Le inchieste del commissario Collura Andrea Camilleri Dopo essere rimasto ferito nel corso di una sparatoria, il commissario Vincenzo Collura, detto “Cecè”, decide di trascorrere un periodo di convalescenza su una nave da crociera. Ma non fa in tempo a godersi il riposo che anche in vacanza si trova a indagare su una serie di piccoli e divertenti gialli, aiutato da un fedele collaboratore, il triestino Scipio Premuda. Tra finti cantanti, fantasmi che appaiono misteriosamente in cabina, scambi di gemelle, cadaveri sconosciuti, bische clandestine e furti di preziosi gioielli, Cecè Collura si trova ancora una volta a dover fare affidamento sul suo prezioso fiuto, dote che ha in comune con la piu celebre creatura di Camilleri, quel Salvo Montalbano che gli è illustre collega. Andrea Camilleri nasce a Porto Empedocle nel 1925. Esordisce come romanziere nel 1978 con Il corso delle cose (ristampato da Sellerio nel 1999). Con Garzanti pubblica il secondo romanzo, Un filo di fumo (1980; ristampato da Sellerio nel 1997). Della sua ricchissima produzione ricordiamo, nelle edizioni Sellerio: La strage dimenticata, Il gioco della mosca, La forma dell’acqua, Il cane di terracotta, Il ladro di merendine, La voce del violino, La stagione della caccia, Il birraio di Preston, La concessione del telefono, La bolla di componenda, La gita a Tindari, Il re di Girgenti, Il giro di boa, La presa di Macallè, La pazienza del ragno, Privo di titolo e La luna di carta. Da Rizzoli sono usciti La mossa del cavallo e Biografia del figlio cambiato; da Donzelli Il diavolo. Tentatore. Innamorato (con un racconto di Jacques Cazotte); da Mondadori Un mese con Montalbano, Gli arancini di Montalbano, La scomparsa di Patò, La paura di Montalbano, La prima indagine di Montalbano, Il medaglione, La Pensione Eva e Il colore del sole. Nella co llezione I Meridiani sono usciti i due volumi delle opere di Camilleri, Storie di Montalbano e Romanzi storici e civili. ANDREA CAMILLERI LE INCHIESTE DEL COMMISSARIO COLLURA © 2002 Libreria dell’Orso srl, Pistoia Edizione su licenza I edizione Piccola Biblioteca Oscar maggio 2007 ISBN 978-88-04-56802-5 Questo volume è stato stampato presso Mondadori Printing S. p. A. Stabilimento NSM – Cles (TN) Stampato in Italia. Printed in Italy www. andreacamilleri. net www. librimondatori. it OSCARMONDADORI Nota al testo Gli otto racconti che hanno come protagonista il commissario Cecè Collura sono stati pubblicati sul quotidiano «La Stampa» nell’estate del 1998: Il mistero del finto cantante (13 luglio), Il fantasma nella cabina (27 luglio), Trappola d’amore in 1 classe (3 agosto), Bella, giovane, nuda praticamente assassinata (10 agosto), Un mazzo di donne per il petroliere Bill (17 agosto), I gioielli infondo al mare (24 agosto), Che fine ha fatto la piccola Irene? (31 agosto), La scomparsa della vedova inconsolabile (7 settembre). Il mistero del finto cantante Il commissario di bordo di nome faceva Vincenzo (per gli amici “Cecè”) e di cognome Collura. Per la verità, Cecè Collura il commissario di bordo non l’aveva mai fatto, anzi, a parlare papale papale, non aveva mai messo piede su una nave da crociera. E manco mercantile, a voler essere onesti fino in fondo. Come passeggero, a non qualificare come “navigazione” una trentina d’attraversamenti dello Stretto di Messina, aveva al suo attivo qualche viaggio d’andata e ritorno col traghetto Napoli-Palermo. E basta. Non era omo d’acqua, ma di terraferma. Infatti, quando gli toccava di viaggiare, pigliava sempre il treno, l’aereo gli faceva scanto macari a taliarlo fermo all’aeroporto. Ancora qualche mese avanti, Cecè Collura commissario lo era stato, ma di polizia, fino a quando si era guadagnata una bella revorberata al fegato durante una sparatoria con alcuni rapinatori di banche. Dopo l’ospedale e la