commosso, e anche Sam e Bert, con cui si era sempre beccato, avevano insistito per fare un piccolo festeggiamento d’addio in ufficio. Quando si allontanò da Southbank per l’ultima volta con una stretta al cuore, si rese conto che stava anche dicendo addio a uno dei periodi più felici della sua vita. Felice perché era stato pieno, perché gli aveva permesso di esprimere al massimo tutte le proprie risorse — e soprattutto perché lui era stato tra quegli uomini le cui vite avevano uno scopo che sapevano essere più grande di loro. Comunque adesso si ritrovava con una giornata vuota davanti e non sapeva come occuparla. In astratto sembrava assurdo, ma in concreto era così. Si avviò lungo la piazza silenziosa, chiedendosi se fosse stato saggio da parte sua lasciare l’impermeabile nell’appartamento. Era solo a poche centinaia di metri dall’Ambasciata dove doveva recarsi per una piccola pratica, che però gli premeva abbastanza da indurlo a prendere una scorciatoia. Come risultato si perse subito nel meandro di viuzze e cul-de-sac che fa di Londra una continua fonte di esasperante delizia. Solo dopo aver fortuitamente intravisto il Roosevelt Memorial, finalmente ritrovò l’orientamento. Una pigra colazione con alcune conoscenze dell’Ambasciata nel loro club preferito gli permise di passare le prime ore del pomeriggio; poi fu abbandonato alle sue risorse personali. Avrebbe potuto andare ovunque voleva, vedere i posti che, in caso contrario, si sarebbe rammaricato di non aver visitato, e tuttavia una sorta di irrequieto stato di letargo lo rendeva incapace di fare qualsiasi cosa se non vagare a caso per le strade. Il sole si era finalmente attestato nel cielo e il pomeriggio era tranquillo e rilassante. Era piacevole aggirarsi per le viuzze e trovarsi per caso ai piedi di edifici più vecchi degli Stati Uniti sui quali però si leggevano scritte quali: «Grosvenor Radio and Electronic Corporation», oppure «Provincial Airways Ltd.». Nel tardo pomeriggio emerse in quello che, concluse, doveva essere Hyde Park. Per un’ora passeggiò sotto gli alberi, sempre tenendo d’occhio le strade adiacenti. L’Albert Memorial lo tenne immobilizzato, lasciandolo incredulo per alcuni minuti, ma poi finalmente sfuggì al suo ipnotico incantamento e decise di tagliare attraverso il parco fino a Marble Arch. Aveva dimenticato la fervida oratoria per la quale andava famoso quel tratto e lo divertì molto passare da un capannello a un altro, fermandosi ad ascoltare gli oratori e i loro critici. Chi, si chiese, aveva messo in giro la voce che i britannici erano persone riservate e chiuse? Ascoltò per un po’, oltremodo interessato, un duetto tra un oratore e il suo provocatore, nel quale entrambi sostenevano con pari accanimento che Karl Marx aveva — e non aveva — fatto una certa affermazione. Non capì di che affermazione si trattasse e cominciò a sospettare che i due stessi antagonisti se ne fossero dimenticati da parecchio. Di tanto in tanto la folla bonaria forniva opportune interruzioni perché ovviamente non aveva opinioni ben radicate sull’argomento, però voleva tenere accesa la discussione. Il successivo oratore sembrava impegnato nel dimostrare con l’aiuto di testi biblici che il Giorno del Giudizio era vicino. Rammentò a Dirk un profeta apocalittico dell’angoscioso 999 Anno Domini. I loro successori, dieci secoli dopo, avrebbero continuato a predire il Giorno dell’Ira quando il 1999 si fosse avvicinato alla conclusione? Aveva pochi dubbi al riguardo. Per molti versi la natura umana cambiava pochissimo: i profeti ci sarebbero sempre stati e ci sarebbe stato sempre qualcuno che avrebbe creduto loro. Si spostò verso il gruppo successivo; un piccolo ma attento pubblico era raccolto attorno a un uomo anziano dai capelli bianchi che stava facendo una conferenza filosofica — una conferenza notevolmente dotta. Non tutti gli oratori, pensò Dirk, erano dei pazzi. Quello poteva essere un insegnante in pensione così convinto della possibilità di istruire gli adulti, da essere spinto a tener banco sulla piazza del mercato per tutti coloro che fossero disposti ad ascoltarlo. Il suo discorso verteva sulla Vita, sulla sua origine, sul suo destino. I suoi pensieri, come quelli di chi lo ascoltava, erano indubbiamente influenzati da quella saetta alata che giaceva sul deserto all’altro capo del mondo, perché di lì a poco cominciò a parlare del palcoscenico astronomico sul quale si stava recitando lo strano dramma della vita. Fece un vivido quadro del Sole e dei pianeti che lo attorniavano, portandosi appresso i pensieri dei suoi ascoltatori di mondo in mondo. Aveva il dono di saper elaborare frasi pittoresche e, anche se Dirk non era sicuro che si limitasse alle conoscenze scientifiche acquisite, l’effetto generale che dava era abbastanza preciso. Rappresentò il minuscolo Mercurio, bruciante sotto il suo enorme sole, come un mondo di rocce roventi, spazzate da pigri oceani di metallo fuso. Venere, pianeta e sorella della Terra, restava perennemente nascosta alla vista da quelle nubi turbolente, che non si erano mai squarciate nemmeno una volta nel corso dei secoli durante i quali gli uomini l’avevano guardata. Sotto quella coperta forse c’erano oceani e foreste e il fremito di qualche strana vita, o forse non c’era altro che un deserto spoglio battuto da venti sferzanti. Parlò di Marte; e nel pubblico passò un fremito di accresciuta attenzione. A quaranta milioni di miglia lontano dal Sole, la Natura aveva segnato il suo secondo punto. Anche lì c’era vita: vi si potevano vedere i colori mutanti che sul nostro mondo parlavano del passare delle stagioni. Anche se su Marte c’era poca acqua e la sua atmosfera era stratosfericamente rarefatta, era possibile che vi fosse della vegetazione e magari anche vita animale. Non vi era alcuna prova concreta di intelligenza. Al di là di Marte i giganteschi mondi esterni se ne stavano raggelati in una luce crepuscolare, che diventava più buia e più fredda man mano che il Sole rimpiccioliva, fino ad essere una stella lontana. Giove e Saturno erano schiacciati sotto atmosfere spesse migliaia di miglia — atmosfere di metano e ammoniaca, squassate da uragani che si potevano osservare attraverso mezzo miliardo di miglia o più di spazio. Se su quegli strani pianeti esterni c’era vita, e se ce n’era anche su quei mondi ancor più freddi al di là di essi era un mistero che doveva essere ancor più inimmaginabile. Solo nella zona temperata del Sistema Solare, la stretta cintura entro la quale fluttuavano Venere, la Terra e Marte, era possibile che ci fosse la vita come noi la conoscevamo. Vita come noi la conoscevamo! E quanto poco conoscevamo! Che diritto avevamo noi, nel nostro misero mondo, di presumere che essa fosse il modello per tutto l’universo? Si poteva essere più presuntuosi di così? L’universo non era ostile alla vita, ma semplicemente indifferente. La sua estraneità era un’opportunità e una sfida — una sfida che l’intelligenza avrebbe accettato. Mezzo secolo prima Shaw aveva detto la verità quando aveva messo le seguenti parole in bocca a Lilith, venuta prima di Adamo ed Eva: «Solo alla Vita non c’è fine; e sebbene dei suoi milioni di stellate dimore molte siano ancora vuote e molte ancora non costruite, e sebbene il suo vasto dominio sia ancora insopportabilmente deserto, un giorno il mio seme la riempirà e la padroneggerà sino ai suoi estremi confini». La voce chiara e colta si spense e Dirk tornò ad essere consapevole di ciò che lo circondava. Era stata una performance notevole: gli sarebbe piaciuto saperne di più su quell’oratore, che ora stava tranquillamente smontando la piccola pedana su cui aveva parlato e si apprestava a portarla via su una carriola malridotta. La folla si stava disperdendo alla ricerca di nuove attrazioni. Di tanto in tanto frasi udite a metà e portate dal vento facevano capire a Dirk che gli altri oratori stavano ancora lavorando a pieno ritmo. Si apprestò ad allontanarsi e, girandosi, intravide un volto che riconobbe. Per un attimo fu colto completamente di sorpresa: la coincidenza sembrava troppo improbabile per essere vera. Fermo in mezzo alla gente, solo a pochi metri da lui, c’era Victor Hassell. 19 Maude Hassell non aveva avuto bisogno di spiegazioni elaborate quando il marito aveva detto, piuttosto bruscamente, che sarebbe andato «a far due passi nel parco». Aveva capito perfettamente e si era limitata a esprimere la speranza che nessuno lo riconoscesse e che sarebbe tornato in tempo per il tè. Entrambi i desideri erano destinati a non essere soddisfatti, cosa di cui lei era stata abbastanza sicura. Victor Hassell viveva a Londra da quasi metà della propria vita, ma le sue prime impressioni della città erano ancora nitidissime, e avevano il primo posto tra i suoi affetti. Giovane studente di ingegneria, aveva abitato nella zona di Paddington, recandosi tutti i giorni al college attraverso Hyde Park e Kensington Gardens. Quando pensava a Londra non vedeva strade affollate ed edifici famosi nel mondo, ma tranquilli viali alberati e campi aperti, e le distese di sabbia di Rotten Row, lungo le quali la domenica mattina persone a cavallo avrebbero continuato a fare le loro belle passeggiate anche quando le prime navi spaziali dell’umanità si fossero dirette a casa di ritorno dalle stelle. E non aveva bisogno di rammentare a Maude il loro primo incontro vicino al Serpentine, solo due anni prima, ma già un’eternità. Ora doveva accomiatarsi da tutti quei luoghi. Passò un po’ di tempo in South Kensington, passando davanti a vecchi colleges che tanta parte erano dei suoi ricordi. Non era cambiato nulla lì: gli studenti con le loro cartelle, con il loro regolo e le loro squadre a T erano esattamente gli stessi. Era curioso pensare che quasi un secolo prima il giovane H.G. Wells aveva fatto parte di quella folla viva e irrequieta. Agendo d’impulso, entrò nello Science Museum e raggiunse, come tante volte aveva fatto in passato, la copia del biplano dei Wright. Trent’anni prima l’originale era appeso nella grande galleria, ma da molto tempo era tornato negli Stati Uniti, e pochi ora ricordavano la prolungata battaglia condotta da Orville Wright contro lo Smithsonian Institute, che era stato la causa del suo esilio. C’erano settantacinque anni, una lunga vita, non di più — tra la fragile intelaiatura di legno che si era levata di pochi metri dal suolo a Kitty Hawk e il grande proiettile che forse di lì a poco lo avrebbe portato sulla Luna. E non dubitava che in un’altra vita la «Prometheus» sarebbe apparsa tanto buffa e primitiva quanto il piccolo biplano sospeso sopra la sua testa. Hassell uscì e raggiunse Exhibition Road sotto il sole che brillava luminoso. Sarebbe potuto restare un po’ di più al museo, ma si era accorto che diverse persone avevano cominciato a fissarlo troppo intensamente. Si disse che le sue probabilità di non essere riconosciuto erano verosimilmente più basse in quell’edificio che ovunque altrove sulla Terra. Passeggiò lentamente per il parco, lungo i viali che conosceva così bene, soffermandosi un paio di volte ad ammirare scorci che forse non avrebbe mai più rivisto. In questa consapevolezza non c’era alcuna morbosità. Riusciva a valutare con un certo distacco la maggiore intensità che tale consapevolezza dava alle sue emozioni. Come la maggior parte degli uomini, Hassell aveva paura della morte; ma c’erano occasioni in cui essa costituiva un rischio giustificabile. Questo, quanto meno, era stato vero fino a che aveva potuto prendere in considerazione solo se stesso. Desiderava solo poter dimostrare che era ancora così. Ma finora non c’era riuscito. Non lontano da Marble Arch c’era una panchina sulla quale Maude e lui si erano spesso seduti prima di sposarsi. Le aveva chiesto di sposarlo molte volte, e lei aveva rifiutato quasi — ma non proprio — altrettante volte. Fu contento di vedere che in quel momento era libera e vi si lasciò cadere con un sospiretto soddisfatto. La sua soddisfazione fu di breve durata perché meno di cinque minuti dopo fu raggiunto da un anziano signore che prese posto accanto a lui con una pipa in bocca e il «Manchester Guardian» in mano. (Il fatto che qualcuno avesse potuto desiderare di far la guardia a Manchester gli era sempre apparso come oltremodo sconcertante.) Di lì a un po’ decise di alzarsi, ma prima che potesse farlo senza apparire maleducato vi fu un’ulteriore complicazione. Due ragazzini che stavano passeggiando lungo il viale virarono all’improvviso a destra e si avvicinarono alla panchina. - Lo guardarono con aria decisa nel modo disinibito di certi ragazzini, poi il maggiore disse in tono d’accusa: Ehi signore, siete Vic Hassell?». Hassell li osservò con espressione critica. Erano evidentemente fratelli, una coppia di bambini brutti quanto sarebbe stato difficile trovarne nell’arco di un’intera lunga giornata. Rabbrividì leggermente nel rendersi conto di quanto fosse rischioso essere genitore. In circostanze normali Hassell avrebbe risposto allegramente all’accusa, dato che non aveva dimenticato i suoi entusiasmi infantili. Lo avrebbe fatto anche ora se lo avessero avvicinato in modo più educato. Ma quei monelli sembravano scappati dalla scuola per giovani delinquenti del Dottor Fagin. Li guardò fissamente e rispose con la sua voce da Mayfair 1920 circa: «Sono le tre e mezza e io non ho spiccioli». A quell’abile «non sequitur» il più piccolo si rivolse al fratello ed esclamò accaloratamente: «Cavoli, George… te lo aveva detto che non era lui!». L’altro prese a strozzarlo lentamente torcendogli la cravatta e continuò a parlare come se non fosse successo nulla. «Siete Vic Hassell, il tizio del razzo.» «Vi sembra che somigli al signor Hassell?» chiese il signor Hassell in tono di sorpresa indignata. «Sì.» «E strano… nessuno me l’ha mai detto.» Quelle parole potevano sembrare fuorvianti, ma erano letteralmente la verità. I due lo guardarono con aria pensosa: al minore ora era stato concesso il lusso di respirare. Improvvisamente George si rivolse al «Manchester Guardian», anche se ora nella sua voce traspariva una punta di dubbio: «Ci sta prendendo in giro, signore, vero?». Un paio di occhiali si sollevarono al di sopra del giornale a fissarli a mo’ di gufo. Poi si posarono su Hassell che cominciò a sentirsi a disagio. Seguì un silenzio lungo e pensoso. Poi lo sconosciuto picchiettò un dito sulla pagina del giornale e disse in tono severo: «Qui c’è una foto del signor Hassell. Il naso è del tutto diverso. E adesso, per favore, andatevene». La barricata del giornale fu eretta di nuovo. Hassell prese a guardare nel vuoto, ignorando i suoi inquisitori, che continuarono a fissarlo increduli ancora per un minuto. Poi, con suo grande sollievo, presero ad allontanarsi, sempre litigando. Hassell si stava chiedendo se avrebbe dovuto ringraziare lo sconosciuto difensore allorché questi ripiegò il giornale e si tolse gli occhiali. «Sapete» disse l’uomo dopo qualche colpetto di tosse «la somiglianza è notevolissima.» Hassell si strinse nelle spalle. Si chiese se avrebbe dovuto confessare, ma decise di non farlo. «A dir la verità» rispose «già altre volte questo mi ha provocato qualche noia.» Lo sconosciuto lo guardò con espressione assorta, anche se i suoi occhi ora sembravano persi in qualcosa di vago e lontano. «Partono per l’Australia domani, vero?» disse retoricamente. «Suppongo che abbiano il cinquanta per cento di possibilità di tornare dalla Luna, no?» «Secondo me molto di più.» «E’ comunque un rischio e suppongo che in questo stesso momento il giovane Hassell si stia chiedendo se rivedrà mai più Londra. Sarebbe interessante sapere che cosa sta facendo ora… da questo si potrebbero capire molte cose di lui.» «Credo di sì» rispose Hassell, agitandosi nervosamente sulla panchina e chiedendosi come fare per allontanarsi. Lo sconosciuto però sembrava aver voglia di parlare. «C’è un articolo di fondo qui» disse, agitando il giornale stazzonato «che riguarda le implicazioni del volo spaziale e gli effetti che avrà sulla vita quotidiana. Questo genere di cose vanno benissimo, ma quando ci metteremo un po’ «tranquilli», eh?» «Non vi seguo molto bene» disse Hassell, anche se non era del tutto vero. «A questo mondo c’è spazio per tutti, e se lo gestiremo bene non ne troveremo uno migliore, anche se ce ne andremo a zonzo per tutto l’universo.» «Forse» ribatté Hassell in tono blando «quando lo avremo fatto apprezzeremo ancora di più la Terra.» «Hum… e allora siamo ancora più pazzi. Quando ce ne staremo un po’ in pace?» Hassell, che già si era sentito dire una cosa del genere, fece un sorrisetto. «Il sogno dei Lotofagi» disse «è una piacevole fantasia per l’individuo, ma sarebbe la morte per la razza.» Era stato Sir Robert Derwent a fare questa osservazione una volta ed essa era diventata una delle citazioni preferite di Hassell. «I Lotofagi? Vediamo, che ha detto di loro Tennyson?… Nessuno più lo legge al giorno d’oggi. «Qui c’è una dolce musica che cade più dolce…», no, non è questo verso. Ah ecco, ci sono! ««C’è mai pace nel continuare a rimontare l’onda che monta?» «Be’ giovanotto, «c’è» allora?» «Per certe persone sì» gli rispose l’altro. «E forse, quando si potrà volare nello spazio, tutti si precipiteranno sui pianeti lasciando i Lotofagi ai loro sogni. Questo dovrebbe lasciare tutti soddisfatti» «E i mansueti erediteranno la terra» commentò il suo compagno, che sembrava avere una forte inclinazione letteraria. «Si può mettere anche così» disse Hassell sorridendo. Guardò meccanicamente l’orologio, deciso a non lasciarsi coinvolgere in una discussione che poteva avere un unico risultato. «Santo Cielo, devo andare! Grazie per la chiacchierata.» Si alzò per andarsene, pensando di essere riuscito a mantenere piuttosto bene l’incognito. L’uomo gli fece uno strano sorrisetto e disse con voce sommessa: «Arrivederci». Attese che Hassell fosse a cinque o sei metri di distanza, poi aggiunse in tono più forte: «E buona fortuna — Ulisse!». Hassell si fermò di scatto, poi girò sui tacchi… ma l’altro stava già dirigendosi con passo deciso verso Hyde Park Corner. Seguì la figura alta e magra finché non si fu persa tra la folla, e soltanto allora si disse in tono violento: «Be’, che mi venga un colpo!». Poi si strinse nelle spalle e si incamminò verso Marble Arch con l’intenzione di fermarsi ad ascoltare ancora una volta gli oratori da strada che tanto l’avevano divertito in gioventù. Dirk non ci mise molto a rendersi conto che dopo tutto la coincidenza non era tanto sorprendente. Ricordò che Hassell abitava nella zona di West London. Che c’era di più naturale che anche lui volesse dare un’ultima occhiata alla città? Poteva benissimo essere l’ultima in un senso più definitivo di quanto non lo sarebbe stata per Dirk. I loro sguardi si incrociarono al di sopra delle persone. Hassell ebbe un lieve sussulto nel riconoscerlo. Dirk però non pensava che si ricordasse il suo nome. Si fece strada tra la folla e si avvicinò al giovane pilota, presentandosi con un certo imbarazzo. Era probabile che Hassell desiderasse essere lasciato in pace, ma non gli riusciva di andarsene senza parlargli. Aveva sempre desiderato conoscere quell’inglese e questa gli sembrava un’occasione troppo bella per perderla. «Avete sentito l’ultima orazione?» chiese Dirk, tanto per avviare la conversazione. «Sì rispose Hassell. «Passavo di qui e ho sentito quello che diceva il vecchio. L’ho visto spesso, è uno degli esemplari più normali. C’è di tutto qui, vero?» e rise indicando la folla. «Davvero» rispose Dirk. «Ma sono contento di aver visto questo posto, è stata un’esperienza interessante.» Mentre parlava osservava attentamente Hassell. Non era facile capire quanti anni avesse. Potevano essere venticinque, ma anche trentacinque. Era di corporatura snella, aveva lineamenti ben definiti e una massa ribelle di capelli castani. La guancia sinistra era solcata in diagonale da una cicatrice che si era formata in seguito a un precedente incidente a bordo di un razzo, ma adesso era appena visibile e questo solo quando la pelle si tendeva. «Dopo aver sentito quel discorso» dichiarò Dirk «devo dire che l’universo non sembra un posto molto attraente. Non mi stupisce che ci sia molta gente che preferirebbe restarsene a casa.» Hassell rise. «E’ buffo che lei dica questo: ho appena finito di parlare con un vecchio signore che mi diceva la stessa cosa. Lui sapeva chi ero io ma ha finto di non saperlo. Io sostenevo che ci sono due tipi di persone: quelle avventurose e curiose e i pantofolai ben contenti di starsene nel giardinetto di casa. Io ritengo siano entrambe necessarie, ed è sciocco pretendere che qualcuno abbia ragione.» «Io devo essere un ibrido» ribatté sorridendo Dirk. «Mi piace stare nel mio giardinetto… ma mi piacciono anche i viaggiatori che ogni tanto vengono a trovarmi e mi dicono quello che hanno visto.» Si interruppe bruscamente, quindi aggiunse: «Che ne direste di sederci da qualche parte a bere qualcosa?». Si sentiva stanco e aveva sete. E così pure Hassell. «Ma solo per un momento» disse quest’ultimo «vorrei rientrare prima delle cinque.» Questo, Dirk poteva capirlo, anche se non sapeva nulla delle preoccupazioni domestiche dell’altro. Si lasciò guidare da Hassell fino al bar del Cumberland, dove sedettero con piacere dietro un paio di grosse birre. «Non so» disse Dirk, dando qualche colpetto di tosse come a scusarsi, «se sapete in cosa consiste il mio lavoro.» «Si dà il caso di sì» rispose Hassell con un sorriso accattivante. «Ci chiedevamo quando sareste arrivato a noi. Voi siete l’esperto di motivazioni e influssi, vero?» Dirk fu stupito, nonché un po’ imbarazzato di scoprire fino a che punto si era sparsa la sua fama. «Ehm… sì» ammise. «Naturalmente» si affrettò ad aggiungere «non sono interessato a casi individuali, ma mi è molto utile appurare quale è stata la motivazione iniziale che ha indotto una persona a occuparsi di astronautica.» Si chiese se Hassell avrebbe abboccato all’amo, e di lì a un minuto quello cominciò a mordicchiarlo e Dirk si sentì come un pescatore che osservi il suo galleggiante che finalmente comincia a sobbalzare sulla superficie di un placido lago. «Di questo abbiamo discusso a lungo alla nursery» disse Hassell. «Non è una risposta facile.» Dirk mantenne un silenzio incoraggiante. «Prendete Taine, per esempio. Lui è uno scienziato puro alla ricerca della conoscenza e non molto interessato alle conseguenze. Ecco perché, nonostante il suo cervellone, sarà sempre un uomo più piccolo del D.G. Badate… la mia non è una critica. Un solo Sir Robert probabilmente basta e avanza per un’unica generazione! " «Clinton e Richards sono ingegneri e amano le macchine per se stesse, pur essendo molto più umani di Taine. Penso abbiate sentito come Jimmy tratta i giornalisti che non gli piacciono… lo immaginavo! Clinton è un tipo strano e non si sa mai esattamente quello che gli passa per la testa. Comunque loro sono stati scelti per questo compito, non l’hanno cercato. «Pierre invece è diversissimo da tutti gli altri. E’ il tipo che ama l’avventura in sé, per questo è diventato pilota di razzi. E’ stato il suo grosso errore, anche se allora non lo capì. Non c’è nulla di avventuroso nel volo missilistico: o va secondo i piani… oppure bang!» Abbassò il pugno sul tavolo, fermandosi a una frazione di centimetro prima di abbatterlo, cosicché i bicchieri non tintinnarono violentemente. La precisione inconscia di quel gesto riempì Dirk di ammirazione. Non poteva però non controbattere la sua ultima affermazione. «Mi pare di ricordare» disse «un piccolo contrattempo che vi è capitato e che deve avervi fornito una certa dose di… ehm… eccitazione.» Hassell fece un sorriso, per minimizzare l’episodio. «Questo genere di cose capitano una volta su mille. Le restanti novecentonovantanove occasioni il pilota si limita a essere lì perché pesa meno del macchinario automatico che potrebbe fare il suo stesso lavoro.» Si interruppe guardando al di sopra della spalla di Dirk e un lento sorriso gli si dischiuse sul volto. «La celebrità ha le sue compensazioni» mormorò. «Una delle quali si sta avvicinando a noi in questo momento.» Un dignitario dell’albergo stava spingendo un carrello verso di loro con l’aria di un alto sacerdote che porti l’oggetto sacrificale all’altare. Si fermò accanto al tavolo e sollevò una bottiglia che, se Dirk doveva giudicare dalle ragnatele che la avvolgevano, doveva essere molto più vecchia di lui. «Con i complimenti della direzione, signore» disse l’impiegato, facendo un inchino a Hassell, che mormorò qualche esclamazione di apprezzamento, ma notò un po’ allarmato che ora sul loro tavolo si era concentrata tutta l’attenzione. Dirk non era affatto un intenditore di vini, ma non pensava che una maggiore esperienza in quella complicata arte avrebbe potuto fargli scendere più voluttuosamente per la gola quel liquido vellutato. Era un vino così discreto e così di qualità che non esitarono a brindare a se stessi, poi all’Interplanetary e infine alla «Prometheus». Il loro apprezzamento estasiò a tal punto la direzione che fu subito proposta loro un’altra bottiglia, che però Hassell rifiutò garbatamente, spiegando di essere già molto in ritardo, il che era assolutamente vero. I due si salutarono di ottimo umore sugli scalini della metropolitana, consapevoli che il pomeriggio aveva raggiunto un finale brillante. Solo quando Hassell se ne fu andato, Dirk si rese conto che non gli aveva detto nulla, assolutamente nulla di sé. Modestia… o semplicemente mancanza di tempo? Era stato sorprendentemente disposto a discutere dei suoi colleghi, sembrava fosse stato quasi ansioso di allontanare da sé l’attenzione. Dirk si soffermò un momento a pensare a questo, poi, fischiettando una canzoncina, prese a dirigersi lentamente verso l’albergo, lungo Oxford Street. Dietro di lui il sole stava calando sulla sua ultima serata in Inghilterra. 20 «Penso sia dura per Alfred» fece notare Dirk «dover restare qui ora che inizia il divertimento.» McAndrews emise un grugnito non compromettente. «Non potremmo andare entrambi» rispose. «Attualmente il Quartier Generale è decimato. Troppi sembra che pensino di aver a portata di mano una buona scusa per prendersi un po’ di vacanza.» Dirk si astenne dal far commenti, sebbene ne avesse molta voglia. In ogni caso, la sua presenza non avrebbe potuto essere considerata strettamente necessaria. Si configurò un’ultima patetica immagine del povero Matthews che fissava cupamente il pigro Tamigi, poi volse la mente ad argomenti più allegri. La linea costiera del Kent era ancora visibile alle loro spalle, perché l’apparecchio di linea non aveva raggiunto né piena quota né piena velocità. Il movimento si avvertiva appena, ma, ad un tratto, Dirk senti un indefinibile cambiamento. Dovevano averlo notato anche gli altri, perché Leduc, che gli stava seduto di fronte, annuì soddisfatto. «Gli statoreattori stanno cominciando a funzionare» disse. «Adesso saranno escluse le turbine.» «Questo vuol dire» intervenne Hassell «che siamo arrivati oltre mille?» «Nodi, miglia o chilometri orari? Oppure pertiche per microsecondo?» chiese qualcuno. «Per amor del Cielo! «gemette uno dei tecnici «non ricominciate con questa storia!» «Quando arriviamo?» chiese Dirk, che lo sapeva benissimo, ma era ansioso di creare un diversivo. «Arriveremo a Karachi tra sei ore, faremo un sonno di sei ore e dovremmo essere in Australia venti ore dopo. Naturalmente bisogna aggiungere — o sottrarre- circa mezza giornata per la differenza di fuso, ma questo conto può farlo qualcun altro.» «Una specie di crollo per te, Vic» disse ridendo Richards, rivolto a Hassell. «L’ultima volta che hai fatto il giro del mondo hai impiegato novanta minuti.» «Non bisogna esagerare» disse Hassell «Ero là fuori e ce ne sono voluti un buon centinaio. Inoltre ci ho messo un giorno e mezzo prima di riuscire a tornar giù!» «La velocità va benissimo» commentò filosoficamente Dirk «ma dà un’impressione falsata del mondo. Arrivi di colpo da un posto all’altro in poche ore e ti dimentichi che in mezzo c’è qualcosa.» «Sono d’accordo» disse inaspettatamente Richards. «Se «devi», viaggia pure in fretta, altrimenti è incomparabile andare sulla buona, vecchia barca a vela! Quando ero ragazzo trascorrevo la maggior parte del mio tempo libero sui Grandi Laghi. Per me vanno bene o cinque o venticinquemila miglia all’ora, ma non mi interessano le diligenze o gli aerei o qualunque altra cosa stia nel mezzo.» La conversazione poi divenne tecnica e degenerò in un contrasto circa i relativi meriti dei getti degli statoreattori e dei razzi. Qualcuno sottolineò che era ancora possibile vedere in qualche remoto angolo della Cina apparecchi a elica che facevano un buon lavoro, ma fu messo a tacere. Dopo qualche minuto di questa discussione Dirk fu felice quando McAndrews lo sfidò a una partita su una piccola scacchiera. Perse la prima mentre si trovavano sul sudest dell’Europa e si addormentò prima di terminare la seconda — probabilmente per un automatico meccanismo di difesa, dato che l’altro era un giocatore molto più bravo. Si svegliò quando furono sull’Iran, giusto in tempo per atterrare e riaddormentarsi. Quindi non fu sorprendente che, quando ebbero raggiunto il Mar di Timor e lui ebbe regolato l’orologio all’ora australiana, non si rendesse conto tanto bene se fosse sveglio o meno. I suoi compagni di viaggio, che avevano sincronizzato il proprio sonno con maggior efficienza, erano in forma migliore quando si avvicinarono alla fine del viaggio e cominciarono ad accalcarsi davanti ai finestrini. Sorvolavano il deserto, intervallato da occasionali tratti fertili, da circa due ore, quando Leduc, che stava leggendo la mappa, all’improvviso urlò: «Eccola… sulla sinistra!». Dirk seguì il suo dito puntato. Per un momento non vide nulla, poi, parecchie miglia più avanti, riuscì a scorgere gli edifici di una piccola e compatta città. Su un lato di essa c’era una pista d’atterraggio e, oltre a quella, una linea nera quasi invisibile che si estendeva sul deserto. Sembrava un binario insolitamente diritto; poi Dirk notò che partiva dal nulla e non portava a nulla. Iniziava nel deserto e finiva nel deserto. Si trattava delle prime cinque miglia di strada che avrebbero condotto i suoi compagni sulla Luna. Pochi minuti dopo, la grande pista di lancio era sotto di loro e, con eccitazione, Dirk riconobbe il proiettile alato della «Prometheus» che le scintillava nel campo aereo accanto. Tutti si fecero di colpo silenziosi mentre guardavano giù, al piccolo dardo argenteo che tanto significava per loro, ma che solo pochi avevano mai visto, tranne che in disegni e fotografie. Poi fu nascosto alla vista da un blocco di bassi edifici, quando l’aereo si inclinò in virata e atterrò. «Dunque questa è Luna City!» esclamò qualcuno senza molto entusiasmo. «Sembra una città abbandonata dopo la corsa all’oro.» «Forse lo è» rispose Leduc. «Qui una volta c’erano miniere d’oro, no?» «Sicuramente sai» intervenne McAndrews in tono pomposo «che Luna City fu costruita verso il 1950 dal governo britannico come base di ricerche missilistiche. In origine, aveva un nome aborigeno — qualcosa che ha a che fare con lance o frecce, mi pare.» «Mi domando che cosa pensino gli aborigeni di tutto quello che sta succedendo. Ce ne sono ancora sulle colline, vero?» «Sì» rispose Richards. «Hanno una riserva a poche centinaia di miglia di distanza, parecchio fuori della linea di fuoco. Probabilmente ci ritengono pazzi e, secondo me, hanno ragione.» Il camion che aveva raccolto il gruppo sulla pista si fermò davanti a un grande edificio. «Lasciate a bordo le vostre sacche» disse loro l’autista. «E’ qui che vi comunicheremo in quale albergo vi hanno riservato le camere.» Nessuno parve divertirsi a quella battuta. A Luna City furono sistemati in baracche dell’esercito, alcune delle quali vecchie di una trentina d’anni. Gli edifici moderni sicuramente dovevano essere occupati dai residenti permanenti, e i visitatori erano pieni di cupi presentimenti. Luna City, come era stata chiamata negli ultimi cinque anni, non aveva mai perso la sua originaria impronta militare. Era costruita come un campo militare e, sebbene vigorosi giardinieri dilettanti avessero fatto del proprio meglio per vivacizzarla, i loro sforzi erano solo serviti ad accentuare il generale squallore e l’uniformità. La popolazione normale dell’insediamento ammontava a circa tremila anime, la maggior parte delle quali erano scienziati o tecnici. Nei pochi giorni successivi ci sarebbe stato un afflusso di gente, contenuto solo dalle esigue possibilità di sistemazione — e forse neppure da questo. Una società di cinegiornali aveva già mandato una partita di tende e i suoi dipendenti stavano facendo ansiose inchieste sul clima di Luna City. Con suo sollievo, Dirk scoprì che la stanza assegnatagli, per quanto piccola, era pulita e confortevole. Nello stesso blocco erano stati sistemati una dozzina di membri dello staff amministrativo, mentre, di fronte, Collins e altri scienziati di Southbank costituivano una seconda colonia. I Cockneys, come si battezzarono da soli, subito ravvivarono il luogo con cartelli tipo: «Per la metropolitana» e «Qui in coda per l’autobus 25». Il primo giorno in Australia fu interamente dedicato per tutto il gruppo a pratiche di assestamento e all’apprendimento della geografia del luogo. La cittadina aveva un punto a suo favore: era compatta, e l’alta torre dell’osservatorio meteorologico era un ottimo punto di riferimento. La pista di atterraggio era a circa due miglia, e l’inizio della pista di lancio un altro miglio al di là di essa. Sebbene tutti fossero ansiosi di vedere la nave spaziale, la visita dovette attendere fino al giorno successivo. Dirk in ogni caso nelle successive dodici ore fu troppo indaffarato a rintracciare gli appunti e le annotazioni che sembravano essere andati smarriti a un certo punto tra Calcutta e Darwin. Alla fine li trovò ai Depositi Tecnici che stavano per essere rimandati in Inghilterra, dato che nessuno era riuscito a trovare il suo nome sull’elenco dei nuovi residenti. Alla fine della prima lunga e stremante giornata, Dirk trovò tuttavia ancora sufficiente energia per registrare le sue prime impressioni sul posto. ««Mezzanotte». Luna City sembra, come dice Ray Collins, «piuttosto divertente». Anche se ho l’impressione che dopo un mese o giù di lì il divertimento calerà parecchio. La sistemazione è ragionevole, anche se i mobili sono piuttosto pochi e nell’edificio non c’è acqua corrente. Dovrò fare mezzo miglio per la doccia, ma questo non rende le cose molto più dure! «McA. e alcuni dei suoi uomini stanno in questo stesso edificio; avrei preferito stare con quelli di Collins dall’altra parte, ma non posso chiedere il trasferimento. «Luna City mi ricorda le basi aeree militari che ho visto nei film bellici. Ha la stessa aria di tetra efficienza e di incessante energia e, come le basi aeree, esiste solo a causa di una macchina — la nave spaziale invece del bombardiere. «Dalla mia finestra riesco a vedere, a un quarto di miglio di distanza, la sagoma scura di alcune strutture adibite a ufficio che appaiono molto assurde in questo deserto sotto queste strane stelle brillanti. Qualche finestra è ancora illuminata e si può pensare che gli scienziati stiano lavorando febbrilmente contro il tempo per superare qualche difficoltà sorta all’ultimo momento. Però si dà il caso io sappia che i suddetti scienziati stanno facendo un baccano del diavolo nel blocco vicino, dove stanno intrattenendo i loro amici. Probabilmente dietro quelle finestre ancora illuminate ci sarà qualche povero contabile o magazziniere che sta cercando di far quadrare i conti. «Molto più in là sulla sinistra, attraverso un varco tra gli edifici, riesco a vedere una vaga chiazza di luce bassa all’orizzonte. La «Prometheus» è laggiù, sotto i riflettori. E’ strano pensare che essa — o meglio la «Beta» — è stata nello spazio una dozzina di volte o più per andare a portar su il combustibile. Tuttavia la «Beta» appartiene al nostro pianeta, mentre l’«Alpha» tra poco sarà tra le stelle per non toccare mai più la superficie di questo mondo. Siamo tutti ansiosissimi di vedere la nave e domani ci affretteremo a raggiungere il posto di lancio. ««Più tardi». Ray mi ha trascinato fuori a conoscere i suoi amici, il che mi ha lusingato, dato che ho notato che McA. e Co. non sono stati invitati. Non ricordo nessun nome delle persone che mi sono state presentate, ma mi sono divertito. E adesso a letto.» 21 Anche vista per la prima volta da Terra, a un miglio di distanza, la «Prometheus» era uno spettacolo impressionante. Stava sul suo carrello multiplo ai bordi del grande spiazzo di cemento che attorniava il dispositivo di lancio con le prese d’aria dinamica spalancate come bocche affamate. L’«Alpha», molto più piccola ma notevolmente più pesante, stava nella sua speciale culla di lancio a pochi metri di distanza, pronta a essere tirata su, in posizione. Entrambi i veicoli erano attorniati da gru, trattori e ogni genere di attrezzatura mobile. Una corda recintava il posto e il camion si fermò davanti al varco aperto in essa, sotto un grande cartello che diceva: PERICOLO — ARIA RADIOATTIVA! E’ vietato alle persone non autorizzate superare questo punto. I visitatori che desiderano esaminare la nave si rivolgano all’Esterno 47 (Pub. Rel. IIa) PER LA VOSTRA SALVAGUARDIA! Mentre davano i documenti di identità e venivano lasciati passare, Dirk guardò un po’ nervosamente Collins. «Non sono sicuro che questo mi garbi molto» disse. «Oh» rispose allegramente Collins «non dovete preoccuparvi finché mi state vicino. Non ci avvicineremo a nessuna aria pericolosa. E poi porto sempre questo con me.» Estrasse dalla tasca della giacca una scatoletta rettangolare. Sembrava di plastica e aveva incorporato su un lato un minuscolo microfono. «Che cos’è?» «Un contatore Geiger. Parte come una sirena se nei pressi c’è qualche attività pericolosa.» Dirk puntò una mano in direzione della grande macchina che si levava maestosa davanti a loro. «E’ una nave spaziale o una bomba atomica?» chiese in tono lamentoso. Collins rise. «Se vi trovaste sulla strada del getto non notereste mai la differenza» Ora stavano sotto il muso sottile e appuntito della «Beta» e le grandi ali che correvano su entrambi i lati la facevano sembrare una farfalla a riposo. Le cupe caverne delle prese d’aria dinamica avevano un che di sinistro e minaccioso e Dirk guardò sconcertato gli strani oggetti affusolati che fuoriuscivano in vari punti da esse. Collins notò la sua curiosità. «Diffusori d’urto» spiegò. «E’ assolutamente impossibile far funzionare qualsivoglia presa d’aria per l’intera gamma di velocità dalle cinquecento miglia orarie a livello del mare alle milleottocento miglia orarie dell’estremità esterna della stratosfera. Questi congegni sono regolabili e possono essere estroflessi e ritratti. Ma anche così il tutto è terribilmente inefficiente, e solo il fatto che abbiamo energia illimitata rende possibile l’impresa. Vediamo se riusciamo a salire a bordo.» Il tozzo carrello rese loro facile l’accesso al portello a tenuta d’aria nel fianco. La parte posteriore della nave, notò Dirk, era stata accuratamente chiusa con grandi paratie mobili, in modo che nessuno potesse avervi accesso. Commentò la cosa con Collins. «Quella parte della «Beta»«disse lo specialista in aerodinamica «è rigorosamente vietata fino all’anno Duemila o giù di lì» Dirk lo guardò sconcertato. «Che intendete dire?» «Proprio quello che ho detto. Una volta che la propulsione atomica avrà cominciato a funzionare e le pile saranno diventate radioattive, nessuno potrà mai più avvicinarsi a loro. Mai più. Per anni sarà pericoloso toccarle.» Persino Dirk, che certo non era ingegnere, cominciò a rendersi conto delle difficoltà pratiche che ciò doveva comportare «E allora come diavolo sarà possibile ispezionare i motori o aggiustare qualche guasto? Non ditemi che i vostri disegni sono così perfetti da non consentire errori!» Collins sorrise. «E’ proprio questo il più grosso mal di testa dell’ingegneria atomica. Più tardi avrete la possibilità di vedere come si fa.» C’era sorprendentemente poco da vedere a bordo della «Beta», dato che quasi tutto il veicolo consisteva di serbatoi di combustibile e di motori invisibili e inavvicinabili dietro le loro barriere protettive. La lunga e stretta cabina nel muso avrebbe potuto essere la cabina di pilotaggio di qualunque normale aereo, ma era molto più elaboratamente attrezzata, dato che l’equipaggio, costituito dal pilota e dal tecnico addetto alla manutenzione, ci avrebbe vissuto per quasi tre settimane. Sarebbe stato un periodo molto noioso e Dirk non si stupì nel vedere che nell’equipaggiamento della nave erano stati inclusi una biblioteca in microfilm e un proiettore. Se i due uomini avessero avuto personalità incompatibili, sarebbe stato a dir poco un guaio; ma indubbiamente gli psicologi dovevano aver controllato la cosa con meticolosa attenzione. In parte perché capiva così poco di ciò che vedeva, e in parte perché era più ansioso di salire a bordo dell’«Alpha», Dirk si stancò presto di esaminare la cabina di controllo. Si avvicinò ai piccoli finestrini dai vetri spessi e guardò fuori. La «Beta» puntava verso il deserto, quasi in parallelo con la pista di lancio che avrebbe percorso tra pochi giorni. Era facile fantasticare che in quel momento stesse aspettando di avventarsi nel cielo e di salire verso la stratosfera con il suo prezioso carico… Il pavimento all’improvviso tremò, mentre la nave cominciava a muoversi. Dirk sentì una mano fredda artigliargli il cuore e per poco non perse l’equilibrio. Si salvò solo afferrandosi al corrimano che aveva davanti. E quando vide il piccolo trattore che armeggiava attorno alla nave capì di aver fatto la figura dello stupido. Si augurò che Ray non avesse notato il suo comportamento, perché sicuramente doveva essere diventato verde. «Okay» disse finalmente Collins quando ebbe finito la sua accurata ispezione. «Adesso andiamo a dare un’occhiata all’«Alpha».» Scesero dal veicolo, che ora era stato trascinato molto indietro nella sua recinzione. «Credo che stiano facendo qualcosa ai motori» disse Collins. «Fino ad ora hanno fatto, vediamo, quindici prove senza intoppi, il che è un bel successo per il professor Maxton.» Dirk si stava ancora chiedendo come fosse possibile fare una qualsiasi cosa a quei motori mostruosamente inaccessibili, ma un altro interrogativo ora gli aveva attraversato la mente. «Sentite» disse «c’è una cosa che intendevo chiarire con voi da un bel po’. Di che sesso è la «Prometheus»? Mi risulta che tutti adoperino il maschile, il femminile e il neutro in modo quasi imparziale. Non mi aspetto che gli scienziati capiscano la grammatica, tuttavia…» Collins ridacchiò. «Questo è proprio il genere di cosa nelle quali «siamo» molto meticolosi» gli spiegò. «Da qualche parte è stato deciso ufficialmente. Sebbene «Prometheus» sia naturalmente maschile, noi ci riferiamo a tutta la nave al femminile, come in nautica. Pure «Beta» è una «lei», ma l’«Alpha», la nave spaziale, è neutro. Che cosa ci potrebbe essere di più semplice di così?» «Moltissime cose. Tuttavia penso che sia tutto okay fintanto che voi siete conseguenti. Vi salterò in testa quando non lo sarete.» L’«Alpha» era una massa di motori e di serbatoi ancor più compatta di quanto lo fosse la nave più grande. Naturalmente non aveva né alettoni né piani a profilo aerodinamico di alcun genere, ma c’erano segni che indicavano come congegni dalle forme strane fossero stati ritratti nello scafo. Dirk chiese informazioni a Collins su questo. «Questi saranno antenne radio, periscopi e intelaiature di sostegno per i getti di comando» spiegò Collins. «Là in fondo vedrete il punto in cui sono stati retratti i grandi ammortizzatori per l’allunaggio. Quando l’«Alpha» sarà fuori nello spazio, potranno essere fatti fuoriuscire in modo che l’equipaggio possa controllarli e vedere se funzionano bene. Potranno anche restare fuori, dato che non c’è resistenza d’aria per il resto del viaggio.» I razzi dell’«Alpha» avevano schermature antiradiazione, cosicché era impossibile avere una vista completa della nave spaziale, che rammentava la fusoliera di un antiquato aeroplano che avesse perso le ali o al quale le ali