convalescenza, gli avevano concesso sei mesi di riposo. Un suo parente, che aveva interessi nel gruppo armatoriale, aveva avuto l’alzata d’ingegno di fargli la proposta di passare una parte del periodo di riposo quale commissario di bordo. Non avendo conto da rendere a mogliere e trovandosi momentaneamente libero da legami fimminini, si era sottoposto a un corso accelerato per avere un’infarinatura di quello che andava a fare e si era imbarcato. Aveva però domandato e ottenuto di essere affiancato da un vice di lunga spirenzia. Come poté vedere da subito, questo vice, un quarantino triestino, il misteri suo lo sapeva fare. Quando arrisolveva il problema di un crocierista, di regola si rivolgeva a Collura: «Lei è d’accordo, vero, commissario?». E Cecè, dopo averlo taliato negli occhi per vederese с’era una minima traccia d’ironia, calava la testa in segno d’assenso. Imparò rapidamente dal triestino il modo migliore di comportarsi coi passeggeri. Da commissario di polizia poteva di tanto in tanto concedersi dei toni bruschi, evasivi, distaccati: qui questa gamma gli era negata, era totalmente al servizio di quelli che avevano pagato il biglietto. Avevano pagato e pretendevano. Nel giro delle prime ventiquattro ore, il suo vice abilmente placò malumori, ascoltò recriminazioni, promise fulminee soluzioni. Poi il tempo lungo della navigazione su un mare che pareva una tavola contagiò tutti, finirono urti e attriti, principiarono nuove conoscenze. E fu proprio una delle nuove conoscenze di Cecè, la signora Agata Masseroni maritata McGivern, a farlo imbattere in una situazione perlomeno stramma. La coppia McGivern, la coppia Donandoni e la coppia Distefano avevano posto, nel più lussuoso dei tre ristoranti, al tavolo del commissario il quale, durante i pasti, doveva amabilmente intrattenere gli ospiti. Cecè ci provò a operare una sostituzione, ma il suo vice gli fece notare che quello era un compito che spettava di diritto al commissario, tutta una tradizione crocieristica sarebbe stata irrimediabilmente sconvolta se al posto del titolare si fosse appresentato il vice. Mister McGivern, che possedeva qualche pozzo nel Texas, alle nove di sira spaccate si andava acorcare, poco appresso lo seguiva la coppia Donandoni (lui novantino, lei ottantina) mentre la coppia Distefano, cinquantina, aveva la passione del ballo e perciò mangiavano di prescia per poi scomparire per abbandonarsi al loro vizio preferito. Così restavano faccia a faccia la signora Agata Masseroni, che non aveva mai gana di sonno, e Cecè. Alla seconda serata, la signora Agata spiò al commissario: «Mi accompagna a sentire Joe Bolton?». E chi era? Cecè fece uno sforzo e finalmente s’arricordò ch’era un cantante che avrebbe dovuto intrattenere i passeggeri. A bordo i cantanti erano quattro, i prestigiatori due, gli animatori otto, più un esercito di orchestrali. «È bravo?» La signora Agata isò gli occhi al cielo. «Divino, mi dicono. Stamattina tutti ne parlavano. E allora che fa, commissario, m’accompagna?» Arrivarono che Joe Bolton stava esibendosi a una platea non tanto giovanile, l’età media dei presenti oscillava attorno alla cinquantina. E si poteva capire, perché quello cantava canzoni degli anni ‘60. Cantava? Dopo averlo sentito per una mezzorata, Cecè si pose la domanda. Voce Joe Bolton non ne aveva, questo era certo e non era poi un fatto grave, però suppliva, in qualche misterioso modo riusciva a convincere tutti che, solo se avesse voluto, avrebbe potuto tirare fora un do di petto capace di spaccare un lampadario. Non lo faccio, pareva dire, per discrezione e per eleganza. E tutti gli davano fiducia. E applaudivano freneticamente, soprattutto le fimmine con l’occhio inumidito. «È un fascinatore» – concluse Cecè –. «Quello, se ci si mette d’impegno, è capace di convincerci che la luna è quadrata.» Qualche ora appresso, mentre nella sua cabina stava per pigliare sonno, gli tornò a mente il cantante. Se lo rappresentò: doveva essere un sissantino che si teneva bene, non alto, distinto, gli occhi di un azzurro intensissimo, folti capelli rossicci striati di bianco, baffetti sottili. Alt. Baffetti. Che faceva Joe Bolton coi suoi baffetti? Fattasi la domanda, Cecè si diede la risposta: «Che vuoi che facesse? Tra una canzone e l’altra se li accarezzava, come tutti». Eh, no – fece l’altro Cecè che dialogava con lui –. Non li accarezzava, li premeva sul labbro superiore. «E questo che viene a dire?» – si spiò Cecè –. «Lui se li accarezzava accussì.» Stammi a sentire, Cecè – gli rispose l’altro Cecè –, se il gesto fossestato normale, non ti avrebbe colpito. Sii coraggioso e affronta la verità: quell’uomo aveva baffi finti e incollati male. E la vuoi sapere tutta, Cecè? Il tuo occhio di sbirro non ha fallato: portava una parrucca e aveva lenti a contatto. Basta picca a trasformare una faccia. Molte altre furono le domande che Cecè quella notte si fece, ma una più di tutte insistente: perché uno che vuole camuffarsi i baffi non se li fa crescere invece di mettersene un paio finti? La risposta non poteva essere che questa: Joe Bolton non aveva avuto il tempo per farseli crescere oppure perché non avrebbe potuto, prima dell’imbarco, farsi vedere così trasformato. La matina appresso, appena trasì nel suo ufficio, spiò al triestino: «Joe Bolton è un nome d’arte, vero? Come si chiama in realtà?» Gli parse, ma certamente si sbagliava, che il suo vice avesse fatto un gesto di sorpresa. Il triestino azionò il computer, attrezzo col quale Cecè aveva scarsa confidenza. Apparse la foto del cantante, identica a Joe Bolton in carne e ossa. La differenza era che si chiamava Paolo Brambilla, era nato a Milano nel 1939 e di mestiere faceva il cantante. Seguiva l’indirizzo. Cecè notò che non era segnato il numero della cabina. «Dove dorme?» «Mah, mi pare in una cabina a quattro, con gli altri cantanti.» С’era qualcosa che non quatrava. E non quatrava soprattutto l’atteggiamento del suo vice, tra l’evasivo e l’imbarazzato. Decise di non parlare col triestino dei suoi dubbi. La sera, dopo la cena, fu lui stesso a proporre alla signora Agata di tornare a sentire il cantante. S’ingollò il repertorio di Bolton fino alla mezzanotte passata, quando la signora Masseroni in McGivern già da tempo aveva raggiunto il petrolifero letto coniugale. Seguì discretamente Joe Bolton al bar, dove il cantante si scolò due whisky propiziatori al sonno, lo seguì ancora mentre quello imboccava il corridoio delle cabine extralusso. Lo vide aprire la porta con la chiave, entrare, richiudere. Rimase ammammaloccuto. Possibile che Bolton avesse tanto denaro da potersi concedere una cabina di quel tipo? No, с’era un’altra spiegazione: certamente lì ci stava una qualche ricca signora alla quale il cantante concedeva i suoi favori. L’indomani, a primo mattino, trasì nel suo ufficio, il vice non era ancora arrivato, e spiò all’addetto di guardia: «Chi occupa la cabina numero 10?» L’addetto consultò il computer. «Nessuno. Risulta vuota.» Eh, no. Non gliela stavano contando giusta. E ora veniva fora che Joe Bolton poteva contare su coperture e complicità. In quel momento trasì in ufficio il triestino. «Le devo parlare. Da solo» – fece brusco Cecè. Andarono nel retroufficio. «Ora lei mi dice tutto su Joe Bolton. E cerchi di non pigliarmi in giro, l’ha già fatto abbastanza.» Il vice diventò rosso. «Mi perdoni, commissario, Lei ha ragione. Ma ho avuto ordini precisi. Nessuno poteva pensare che il suo fiuto di poliziotto l’avrebbe fatta sospettare.» «Di che?» «Ne parli col comandante, se crede.» «Certo che gli parlo!» – s’infuriò Cecè, agguantando la cornetta del telefono interno. Appena sentì il nome di