stessero per essere applicate. Per certi versi l’«Alpha» assomigliava moltissimo a un gigantesco proiettile di artiglieria con un inatteso circoletto di oblò attorno al muso. La cabina per l’equipaggio occupava meno di un quinto di tutta la lunghezza del missile. Dietro di essa c’erano innumerevoli apparecchi e controlli di cui ci sarebbe stato bisogno durante il viaggio di mezzo milione di miglia. Collins indicò superficialmente le diverse sezioni dell’apparecchio. «Abbiamo messo proprio dietro la cabina» spiegò «il portello a tenuta d’aria e i controlli più importanti, che possono aver bisogno di essere regolati durante il volo. Poi ci sono i serbatoi per il combustibile sei — e l’impianto di refrigerazione per mantenere liquido il metano. Dopo abbiamo le pompe e le turbine, e quindi il motore stesso, che occupa mezza nave. Ci sono delle grosse schermature attorno ad esso e tutta la cabina è protetta per salvaguardare dalle radiazioni i piloti. Ma il resto della nave è «caldo», anche se il combustibile stesso è di grande aiuto per quanto riguarda la schermatura.» Il minuscolo vano del portello a tenuta d’aria era grande quanto bastava per contenere due persone e Collins entrò per primo a ispezionare la cabina, dopo aver detto a Dirk che probabilmente sarebbe stata troppo piena perché potessero accedervi dei visitatori. Tuttavia un momento dopo ne emerse e gli fece cenno di entrare. «Tutti, tranne Jimmy Richards e Digger Clinton, sono andati a lavorare,» disse. «Siamo fortunati, c’è moltissimo spazio.» Questa, Dirk lo scoprì subito, era stata un’esagerazione. La cabina era stata creata perché vi vivessero tre persone in assenza di gravità: in essa pareti e pavimento sarebbero stati intercambiabili e il suo volume avrebbe dovuto essere usato per tutto. Ora il veicolo stava in orizzontale sulla Terra e le condizioni erano decisamente difficoltose. Clinton, lo specialista australiano in elettronica, era semisepolto in un enorme schema di circuito elettrico che era stato costretto a drappeggiarsi attorno al corpo per riuscire a entrare nella cabina. Sembrava, pensò Dirk, una specie di baco avvolto nel bozzolo. Richards, a quanto sembrava, stava studiando alcuni testi sui controlli. «Non allarmatevi» disse, notando che Dirk lo osservava preoccupato. «Non stiamo per decollare, non c’è combustibile nei serbatoi!» «Mi sta venendo una specie di complesso» confessò Dirk. «La prossima volta che salirò a bordo mi assicurerò che siamo legati a terra con una bella e grossa ancora.» «Non ne servirebbe una molto grossa» ribatté ridendo Richards. «L’Alpha non ha molta spinta, circa cento tonnellate. Ma può mantenerla per molto tempo!» «Solo cento tonnellate? Ma pesa tre volte tanto.» «Sì, ma quando parte è in spazio libero e quando si staccherà dalla Luna il suo peso effettivo sarà di sole trentacinque tonnellate. Quindi è tutto sotto controllo.» La cabina dell’«Alpha» sembrava il risultato di un’aspra battaglia tra la scienza e il surrealismo. La sua progettazione era stata condizionata dal fatto che per otto giorni gli occupanti sarebbero stati totalmente privi di gravità e non avrebbero avuto alcuna nozione di «su» e di «giù»; mentre per un periodo abbastanza lungo, quando la nave fosse rimasta ferma sulla Luna, ci sarebbe stato un debole campo gravitazionale lungo l’asse dell’apparecchio. Dato che, al momento, l’asse era orizzontale, Dirk ebbe la sensazione di star realmente camminando sulle pareti e sul soffitto. Certo quella sua visita alla nave spaziale sarebbe stato un momento che avrebbe ricordato per tutta la vita. I piccoli oblò dai quali adesso stava guardando entro pochi giorni sarebbero stati affacciati sulle solitarie pianure lunari; il cielo non sarebbe stato blu, ma nero e punteggiato di stelle. Se avesse chiuso gli occhi, avrebbe quasi potuto immaginare di essere già sulla Luna e che, se avesse guardato dagli oblò superiori, avrebbe visto la Terra sospesa nei cieli. Sebbene in seguito fosse tornato sulla nave varie volte, non riuscì mai a ricatturare le emozioni di quella prima visita. All’improvviso si udì un rumore di passi nel portello a tenuta d’aria e Collins si affrettò a dire: «Faremo meglio a uscire di qui prima che incominci il rush e qualcuno venga travolto a morte. I ragazzi stanno tornando». Riuscì a bloccare il gruppo che stava salendo a bordo abbastanza a lungo per potersi allontanare con Dirk senza difficoltà. Dirk vide che Hassell, Leduc, Taine ed altri tre uomini si stavano apprestando a salire — alcuni con pezzi di attrezzatura —, e la sua mente ribollì quando tentò di raffigurarsi le condizioni all’interno della cabina. Sperò che nulla o nessuno si danneggiasse. Quando fu sullo spiazzo di cemento si rilassò e si stiracchiò. Guardò verso uno degli oblò per vedere che cosa stesse succedendo a bordo e rimase tremendamente stupefatto quando scoprì che non si vedeva assolutamente nulla. Qualcuno stava seduto sul finestrino. «Bene» disse Collins offrendogli una ben accetta sigaretta. «Che ne pensate dei nostri piccoli giocattoli?» «Capisco dove è andato a finire tutto il denaro» rispose Dirk. «Sembra un’enorme quantità di macchinario solo per far andare tre uomini dietro l’angolo, come avete detto voi.» «C’è ancora molto da vedere. Andiamo al dispositivo di lancio.» La pista di lancio era impressionante nella sua estrema semplicità. Due serie di binari correvano sullo spiazzo di cemento — e andavano diritti sino a scomparire all’orizzonte. Il più bell’esempio di prospettiva che Dirk avesse mai visto. Il carrello di lancio era un’enorme incastellatura metallica dotata di bracci, che avrebbe serrato la «Prometheus» fino a quando essa non avesse acquistato velocità di volo. Sarebbe stato troppo triste, pensò Dirk, se non fossero riusciti a liberarlo al momento giusto. «Lanciare cinquecento tonnellate a tante miglia l’ora deve richiedere un enorme generatore elettrico» disse a Collins. «Perché la «Prometheus» non si stacca con la propria energia da terra?» «Perché con quel carico iniziale «stalla» a 450 e gli statoreattori non entrano in funzione se non al di sopra di questa quota. Quindi inizialmente dobbiamo aumentare la velocità. L’energia per il lancio proviene dal generatore principale che sta là: quell’edificio più piccolo accanto alloggia una batteria di volani che sono stati costruiti per dar velocità proprio prima del lancio. Dopo vengono accoppiati direttamente ai generatori.» «Capisco» disse Dirk. «Voi avvolgete l’elastico e lei parte.» «L’idea sarebbe questa» rispose Collins. «Quando l’«Alpha» è lanciata, la «Beta» non è più sovraccarica e può essere indotta ad atterrare a una velocità ragionevole — meno di centocinquanta miglia orarie; una cosa facile per chiunque abbia l’hobby di volare su alianti di duecento tonnellate!» 22 La folla che brulicava nel piccolo hangar si azzittì di colpo quando il Direttore Generale salì sulla pedana. Aveva azionato gli amplificatori e la sua voce echeggiava forte tra le pareti metalliche. Mentre lui parlava, centinaia di stilografiche correvano su centinaia di blocchi d’appunti: «Vorrei» cominciò Sir Robert «fare due chiacchiere con voi, ora che ci siete tutti. Siamo particolarmente desiderosi di aiutarvi nel vostro lavoro e di darvi tutte le possibili opportunità di riferire sul decollo, che, come sapete, avverrà tra cinque giorni. «Per prima cosa vi renderete conto che è fisicamente impossibile permettere a tutti di visitare la nave spaziale. La scorsa settimana ne abbiamo tatti entrare il maggior numero possibile, ma da dopodomani non potremo più accettare visitatori a bordo. Gli ingegneri faranno gli ultimi controlli, poi — e potrei dire che ci sono già stati alcuni casi — ahm! si scatenerà la caccia ai souvenir. «Avete tutti avuto la possibilità di scegliervi posti di osservazione lungo la pista di lancio. Nei primi quattro chilometri ci dovrebbe essere moltissimo spazio. Ma ricordate: «nessuno deve oltrepassare la barriera rossa a cinque chilometri.» E’ lì che i getti cominciano ad accendersi e la zona è ancora radioattiva dopo i lanci precedenti. Quando avverrà, l’accensione diffonderà per una vasta zona prodotti di fissione. Vi daremo via libera appena non sarà più rischioso per voi andare a raccogliere le macchine fotografiche che avrete montato laggiù. «Molte persone ci hanno chiesto quando saranno rimossi dalle navi gli scudi contro le radiazioni, in modo da poterle vedere bene. Lo faremo domani pomeriggio e voi potrete essere presenti. Se volete guardare i getti, portatevi binocoli o telescopi — non sarà permesso avvicinarsi a più di cento metri. Se qualcuno pensa che tutte queste siano sciocchezze, vi dirò che ci sono due persone in ospedale perché sono sgattaiolate fin lì per dare un’occhiata, e adesso rimpiangono di averlo fatto. «Se per una qualunque ragione vi fosse un inconveniente all’ultimo momento, il lancio sarà rimandato di dodici, ventiquattro o al massimo trentasei ore. Dopo dovremo attendere la prossima lunazione — cioè quattro settimane. Per quanto riguarda la nave spaziale, non fa molta differenza «quando» andremo sulla Luna, noi però siamo ansiosi di farlo alla luce del giorno nella zona che conosciamo meglio. «Le due componenti si separeranno circa un’ora dopo il decollo. Dovrebbe essere possibile vedere l’esplosione di «Alpha», se il razzo si troverà sopra l’orizzonte allorché avrà inizio l’orbita che compirà con i motori. Trasmetteremo qualsiasi messaggio da essa attraverso il sistema di altoparlanti del campo sulla nostra lunghezza d’onda locale. «L’«Alpha» dovrebbe essere in viaggio verso la Luna, in assenza di gravità, circa venti minuti dopo il decollo. La prima trasmissione dovrebbe verificarsi più o meno in quel momento. Dopo, per tre giorni non succederà granché, finché avranno inizio le manovre frenanti a circa trentamila miglia dalla Luna. Se per un qualsivoglia motivo il consumo di combustibile sarà stato troppo elevato, non vi sarà allunaggio. La nave spaziale verrà deviata in un’orbita attorno alla Luna a poche centinaia di chilometri, e le ruoterà attorno fino a che giungerà il momento di iniziare il volo di ritorno precomputerizzato. «E adesso ci sono domande?» Calò il silenzio per un minuto, poi qualcuno dal fondo chiese: «Quando sapremo chi farà parte dell’equipaggio, signore?». Il Direttore Generale fece un sorrisetto preoccupato. «Probabilmente domani. Ma per favore, ricordate: questa impresa è troppo importante perché contino le persone singole, non è assolutamente rilevante chi sarà il primo che prenderà parte di fatto al primo volo. Quello che conta è il viaggio.» «Potremo parlare con l’equipaggio quando la nave sarà nello spazio?» «Sì. Vi saranno opportunità sia pure limitate per farlo. Speriamo di poter organizzare una trasmissione generale una volta al giorno e, naturalmente, ci comunicheremo posizioni e informazioni tecniche di continuo, cosicché la nave sarà sempre in contatto con basi terrestri da qualche parte sulla Terra.» «E lo sbarco sulla Luna? Come sarà trasmesso?» «L’equipaggio sarà troppo indaffarato per poter fare propri commenti; ma i microfoni saranno aperti, cosicché avremo una buona idea di quello che sta succedendo. E poi gli osservatori saranno in grado di vedere il getto all’accensione; quando colpirà la Luna, probabilmente creerà parecchie perturbazioni.» «Qual è il programma dopo l’allunaggio, signore?» «L’equipaggio lo deciderà alla luce delle circostanze. Prima di lasciare la nave trasmetteranno una descrizione di tutto quel che vedono e la telecamera sarà messa in movimento in modo da seguire tutto il panorama. Di conseguenza dovremmo avere delle ottime immagini — tra l’altro, è un sistema a colore puro. «Questo richiederà circa un’ora e lascerà il tempo perché si disperdano polvere e prodotti radioattivi di qualsiasi genere. Quindi due membri dell’equipaggio indosseranno le tute spaziali e inizieranno l’esplorazione; trasmetteranno via radio alla nave le loro impressioni, che saranno ritrasmesse direttamente alla Terra. «Speriamo che sia possibile fare una buona perlustrazione della zona per una estensione di circa dieci chilometri; ma non vogliamo correre alcun rischio. Grazie al collegamento televisivo, tutto ciò che sarà trovato o scoperto potrà esserci immediatamente mostrato. Naturalmente ciò che noi siamo particolarmente ansiosi di trovare sono depositi minerali con i quali sia possibile produrre combustibile sulla luna. Ovviamente cercheremo anche tracce di vita, ma se ne troveremo, nessuno ne sarà più sorpreso di noi.» «Se acciufferete un selenita» disse qualcuno scherzosamente «lo riporterete qui per metterlo allo zoo?» «No di certo» rispose con fermezza Sir Robert, ma nei suoi occhi passò un lampo divertito. «Se cominciamo a fare questo genere di cose è probabile che finiamo noi stessi allo zoo.» «Quando ritornerà la nave spaziale?» chiese qualcun altro. «Allunerà di buonora al mattino e decollerà nel tardo pomeriggio, ora lunare; il che significa una permanenza di circa otto dei nostri giorni. Il viaggio di ritorno durerà quattro giorni e mezzo, quindi l’assenza globale sarà di sedici-diciassette giorni. «Nessun’altra domanda? Bene, allora concluderemo qui. Ma c’è ancora una cosa. Per essere sicuri che tutti abbiano un’idea chiara del background tecnico abbiamo programmato tre conferenze nei prossimi giorni. Saranno tenute da Taine, Richards e Clinton e ciascuna di esse riguarderà la specializzazione di ognuno di loro — ma non in linguaggio tecnico. Vi consiglio vivamente di non perderle!» La fine del discorso non avrebbe potuto esser calcolata con maggiore precisione. Nel momento in cui il Direttore Generale scese dalla pedana un rombo improvviso e terribile echeggiò per tutto il deserto fino a loro, facendo rimbombare l’hangar di acciaio come un tamburo. A tre miglia di distanza l’«Alpha» stava provando i motori probabilmente a un decimo della loro potenza piena. Era un rumore che spaccava i timpani e faceva digrignare i denti: inimmaginabile pensare come sarebbe stato a pieno regime. Inimmaginabile e irriconoscibile perché nessuno lo avrebbe mai sentito. Quando i razzi dell’«Alpha» si fossero riaccesi, la nave sarebbe stata nell’eterno silenzio tra i due mondi, dove l’esplosione di una bomba atomica è silenziosa come l’urto dei fiocchi di neve sotto una luna invernale. 23 Mentre sistemava con cura in una pila ordinata i fogli riguardanti la manutenzione, il professor Maxton aveva l’aria un po’ stanca. Era stato controllato tutto: tutto funzionava alla perfezione, quasi troppo, sembrava. I motori sarebbero stati ispezionati un’ultima volta l’indomani; nel frattempo le provviste sarebbero state portate a bordo delle due navi; era un peccato, rifletté, che bisognasse lasciare un equipaggio inoperoso a bordo della «Beta» mentre questa girava attorno alla Terra. Ma non si poteva evitarlo, dato che gli strumenti e l’impianto di refrigerazione per il combustibile dovevano essere tenuti sotto controllo ed entrambi i veicoli avrebbero dovuto essere perfettamente manovrabili per riunirsi. Una scuola di pensiero riteneva che la «Beta» avrebbe dovuto tornare sulla Terra, e ripartire quindici giorni dopo per andare incontro all’«Alpha» che rientrava. C’erano state molte discussioni su questo; poi aveva finito per prevalere il punto di vista «orbitale». Certo, lasciare la «Beta» dove si trovava, già in posizione appena all’esterno dell’atmosfera, significava introdurre alcuni ulteriori rischi. Le macchine erano pronte, ma gli uomini? si chiese Maxton. Il Direttore Generale aveva già fatto la sua scelta? Decise lì per lì di andare a trovarlo. Non si stupì quando trovò nell’ufficio di Sir Robert il capo psicologo. Il dottor Groves gli fece un cordiale cenno di saluto «Salve, Rupert, probabilmente hai paura che io abbia mandato all’aria tutto, vero?» «Se lo avessi fatto» rispose cupamente Maxton «credo che metterei insieme un gruppetto scegliendo gli uomini dal mio staff e ci andrei io di persona. Se è per questo, credo che ce la caveremmo abbastanza bene; ma, parlando seriamente, come stanno i ragazzi?» «Stanno benone. Non sarà facile scegliere i tre uomini… ma spero che sia possibile farlo presto, dato che l’attesa provoca una tensione inopportuna. Non vi sono più ulteriori motivi per ritardare, vero?» «No. E’ stata sperimentata la reazione di ciascuno davanti ai comandi, e tutti hanno una piena familiarità con la nave. Siamo pronti a partire.» «In tal caso» disse il Direttore Generale «sistemeremo la faccenda domani, per prima cosa.» «E in che modo?» «Per ballottaggio, come avevamo promesso. E’ l’unico modo per evitare risentimenti.» «Questo mi fa piacere» disse Maxton. Poi si rivolse di nuovo allo psicologo: «Sei veramente sicuro riguardo a Hassell?» «Stavo proprio arrivando a lui. Ce la farà benissimo, e vuole davvero andare. Non si preoccupa più tanto, ora che è stato preso dall’eccitazione dell’ultimo momento. Ma c’è purtuttavia un possibile rischio.» «E quale?» «Lo ritengo molto improbabile. Ma supponiamo che, mentre lui è sulla Luna, qui qualcosa vada male. Sapete, il bambino dovrebbe nascere proprio mentre lui è più o meno a metà del viaggio.» «Capisco. Se sua moglie morisse, per considerare l’ipotesi peggiore, che reazione avrebbe?» «Non è facile rispondere, dato che lui si trova già in condizioni del tutto diverse da quelle che un essere umano abbia mai sperimentato. Potrebbe prenderla con calma, oppure crollare. Secondo me è un rischio minimo, ma c’è.» «Naturalmente potremmo sempre mentirgli» disse in tono pensoso Sir Robert «ma io sono sempre stato piuttosto rigoroso riguardo ai fini e ai mezzi. Detesterei avere sulla coscienza un inganno simile.» «Per qualche minuto vi fu silenzio, poi il Direttore Generale continuò: «Bene, molte grazie, dottore. Rupert ed io ne discuteremo. Se decideremo che è assolutamente necessario, potremmo chiedere a Hassell di rinunciare». Lo psicologo si fermò sulla porta. ««Voi potreste», ma non vorrei essere io a doverci provare.» La notte era illuminata dalle stelle quando il professor Maxton lasciò l’ufficio del Direttore Generale e si avviò stancamente verso gli alloggi. Provava un senso di colpa per la propria ignoranza dei nomi di metà delle costellazioni che riusciva a vedere. Una di quelle sere avrebbe chiesto a Taine di identificargliele. Ma doveva far presto: poteva darsi che Taine avesse ancora solo tre notti da passare sulla Terra. Vide sulla sinistra gli alloggi dell’equipaggio, tutti illuminati. Esitò per un momento, poi si avviò con passo veloce verso il vasto edificio. La prima stanza, quella di Leduc, era vuota, nonostante che le luci fossero accese; il suo occupante vi aveva già impresso il marchio della propria personalità e dappertutto c’erano mucchi di libri, molto più di quanto apparisse sensato portarsi appresso per un soggiorno così breve. Maxton diede un’occhiata ai titoli — per lo più in francese — e un paio di volte inarcò le sopracciglia. Registrò nella mente alcune parole in attesa del primo contatto che avrebbe avuto con un dizionario di francese veramente completo. Al posto d’onore sulla scrivania c’era una bellissima foto dei due bambini di Pierre, seduti con aria felice in un modellino di razzo. Sul comodino c’era il ritratto della bellissima moglie, ma l’effetto di armonia coniugale era rovinato dalla presenza di una mezza dozzina di fotografie di altre giovani donne fissate al muro. Maxton passò nella stanza successiva, che era quella di Taine. Vi trovò Leduc e il giovane astronomo profondamente assorti in una partita a scacchi. Per un po’ seguì con occhio critico le tattiche di gioco e il risultato fu che, come al solito, lo accusarono di rovinare loro la partita. Al che lui sfidò il vincitore e lo fece fuori in una trentina di mosse. «Questo» disse mentre gli altri mettevano via la scacchiera «dovrebbe farti smettere di essere sempre troppo sicuro di te. Secondo il dottor Groves è un difetto che avete tutti in comune.» «Che altro ha detto il dottor Groves?» chiese Leduc con studiata noncuranza. «Be’, non tradisco il segreto professionale se vi dico che avete tutti superato i test e che potete andare alla scuola superiore. Quindi domani per prima cosa dovremo tirare a sorte per selezionare le tre cavie.» Sui volti dei due comparve un’espressione di sollievo. Era vero che era stato promesso loro che la scelta finale sarebbe stata effettuata per ballottaggio, ma fino a quel momento non ne erano stati sicuri e la sensazione di essere potenziali rivali aveva un po’ teso i rapporti tra loro. «Ci sono anche gli altri?» chiese Maxton. «Credo che andrò a dirglielo.» «Probabilmente Jimmy dorme» rispose Taine «ma Arnold e Vic sono ancora svegli.» «Bene, arrivederci a domattina.» Gli strani rumori provenienti dalla stanza di Richards indicavano che il canadese dormiva della grossa. Maxton proseguì per il corridoio e bussò alla porta di Clinton. La scena che si trovò davanti gli mozzò quasi il fiato: avrebbe potuto essere l’inquadratura di un film in cui si vedeva il laboratorio di uno scienziato pazzo. Sdraiato per terra, in mezzo a un intrico di valvole e di fili elettrici, Clinton sembrava ipnotizzato da un oscilloscopio a raggio catodico il cui schermo era pieno di figure geometriche fantastiche in continuo spostamento e trasformazione. Nel sottofondo una radio trasmetteva a basso volume il quarto concerto per pianoforte di Rachmaninov, a buona ragione poco conosciuto, e Maxton si rese conto che le immagini sullo schermo erano sincronizzate con la musica. Sedette sul letto, che gli sembrava il posto più sicuro, e rimase a guardare a sua volta fino a che Clinton si rialzò dal pavimento. «Ammesso che tu stesso lo sappia, puoi dirmi che cosa diavolo stai cercando di fare?» gli chiese alla fine Maxton. Clinton si spostò in punta di piedi con molta cautela in mezzo a quella confusione e andò a sederglisi a fianco. «E’ un’idea alla quale sto lavorando da alcuni anni» spiegò in tono di scusa. «Bene. Spero ti ricordi quello che è successo al defunto signor Frankenstein.» Clinton, che era un tipo serio, non ribatté. «Io lo chiamo caleidofono» disse. «L’idea è che dovrebbe convertire qualsiasi suono ritmico con la musica in schemi visivi piacevoli e simmetrici, ma in continua trasformazione.» «Potrebbe essere un giocattolo divertente. Ma in una normale nursery ci starebbero tutte queste valvole?» ««Non» è un giocattolo» ribatté Clinton leggermente seccato. «Quelli della televisione e l’industria dei cartoni animati lo troverebbero molto utile, sarebbe la soluzione ideale per offrire degli interludi a trasmissioni musicali lunghe che finiscono per essere sempre noiose. Di fatto, speravo di ricavarne un po’ di denaro. " «Mio caro» rispose sorridendo Maxton «se sarai tu uno dei primi uomini ad andare sulla Luna, non credo che correrai mai alcun vero pericolo di morire di fame sul marciapiede, in vecchiaia.» «No, suppongo di no.» «La ragione vera per cui sono venuto è che volevo dirti che domani per prima cosa faremo un ballottaggio per la scelta dell’equipaggio. Non finire fulminato prima di allora. Adesso vado da Hassell… Buona notte.» Hassell era a letto quando il professor Maxton bussò ed entrò. Stava leggendo. «Salve, Prof. Che ci fate in giro a quest’ora impossibile?» Maxton andò subito al dunque. «Domattina tireremo a sorte i nomi di quelli che faranno parte dell’equipaggio. Pensavo ti avrebbe fatto piacere saperlo.» Hassell rimase silenzioso per un momento. «Il che significa» disse con voce leggermente impastata «che siamo passati tutti ai test.» «Santo Cielo, Vic» protestò vigorosamente Maxton «certo «tu» non avrai avuto dubbi!» Gli occhi di Hassell parvero evitarlo e Maxton notò che evitavano anche di posarsi sulla fotografia della moglie che stava sul comodino. «Come sapete tutti» disse Hassell poco dopo «ero piuttosto preoccupato per… Maude.» «E’ abbastanza naturale. Ma penso che tutto sia okay. Come chiamerete il maschietto, tra l’altro?» «Victor William.» «Be’, secondo me quando Vic junior arriverà, sarà il bambino più famoso del mondo. Un vero peccato che il sistema televisivo sia unidirezionale. Dovrai aspettare fino al ritorno prima di vederlo.» «Quando e se» bofonchiò Hassell. «Senti, Vic» disse con fermezza Maxton. «Tu vuoi andare, vero?» Hassell alzò gli occhi con espressione di sfida mista a imbarazzo. «Certo che voglio» sbottò. «Bene, allora. Hai tre possibilità su cinque di essere prescelto, come tutti gli altri. Ma se non verrai scelto, questa volta farai il secondo viaggio che, per certi versi, sarà ancor più importante, dato che in quell’occasione faremo il primo tentativo di stabilire una base lassù. Abbastanza giusto, no?» Hassell tacque per un momento, poi in tono piuttosto sconfortato rispose: «Il primo viaggio sarà quello che la storia ricorderà. I successivi si confonderanno tutti». Quello, decise il professor Maxton, era il momento di perdere le staffe. Quando era necessario poteva farlo con grande abilità e precisione. «Ascoltami, Vic» tuonò «che mi dici di quelli che hanno «costruito» questa dannata nave? Pensi che a noi piaccia dover aspettare il decimo, il ventesimo o il centesimo viaggio prima di avere la nostra occasione? E se sei così stupido da desiderare la fama… be’, buon Dio, amico, ti sei dimenticato che… «qualcuno deve pur pilotare la prima nave per Marte?»» La furia sbollì. Poi Hassell gli sorrise e fece una risatina. «Posso considerarla una promessa, Prof?» «Non ho il diritto di farla, accidenti a te.» «No, suppongo di no; ma capisco la vostra argomentazione… Se perdo il treno, questa volta non ne sarò troppo sconvolto. E adesso credo che mi metterò a dormire» 24 Lo spettacolo del Direttore Generale che portava con attenzione un cestino della carta straccia nell’ufficio del professor Maxton normalmente avrebbe provocato un po’ di ilarità. Questa volta invece, quando entrò, tutti lo guardarono con aria solenne. Non esistevano cappelli a lobbia, a quanto sembrava, in tutta Luna City: il cestino per la carta straccia avrebbe dovuto fungere da meno dignitoso sostituto. A parte i cinque membri dell’equipaggio che si sforzavano di mostrarsi noncuranti, in seconda fila, le altre persone nella stanza erano Maxton, McAndrews, due membri dello staff amministrativo, e Alexson. Questi non aveva alcun motivo particolare per essere lì, ma McAndrews lo aveva invitato. Il direttore delle Pubbliche Relazioni faceva sempre queste cortesie. Ma Dirk sospettava fortemente che con questo cercasse di assicurarsi la propria impronta nella storia ufficiale. Il professor Maxton prese una dozzina di striscioline di carta dalla scrivania e se le fece scorrere tra le dita. «Bene. Tutti pronti?» chiese. «Ciascuno di voi avrà una striscia sulla quale dovrà apporre il proprio nome. Se qualcuno è troppo nervoso per scrivere, metta una croce e la faremo sottoscrivere da testimoni.» Quella battutina servì ad alleviare la tensione e, mentre le striscioline venivano firmate e restituite già ripiegate, si udirono dei motti scherzosi. «Bene. Adesso le mischierò con quelle bianche… così. Chi vuol fare l’estrazione?» «Vi fu un momento di esitazione, poi, agendo per unanime impulso, gli altri quattro membri dell’equipaggio spinsero avanti Hassell. Lui aveva un’aria piuttosto impacciata, mentre il professor Maxton gli tendeva il cestino. «Niente trucchi, Vic» gli disse. «E solo una alla volta. Chiudi gli occhi e pesca.» Hassell cacciò la mano nel cestino e tirò fuori una strisciolina. La porse a Sir Robert che si affrettò a dispiegarla. «Bianca» disse. Si udì un sospiretto di irritazione… o di sollievo? Altra strisciolina. Di nuovo… «Bianca». «Ehi, qualcuno usa inchiostro simpatico?» chiese Maxton. «Riprovaci, Vic.» Questa volta fu fortunato. «P. Leduc.» Pierre disse qualcosa molto in fretta in francese e parve oltremodo compiaciuto. Tutti si affrettarono a congratularsi con lui, poi si voltarono di nuovo verso Hassell. Questi fece centro per la seconda volta. «J. Richards.» La tensione adesso era all’apice. Guardandolo con attenzione Dirk vide che a Hassell, mentre estraeva la terza strisciolina, tremava violentemente la mano. «Bianca.» «Ci risiamo!» gemette qualcuno. Aveva ragione. «Bianca.» E ancora per una terza volta: «Bianca.» Qualcuno che aveva dimenticato di respirare in quegli ultimi pochi istanti trasse un respiro lungo e profondo. Hassell porse l’ottava strisciolina al Direttore Generale. «Lewis Taine.» La tensione si spezzò. Tutti si fecero attorno ai tre prescelti. Per un attimo Hassell rimase assolutamente immobile, poi si girò verso gli altri. Sul suo volto non si vedeva la minima traccia di una qualsivoglia emozione. Poi il professor Maxton gli batté su una spalla e gli disse qualcosa che Dirk non riuscì a sentire. Hassell si rilassò e rispose con un sorriso mesto. Dirk riuscì a cogliere chiaramente la parola «Marte». Poi Hassell, ora con espressione molto allegra, si unì agli altri nel congratularsi con gli amici. «E’ fatta» tuonò il Direttore Generale sorridendo a tutta faccia. «Passate nel mio ufficio… devo avere qualche bottiglia ancora non stappata.» Il gruppo sciamò verso l’altra stanza. Solo McAndrews si scusò dicendo che doveva andare a cercare i giornalisti. Per il successivo quarto d’ora furono fatti svariati e tranquilli brindisi con eccellenti vini australiani che ovviamente il Direttore Generale si era fatto dare per l’occasione; poi il gruppetto si sciolse, ciascuno degli uomini con un’espressione di soddisfazione e di sollievo. Leduc, Richards e Taine furono trascinati davanti alle macchine fotografiche, mentre Hassell e Clinton si trattenevano a parlare con Sir Robert ancora per un po’. Nessuno mai seppe esattamente che cosa disse loro Sir Robert, ma quando uscirono apparivano entrambi molto allegri. Quando la piccola cerimonia ebbe fine Dirk raggiunse il professore, che a sua volta sembrava molto contento di sé e stava fischiettando sommessamente. «Scommetto che siete contento che sia finita» disse Dirk. «Ora sappiamo tutti come stanno le cose.» Camminarono insieme per qualche metro senza dire nulla, poi Dirk osservò in tono innocente: «Vi ho mai detto qual è il mio particolare hobby?». Il professor Maxton lo fissò con aria leggermente sconcertata. «No. Qual è?» Dirk diede qualche colpetto di tosse come a scusarsi. «Si dice che io sia un buon prestidigitatore dilettante.» Il professor Maxton smise di fischiettare di colpo. Calò un silenzio profondo. Poi Dirk disse in tono rassicurante: «Non c’è di che preoccuparsi. Sono sicurissimo che nessun altro ha visto nulla. In particolare Hassell». «Voi» ribatté con fermezza il professore «siete una infernale seccatura. Suppongo che vorrete metterlo nella vostra dannata storia, vero.?» Dirk ridacchiò. «Può darsi. Anche se non sono uno scrittore di pettegolezzi. Ho notato che avete trattenuto nel palmo solo la strisciolina di Hassell, quindi presumibilmente gli altri sono stati davvero scelti a caso. Oppure avevate già predisposto quali nomi avrebbe fatto il D.G.? Tutte quelle strisce bianche, per esempio, erano autentiche? «Siete una sospettosa canaglia! No, gli altri sono stati davvero scelti correttamente.» «Secondo voi che farà Hassell adesso?» «Resterà per il decollo e riuscirà a tornare a casa molto in anticipo.» «E Clinton? Come la prenderà?» «Lui è un tipo flemmatico, non se la prenderà. Ora faremo lavorare subito entrambi ai piani per il prossimo viaggio. Questo dovrebbe impedire loro di agitarsi e di rimuginare.» Si voltò a guardarlo con preoccupazione. «Promettete che non direte mai nulla a nessuno di questo?» Dirk sorrise. ««Mai» è un bel po’ di tempo, eh! Facciamo fino al Duemila?» «Pensate sempre ai posteri, vero? Bene, anno Duemila sia. Ma a una condizione!» «E cioè?» «Mi aspetterò di ricevere una copia «de luxe» e autografata del vostro rapporto, da leggere in vecchiaia.» 25 Dirk stava tentando di fare una brutta copia della sua prefazione quando il telefono squillò rumorosamente. Il fatto che lui avesse un telefono era piuttosto sorprendente, dato che molte persone più importanti ne erano prive e venivano sempre a chiedergli di usare il suo. Ma gli era toccato quando erano stati assegnati i vari uffici e, sebbene si aspettasse di perderlo da un momento all’altro, finora nessuno era venuto a portarglielo via. «Siete voi, Dirk? Parla Ray Collins. Abbiamo tolto le schermature alla «Prometheus», quindi finalmente la potrete vedere tutta intera. E ricordate di avermi chiesto come avviene la manutenzione dei motori?» «Sì.» «Se venite potrete vederlo, ne vale la pena.» Con un sospiro Dirk mise via gli appunti. Un giorno avrebbe cominciato sul serio e allora la storia gli sarebbe venuta fuori a un ritmo fantastico. Non era affatto preoccupato perché ora sapeva quali erano i suoi metodi di lavoro. Non serviva a nulla iniziare prima di aver raccolto tutti i fatti, e fino a quel momento non aveva ancora organizzato bene gli appunti e i riferimenti. La giornata era freddissima e, mentre si avviava verso «Oxford Circus», si strinse addosso il cappotto. Quasi tutto il traffico di Luna City convergeva su quell’incrocio e non gli sarebbe stato difficile ottenere un passaggio per raggiungere il luogo del lancio. Alla base il problema dei trasporti era grave e c’era una lotta tra i vari reparti per mettere le mani sui pochi camion e sulle poche auto disponibili. Camminò nel freddo violento per circa dieci minuti prima che vedesse arrivare verso di lui una jeep carica di giornalisti, tutti con la sua stessa meta. Il veicolo sembrava un negozio di ottico ambulante, dato che era pieno di macchine fotografiche, binocoli e telescopi. Ciò nonostante Dirk riuscì a trovare un po’ di spazio in mezzo a quella vetrina. La jeep guizzò nell’area di parcheggio e tutti scesero trascinandosi appresso la propria attrezzatura. Dirk diede una mano a un giornalista piccolissimo che aveva un grosso telescopio con treppiede, in parte perché aveva un buon carattere, ma in parte anche perché sperava che gli avrebbe permesso di dare un’occhiata a sua volta. Ora le due grandi navi erano state spogliate di tutto ciò che le aveva coperte fino a quel momento; per la prima volta era possibile vedere appieno la loro dimensione e le loro proporzioni. La «Beta» a un’occhiata superficiale avrebbe potuto essere presa per un normale aereo di linea, con un disegno abbastanza classico. Dirk, che sapeva ben poco di aeronautica, non l’avrebbe degnata di uno sguardo se l’avesse vista decollare dal campo di atterraggio locale. L’«Alpha» non rassomigliava più tanto a un gigantesco guscio. La radio e l’equipaggiamento di navigazione ora erano stati estroflessi e la sua linea era del tutto rovinata da una piccola foresta di alberi maestri e protuberanze varie. Qualcuno all’interno probabilmente stava manovrando i comandi, perché di tanto in tanto uno degli alberi si ritraeva o fuoriusciva ancora di più. Dirk seguì gli altri verso il retro della nave. Una zona più o meno triangolare era stata recintata, cosicché la «Prometheus» si trovava a un apice e loro alla base. Potevano avvicinarsi solo a un massimo di cento metri da essa e, guardando quegli ugelli spalancati, Dirk non provò alcun desiderio particolare di avvicinarsi di più. Le macchine fotografiche e i binocoli furono messi in azione e di lì a un po’ Dirk riuscì a dare un’occhiata con il telescopio. I motori del razzo sembravano solo a pochi metri di distanza, ma lui non riuscì a vedere nulla, a parte un pozzo metallico pieno di oscurità e di mistero. Da quell’ugello tra poco sarebbero uscite centinaia di tonnellate di gas radioattivo a millecinquecento miglia all’ora. Dietro di esso, nascosti nell’ombra, c’erano gli elementi della pila che nessun essere umano avrebbe mai più potuto avvicinare. Qualcuno stava venendo verso di loro, dalla zona recintata, ma tenendosi molto vicino alla rete di recinzione. Quando fu non molto lontano, Dirk vide che si trattava del dottor Collins, che gli sorrise e disse: «Immaginavo che vi avrei trovato qui. Stiamo solo aspettando l’arrivo dello staff addetto alla manutenzione. Che bel telescopio avete, posso dare un’occhiata?». «Non è mio» spiegò Dirk «è di questo signore.» Il piccolo giornalista disse che gli avrebbe fatto molto piacere se il professore avesse voluto servirsene — e ancora di più se avesse voluto spiegargli che cosa c’era da vedere. Collins fissò intensamente attraverso il telescopio per qualche secondo, poi si raddrizzò e disse: «Temo non ci sia granché da vedere al momento, ci dovrebbe essere un riflettore acceso sopra il getto per illuminare l’interno. Ma tra un momento sarete contento di avere questo telescopio». Fece un sorrisetto mesto. «E’ una sensazione strana, sapete?» disse a Dirk. «Guardare una macchina che voi stesso avete contribuito a costruire… e alla quale non potrete mai più avvicinarvi senza con questo suicidarvi.» Mentre parlava un veicolo straordinario si stava avvicinando sul cemento. Era un autocarro molto grande, non dissimile da quelli che le società televisive usano per gli esterni, e trainava una macchina che Dirk non poté non guardare con attonito stupore. Mentre gli passava davanti vide confusamente leve giuntate, piccoli motori elettrici, trasmissioni a catena, ruote elicoidali e altri congegni che non riuscì a identificare. I due veicoli si fermarono appena all’interno della zona di pericolo. Nel camion grande si aprì una portiera e ne scese una mezza dozzina di uomini. Staccarono il traino e cominciarono a collegarlo a tre grandi cavi con armatura, che srotolavano da cilindri collocati sulla parte posteriore del camion. La strana macchina all’improvviso prese vita. Avanzò sui piccoli pneumatici, quasi volesse saggiare la propria mobilità. Le leve giuntate cominciarono a estendersi e a flettersi, dando una strana impressione di vita meccanica; un attimo dopo prese ad avanzare decisa verso la «Prometheus» seguita alla stessa velocità dal veicolo più grande. Collins aveva un’espressione divertita di fronte allo sbalordimento di Dirk e alla manifesta sorpresa dei giornalisti che lo circondavano. «Quella è Tin Lizzie» disse a mo’ di presentazione. «Non è in realtà un vero e proprio robot, posto che ogni movimento che fa è direttamente controllato dagli uomini che stanno nel camion. Ci vogliono tre persone per manovrarla ed è uno dei massimi prodotti di alta tecnologia del mondo.» Ora Lizzie si trovava a pochi metri dai getti dell’«Alpha» e, dopo alcuni movimenti precisi sui suoi pneumatici, si fermò senza scosse. Un lungo, sottile braccio che reggeva vari misteriosi macchinari scomparve nel minaccioso tunnel. «Servizio di manutenzione telecomandata» spiegò Collins al suo pubblico interessato. «Una delle branche secondarie più importanti dell’ingegneria atomica. E’ stato sviluppato per la prima volta su vasta scala durante la guerra per il progetto Manhattan, e da allora è diventata una vera e propria industria a sé stante. Lizzie è solo uno dei suoi prodotti più spettacolari. Potrebbe quasi riparare un orologio… o quanto meno una sveglia!» «Come viene manovrata?» «Su quel braccio c’è una telecamera, cosicché gli uomini possono vedere il lavoro come se lo osservassero direttamente. Tutti i movimenti sono effettuati da servomotori controllati attraverso quei cavi.» Nessuno riusciva a vedere cosa stesse facendo Lizzie e passò parecchio tempo prima che essa arretrasse dal razzo. Dirk notò che teneva fermamente nei suoi artigli di acciaio una sbarra lunga circa un metro dalla forma strana. I due veicoli si ritrassero per tre quarti dello spazio che li divideva dalla barriera e, mentre si avvicinavano, i giornalisti si affrettarono a scostarsi dal cupo oggetto grigio artigliato dal robot. Collins però rimase dov’era. Di conseguenza Dirk pensò che non doveva esserci pericolo. Dalla tasca della giacca dell’ingegnere si udì all’improvviso un ronzio roco e Dirk sobbalzò spaventato. Collins alzò una mano e il robot si fermò a una dozzina di metri di distanza. Gli uomini che lo controllavano, pensò Dirk, probabilmente li stavano osservando attraverso gli occhi della televisione. Collins agitò le braccia e la sbarra prese a ruotare lentamente tra gli artigli del robot. Il ronzio del segnale di pericolo di radiazioni cessò bruscamente e Dirk riprese a respirare. «Da un oggetto irregolare come quello, di solito si sviluppa un qualche irraggiamento» spiegò Collins. «Naturalmente siamo sempre nel suo campo di radiazione, ma è troppo debole per essere pericoloso.» Si girò verso il telescopio, che era stato momentaneamente abbandonato dal suo proprietario. «Questo ci fa molto comodo» disse. «Non avevo intenzione di andare a effettuare io stesso un’ispezione visiva, ma non si può perdere un’occasione simile… voglio dire, se riusciamo a mettere a fuoco l’immagine a questa distanza.» «Esattamente, cosa state cercando di fare?» chiese Dirk, mentre l’altro regolava sul massimo l’oculare. «Quello è uno degli elementi della pila atomica» disse distrattamente Collins. «Dobbiamo controllare se c’è attività. Uhm… sembra che vada bene. Volete dare un’occhiata?» Dirk guardò nel telescopio. Riuscì a vedere qualche centimetro quadrato di una cosa che in un primo momento gli parve un pezzo di metallo. Poi capì che si trattava di una sorta di rivestimento di ceramica. Era così vicino che riusciva a distinguere nettamente la struttura del materiale. «Che succederebbe» chiese «se lo si toccasse?» «In seguito comparirebbero delle brutte bruciature, da raggi gamma e neutroni. Se gli si stesse vicino un po’ di più, si morirebbe.» Dirk guardò con orrore affascinato quell’innocente superficie grigia che sembrava a soli pochi centimetri di distanza. «Suppongo» disse «che quello che c’è nella bomba atomica gli somigli molto.» «Quanto meno è altrettanto pericoloso» si dichiarò d’accordo Collins. «Ma qui non c’è pericolo di esplosione. Il materiale fissile che usiamo è tutto trattato. Se ci dessimo molto da fare potremmo ottenere un’esplosione… ma molto piccola.» «Che intendete dire con questo?» chiese sospettosamente Dirk. «Oh, solo un grosso bang» ribatté allegramente Collins. «Non posso dare le cifre così su due piedi ma probabilmente non più di quella che provocherebbe qualche centinaio di tonnellate di dinamite. Niente di cui preoccuparsi!» 