Joe Bolton, il comandante disse a Cecè di salire immediatamente sul ponte comando. «Questo Bolton, che in realtà si chiama Brambilla…» – esordì fora della grazia di Dio. «Chiamarsi Brambilla non è un reato, le pare?» – l’aggelò placido il comandante. «Non sarà un reato, ma francamente lui è un tipo equivoco. Lo sa? Porta parrucca, lenti a contatto e baffi finti. Si è truccato perché non vuole farsi riconoscere, sicuramente ha qualcosa da nascondere.» «È vero. Guardi, commissario, potrei dirle che tutto è in ordine e che della faccenda rispondo io. Tanto il signor Bolton è previsto sbarchi al prossimo scalo. Ma voglio rendere omaggio al suo sguardo acuto. Lo sa chi si cela dietro al nome di Brambilla?» «Perché, macari quello è falso?» – spiò allibito Cecè. «Sì, lo è. Il vero nome di Bolton–Brambilla è…» Lo fece, il nome. E Cecè Collura sbiancò. «Ma come?» – balbettò appena si fu ripreso –. «Un miliardario! Uno come lui! Uno che è stato Presidente del…» Il comandante isò una mano a interromperlo. «Lei lo sa quali sono stati i suoi inizi? Cantava, come adesso, sulle navi da crociera. Ha voluto ritrovare un pochino della sua giovinezza. Vogliamo condannarlo per questo?» Cecè allargò le braccia, salutò, niscì. Ma subito fora dalla cabina del comandante l’attraversò un pensiero. Lui era un finto commissario di bordo. Joe Bolton era un finto cantante. Quanti altri “finti” c’erano a bordo? E quella crociera era vera o virtuale? Il fantasma nella cabina Dopo appena una simana di navigazione, Cecè Collura non ne poteva più del giornalista freelance Davide Birolli il quale, va a sapere perché, gli si era attaccato peggio di una sanguetta, tanto che c’era stato un momento nel quale il commissario di bordo era stato tentato di mollare tutto e di farsi sbarcare al primo scalo. Questo Birolli, trentino, occhi spiritati darrè gli occhialetti, capelli perennemente percorsi da una corrente elettrica a 350 volts, era stato ingaggiato dalla società armatrice della nave (vitto e alloggio gratis, cospicuo assegno finale) perché scrivesse una serie d’articoli di costume a tutto vantaggio dell’idea che andarsene a spasso per il mare fosse il massimo di benessere che uno potesse permettersi. Senonché la società armatrice non si era informata bene su come la pensava il giornalista il quale, appena messo piede sulla nave, si era proclamato, a dritta e a mancina, omo e pensatore della sinistra più irriducibile. Fortemente critico verso il concetto stesso di crociera, che lui definiva «un viaggio immobile» e a volte macari «un viaggio parassitario fatto da parassiti», andava a trovare Cecè Collura nel suo ufficio e ci stava tutta la santa giornata. «Non trova anche lei, commissario, che queste crociere siano terribilmente reazionarie?» «In che senso, scusi?» «Nel senso che in ogni crociera quello che succede è tutto risaputo, rimasticato, combinatorio. L’immaginario viene ammazzato da una sorta di rimbambimento collettivo. È sempre la stessa pappa.» “Pappa che tu ti sbafi” – pensò Cecè Collura – “senza guadagnartela: ancora non hai scritto un rigo.” «L’innocuo, il rassicurante, sono reazionari perché non producono dubbi.» «Ha presente il Titanic?» – gli spiò Collura che si era scassatolo scassabile. «Sì. Ebbè?» «Quella, a suo parere, è stata invece una crociera progressista?» L’altro s’imparpagliò un momento e il commissario ne approfittò per mettersi a parlare col suo vice. Una notte lo squillo penetrante del telefono l’arrisbigliò. Accese la luce, taliò il ralogio: le quattro del mattino. Era il suo vice. «Commissario, può venire in ufficio? C’è un’emergenza.» Il vice non era persona di chiacchiera, voleva dire che la cosa era seria. In ufficio ci stava una signora anziana che indossava una vestaglia di gran classe e pareva molto agitata. «Mi permette, commissario?» – fece