26. Il salotto del Senior Staff dava sempre a Dirk l’impressione di un club londinese un po’ scalcagnato. Il fatto che non fosse mai entrato in un club londinese, elegante o meno, non riusciva ad eliminare questa ferma convinzione. Eppure il contingente britannico era costantemente in minoranza lì, dove per tutta la giornata si potevano sentire tutti gli accenti possibili e immaginabili del mondo. Ciò non cambiava l’atmosfera del luogo che sembrava emanare dal «barman» molto inglese e dai suoi due assistenti. A dispetto di ogni aggressione, erano riusciti a tenere alta la Union Jack al centro sociale di Luna City. Una sola volta avevano ceduto il terreno e anche in quell’occasione il nemico era stato rapidamente sconfitto. Sei mesi prima gli americani avevano fatto arrivare lì un nuovissimo distributore di Coca-Cola che per qualche tempo aveva brillato sullo sfondo scuro dei pannelli di legno delle pareti. Ma non per molto; c’erano state frettolose consultazioni e molto lavoro notturno nell’officina. Al mattino, quando i clienti assetati fecero il loro ingresso, scoprirono che il rivestimento cromato era scomparso e che ora dovevano prendersi la loro bibita da un mobile che avrebbe potuto essere uno degli ultimi capolavori minori di Mister Chippendale. Lo «status quo» era stato ripristinato, ma il barista confessò di ignorare totalmente come ciò fosse accaduto. Dirk ci andava almeno una volta al giorno a ritirare la posta e a leggere i giornali. Di sera il luogo diventava piuttosto affollato e lui preferiva starsene in camera. Ma quella sera Maxton e Collins l’avevano tirato fuori a forza dal suo isolamento. Come al solito, la conversazione non si distaccò molto dall’impresa imminente. «Credo che domani andrò alla conferenza di Taine» disse Dick. «Parlerà della Luna, vero?» «Sì. Scommetto che sarà molto prudente adesso che sa che ci andrà! Se non starà attento potrebbe doversi rimangiare quello che ha detto!» «Gli abbiamo dato mano libera» spiegò Maxton. «Probabilmente parlerà di progetti a lungo termine e dell’uso della Luna come base di rifornimento per raggiungere i pianeti.» «Questo dovrebbe essere interessante. Presumo che Richard e Clinton parleranno di ingegneria, e di questo ne ho avuto abbastanza.» «Grazie» disse ridendo Collins. «E’ bello vedere che i nostri sforzi sono apprezzati.» «Sapete una cosa?» esclamò all’improvviso Dirk. «Non ho mai visto la Luna attraverso un potente telescopio.» «Potremmo farvela vedere una qualsiasi sera di questa settimana; diciamo dopodomani. Al momento la Luna ha solo un giorno. Abbiamo diversi telescopi qui che vi consentiranno un’ottima vista.» «Mi domando» disse Dirk pensosamente «se troveremo vita — intendo vita intelligente — in qualche parte del Sistema Solare.» Seguì un lungo silenzio, poi Maxton disse in tono brusco: «Non credo». «Perché no?» «Guardiamola da questo punto di vista. Abbiamo impiegato solo diecimila anni per passare dalle asce di pietra alle navi spaziali. Il che significa che il viaggio interplanetario interviene molto presto nello sviluppo di qualsiasi cultura — se cioè essa procede lungo linee tecnologiche.» «Non necessariamente» ribatté Dirk. «Se consideriamo anche la preistoria, c’è voluto un milione di anni per arrivare alle navi spaziali.» «Ma questo resta un millesimo, o anche meno, dell’età del Sistema Solare. Se mai c’è stata una qualche civiltà su Marte, probabilmente è morta prima che l’umanità emergesse dalla giungla. Se invece esistesse ancora, sarebbe venuta a farci visita da molto tempo.» «E’ così plausibile che sono sicuro che non è vero» rispose Dirk. «Inoltre ci sono varie cose che fanno pensare che in passato abbiamo avuto veramente la visita di cose o di navi cui non siamo piaciuti e che se ne sono andate.» «Sì, ho letto alcune di queste storie, che sono molto interessanti. Ma io sono scettico: se qualcosa ha mai visitato la Terra — del che dubito —, mi stupirebbe molto che fosse venuto dagli altri pianeti. Lo spazio e il tempo sono così immensi che non sembra assolutamente probabile che abbiamo dei vicini proprio dietro l’angolo.» «Mi sembra un peccato» disse Dirk. «A mio parere la cosa più eccitante dell’astronautica è la possibilità che offre di conoscere altri tipi di intelligenze. La razza umana non si sentirebbe così sola.» «Questo è verissimo; ma forse sarebbe meglio se potessimo passare i secoli futuri a esplorare tranquillamente per conto nostro il Sistema Solare. Allora avremo acquisito molta più saggezza — e intendo dire proprio saggezza, non semplice conoscenza. Forse allora saremo pronti a prendere contatto con altre razze. Per il momento… be’, siamo a soli quarant’anni di distanza da Hitler.» «Secondo voi quanto dovremo aspettare» chiese Dirk un po’ scoraggiato «per avere un primo contatto con un’altra civiltà?» «Chi può dirlo? Potrebbe essere vicino nel tempo quanto i fratelli Wright… o remoto quanto la costruzione delle piramidi. Naturalmente potrebbe addirittura succedere di qui a una settimana, quando la «Prometheus» scenderà sulla Luna. Ma sono sicurissimo che non accadrà.» «Credete davvero» disse Dirk «che arriveremo mai fino alle stelle?» Il professor Maxton rimase silenzioso per un momento, emettendo pensosamente nuvolette di fumo di sigaretta. «Credo di sì. Un giorno.» «E come?» insistette Dirk. «Se riusciremo ad avere una propulsione atomica del cinquanta per cento più efficiente potremo quasi raggiungere la velocità della luce — o comunque tre quarti di essa. Ciò significa circa cinque anni di viaggio da stella a stella. Un periodo molto lungo, purtuttavia possibile persino per noi che siamo creature dalla vita breve. E un giorno, spero, vivremo molto più a lungo di oggi, un bel po’ più a lungo.» Dirk ebbe l’improvvisa immagine di loro tre visti da un osservatore esterno. Aveva ogni tanto quei momenti di obiettività che erano preziosi per fargli mantenere il senso delle proporzioni. Eccoli lì, due uomini sulla trentina e uno sulla cinquantina, seduti in poltrona attorno al tavolino basso, con un bicchiere davanti. Avrebbero benissimo potuto essere uomini d’affari che discutevano di un contratto o si riposavano dopo una partita a golf. Si trovavano in un contesto assolutamente normale; di tanto in tanto dagli altri gruppi arrivavano frammenti di conversazione spicciola e dalla stanza vicina si udiva un vago ticchettio di palline da ping-pong. Sì, avrebbero potuto parlare di azioni, o di obbligazioni, o della nuova automobile, o dell’ultimo pettegolezzo. Invece si chiedevano come arrivare alle stelle. «Le nostre attuali propulsioni atomiche» disse Collins «sono efficienti di circa un centesimo dell’uno per cento. Quindi passerà un bel po’ di tempo prima che possiamo pensare di andare su Alpha Centauri.» («Nello sfondo una voce lamentosa stava dicendo: «Ehi, George, che ne è stato del mio gin and lime?»») «Un’altra domanda disse Dirk. «E’ assolutamente sicuro che non possiamo viaggiare più veloci della luce?» «In questo universo sì, è la velocità limite di tutti gli oggetti materiali. Seicento miserabili milioni di miglia l’ora!» (««Tre bitter per favore, George!»») «Tuttavia» disse Maxton lentamente e pensosamente «c’è un modo per aggirare questo ostacolo.» «Cioè?» chiesero Dirk e Collins simultaneamente. «Nel nostro universo due punti possono essere distanti anni luce. Ma in uno spazio più alto potrebbero quasi toccarsi.» (««Dov’è «The Times»? No, scemo, non quello di New York.»») «Io mi fermo alla quarta dimensione» disse Collins con un sorriso. «Quello che hai detto, per me è troppo fantastico; io sono un ingegnere molto pratico, almeno spero!» («Sembrò che nella stanza vicina, dove si giocava a ping-pong, il vincitore, trascinato dall’entusiasmo, fosse balzato al di là della rete per stringere la mano al suo avversario».) «All’inizio di questo secolo» ribatté il professor Maxton «ingegneri molto pratici la pensavano allo stesso modo riguardo alla teoria della relatività, ma una generazione dopo ne sono stati catturati, e come!» Collins si girò verso Dirk con un sorriso. «Dovrei spiegare» affermò in tono malizioso «che il Prof ha un debole per quella sensazionalistica rivista- «Storie Stupende» o come altro si chiama — che ci dà dentro con l’iperspazio, il viaggio nel tempo e tutto questo genere di cose. Anzi» si chinò in avanti con aria di cospirazione ««un tempo ci scriveva anche!»» Il professor Maxton restò imperturbabile. «Non mi vergogno di dire» ribatté allegramente «che prima che Ray nascesse mi pagavo le tasse del college con l’aiuto della macchina per scrivere. E poi, qualcuno doveva pur scrivere di viaggi spaziali affinche la gente li ritenesse possibili.» «Ma non è andata così» obiettò Collins. «La maggior parte di quelle storie erano così stupide e così malscritte da ottenere proprio l’effetto contrario. Tutti pensavano che i viaggi interplanetari fossero cose per ragazzi.» «Così era — negli anni Quaranta» rispose Maxton. «Hanno letto queste cose e quando sono cresciuti hanno fatto in modo che si verificassero. E’ un gran bel campo per voi letterati, Dirk. Quando avrete finito la vostra storia, che ne direste di una dotta tesi sui «Romanzi scientifici e i loro effetti sull’astronautica»?» «Volete dire: «Fantascienza: causa, diagnosi e cura»«interferì Collins. «No, grazie» rispose ridendo Dirk. «Ne ho già abbastanza adesso, ma certo sarebbe un progetto interessante. Jules Verne resterebbe stupito se potesse vedere a che cosa ha dato l’avvio.» «Ci abbiamo messo solo un centinaio di anni» dichiarò Maxton in tono solenne «per superare tutto quello che lui ha scritto. Cent’anni da quella sua impossibile macchina alla «Prometheus».» Appoggiò i gomiti sul tavolo e guardò verso il vuoto lontano. «Secondo voi» disse lentamente «che cosa porteranno i «prossimi» cent’anni?» 27 Si supponeva che la grande baracca Nissen avrebbe dovuto essere collegata al sistema di riscaldamento del campo, ma nessuno aveva la sensazione che fosse così. Dirk, che aveva finito per abituarsi al modo di vivere di Luna City, si era saggiamente portato appresso il cappotto, ed era dispiaciuto per gli sfortunati spettatori che avevano trascurato di prendere quella precauzione elementare. Alla fine della conferenza avrebbero avuto una vivida idea di quali fossero le condizioni dei pianeti esterni. C’erano già circa duecento persone sedute sulle panche e ne arrivavano altre di continuo, dato che erano passati solo cinque minuti dall’ora in cui avrebbe dovuto iniziare la conferenza. Al centro del locale un paio di nervosi elettricisti stavano facendo sistemazioni dell’ultimo minuto sull’episcopio. Una mezza dozzina di poltrone erano state collocate davanti alla piattaforma dell’oratore ed erano guardate con invidia da molti occhi. Quasi fossero state etichettate, proclamavano al mondo: Direttore Generale. Una porta sul fondo si aprì ed entrò Sir Robert Derwent, seguito da Taine, dal professor Maxton e da alcuni altri che Dirk non riconobbe. Tutti, a eccezione di Sir Robert, sedettero in prima fila, lasciando libera la poltrona centrale. Il fruscio e i bisbigli cessarono non appena il Direttore Generale salì sulla piattaforma. Dirk pensò che sembrava un grande impresario in procinto di sollevare il sipario. E in un certo senso lo era. «Il signor Taine» iniziò Sir Robert «ha gentilmente acconsentito a parlarci degli scopi della nostra prima spedizione. Dato che è stato uno dei suoi progettatori e vi prenderà parte, sono sicuro che ascolteremo con grande interesse il suo punto di vista. Dopo che avrà parlato della Luna, presumo che il signor Taine… si lascerà prendere la mano e vorrà anche discutere dei piani che abbiamo per il resto del Sistema Solare. Penso che abbia organizzato piuttosto bene tutto il viaggio fino a Plutone, il signor Taine.» (Applausi.) Dirk osservò con attenzione l’astronomo mentre saliva sulla piattaforma. Fino a quel momento aveva fatto ben poca attenzione a lui: effettivamente, a parte il suo incontro casuale con Hassell, aveva avuto poche occasioni di studiare i membri dell’equipaggio. Taine era un giovanotto piuttosto grassoccio che sembrava avere non più di venticinque/ventisei anni, anche se in effetti ne aveva quasi trenta. L’astronautica, si disse Dirk, li prende da giovani. Non c’era da stupirsi che Richards, a trentacinque, fosse considerato un vero e proprio vecchione dai colleghi. La voce di Taine era asciutta e precisa e le sue parole si diffondevano chiare per la baracca. Era un buon oratore, ma aveva l’irritante abitudine di giocherellare con pezzetti di gesso, che spesso gli sfuggivano di mano. «Non occorre che vi dica molto sulla Luna nell’insieme» cominciò «dato che in queste ultime settimane avete già letto o sentito più che a sufficienza al riguardo. Ma parlerò del luogo sul quale intendiamo atterrare e vi dirò che cosa speriamo di fare quando saremo arrivati. «Per prima cosa eccovi una veduta di tutta la Luna. (Diapositiva 1, per favore.) Dato che è piena e il Sole splende in verticale sul centro del disco, tutto appare piatto e poco interessante. L’area scura qui, in fondo a destra, è il Mare Imbrium, nel quale atterreremo. «Ora, ecco la Luna di nove giorni — che è come la vedrete dalla Terra quando noi arriveremo lì. Dato che il Sole brilla a una certa angolazione, noterete che le montagne vicino al centro si vedono con molta chiarezza. Guardate le lunghe ombre che diffondono. «Avviciniamoci ed esaminiamo il Mare Imbrium nei particolari. Questo nome, tra l’altro, significa «Mare delle Piogge», ma naturalmente non è un mare e lì non piove, come non piove da nessun’altra parte sulla Luna. Gli antichi astrologi gli hanno dato questo nome in tempi precedenti all’invenzione del telescopio. «In questo primo piano il Mare è una pianura piuttosto piatta, sovrastata in alto (questo è il sud, tra l’altro) da questa catena veramente stupenda: gli Appennini lunari. A nord abbiamo questa catena più piccola: le Alpi. Questa scala vi dà un’idea delle distanze: quel cratere, ad esempio, ha un diametro di circa cinquanta miglia. «Questa zona è una delle più interessanti della Luna e certo ha il più bel panorama, ma nella nostra prima visita noi potremo esplorarne solo un piccolo tratto. Atterreremo più o meno qui (seconda diapositiva, per favore) e questo è un disegno della zona ingrandito al massimo. E’ come se lo vedeste a occhio nudo da una distanza di duecento miglia nello spazio. «Il punto esatto dell’atterraggio sarà deciso durante la fase di avvicinamento. Nelle ultime cento miglia cadremo lentamente e dovremmo avere il tempo di scegliere la zona adatta. Posto che scenderemo in verticale controllata sugli ammortizzatori e che è possibile prolungare la sostentazione fino all’ultimo momento mediante l’azione dei retrorazzi, ci serviranno soltanto pochi metri quadri di superficie relativamente orizzontale. Qualche pessimista ha azzardato che forse potremmo finire in mezzo a delle sabbie mobili secche, ma questo non ci appare affatto probabile. «Lasceremo la nave in due, legati l’uno all’altro, mentre il terzo resterà a bordo per trasmettere messaggi alla Terra. Le nostre tute spaziali hanno aria per dodici ore e ci isoleranno da tutta la gamma di temperature che troveremo sulla Luna — cioè dal punto di ebollizione a circa 200 gradi Fahrenheit sotto zero. Dato che resteremo lì di giorno, non incapperemo in temperature basse, a meno che non stiamo in ombra per lunghi periodi. «Non posso sperare di riuscire a spiegarvi tutto il lavoro che intendiamo fare durante la nostra settimana sulla Luna, quindi mi limiterò ad accennare alle cose più importanti. «Innanzitutto, portiamo con noi dei telescopi compatti ma molto potenti, e speriamo di poter vedere i pianeti con chiarezza maggiore di quanto sia mai stato possibile. Questo equipaggiamento, come gran parte di quanto altro porteremo, sarà lasciato lì, in vista di future spedizioni. «Riporteremo giù migliaia di campioni geologici, dovrei dire selenologici, perché vengano analizzati. Cerchiamo minerali contenenti idrogeno, poiché, una volta che avremo potuto installare un impianto di estrazione di combustibile sulla Luna, il costo dei viaggi sarà ridotto a un decimo o anche meno, e, cosa ancor più importante, potremo cominciare a pensare a viaggi su altri pianeti. «Ci portiamo appresso anche una buona quantità di apparecchiatura radio. Come sapete, la Luna ha enormi possibilità, come stazione rélé, e noi speriamo proprio di impiantarne qualcuna. Inoltre faremo ogni sorta di misurazioni fisiche, che saranno del massimo interesse scientifico. Una delle più importanti è la determinazione del campo magnetico della Luna al fine di sperimentare la teoria di Blackett, e naturalmente speriamo di poter fare una splendida raccolta di fotografie e di filmati. «Sir Robert vi ha detto che mi sarei lasciato prendere la mano, questo non lo so, ma forse vi interesserà sapere ciò che io personalmente penso delle linee di sviluppo che avremo nel prossimo decennio o giù di lì. «Per prima cosa dobbiamo stabilire una base semipermanente sulla Luna. Se saremo fortunati nella nostra prima scelta, potremo forse costruirla nel punto dell’atterraggio iniziale. In caso contrario ne cercheremo un altro. «Sono stati preparati grandi progetti per una base del genere. Dovrebbe essere il più autonoma possibile e coltivare le proprie provviste di cibo sottovetro. La Luna, con i suoi quattordici giorni di luce solare continua, dovrebbe essere il paradiso di un orticoltore! «Man mano che apprenderemo di più sulle risorse naturali della Luna, la base verrà estesa e sviluppata. Pensiamo di effettuare subito le operazioni minerarie — ma esse serviranno a ricavare materiale da usarsi sulla Luna. Sarebbe eccessivamente costoso portare sulla Terra dell’altro, oltre alle sostanze molto rare. «Attualmente i viaggi sulla Luna sono estremamente costosi e difficili perché dobbiamo portare con noi il combustibile per il rientro. Quando saremo in grado di rifornirci lì, potremo servirci di macchine molto più piccole e più economiche. E, come ho appena detto, potremo raggiungere i pianeti. «Sembra paradossale, ma è più facile il viaggio di quaranta milioni di miglia da una base lunare fino a Marte di quanto non lo sia attraversare il quarto di milione di miglia tra la Terra e la Luna. Ci vuole molto di più naturalmente — circa duecentocinquanta giorni —, ma non una maggiore quantità di combustibile. «La Luna, grazie al suo debole campo gravitazionale, è un’ottima base di partenza per viaggi interplanetari — una base per l’esplorazione del Sistema Solare. Se tutto andrà liscio, faremo piani per raggiungere Marte e Venere fra circa dieci anni. «Non mi propongo di fare speculazioni su Venere, se non per dire che quasi sicuramente faremo una perlustrazione radar di essa prima di tentare l’atterraggio. Dovrebbe essere possibile ottenere accurate mappe radar della superficie nascosta, a meno che la sua atmosfera non sia realmente molto strana. «L’esplorazione di Marte sarà per certi versi molto simile a quella della Luna. Può darsi che non ci servano tute spaziali per starci, ma sicuramente avremo bisogno di ossigeno. La base marziana si troverà a dover affrontare gli stessi problemi che presenta la Luna. Anche se in forma molto meno acuta. Ma avrà uno svantaggio: sarà molto lontana da casa e dovrà basarsi molto di più sulle proprie risorse. La presenza quasi sicura di un qualche genere di vita, inoltre avrà sull’insediamento effetti per ora non prevedibili. Se vi è un’intelligenza su Marte — cosa di cui dubito forse dovremo cambiare totalmente i nostri piani: potrebbe non essere possibile fermarvisi per niente. Le possibilità, per quanto riguarda Marte, sono quasi infinite, ecco perché è un luogo tanto interessante. «Al di là di Marte la scala del Sistema Solare si dilata e non sarà possibile fare molte esplorazioni finché non avremo veicoli più veloci. Anche la nostra «Prometheus» potrebbe raggiungere i pianeti esterni, ma non potrebbe rientrare, e il viaggio richiederebbe molti anni. Tuttavia penso che entro la fine del secolo potremmo prepararci ad andare su Giove e forse su Saturno. Molto probabilmente tali spedizioni partirebbero da Marte. «Naturalmente non possiamo sperare di atterrare su questi due pianeti: se hanno superficie solida, il che è dubbio, sono a migliaia di miglia sotto un’atmosfera in cui non osiamo entrare. Se dovesse esservi una qualsiasi forma di vita all’interno di quegli inferni subartici, non vedo come potremo mai contattarla — o come essa potrebbe mai sapere qualcosa di noi. «L’interesse principale per Saturno e per Giove sta nei loro sistemi di lune. Saturno ne ha almeno dodici, Giove almeno quindici. Inoltre, molti di essi sono mondi abbastanza grandi, più grandi della nostra Luna. Titano, il satellite più grande di Saturno, è grande quasi metà della Terra, e si sa che possiede un’atmosfera, anche se non respirabile. Sono tutte freddissime, ma questa non è un’obiezione seria, ora che possiamo ottenere quantità illimitate di calore dalle reazioni atomiche. «I tre pianeti più esterni non ci riguarderanno per un bel po’ di tempo — una cinquantina di anni o ancora di più. In ogni caso, per il momento sappiamo ben poco di loro. «Questo è tutto ciò che per ora dirò. Spero di aver chiarito che il viaggio che faremo la settimana prossima — anche se appare straordinario secondo i nostri standard attuali —, è in realtà solo il primo passo. E’ eccitante e interessante, ma dobbiamo tenerlo nella giusta prospettiva. La Luna è un piccolo mondo e, per certi versi, non è molto promettente; ma alla fine ci condurrà fino ad altri otto pianeti, alcuni più grandi della Terra, e a più di trenta lune di varie dimensioni. L’area globale che apriremo all’esplorazione nei pochi decenni prossimi, è almeno dieci volte tanto quella della superficie terrestre. E questo dovrebbe dare spazio a tutti. «Grazie.» Taine smise bruscamente di parlare, senza abbellimenti retorici, come un annunciatore radiofonico improvvisamente consapevole di aver superato i limiti di tempo. Calò un silenzio totale per circa mezzo minuto, mentre il pubblico lentamente ritornava sulla Terra. Poi si levarono alcuni educati applausi che lentamente aumentarono man mano che la gente tornava alla realtà. I giornalisti, battendo i piedi e cercando di ripristinare la circolazione, cominciarono a uscire. Dirk si chiese quanti avessero realizzato, per la prima volta, che la Luna non era un obiettivo, ma un inizio — il primo passo lungo una strada infinita, una strada, ora ne era convinto, che tutte le razze avrebbero finito per percorrere se non avessero voluto isterilirsi e morire sui loro piccoli mondi solitari. Ora per la prima volta era possibile vedere la «Prometheus» tutta intera. L’«Alpha» era stata issata in posizione sulle ampie spalle della «Beta» e le conferiva un aspetto piuttosto brutto e gobbo. Persino Dirk, per il quale tutte le macchine volanti erano quasi uguali, non avrebbe potuto confondere la grande nave spaziale con una qualunque cosa che avesse mai solcato i cieli. Seguì Collins per la scala della incastellatura mobile per dare un’ultima occhiata all’interno. Era sera e c’era poca gente in giro. Da dietro il cordone di recinzione alcuni fotografi cercavano di fare foto del veicolo spaziale con il sole che gli tramontava alle spalle. La «Prometheus» sarebbe stata uno spettacolo impressionante, stagliata contro lo splendore calante del cielo occidentale. La cabina dell’«Alpha» era luminosa e linda come una sala operatoria, pur tuttavia c’era qualche tocco personale: oggetti ovviamente appartenenti all’equipaggio erano stati riposti qua e là in nicchie, dove erano stati fissati da bande elastiche. Alcune fotografie erano state appiccicate alle pareti, e sulla scrivania del pilota, in una cornice di plastica, c’era un ritratto della (così presunse Dirk) moglie di Leduc. Carte e tabelle matematiche erano state fissate in punti strategici per poter essere consultate rapidamente. Per la prima volta dopo giorni Dirk ricordò all’improvviso la visita, in Inghilterra, in un tranquillo quartiere periferico, alla stanza di addestramento simulato, dove si era trovato davanti allo stesso dispiegamento di strumentazioni. Sembrava fosse passata una vita, e mezzo mondo di distanza. Collins si avvicinò a un armadietto alto e spalancò l’anta. «Non ne avete mai viste di queste finora, vero?» chiese. Le tre vuote tute spaziali appese ai ganci sembravano creature dei fondali marini, trascinate dall’oscurità alla luce del giorno. Il tessuto spesso e flessibile cedette subito sotto il tocco di Dirk, che avvertì la presenza di anelli metallici di rinforzo. I caschi trasparenti somiglianti a grandi bocce per pesci erano fissati in nicchie ai lati dell’armadietto. «Proprio come tute subacquee, vero?» disse Collins. «Di fatto, l’«Alpha» assomiglia a un sottomarino più che a qualunque altra cosa, sebbene i nostri problemi di progettazioni siano molto inferiori, dato che non dobbiamo affrontare le stesse pressioni.» «Mi piacerebbe sedermi al posto del pilota» disse all’improvviso Dirk. «E’ possibile?» «Sì, purché non tocchiate nulla.» Collins restò a guardarlo mentre prendeva posto. Conosceva quell’impulso, dato che più di una volta egli stesso lo aveva provato. Quando l’apparecchio fosse stato in movimento oppure in verticale sulla Luna, il sedile si sarebbe spostato in avanti ad angolo retto, rispetto alla posizione attuale. Quello che adesso era il pavimento sotto i piedi di Dirk sarebbe diventato la parete antistante, e l’oculare del periscopio che ora i suoi stivali dovevano evitare sarebbe stato in posizione per essere usato. A causa di questa rotazione, così poco familiare alla mente umana, era difficile provare le sensazioni che avrebbe provato il pilota quando fosse stato seduto lì. Dirk si alzò e si voltò per andar via. Seguì Collins in silenzio fino alla porta a tenuta d’aria, ma, per un attimo, si fermò sulla soglia della pesante porta ovale per dare un’ultima occhiata alla cabina silenziosa. «Addio, piccola nave!» pensò. «Addio e buona fortuna.» Quando uscirono sull’incastellatura, era buio e i riflettori rovesciavano fasci di luce sul cemento sottostante. Soffiava un vento freddo e la notte era punteggiata di stelle, delle quali lui non avrebbe mai conosciuto i nomi. Ad un tratto Collins, che gli stava a fianco nell’oscurità, lo afferrò per un braccio e gli indicò silenziosamente l’orizzonte. Quasi invisibile nella vaga luminescenza del tramonto, la falce della Luna vecchia di due giorni stava scivolando giù, a Occidente. Fra le sue braccia c’era il disco appena luminoso che stava ancora aspettando l’avvento del giorno. Dirk cercò di immaginare le grandi montagne e le corrugate pianure in attesa che il Sole si levasse su di loro, e tuttavia già incendiate dalla luce fredda della Terra quasi piena. Milioni e milioni di volte la Terra era cresciuta e calata su quella landa silenziosa e solo ombre si erano spostate sulla sua faccia. Dagli albori della vita terrestre, forse una dozzina di crateri erano crollati, ma, a parte questo, non aveva conosciuto altri cambiamenti. E ora finalmente, dopo tutte quelle ere, la sua solitudine stava per finire. 