il triestino. Andarono nel retroufficio, dove i passeggeri non erano ammessi e che era attrezzato con telefoni satellitari, computers vari e Internet. «La signora sostiene d’aver visto un fantasma.» «Dove?» «Nella sua cabina. Stava dormendo, s’è svegliata e l’ha visto. È schizzata via dal letto.» «Aveva bevuto?» «Pare di no, dice d’essere astemia.» «Si droga?» «Alla sua età?!» «Carissimo, non si è reso conto che i vecchi oggi fanno di tutto per non parere tali? Ma insomma, che vuole?» «Vuole cambiare cabina.» «Va bene, trasferiamola e facciamola finita.» «Non è così semplice, commissario. La signora era terrorizzata, scappando si è messa a urlare, ha percorso avanti e indietro il corridoio prima d’essere fermata da una cameriera. Altri passeggeri si sono svegliati, si sono riversati nel corridoio… C’era anche quel giornalista, purtroppo. Ho dovuto faticare per far tornare la calma. Bisognerebbe inventarsi qualcosa per tranquillizzarli. «Altrimenti domani tutti quelli che occupano le cabine del corridoio 22c vorranno cambiare posto.» «Andiamo a parlare con questa vecchia pazza. Prima però mi faccia vedere la sua scheda.» Risultò che la signora, anzi signorina, Candida Meneghetti era una pensionata di 77 anni, residente a Bologna. Viaggiava sola. «Signorina Meneghetti» – esordì il commissario che non sapeva né come principiare né come finire il discorso – «si sente bene?» «Mi sentivo benissimo prima di mettere piede su questa maledetta nave. Ho preso uno spavento tale che a momenti ci restavo secca.» «Potrebbe descrivermi il coso… il fantasma? Com’era?» «Normale. Classico.» «Si può spiegare meglio?» «Beh, faccia conto un lenzuolo che se ne sta dritto da solo. All’altezza degli occhi aveva come due palline fosforescenti. Oddio, mi sento male a pensarci!» «Dove l’ha visto?» «Stava ai piedi del letto. Fluttuava.» «Ha detto qualcosa?» «Come no! Mi ha detto con voce cavernosa: “Candida, scendi da questa nave finché sei in tempo!”.» «Lei lo conosceva?» – s’intromise il vice. «Perché avrei dovuto conoscerlo?» – s’inalberò la signorina. «Mah… non so… dato che le dava del tu…» «Ma che ragionamenti! Tutti i fantasmi danno del tu!» «Ah!» – fece il commissario – «Lei dunque è pratica di fantasmi. Prima ne aveva visti altri?» «Mai. Però ho letto qualche libro sull’argomento. Ora che mi ci fa pensare, il padre di Amleto…» Cecè Collura s’affrettò a interromperla, ci mancava solo Amleto in quella storia d’orbi. «Venga con noi, andiamo a vedere la sua cabina.» «Nemmeno per sogno! Ho paura. Andateci voi, io resto qua.» «Ha la chiave?» «Ma come facevo a pensare alla chiave, in quel momento! È giù.» Quando arrivarono nel corridoio 22c trovarono Davide Birolli che arringava un gruppo di passeggeri succintamente vestiti. «Riflettete sulle parole del fantasma! Preannunciano pericolo! Stiamo quindi andando verso giorni e notti di dubbio, d’incertezza, d’angoscia anche. Tutto ciò non è meraviglioso? Questo viaggio, iniziato con rassicurante prevedibilità, in un placido interscambio di sensazioni e pensieri, proseguirà in un’atmosfera di salutare e progressista sgomento. Quale ne sarà la fine?» «Lo faccia scomparire» – intimò Cecè al vice. La cabina della signorina Candida era in perfetto ordine, tranne che per il letto. Il lenzuolo superiore era appallottolato e stava tutto dalla parte dei piedi: si vede che la signorina, istintivamente, aveva scagliato il lenzuolo contro il fantasma. Che, a sua volta, era un lenzuolo. A Cecè venne da ridere. La storia era comica, il risvolto negativo era la ripercussione che avrebbe potuto avere sui crocieristi. Come fare a calmare le acque? Mentre ci ragionava, notò due cose. La prima era che aveva trovato la luce accesa. Quindi la signorina, appena visto il fantasma, aveva azionato l’interruttore. E il fantasma si era dissolto o era restato