28 Due giorni prima del decollo, Luna City era probabilmente uno dei punti più tranquilli e meno agitati della Terra. Tutti i preparativi erano stati completati, tranne il rifornimento finale di combustibile e alcune prove dell’ultimo momento. Non c’era nulla da fare se non aspettare che la Luna raggiungesse il punto stabilito. Nelle grandi redazioni giornalistiche di tutto il mondo i redattori-capo erano indaffarati a preparare i titoli e a scrivere diverse storie alternative che potessero essere rapidamente adattate eliminando quasi tutto, tranne i fatti indiscutibili. Perfetti sconosciuti sugli autobus e sui treni si scambiavano conoscenze astronomiche al minimo pretesto. Solo un delitto molto spettacolare avrebbe potuto ricevere un’analoga attenzione. In tutti i continenti apparecchi radar a lungo raggio venivano sintonizzati per seguire l’«Alpha» nel suo viaggio nello spazio. Il piccolo radarfaro a bordo della nave spaziale avrebbe consentito di controllarne la posizione in ogni fase del viaggio. Nel sottosuolo della Princeton University era pronto uno dei più grandi computer del mondo. Se fosse stato necessario per una qualsiasi ragione cambiare orbita, o ritardare il ritorno, bisognava calcolare una nuova traiettoria attraverso i mutevoli cambi gravitazionali della Terra e della Luna. Un esercito di matematici ci avrebbe impiegato mesi per farlo: il calcolatore di Princeton poteva dare la risposta già stampata in poche ore. Ogni radioamatore del mondo in grado di sintonizzarsi sulla frequenza della nave spaziale stava dando un’ultima occhiata di controllo alla propria apparecchiatura. Non sarebbero stati molti coloro che avrebbero potuto sia ricevere sia interpretare l’iperfrequenza, segnali dei modulatori di impulsi provenienti dal veicolo, ma alcuni ce ne sarebbero stati. I cani da guardia dell’etere, i Commissari alle Comunicazioni, erano pronti a intervenire nel caso che qualche trasmittente non autorizzata avesse tentato di introdursi nel circuito. Sulle cime montuose gli astronomi si stavano preparando per la loro gara privata — una sfida su chi avrebbe ottenuto le foto migliori e più chiare dell’allunaggio. L’«Alpha» era troppo piccola perché la si potesse vedere quando avesse raggiunto la Luna — ma le fiamme dei getti, quando avessero colpito le rocce lunari, sarebbero dovute essere visibili ad almeno un milione di miglia di distanza. Nel frattempo i tre uomini che occupavano il centro del palcoscenico mondiale concedevano interviste quando ne avevano voglia, dormivano a lungo nei loro alloggi, oppure sfogavano la tensione giocando a ping pong, che era più o meno l’unica forma di sport offerta da Luna City. Leduc, che aveva un senso macabro dell’umorismo, si divertiva a raccontare agli amici le cose inutili o offensive che aveva lasciato loro nel testamento. Richards si comportava come se non fosse successo nulla di minimamente importante e insisteva nel prendere elaborati impegni mondani di lì a tre settimane. Taine si vedeva raramente — più tardi si venne a sapere che era indaffarato a scrivere un trattato matematico che aveva ben poco a che vedere con l’astronautica. Si trattava di fatto di un calcolo del numero di tutte le possibili partite di bridge e del tempo che ci sarebbe voluto per giocarle tutte. Pochissimi in effetti sapevano che il meticoloso Taine avrebbe potuto, se lo avesse voluto, guadagnare molto più denaro con cinquantadue carte, di quanto avrebbe mai potuto guadagnarne con l’astronomia. Per quanto non se la sarebbe cavata male, ora, se fosse tornato sano e salvo dalla Luna… Sir Robert Derwent sedeva del tutto rilassato in poltrona nella stanza buia, tranne che per il fascio di luce della lampada da lettura. Era quasi dispiaciuto che non ci fosse stato bisogno del margine di due o tre giorni ritenuto necessario nel caso di intoppi del l’ultimo momento. Mancavano ancora una notte, un giorno e un’altra notte al decollo — e non si poteva far altro che aspettare. Al Direttore Generale non piaceva aspettare. Ciò gli dava tempo di pensare e il pensiero era nemico della felicità. Ora, nella tranquillità della notte, mentre si avvicinava il più grande momento della sua vita, lui rivisitava il passato alla ricerca della sua gioventù. I quarant’anni di lotte, di successi e di atroci delusioni stavano ancora nel futuro. Era di nuovo ragazzo. All’inizio della sua carriera universitaria, e la Seconda Guerra Mondiale che gli aveva rubato sei anni di vita era solo una nube minacciosa all’orizzonte. Se ne stava in un bosco dello Shropshire, in una di quelle mattinate primaverili che non erano più tornate. E il libro che stava leggendo era quello che anche ora aveva tra le mani. Su un foglio si leggevano, in inchiostro sbiadito, queste parole scritte con una calligrafia stranamente immatura: Robert A. Derwent. 22 giugno 1935. Il libro era lo stesso — ma dov’era adesso la musica di quelle parole melodiose che un tempo gli avevano incendiato il cuore? Era troppo vecchio e troppo saggio: i trucchi dell’allitterazione e della ripetizione non lo ingannavano più, e il vuoto di pensiero era fin troppo chiaro. Eppure sempre vi sarebbe stata una vaga eco proveniente dal passato e per un attimo il sangue gli sarebbe salito alle guance come quarant’anni prima. A volte una frase era sufficiente: «O liuto dell’Amore che si ode sopra le terre della Morte!». A volte un distico: «Fino a che Dio non avrà scatenato su terra e mare Il fragore delle trombe della notte». Il Direttore Generale fissò gli occhi nel vuoto. Lui stesso stava per scatenare un fragore quale il mondo mai aveva sentito prima. Sull’Oceano Indiano i marinai avrebbero levato lo sguardo dalle loro navi quando i motori rombanti fossero sfrecciati nel cielo; i coltivatori di tè di Ceylon li avrebbero uditi, ormai deboli e vaghi, mentre si dirigevano verso l’Africa. I pozzi petroliferi arabi avrebbero captato gli ultimi echi che sarebbero filtrati giù dalle frange dello spazio. Sir Robert voltava le pagine pigramente, fermandosi ogni volta che parole alate catturavano la sua mente: «Non è molto ciò che un uomo può salvare Sulle sabbie della vita, negli stretti del tempo, Mentre nuota verso la terza grande ondata Che mai nuotatore potrà attraversare o superare». Che aveva salvato, lui, del Tempo? Molto più, lo sapeva, della maggior parte degli uomini. Eppure aveva quarant’anni quando aveva trovato uno scopo nella vita. L’amore per la matematica era sempre stato costante in lui, ma per molto tempo era stata una passione priva di scopo. Anche ora sembrava che il caso avesse fatto di lui quello che era. «Nella Francia antica viveva un cantore Sulle rive del triste mare interno senza maree. In una terra di sabbia e distruzione e d’oro Brillava una donna, e lei sola.» La magia passò e svanì. Tornò con la mente agli anni della guerra, quando aveva combattuto in quella silenziosa battaglia nei laboratori. Mentre gli uomini morivano in terra, per mare e nell’aria, lui tracciava il percorso degli elettroni attraverso campi magnetici interdipendenti. Nulla avrebbe potuto essere più remotamente accademico: eppure dal lavoro cui aveva contribuito era nata la più grande arma tattica della guerra. Piccolo era stato il passo dal radar alla meccanica celeste, dalle orbite dell’elettrone ai sentieri dei pianeti attorno al Sole. Le tecniche che egli aveva applicato al piccolo mondo del magnetrone avrebbero potuto essere di nuovo utilizzate su scala cosmica. Forse era stato fortunato: dopo soli dieci anni di lavoro era diventato famoso per il modo in cui aveva affrontato il problema dei tre corpi celesti. Dieci anni dopo, con sorpresa di tutti, inclusa la sua, era diventato Astronomo Reale. «Il pulsare della guerra, e l’emozione del meraviglioso, I cieli che mormorano, i suoni che splendono, Le stelle che cantano e gli amori che tuonano, La musica che brucia nel cuore come il vino…» Avrebbe potuto conservare con efficienza e successo quel posto per il resto della sua vita, ma lo «Zeitgeist» dell’astronautica era stato troppo forte. La mente gli aveva detto che l’attraversamento dello spazio era imminente, ma quanto fosse imminente, lui stesso inizialmente non lo aveva capito. Quando questa consapevolezza finalmente era nata, lui aveva infine riconosciuto lo scopo della sua vita, e i lunghi anni di fatica avevano cominciato a dare frutti. «Ah! non avevo forse preso in mano la mia vita e dato Tutto ciò che la vita dà e che gli anni si portan via, Il vino e il miele, il balsamo e il lievito, I sogni accarezzati e le speranze annientate?» Fece girare le pagine ingiallite a dozzine per volta fino a che individuò le strette colonne di stampa che aveva cercato. Lì quanto meno, la magia persisteva: lì nulla era mutato e le parole ancora gli pulsavano nel cervello al vecchio ritmo insistente. C’era stato un tempo in cui i versi, in una catena che li rendeva senza fine dal primo all’ultimo, avevano serpeggiato nella sua mente per ore ed ore, finché il significato delle loro parole si era aperto: «E allora né stella né sole si sveglieranno, Nessun cambiamento di luce: Nessun rumore d’acque smosse, Né alcun suono o immagine: Nessuna foglia invernale né primaverile, Nessun giorno o cose diurni; Solo l’eterno sonno In una notte eterna». La notte eterna sarebbe arrivata, e troppo presto perché all’Uomo piacesse. Ma, quanto meno, prima che si consumassero e morissero, egli avrebbe conosciuto le stelle: prima che sbiadisse come un sogno, l’Universo avrebbe ceduto i propri segreti alla sua mente. O, se non alla sua, alle menti che sarebbero venute dopo e che avrebbero portato a termine ciò che lui aveva cominciato. Sir Robert chiuse il volumetto e lo ripose nello scaffale. Il suo viaggio nel passato era finito nel futuro e adesso era giunto il momento di tornare al presente. Accanto al letto il telefono cominciò a reclamare la sua attenzione con squilli rabbiosi e pressanti. 29 Nessuno aveva mai appreso molto riguardo a Jefferson Wilkes, semplicemente perché c’era ben poco da conoscere di lui. Aveva fatto il contabile in un’industria di Pittsburgh per quasi trent’anni, durante i quali era stato promosso una sola volta. Faceva il proprio lavoro con una laboriosa puntigliosità ch’era la disperazione dei suoi datori di lavoro. Come milioni di suoi contemporanei, egli praticamente non capiva quasi nulla della civiltà nella quale si ritrovava. Venticinque anni prima si era sposato, e nessuno si era stupito quando si era scoperto che la moglie dopo pochi mesi lo aveva lasciato. Neppure i suoi amici — sebbene non vi fosse alcuna prova che ne avesse mai avuti — avrebbero mai affermato che Jefferson Wilkes fosse un profondo pensatore. Eppure c’era una cosa alla quale, a modo suo, aveva dedicato un’attenzione molto seria. Il mondo non avrebbe mai saputo che cosa aveva fatto rivolgere la piccola, patetica mente di Jefferson Wilkes verso le stelle. Era molto più che probabile che il motivo fosse stato il desiderio di sfuggire alla squallida realtà della sua vita quotidiana. Quale che ne fosse stata la ragione, egli s’era studiato gli scritti di coloro che predicevano la conquista dello spazio. E aveva deciso che, a ogni costo, essa doveva essere impedita. Da quanto si poté capire, Jefferson Wilkes era convinto che il tentativo di penetrare lo spazio avrebbe fatto ricadere sull’umanità qualche grandiosa, metafisica condanna. Era ovvio che considerava la Luna l’Inferno o, quanto meno, il Purgatorio. Qualunque arrivo prematuro del genere umano in quelle regioni infernali avrebbe avuto incalcolabili, e, a dir poco, sfortunate conseguenze. Per trovare sostegno alle proprie idee, Jefferson Wilkes fece ciò che migliaia di persone prima di lui avevano fatto. Cercò di convincere gli altri delle proprie convinzioni attraverso la fondazione di un’organizzazione alla quale diede l’altisonante nome di «I razzi non devono levarsi!». Dal momento che qualunque dottrina, per quanto assurda, riesce a conquistare adepti, Wilkes raccolse alcune decine di sostenitori tra le oscure sette religiose che fioriscono negli Stati Uniti occidentali. Tuttavia, molto presto, il microscopico movimento fu scosso da scismi e controscismi. Alla fine il Fondatore si ritrovò con i nervi a pezzi e le finanze disastrate. Se qualcuno desidera fare una distinzione tanto sottile, si potrebbe dire che impazzì. Quando la «Prometheus» fu costruita, Wilkes decise che il suo lancio avrebbe potuto essere impedito solo con i suoi sforzi personali. Poche settimane prima dell’evento liquidò le sue poche proprietà e ritirò il denaro che gli restava in banca. Scoprì che per recarsi in Australia gli mancavano centocinquantacinque dollari. La scomparsa di Jefferson Wilkes sorprese e addolorò i suoi datori di lavoro, ma dopo una frettolosa ispezione dei suoi libri contabili, costoro decisero di non fare alcun tentativo per rintracciarlo. Non si ricorre alla polizia quando, dopo trent’anni di fedele servizio, un dipendente ruba centocinquantacinque dollari da una cassaforte che ne contiene alcune migliaia. Wilkes non ebbe alcuna difficoltà a raggiungere Luna City e, quando fu arrivato, nessuno lo notò. Lo staff dell’Interplanetary probabilmente lo ritenne uno delle centinaia di giornalisti che si aggiravano per la base, mentre i reporters lo presero per un membro dello staff. Lui comunque era il tipo d’uomo che avrebbe potuto varcare la soglia di Buckingham Palace senza attrarre la benché minima attenzione e le guardie avrebbero giurato che non era entrato nessuno. Quali pensieri avessero attraversato lo stretto cancello della mente di Jefferson Wilkes allorché vide la «Prometheus» distesa nella sua «nicchia» di lancio, nessuno lo saprà mai. Forse fino a quel momento non si era reso conto dell’immensità del compito che si era dato. Avrebbe potuto provocare un grave danno con una bomba, ma sebbene le bombe possano giungere a Pittsburgh come in tutte le grandi città, i modi in cui procurarsele non sono a conoscenza di tutti — in particolare non di rispettabili contabili. Dalle barriere di corda, lo scopo delle quali non avrebbe potuto capire appieno, aveva osservato il carico delle provviste e gli ingegneri intenti ai test finali. Aveva notato che, di notte, la grande nave spaziale veniva lasciata incustodita sotto i riflettori, e che anche questi venivano spenti nelle primissime ore del mattino. Non sarebbe stato molto meglio, pensò, lasciare che la nave abbandonasse la Terra e assicurarsi che non tornasse mai più? Una nave spaziale danneggiata avrebbe potuto essere riparata, ma una nave spaziale che fosse inspiegabilmente svanita sarebbe stato un deterrente molto più efficace, un avvertimento di cui tener conto. La mente di Jefferson Wilkes era vergine di scienza, tuttavia egli sapeva che una nave spaziale deve portarsi appresso il rifornimento d’aria e sapeva che l’aria veniva tenuta in cilindri. Che cosa c’era di più semplice che svuotarli, in modo che la cosa non fosse scoperta se non troppo tardi? Non voleva far del male all’equipaggio ed era sinceramente dispiaciuto all’idea che facessero una tal fine, ma non aveva alternative. Sarebbe tedioso enumerare i difetti del brillante piano di Jefferson Wilkes. La riserva d’aria della «Prometheus» non veniva neppure trasportata in cilindri e, se lui fosse riuscito a svuotare i serbatoi di ossigeno liquido, probabilmente avrebbe avuto sorprese spiacevolmente fredde. Comunque, il controllo degli strumenti di routine avrebbe rivelato all’equipaggio che cosa era successo esattamente, prima del lancio, e, anche senza una riserva di ossigeno, l’impianto di condizionamento d’aria sarebbe riuscito a mantenere un’atmosfera respirabile per parecchie ore. Ci sarebbe quindi stato tempo di immettersi nell’orbita di rientro di emergenza, che avrebbe potuto essere subito elaborata col calcolatore, in previsione di quei tipi di calamità. Per ultimo, ma il problema era ben lungi dall’essere il meno importante, Wilkes doveva riuscire a salire sulla nave spaziale. Lui non dubitava di riuscirvi, perché, di notte, l’incastellatura veniva lasciata in posizione, e l’aveva studiata con tale attenzione che vi si sarebbe potuto arrampicare anche al buio. Quando la folla si era assiepata attorno al muso della «Prometheus», lui si era mescolato ad essa e non aveva visto traccia di chiusure su quelle strane porte che si aprivano all’interno. Attese in un hangar deserto ai margini del campo, fino a che non fu comparsa la sottile falce di luna. Faceva molto freddo e lui non si era preparato a questo, dal momento che in Pennsylvania era estate. Ma la missione che aveva da compiere lo aveva reso risoluto e, quando finalmente la luce dei riflettori si spense, si avviò lungo il deserto mare di cemento verso le nere ali spiegate sotto le stelle. La recinzione di corda lo bloccò e dovette chinarsi per passarvi sotto. Alcuni minuti dopo le sue mani tastarono un’intelaiatura metallica nell’oscurità ed egli si fece strada aggirando la base dell’incastellatura. Si fermò ai piedi dei gradini di metallo, in ascolto. Il mondo era estremamente silenzioso, all’orizzonte vedeva il riflesso di alcune luci ancora accese a Luna City. Ad alcune centinaia di metri di distanza riusciva a intravedere il profilo scuro di costruzioni e hangar, che però erano deserti e bui. Cominciò ad arrampicarsi. Quando fu giunto sulla prima piattaforma a sei metri da terra si fermò di nuovo, si rimise in ascolto e di nuovo si sentì rassicurato. La pila elettrica e gli strumenti che pensava gli sarebbero potuti servire, gli pesavano nelle tasche. Si sentiva piuttosto orgoglioso della sua lungimiranza e della facilità con la quale aveva portato avanti il suo piano. Era arrivato all’ultimo gradino: ora si trovava sulla piattaforma superiore. Strinse la torcia con una mano e un momento dopo le pareti della nave spaziale risultarono fredde e levigate sotto le sue dita. Per la costruzione della «Prometheus» erano stati impiegati milioni di sterline, e ancor più milioni di dollari. Gli scienziati che avevano ottenuto tali cifre da governi e da grandi industrie non erano proprio folli. Alla maggior parte degli uomini — anche se non a Jefferson Wilkes — sarebbe sembrato improbabile che il frutto di tutte quelle fatiche venisse lasciato incustodito e non protetto di notte. Molti anni prima, i progettatori avevano previsto la possibilità di sabotaggi da parte di fanatici religiosi, e uno dei più preziosi schedari dell’Interplanetary conteneva le lettere minatorie che questa gente era stata abbastanza illogica da scrivere. Quindi erano state prese tutte le precauzioni ragionevoli — e prese da esperti, alcuni dei quali avevano passato anni durante la guerra a sabotare gli impianti dell’Asse o degli Alleati. Quella notte, la guardia che stava nel bunker di cemento all’estremità della pista era uno studente in legge di nome Achmet Singh, che si stava guadagnando qualche soldo durante le vacanze in un modo che gli piaceva molto. Doveva solo essere al suo posto per otto ore al giorno e un tale lavoro gli dava buone possibilità di studiare. Quando Jefferson Wilkes giunse alla prima barriera di corda, Achmet Singh dormiva profondamente — come, in modo abbastanza sorprendente, egli si era aspettato. Ma cinque secondi dopo era completamente sveglio. Singh disinnescò l’allarme e si avvicinò in fretta al pannello di controllo bestemmiando fluentemente in tre lingue e quattro religioni. Era la seconda volta che accadeva mentre era di guardia. Prima un cane appartenente a un membro dell’equipaggio, che si era smarrito, aveva fatto scattare l’allarme. Probabilmente era successa di nuovo la stessa cosa. Accese il convertitore di immagine, aspettando con pazienza per alcuni secondi che i tubi si scaldassero. Poi azionò freneticamente i controlli del proiettore e cominciò a ispezionare la nave spaziale. Ad Achmet Singh sembrò che un fascio di luce color porpora stesse illuminando il cemento verso la piattaforma di lancio. In mezzo al raggio del proiettore, completamente inconsapevole della presenza di Singh, un uomo avanzava guardingo verso la «Prometheus». Era impossibile non ridere vedendolo muoversi a tastoni e alla cieca mentre tutta la zona attorno a lui veniva inondata di luce. Achmet lo seguì con il raggio del proiettore a infrarossi fino a che egli giunse all’incastellatura. A questo punto entrarono in funzione gli allarmi secondari, ed egli spense anche questi. Decise che non avrebbe agito fino a quando non avesse capito le intenzioni dell’intruso. Quando Jefferson Wilkes si fermò soddisfatto sulla prima piattaforma, Achmet Singh fece un’eccellente fotografia che sarebbe stata una prova decisiva in qualsiasi tribunale. Attese fino a quando Wilkes ebbe raggiunto il portello a tenuta d’aria, poi decise di agire. L’esplosione di luce che inchiodò Wilkes contro le pareti della «Prometheus» lo accecò con la stessa efficacia dell’oscurità in mezzo alla quale era avanzato a tastoni. Per un momento lo choc fu così paralizzante da bloccarlo, e poi una voce tonante rimbombò nella notte. «Che cosa state facendo lì? Scendete subito.» Automaticamente Wilkes prese a scendere i gradini, incespicando. Dovette raggiungere la piattaforma inferiore prima che quella paralisi mentale scomparisse. Si guardò attorno disperatamente, alla ricerca di una via di fuga. Riparandosi gli occhi riuscì a vedere qualcosa: il fatale cerchio di riflettori attorno alla «Prometheus» era solo a cento metri di distanza, e al di là di esso c’era l’oscurità, e forse la salvezza. La voce urlò di nuovo da dietro la pozza di luce: «Sbrigatevi! Venite da questa parte. Vi teniamo sotto tiro». Quel plurale era una pura invenzione di Singh, sebbene fosse vero che i rinforzi, sotto forma di due irritati e assonnati poliziotti, stavano arrivando. Jefferson Wilkes concluse la sua lenta discesa e si fermò tremante sul cemento, appoggiandosi all’incastellatura. Restò immobile per mezzo minuto, poi, come Achmet aveva previsto, improvvisamente schizzò dietro la nave e scomparve. Sarebbe corso verso il deserto e sarebbe stato abbastanza facile circondarlo, ma si sarebbe risparmiato tempo se Achmet avesse potuto indurlo a tornare indietro spaventandolo. La guardia abbassò un altro pulsante dell’altoparlante. Quando la stessa voce echeggiò dal buio davanti a lui, dove aveva pensato di trovare la salvezza, il piccolo brandello di coraggio del terrificato Jefferson Wilkes svanì. In preda a una forsennata paura, come un animale braccato, tornò al veicolo spaziale e cercò di nascondersi nella sua ombra. E tuttavia, anche in quel momento, l’impulso che gli aveva fatto fare il giro del mondo continuò a spingerlo ciecamente, anche se era scarsamente consapevole dei propri motivi e delle proprie azioni. Prese a farsi strada lungo la base della «Prometheus», sempre restando in ombra. Il grande pozzo a poca distanza dalla sua testa parve offrirgli una seconda possibilità per entrare, o, quanto meno, l’opportunità di nascondersi finché non avesse potuto scappare. In circostanze normali non sarebbe mai riuscito ad arrampicarsi sulle pareti lisce di metallo, ma la paura e la determinazione gli diedero forza. Achmet Singh, che guardava la scena sullo schermo televisivo a un centinaio di metri di distanza, impallidì di colpo. Cominciò a parlare in fretta e concitatamente nel microfono. Jefferson Wilkes non lo sentì: non notò che la voce emergente dalla notte non era più perentoria, ma implorante. Adesso per lui non contava più nulla: era solo consapevole del nero tunnel che aveva davanti. Tenendo la torcia in una mano, prese a strisciarvi dentro. Le pareti erano di un materiale grigio simile a roccia, duro, eppure stranamente caldo al tatto. Wilkes aveva l’impressione di addentrarsi in una grotta dalle pareti perfettamente circolari; dopo pochi metri essa si allargò al punto che, se si fosse chinato, sarebbe riuscito a camminare in piedi. Attorno a lui, adesso, c’era un insensato mosaico di barre metalliche e quella strana roccia grigia — la più refrattaria delle ceramiche — sulla quale aveva strisciato. Non poté proseguire: ora la grotta improvvisamente si era divisa in una serie di cunicoli troppo piccoli per potervi entrare. Passando la torcia elettrica sopra di essi, notò che sulle pareti c’erano protuberanze e cavità. Avrebbe potuto fare del danno lì, ma non poteva arrivarci. Jefferson Wilkes si accasciò sul suolo duro e rigido. La pila gli scivolò dalle dita inerti e il buio lo avvolse di nuovo. Era troppo stremato per provare delusione o dispiacere. Non notò, né avrebbe potuto capire cos’era, la debole luminosità fissa che bruciava sulle pareti attorno a lui. Un po’ più tardi, alcuni rumori provenienti dal mondo esterno riportarono indietro la sua mente da quel posto indefinito in cui si era involata. Si mise seduto e si guardò attorno, senza capire dove fosse e come avesse fatto a finire lì. Lontano vedeva un vago cerchio di luce, la bocca di quella misteriosa caverna. Al di là dell’apertura c’erano voci e rumori di macchine che si spostavano avanti e indietro. Sapeva che erano ostili e che doveva restar lì, dove non avrebbero potuto trovarlo. Non sarebbe andata così. Una luce violenta passò come un sole nascente attraverso la bocca della sua caverna, quindi tornò a splendergli addosso. Stava avanzando lungo il tunnel, e dietro di essa c’era una cosa strana ed enorme che la sua mente non avrebbe potuto afferrare. Urlò terrorizzato quando quelle mascelle metalliche comparvero in piena luce e avanzarono ad afferrarlo. Poi cominciò ad essere trascinato irrimediabilmente fuori, all’aperto, dove i suoi sconosciuti nemici erano in attesa. Tutt’attorno a lui c’era una confusione di luci e di rumori. Una grande macchina, che sembrava viva, lo teneva tra le proprie braccia metalliche e stava allontanandosi da una sagoma alata terrificante che avrebbe dovuto ricordargli qualcosa, ma non lo fece. Poi fu deposto al suolo, in mezzo a un cerchio di uomini. Si chiese come mai non si facessero avanti, perché restassero tanto lontani e lo guardassero in modo così strano. Non oppose resistenza quando lunghe aste con degli strumenti scintillanti gli passarono attorno come a esplorargli il corpo. Nulla contava ora; provava solo un sordo malessere e un irrefrenabile desiderio di dormire. Improvvisamente un’ondata di nausea lo travolse e si accasciò al suolo. D’impulso gli uomini che formavano quell’ampio cerchio fecero un passo avanti — ma poi si ritrassero. La figura contorta e infinitamente patetica giaceva come una bambola rotta sotto le luci abbaglianti. Non c’era un rumore, non un movimento: sullo sfondo, le grandi ali della «Prometheus» incombevano sopra le proprie pozze d’ombra. Poi il robot scivolò in avanti, trascinando sul terreno i propri cavi armati. Molto delicatamente, le braccia di metallo si abbassarono e le strane mani si allargarono. Jefferson Wilkes aveva raggiunto la fine del suo viaggio. 30 Dirk sperava che l’equipaggio avesse trascorso una notte migliore della sua. Si sentiva ancora assonnato e confuso, ma aveva la netta impressione di essere stato svegliato più di una volta da un rumore di macchine guidate sfrenatamente nella notte. Forse c’era stato un incendio da qualche parte, ma lui non aveva sentito nessuna sirena. Si stava radendo quando McAndrews entrò nella sua stanza, manifestamente bruciante dalla voglia di dargli la notizia. Il direttore delle Pubbliche Relazioni aveva l’aria di uno che fosse stato sveglio per tutta la notte, il che effettivamente era quasi vero. «Avete sentito la notizia?» chiese con voce un po’ affannata. «Quale notizia?» chiese Dirk spegnendo il rasoio, un po’ irritato. «C’è stato un tentativo di sabotaggio della «Prometheus».» «Che cosa?» «E’ successo verso l’una di stanotte. I rivelatori hanno individuato un uomo che cercava di salire a bordo dell’«Alpha». Quando il guardiano gli ha intimato di venir fuori, quel maledetto idiota ha cercato di nascondersi — nello scarico della «Beta»!» Ci vollero alcuni secondi perché il pieno significato di quelle parole si facesse strada in lui. Poi Dirk ricordò quanto gli aveva detto Collins mentre lui stava guardando con il telescopio in quel pozzo mortale. «Che ne è stato di lui?» chiese con voce impastata. «L’hanno chiamato con gli altoparlanti, ma lui non si è dato per inteso. Quindi hanno dovuto tirarlo fuori con il robot. Era ancora vivo, ma troppo pericoloso perché ci si potesse avvicinare. E’ morto un paio di minuti dopo. Secondo i medici probabilmente non ha assolutamente capito quello che gli era successo, con una dose simile è così.» Provando un po’ di nausea, Dirk si lasciò cadere sul letto. «Ha fatto qualche danno?» chiese dopo un po’. «Pensiamo di no. Non è riuscito a entrare nella nave, e non poteva fare nulla al jet. Si temeva che potesse aver lasciato una bomba. Fortunatamente non l’ha fatto.» «Doveva essere pazzo. Avete idea di chi fosse?» «Probabilmente un fanatico religioso di qualche genere. Ne abbiamo molti contro. La polizia sta cercando di risalire alla sua identità in base a ciò che aveva in tasca.» Seguì un silenzio cupo, poi Dirk disse: «Non è un bel saluto di commiato alla «Prometheus», vero?». McAndrews scrollò le spalle, piuttosto indifferente. «Non penso che qui abbiamo gente superstiziosa! Venite a vedere come fanno il rifornimento di combustibile. E’ in programma per le due. Vi darò un passaggio in macchina.» La proposta non entusiasmò Dirk. «Grazie lo stesso, ma ho un bel po’ di cose da fare, e poi non ci sarà granché da vedere, no? Voglio dire, veder pompare qualche centinaio di tonnellate di combustibile non dev’essere molto eccitante. Suppongo che potrebbe anche esserlo… ma in tal caso preferirei non essere lì.» McAndrews parve un po’ irritato, ma Dirk non poteva farci nulla. Per il momento provava stranamente ben poco desiderio di avvicinarsi di nuovo alla «Prometheus». Una cosa irrazionale, ovviamente, dato che non c’era motivo di incolpare la grande nave spaziale se si difendeva dai propri nemici. Per tutto il giorno Dirk udì il rombo degli elicotteri che arrivavano in un flusso continuo dalle grandi città australiane e di tanto in tanto qualche jet transcontinentale che si abbassava sibilando sull’aeroporto. Non riusciva a immaginare dove quei primi visitatori avrebbero trascorso la notte. Nelle baracche col riscaldamento centrale non faceva per nulla caldo e i cronisti tanto sfortunati da essere stati alloggiati sotto le tende avevano raccontato terribili storie di sofferenze, molte delle quali erano quasi vere. Nel tardo pomeriggio incontrò Collins e Maxton nel salotto e fu informato che il rifornimento era stato effettuato senza alcuna difficoltà. Al che Collins concluse: «Ora non ci resta che accendere l’azzurra carta nitrata e tirarci indietro». «Tra l’altro» osservò Maxton «non avevate detto l’altra sera di non aver mai visto la Luna col telescopio? Tra un minuto saremo all’osservatorio, perché non venite con noi?» «Con molto piacere… ma non ditemi che voi pure non l’avete mai guardata!» Maxton sorrise. «Farei una pessima figura, come direbbe Ray. Si dà il caso che la Luna mi sia abbastanza familiare, ma dubito che più di metà delle persone dell’Interplanetary abbiano mai usato un telescopio. Il D.G. è il miglior esempio di questo. Ha passato dieci anni di ricerche astronomiche prima anche solo di avvicinarsi a un osservatorio.» «Non dite che ve l’ho detto io» si intromise Collins molto seriamente «ma ho scoperto che gli astronomi si dividono in due specie. La prima è prettamente notturna e passa le ore lavorative a scattare foto di oggetti tanto lontani che probabilmente non esistono neppure più. Non è interessata al Sistema Solare, che considera un incidente molto strano e quasi imperdonabile. Durante il giorno la si può trovare addormentata sotto grandi pietre in luoghi caldi e secchi. «Quelli della seconda specie lavorano in orari più normali e vivono in uffici pieni di calcolatori e computer. Questo li secca non poco, ciò nonostante riescono a sfornare fogli e fogli di calcoli matematici riguardanti gli oggetti — probabilmente inesistenti — fotografati dai loro colleghi, con i quali comunicano attraverso bigliettini affidati al guardiano notturno. «Entrambe le specie hanno una cosa in comune: non hanno mai guardato e non guardano mai nel telescopio, tranne che in momenti di estrema aberrazione mentale. Però ottengono delle graziose fotografie.» «Io penso» disse ridendo il professor Maxton «che la specie notturna dovrebbe essere sul punto di arrivare. Andiamo.» L’«Osservatorio di Luna City» era stato costruito in gran parte per il divertimento dei tecnici, che includevano molti più astronomi dilettanti che professionisti. Era costituito da un gruppo di baracche di legno, ristrutturate drasticamente per contenere circa una dozzina di strumenti di tutte le misure, con aperture che andavano dagli otto ai trenta centimetri. Ora se ne stava costruendo uno munito di riflettore, che però sarebbe stato ultimato solo di lì a qualche settimana. I visitatori, a quanto sembrava, avevano già scoperto l’osservatorio e ne facevano pieno uso. Alcune dozzine di persone si erano messe speranzosamente in coda davanti ai vari edifici, mentre i contrariati proprietari dei telescopi offrivano loro sbirciatine di due minuti, accompagnate da improvvisate conferenze. Quando erano andati a dare un’occhiata alla Luna di quattro giorni non avevano previsto tutto questo, e adesso avevano rinunciato alla speranza di potersela guardare in pace. «Peccato che non si possa far pagare mezzo scellino a testa» disse Collins pensosamente, guardando la fila. «Forse glieli fanno pagare» ribatté il professor Maxton. «Noi potremmo almeno mettere una cassetta per i poveri ingegneri atomici.» La cupola del riflettore di trenta centimetri — l’unico strumento che non appartenesse a un privato perché era di proprietà dell’Interplanetary — venne chiusa e l’edificio pure. Il professor Maxton prese un mazzo di chiavi e le provò a una a una finché la porta si aprì. La fila immediatamente si ruppe e la gente si diresse verso di loro. «Spiacente» urlò il Professore sbattendo la porta. E’ rotto!» «Vorrai dire che si «romperà!»«intervenne Collins cupamente. «Sai come usare uno di quegli aggeggi?» «Dovremmo essere in grado di scoprirlo» rispose Maxton con una punta di incertezza nella voce. L’alta opinione che Dirk aveva dei due scienziati cominciò a crollare. «Intendete farmi credere» disse «che volete rischiare di usare uno strumento complicato e costoso come questo senza saperne nulla? Ma sarebbe come se una persona che non sa guidare montasse su un’automobile e cercasse di metterla in movimento!» «Santo Cielo!» protestò Collins con una piccola luce divertita negli occhi. «Non penserete che questa cosa sia complicata, vero? Paragonatela a una bicicletta, se volete, ma non a un’automobile!» «Benissimo» ribatté Dirk «e allora provate ad andare in bicicletta senza aver alcuna esperienza!» Collins si limitò a ridere e continuò l’esame dei comandi. Per qualche minuto lui e il Professore si impegnarono in una discussione tecnica che però non impressionò Dirk, dato che ora capiva che quei due del telescopio ne sapevano appena un poco più di lui. Dopo alcuni tentativi lo strumento venne puntato verso la Luna, ora piuttosto bassa a sudovest. Dirk aspettò pazientemente per un bel po’, almeno così gli parve, che i due guardassero nel telescopio a loro piacimento. Ma poi non ne poté più. «Mi avete invitato, sapete?» sbottò. «O ve ne siete dimenticati?» «Scusate» disse Collins, cedendogli il posto con evidente riluttanza. «Guardate voi, adesso, si mette a fuoco con questa manopola.» In un primo momento Dirk riuscì a vedere solo un biancore interrotto da macchie qua e là. Poi di colpo l’immagine divenne chiara e nitida, come un’incisione brillante. Riusciva a scorgere una buona metà della Luna crescente, le cui punte erano però fuori campo. Il bordo della Luna era l’arco perfetto di un cerchio, senza alcuna irregolarità. Ma la linea che divideva la notte e il giorno era frastagliata, e in alcuni punti spezzata da montagne e altipiani che lanciavano lunghe ombre sulle pianure sottostanti. C’erano pochi dei grandi crateri che si era aspettato di vedere e intuì che la maggior parte di essi si trovava nella parte del disco ancora non illuminata. Concentrò l’attenzione su una grande pianura ovale, circondata da montagne, che gli fece pensare irresistibilmente a un fondale d’oceano prosciugato. Si disse che doveva trattarsi di uno dei cosiddetti «mari della Luna», ma era facile capire che non c’era acqua da nessuna parte, in quel paesaggio calmo e immobile che si estendeva davanti a lui. Ogni particolare era nitido e brillante, tranne quando una velatura simile a una foschia di calore fece tremare tutta l’immagine per un momento. La Luna stava calando nelle brume dell’orizzonte e l’immagine era ora disturbata dal suo passaggio inclinato a mille miglia nell’atmosfera della Terra. A un dato punto, proprio all’interno dell’area oscurata del disco, delle luci brillanti risplendettero in un fascio come fari che luccicassero nella luce lunare. Dirk ne fu sconcertato per un attimo, finché non si rese conto che stava guardando le grandi vette montuose che erano state colpite dal Sole, ore prima che la luce dell’alba colpisse i bassipiani. Adesso capiva perché tanti uomini avevano passato la vita a studiare le ombre che andavano e venivano sulla faccia di quello strano mondo che appariva tanto vicino e che, tuttavia, fino all’attuale generazione, era stato il simbolo di tutto ciò che non avrebbe potuto essere mai raggiunto. Si rese conto che nell’arco di una vita non sarebbe stato possibile esaurirne le meraviglie; vi sarebbe stato sempre qualcosa di nuovo da vedere, man mano che l’occhio si fosse fatto più esperto nello scoprire quella ricchezza di particolari quasi infiniti. Qualcosa gli bloccò la vista, e alzò il capo irritato. La Luna stava calando sotto il livello della cupola: non si poteva abbassare ancora di più il telescopio. Qualcuno riaccese le luci e Dirk vide che Collins e Maxton lo stavano guardando sorridenti. «Spero che abbiate visto tutto quello che volevate» disse il Professore. «A noi sono toccati dieci minuti a testa… voi siete rimasto lì per venticinque minuti, e per fortuna la Luna è calata.» 31 «Domani noi lanceremo la «Prometheus», dico noi perché non ritengo più possibile starmene in disparte a recitare la parte dello spettatore disinteressato. Nessuno sulla Terra può far questo: gli eventi delle prossime ore forgeranno la vita di tutti gli uomini che nasceranno, fino alla fine del tempo. «Qualcuno, una volta, ha descritto l’umanità come una razza di isolani che ancora non ha imparato l’arte di costruire navi. Al di là dell’oceano possiamo vedere altre isole, sulle quali fin dall’inizio della storia ci siamo posti domande e abbiamo formulato ipotesi. Ora, dopo un milione di anni, abbiamo costruito la nostra primitiva canoa; domani la osserveremo veleggiare oltre il banco corallino e svanire all’orizzonte. «Questa sera per la prima volta ho visto le luccicanti montagne e le grandi, polverose pianure della Luna. La zona sulla quale Leduc e i suoi compagni cammineranno tra meno di una settimana era ancora invisibile, in attesa del levarsi del Sole che non si verificherà ancora per altri tre dei nostri giorni. Tuttavia la sua notte dev’essere di uno splendore al di là di ogni immaginazione, perché la Terra sarà più che per metà piena nel suo cielo. «Mi chiedo come trascorrono la loro ultima notte sulla Terra Leduc, Richards e Taine. Naturalmente avranno sistemato ogni cosa e non resterà loro più nulla da fare. Stanno rilassandosi, ascoltando musica, leggendo… o semplicemente dormendo? James Richards non faceva nessuna delle cose suddette. Sedeva nel salotto con i suoi amici, bevendo molto lentamente, senza eccedere, mentre raccontava loro storielle divertenti sui test cui era stato sottoposto da psicologi folli che cercavano di decidere se lui era normale, e in tal caso, che cosa si sarebbe potuto fare al riguardo. Gli psicologi che lui stava prendendo in giro costituivano la parte più numerosa — e che lo apprezzava di più — del suo pubblico. Lo lasciarono parlare fino a mezzanotte, poi lo portarono a letto. Si dovettero mettere in sei per riuscirvi. Pierre Leduc aveva trascorso la serata sulla nave, a seguire alcuni test sull’evaporazione del combustibile che stavano facendo a bordo dell’«Alpha». La sua presenza non era necessaria, ma, anche se di tanto in tanto qualcuno aveva lasciato cadere qualche delicata allusione, nessuno era riuscito a liberarsi di lui. Poco prima di mezzanotte sopraggiunse il Direttore Generale che fece una bonaria scenata e lo rimandò con la propria macchina nei suoi alloggi, dopo avergli severamente ordinato di andare a dormire. Dopo di che Leduc passò le successive due ore a letto a leggere «La Comédie Humaine». Soltanto Louis Taine — il preciso, imperturbabile Taine — aveva usato la sua ultima notte sulla Terra in modo prevedibile. Era rimasto seduto per ore alla scrivania a buttar giù brutte copie e a distruggerle l’una dopo l’altra. A tarda sera aveva finito; nella sua precisa calligrafia aveva trascritto la lettera che tanto impegno e tanta riflessione gli era costata, poi aveva sigillato la busta e vi aveva attaccato un piccolo biglietto formale: CARO PROFESSOR MAXTON, Nel caso non dovessi tornare vi sarò obbligato se vorrete provvedere affinché questa lettera venga consegnata. Vostro      L. Taine. Mise lettera e biglietto in una busta grande che indirizzò a Maxton, poi prese la grossa cartelletta contenente le orbite di volo alternative, e cominciò a fare annotazioni sui margini dei fogli. Era di nuovo se stesso. 32 Il messaggio che Sir Robert aspettava arrivò poco dopo l’alba con uno degli aerei postali velocissimi che, più tardi nel corso della giornata, avrebbero riportato in Europa le pellicole del lancio. Era un’autorizzazione ufficiale a procedere, firmata solo con un paio di iniziali che tutto il mondo avrebbe riconosciuto anche senza l’aiuto delle parole: «10 Downing Street», che costituivano l’intestazione del foglio. E tuttavia non era un documento del tutto formale, perché sotto le iniziali la stessa mano aveva vergato le parole: «Buona fortuna!». Allorché il professor Maxton arrivò qualche minuto dopo, Sir Robert gli porse il foglio senza dire una parola. L’americano lo lesse lentamente e trasse un sospiro di sollievo. «Bene, Bob» disse «noi abbiamo fatto la nostra parte. Ora tocca ai politici, ma noi continueremo a spingerli da dietro.» «Non è stato difficile come temevo: gli statisti hanno imparato a darci retta dopo Hiroshima.» «E quando sarà presentato il progetto all’Assemblea Generale?» «Tra un mese circa, quando i governi britannico e americano proporranno formalmente che «Tutti i pianeti o i corpi celesti non rivendicati o non occupati da forme non umane di vita, eccetera eccetera, vengano considerati aree internazionali liberamente accessibili a tutti i popoli, e nessuno Stato sovrano potrà rivendicare tali corpi astronomici per occuparli e svilupparli…» e così via.» «E che mi dici riguardo alla proposta di una Commissione Interplanetaria?» «Di questo si discuterà in seguito. Per il momento la cosa importante è ottenere l’accordo sui primi stadi. Ora che i nostri governi hanno formalmente adottato il progetto — ne daranno la comunicazione per radio questo pomeriggio —, possiamo cominciare a fare le nostre pressioni politiche. Tu sei il migliore in questo genere di cose: potresti scrivere un discorsetto sulla linea del nostro primo Manifesto, un discorsetto che Leduc possa trasmettere dalla Luna. Porre l’accento sul punto di vista astronomico e su quanto sarebbe stupido anche solo tentare di portare nello spazio il nazionalismo. Pensi di riuscire a prepararlo prima del decollo? Non che importi anche se non ce la fai, è solo che potrebbe trapelare se dovessimo trasmetterlo via radio.» «D’accordo. Farò controllare la brutta copia dagli esperti politici, poi lascerò a te l’aggiunta degli aggettivi, come al solito. Ma non credo che questa volta ci sarà bisogno di molti abbellimenti. Questo primo messaggio proveniente dalla Luna avrà di per sé sufficiente impatto psicologico.» Mai prima d’allora su qualche parte del deserto australiano si era vista tale densità di popolazione. Per tutta la notte erano continuati ad arrivare treni speciali da Adelaide e da Perth, e migliaia di automobili e di aerei privati erano parcheggiati su entrambi i lati della pista di lancio. Jeeps continuavano a perlustrare in lungo e in largo le zone di sicurezza, allontanando i visitatori troppo curiosi. Assolutamente a nessuno era permesso di avvicinarsi a più di cinque chilometri, e pure a questa distanza dalla nave si interrompeva il movimento degli aerei che volavano in cerchio. La «Prometheus» splendeva nella luce del sole basso, diffondendo una lunga ombra fantastica sul deserto. Fino a quel momento era parsa solo una cosa di metallo, ma ora finalmente era viva e in attesa di appagare i sogni dei suoi creatori. Quando Dirk e i suoi compagni arrivarono, l’equipaggio era già a bordo. C’era stata una piccola cerimonia a beneficio dei cinegiornali e delle televisioni, ma nessun discorso formale. Questi sarebbero potuti venire, se necessario, di lì a tre settimane. Le voci dagli altoparlanti lungo la pista stavano dicendo in tono pacato e discorsivo: «Completato controllo strumenti: i generatori di lancio funzionano a mezzo regime: manca un’ora». Le parole echeggiarono sul deserto ritrasmesse da altri altoparlanti, attutite dalla distanza: «Manca un’ora — manca un’ora — un’ora — un’ora…» finché si spensero verso nordovest. «Credo che sarà meglio muoversi» disse il professor Maxton. «Penso che ci vorrà un po’ di tempo per fendere questa folla. Date una bella occhiata all’«Alpha», è l’ultima occasione che avete.» L’annunciatore stava parlando di nuovo, ma questa volta le sue parole non erano dirette a loro. Dirk si rese conto che stavano ascoltando una parte di una sequenza di istruzioni dirette a tutto il mondo. «Le stazioni-sonda dovrebbero essere pronte a lanciare i razzi. Sumatra, India, Iran — fateci avere le vostre letture entro i prossimi quindici minuti.» A molte miglia di distanza nel deserto qualcosa sfrecciò sibilando nel cielo, lasciandosi dietro una scia di vapore di un bianco puro che avrebbe potuto essere stata tracciata col righello. Mentre Dirk osservava, la lunga colonna lattea cominciò a torcersi e a ridursi man mano che i venti e la stratosfera la disperdevano. «Razzi meteorologici» disse Collins rispondendo alla sua domanda silenziosa. «Ne abbiamo una catena lungo la rotta di volo, in modo da conoscere le pressioni e le temperature per tutto il tragitto, fino alla sommità dell’atmosfera. Il pilota della «Beta» sarà avvertito prima del decollo, nel caso vi fosse qualcosa di insolito davanti a lui. Questa è una preoccupazione che Leduc non avrà. Non c’è clima nello spazio!» I sottili razzi con i loro cinquanta chili di strumentazione stavano salendo nella stratosfera diretti nello spazio, sopra l’Asia. Avevano esaurito il combustibile nei primi pochi secondi di volo, ma la loro velocità era sufficientemente grande da portarli a un centinaio di chilometri sopra la Terra. Mentre salivano alcuni nella luce solare, altri ancora nell’oscurità —, rimandavano a Terra un continuo flusso di impulsi radio, che sarebbero stati intercettati e tradotti e passati all’Australia. Subito dopo sarebbero ricaduti sulla Terra, i paracadute sarebbero sbocciati, dopo di che quasi tutti sarebbero stati ritrovati e usati di nuovo. Altri, non altrettanto fortunati, sarebbero finiti in mare, o forse avrebbero terminato i loro giorni come divinità tribali nelle giungle del Borneo. Ci misero quasi venti minuti per compiere il tragitto di tre miglia lungo la strada affollata e più di una volta il professor Maxton fu costretto a fare qualche deviazione, penetrando in quella terra di nessuno che egli stesso aveva delimitato. La concentrazione di macchine e di spettatori aumentò quando raggiunsero il limite dei cinque chilometri e cessò bruscamente davanti a una barriera di pali verniciati di rosso. Lì era stata costruita, con vecchie casse da imballaggio, una piccola pedana e quel piedistallo improvvisato era già occupato da Sir Robert Derwent e da alcuni membri del suo staff. Dirk notò con interesse che erano presenti anche Hassell e Clinton e si chiese quali pensieri passassero loro per la testa in quel momento. Di tanto in tanto il Direttore Generale faceva qualche commento in un microfono, e attorno si vedevano solo un paio di trasmittenti portatili. Dirk, che si era vagamente aspettato di vedere intere batterie di strumenti, rimase un po’ deluso, ma poi capì che tutte le operazioni tecniche venivano effettuate altrove e che quello era semplicemente un posto d’osservazione. «Venticinque minuti» si udì la voce dall’altoparlante. «Ora i generatori di lancio cominceranno a funzionare a pieno regime. Tutte le stazioni di puntamento radar e gli osservatori della rete principale dovrebbero stare pronti.» Dalla bassa pedana si poteva vedere quasi tutta la pista di lancio. Sulla destra c’era la folla ammassata e dietro di essa i bassi edifici dell’aeroporto. La «Prometheus» era ben visibile all’orizzonte e di tanto in tanto la luce solare le illuminava i fianchi, che splendevano come specchi. «Quindici minuti.» Leduc e i suoi compagni ora sedevano su quei curiosi sedili in attesa che si inclinassero alla prima accelerazione, eppure era strano pensare che non avrebbero avuto nulla da fare per quasi un’ora, quando si sarebbe verificata, alta sopra la Terra, la separazione dei veicoli. Tutta la responsabilità iniziale toccava al pilota della «Beta», il quale avrebbe avuto ben poco onore per la propria parte, anche se in ogni caso non avrebbe fatto altro che ripetere ciò che aveva già fatto una dozzina di altre volte. «Dieci minuti. Tutti gli apparecchi aerei ricordino le istruzioni di sicurezza.» I minuti stavano passando: un’era stava morendo e ne stava nascendo una nuova. E ad un tratto la voce impersonale che proveniva dagli altoparlanti rammentò a Dirk la mattina di trent’anni prima, allorché un altro gruppo di scienziati era stato ad aspettare in un altro deserto, mentre si apprestavano a liberare le energie che alimentano i soli. «Cinque minuti. Erogare tutto il carico di elettricità e chiudere gli altri circuiti elettrici.» Un gran silenzio era calato sulla folla: tutti gli occhi erano fissi su quelle ali luminose lungo la linea del cielo. Da qualche parte lì vicino un bambino, impaurito dal silenzio, cominciò a piangere. «Un minuto. Razzi di segnalazione, via!» Ci fu un grande sibilo proveniente dal deserto lontano sulla sinistra, e una linea frastagliata di segnali luminosi color cremisi prese a calare lentamente giù dal cielo. Alcuni elicotteri, che erano avanzati impercettibilmente, si affrettarono a fare marcia indietro. «Comando automatico di decollo in funzione. Segnale di sincronizzazione… ADESSO!» Si udì un «clik», mentre il circuito veniva commutato, e dagli altoparlanti provenne il vago fruscio di disturbi atmosferici molto lontani, poi su tutto il deserto rimbombò un suono che, proprio perché tanto familiare, non avrebbe potuto essere più inaspettato. A Westminster, a mezzo mondo di distanza, il Big Ben si stava preparando a battere le ore. Dirk guardò il professor Maxton e vide che anche lui era stato colto completamente di sorpresa. Invece, sulle labbra del Direttore Generale aleggiava un sorrisetto e Dirk ricordò che, per mezzo secolo, gli Inglesi in tutto il mondo avevano aspettato accanto alla radio quel suono proveniente dalla Terra, che forse non avrebbero mai più rivista. Ebbe un’improvvisa visione di altri esuli, nel vicino e nel lontano futuro, in attesa, su pianeti stranieri, che quelle stesse campane suonassero attraverso le profondità dello spazio. Un silenzio tonante parve riempire il deserto quando i rintocchi dell’ultimo quarto si spensero, riecheggiando in lontananza da un altoparlante a quello successivo. Poi, il primo batter dell’ora rimbombò sul deserto e per tutto il mondo in attesa. L’altoparlante tacque di colpo. Eppure non era cambiato nulla: la «Prometheus» era ancora ferma sull’orizzonte come una grande farfalla metallica. Poi Dirk vide che lo spazio tra le ali e il profilo dell’orizzonte era un po’ più piccolo di prima, e un momento dopo ebbe la certezza che il veicolo spaziale stava ingrandendosi mentre si muoveva verso di lui. Più in fretta, sempre più in fretta, in un silenzio assoluto e magico, la «Prometheus» arrivò sfrecciando lungo la pista. Gli saettò davanti per un unico momento e per l’ultima volta egli poté vedere l’«Alpha» levigata, appuntita e luccicante sul suo dorso. Quando la nave si avventò verso la sinistra in direzione del deserto vuoto, Dirk riuscì a sentire solo il sibilo dell’aria che veniva lacerata al suo passaggio. Ma anche questo fu un rumore lievissimo. E la catapulta elettrica non ne fece alcuno. Poi la «Prometheus» andò rimpicciolendosi silenziosamente in distanza. Qualche secondo dopo, quel silenzio fu frantumato da un rombo simile a quello di mille cascate che si riversassero da scogliere alte un miglio. Il cielo parve scuotersi e tremare attorno a loro: la «Prometheus», ora, era scomparsa alla vista dietro una nuvola di polvere turbinante. Al centro di quella nuvola qualcosa bruciava con uno splendore insopportabile, che l’occhio non avrebbe tollerato neppure per un momento senza la presenza di quella velatura. La nube polverosa si diradò e il tuono dei getti fu attutito dalla distanza. Poi Dirk riuscì a vedere che il frammento di sole che aveva guardato con gli occhi semichiusi non seguiva più la superficie della Terra, ma si stava sollevando regolarmente e vigorosamente sull’orizzonte. La «Prometheus» si era liberata dalla sua «nicchia» di lancio e stava raggiungendo il circuito ampio quanto il mondo che l’avrebbe condotta nello spazio. La luminosità violenta nel suo biancore si indebolì, fino a scomparire contro il cielo vuoto. Per un po’ il brontolio dei getti che si allontanavano si protrasse nei cieli, finché a sua volta si perse, soffocato dal rumore degli aerei che volavano in cerchio. Dirk quasi non percepì l’urlo della folla, quando la vita tornò ad animare il deserto alle sue spalle. Di nuovo, alla sua mente era tornata l’immagine che non aveva mai completamente dimenticato: quell’immagine dell’isola solitaria persa in un mare senza confini e mai solcato da nessuno. Senza confini era, infinito poteva essere — ma non più «mai solcato da nessuno». Al di là della laguna, oltre il riparo amico della barriera corallina, la prima fragile nave stava veleggiando verso gli sconosciuti pericoli e le sconosciute meraviglie del mare aperto. EPILOGO. Dirk Alexson, un tempo professore di storia all’Università di Chicago, aprì il rigonfio pacchetto che stava sulla scrivania con dita leggermente tremanti. Per qualche momento lottò con l’elaborata confezione; poi il libro fu davanti a lui, lucido e perfetto come se avesse lasciato la tipografia tre giorni prima. Lo guardò in silenzio per un po’, passando le dita sulla rilegatura. I suoi occhi si spostarono sulla libreria dove si trovavano gli altri suoi cinque compagni. Avevano atteso per anni, la maggior parte di loro, di essere raggiunti da quest’ultimo volume. Il professor Alexson si alzò e si avvicinò alla libreria con il nuovo libro in mano. Un osservatore attento avrebbe notato che c’era qualcosa di molto strano nel suo modo di camminare: aveva una scioltezza curiosa che non ci si sarebbe aspettati da un uomo che si stava avvicinando alla sessantina. Collocò il volume accanto agli altri cinque e restò fermo a lungo a contemplare la piccola fila. La rilegatura e i caratteri si accordavano molto bene — era stato molto attento a questo — e il gruppo di libri era piacevole alla vista. In essi era finita gran parte del suo lavoro di una vita e, ora che il suo compito si era concluso, lui era molto contento. Tuttavia, rendersi conto che la sua opera si era compiuta gli dava un gran senso di vuoto. Prese di nuovo il sesto volume e tornò alla scrivania. Non se la sentiva di iniziare subito la ricerca degli errori di stampa, di pecche che sicuramente esistevano; in ogni caso gli sarebbero state fatte rilevare fin troppo presto. La copertina dura protestò irrigidita, quando lui aprì il volume e guardò i titoli dei capitoli, sussultando lievemente non appena giunse alla riga «Errata Voll. primo-quinto». Tuttavia aveva commesso pochi errori evitabili, e soprattutto non si era fatto alcun nemico. A volte, nell’ultimo decennio, ciò non era stato affatto facile. Alcune delle centinaia di persone i cui nomi comparivano nell’indice non si erano sentite lusingate dalle sue parole, ma nessuno lo aveva mai accusato di indebita parzialità. Era convinto che nessuno avrebbe potuto riconoscere quali degli uomini comparsi nella lunga e intricata storia erano stati suoi amici personali. Guardò il frontespizio — e la sua mente ritornò indietro, a oltre vent’anni prima. La «Prometheus» era lì, in attesa del suo destino. Da qualche parte, in mezzo a quella folla, lontano, sulla sinistra, c’era lui, un giovane uomo che aveva ancora davanti il lavoro della sua vita. Un giovane uomo che, pur non essendone consapevole, era condannato a morte. Il professor Alexson raggiunse la finestra dello studio e guardò fisso fuori, verso la notte. La vista per ora era poco ostruita dalle costruzioni, e lui sperava che sarebbe rimasta così e che gli consentisse sempre di osservare il lento levarsi del Sole sulle montagne a quindici miglia oltre la città. Era mezzanotte, ma la fissa luminosità bianca che si riversava da quelle vertiginose pendici rendeva la scena chiara quasi fosse giorno. Sulle montagne le stelle brillavano di quella luce fissa che continuava a sembrargli strana. E più in alto ancora… Il professor Alexson alzò la testa e fissò con le palpebre semiabbassate il mondo di un biancore accecante, sul quale non avrebbe mai più camminato. Era una notte molto brillante, quella, perché la maggior parte di tutto l’emisfero settentrionale era avvolta da nubi abbacinanti. Solo l’Africa e le regioni mediterranee erano oscurate. Ricordò che sotto quelle nuvole era inverno; e sebbene apparissero così splendide e luminose da quella distanza di un quarto di milione di miglia di spazio, viste dalle terre senza sole che ricoprivano dovevano sembrare di un grigiore spento e cupo. Inverno, estate, autunno, primavera — qui non significavano nulla. Lui li aveva salutati quando aveva fatto il suo baratto. Era stato un baratto duro ma equo. Si era separato dalle onde e dalle nuvole, dai venti e dagli arcobaleni, dai cieli azzurri e dai lunghi crepuscoli delle sere estive. In cambio, aveva ricevuto un’indefinita sospensione dell’esecuzione. Ricordò, tornando indietro di alcuni anni, le discussioni senza fine con Maxton, Collins e gli altri sul valore del volo spaziale per la razza umana. Alcune delle loro previsioni si erano tradotte in realtà, altre no. Ma per quanto riguardava lui, si erano rivelate assolutamente esatte. Matthews aveva detto la verità quando aveva affermato, tanto tempo prima che i più grandi benefici che sarebbero derivati dall’attraversamento dello spazio sarebbero stati benefici che nessuno aveva mai immaginato. Più di dieci anni prima i cardiologi gli avevano dato tre anni di vita; ma le grandi scoperte mediche fatte sulla base lunare erano arrivate giusto in tempo per salvarlo. A un sesto di gravità, dove un uomo pesava meno di quindici chili o giù di lì, un cuore che sulla Terra avrebbe ceduto avrebbe invece continuato a battere con vigore per anni. E c’era anche la possibilità — piuttosto terrificante per le sue implicazioni sociali — che la durata della vita umana potesse essere più grande sulla Luna che sulla Terra. Molto prima di quanto nessuno avesse mai osato sperare, l’astronautica aveva pagato i suoi più grandi e inaspettati dividendi. Lì, entro la curva degli Appennini, nella prima delle città mai costruite all’esterno della Terra, cinquemila esuli vivevano una vita utile e felice, al sicuro dalla mortale gravità del loro mondo d’origine. Col tempo, avrebbero ricostruito tutto quanto si erano lasciati alle spalle; già ora il viale di cedri lungo Main Street era un coraggioso simbolo della bellezza che sarebbe nata negli anni a venire. Il professor Alexson sperava di poter vivere per vedere la costruzione del Parco, quando la seconda e più grande Cupola fosse stata eretta a tre miglia a nord di lì. Su tutta la Luna la vita stava rinascendo. Una volta aveva tremolato e si era spenta, mille milioni di anni prima: questa volta non sarebbe andata così, perché essa era parte di una piena crescente che in pochi secoli sarebbe dilagata fino ai pianeti più esterni. Come aveva fatto tante volte, il professor Alexson passò le dita sul pezzo di roccia marziana che Victor Hassell gli aveva dato anni prima. Un giorno, se avesse voluto, avrebbe potuto andare in quello strano piccolo mondo; presto ci sarebbero state navi in grado di fare l’attraversamento in tre settimane, quando il pianeta fosse stato nel punto più vicino. Lui aveva cambiato mondo già una volta, avrebbe potuto farlo una seconda, se mai fosse stato ossessionato dalla vista dell’irraggiungibile Terra. Sotto il suo turbante di nuvole la Terra stava accomiatandosi dal ventesimo secolo. Nelle città splendenti, man mano che la mezzanotte si spostava attorno al mondo, la folla sarebbe stata in attesa del primo rintocco dell’ora che li avrebbe separati per sempre dall’anno vecchio e dal secolo vecchio. Cento anni come quelli non c’erano mai stati prima, e probabilmente non si sarebbero più ripetuti. A una a una le dighe erano saltate, le ultime frontiere della mente erano state spazzate via. Quando il secolo aveva albeggiato, l’Uomo aveva cominciato a prepararsi alla conquista dell’aria; alla sua fine l’Uomo stava raccogliendo le forze su Marte per balzare verso i pianeti esterni. Solo Venere continuava a tenerlo a bada, perché non era ancora stata costruita una nave spaziale in grado di scendere in mezzo alle tempeste di convezione che imperversavano perennemente tra l’emisfero illuminato dalla luce del Sole e l’oscurità della Faccia Notturna. Da una distanza di sole cinquecento miglia, gli schermi radar avevano mostrato lo schema di continenti e mari che stavano sotto quelle nubi sfreccianti — e Venere, non Marte, era diventata il grande enigma del Sistema Solare. Mentre salutava il secolo morente, il professor Alexson non provava rimpianti: il futuro, era troppo pieno di meraviglie e di promesse. Di nuovo le orgogliose navi spaziali stavano veleggiando verso terre sconosciute, portando i semi di nuove civiltà che, nelle età a venire, avrebbero superato quella vecchia. La corsa ai nuovi mondi avrebbe distrutto le soffocanti restrizioni che avevano avvelenato quasi mezzo secolo. Le barriere erano state infrante e gli uomini avrebbero potuto dirigere le proprie energie verso le stelle, invece che combattersi l’un l’altro. Uscito dalle paure e dalle miserie della Seconda Età Buia, e liberatosi — oh fosse per sempre! — delle ombre di Hiroshima e dei lager nazisti, il mondo stava dirigendosi verso la sua più splendida alba. Dopo cinquecento anni, c’era un nuovo Rinascimento. L’alba che sarebbe spuntata sugli Appennini alla fine della lunga notte lunare non sarebbe stata più radiosa dell’età che era appena incominciata.