ancora visibile? La seconda era che ogni cosa di proprietà della signorina Meneghetti era nova nova. Per terra, due paia di scarpe appena incignate, su una sedia una costosissima borsa che sapeva ancora di fabbrica. Raprì l’armuar: su sei vestiti che stavano appesi, quattro avevano attaccata l’etichetta. Quasi tutta la biancheria intima stava nelle confezioni originali. C’erano macari due valigie Vuitton ed era chiaro ch’erano stateri empite per la prima volta. La signorina Meneghetti, che doveva essere ricca, si era fatta un costoso corredo proprio per quella crociera. Tornò in ufficio. Lo trovò stipato di passeggeri che volevano cambiare cabina. Il vice, rosso e sudato, ora mai faticava persino a parlare. «Trovo incredibile» – stava dicendo uno – «che su una nave come questa, dotata di tutto, manchi proprio un ghostbuster o, in linea subordinata, un esorcista!» Cecè chiamò il suo vice in disparte. Venne informato che la signorina Candida era nel retroufficio, in quanto al giornalista free-lance aveva pensato bene di farlo convocare dal comandante. «Che ha trovato?» – spiò ansiosa la signorina vedendolo. «Che vuole che trovassi? A quest’ora il suo fantasma chissà dove è andato a finire. Mi permetta qalche domanda. Quando lei accese la luce, l’apparizione continuò a manifestarsi?» Candida Meneghetti parse per un attimo imparpagliata. «Ho acceso la luce? Non ricordo. Sa, in quel momento… Perché mi fa questa domanda?» «Lei abitualmente si mette a letto con la vestaglia?» «No. Perché? Con la camicia da notte.» Però era arrossita. E di colpo Cecè Collura ebbe la certezza che quel rossore non fosse dovuto a virginale imbarazzo. Chiamò un addetto, spedì la signorina in una cabina vuota perché si riposasse un poco. Per due ore filate se ne stette nel retroufficio a fare telefonate e a riceverne. Alla fine si stiracchiò, soddisfatto. Andò a trovare la signorina Candida che si era appisolata sul letto, la svegliò delicatamente. «Ho scoperto tutto, signorina. Lei campa con una pensione di un milione e trecentomila lire al mese, è un’ex attrice ed è ospite di una casa di riposo.» «La prevengo, capisco dove vuole andare a parare: ho ricevuto un’eredità e ho deciso di godermela.» «Mi aspettavo questa risposta. Ma vede, il suo modo d’agire, all’apparizione del fantasma, è stato del tutto illogico. Ha acceso la luce, e passi. Ma ha indossato la vestaglia, e questo assolutamente non regge. Davanti a un fantasma non c’è pudore che tenga, lei avrebbe dovuto precipitarsi fuori dalla cabina in camicia da notte. Ha commesso un errore. Chi l’ha pagata per organizzare questo teatro? Se lei confessa vedrò di non farle avere conseguenze penali. Però dovrà dire a tutti che ha capito d’avere avuto un incubo, tant’è vero che è pronta a rioccupare la sua cabina.» La signorina Candida Meneghetti confessò, era stata profumatamente pagata per danneggiare l’immagine della società armatrice. Venne sbarcata allo scalo successivo. Con lei scese a terra macari il giornalista free-lance Davide Birolli. Cecè Collura tirò le somme: lui era un finto commissario di bordo, Joe Bolton un finto cantante, la signorina Meneghetti una finta passeggera. E c’era persino un finto fantasma. Ma quella crociera era vera o virtuale? Trappola d’amore in l class Il vice triestino di Cecè Collura si chiamava Scipio Premuda ed era un omo poco più che quarantino, riservato, gentile, di parole che erano sempre quelle giuste. Era proprio tagliato per il suo mestiere: a petto delle richieste, macari le più cervellotiche, dei passeggeri, non perdeva mai la calma. Senonché una brutta matina, davanti a una richiesta più insolita delle altre, Premuda sbracò di brutto: «Le consiglio di farsi costruire una nave da crociera tutta per sé, ci starà più comodo». Il crocierista restò a bocca aperta. Come del resto Cecè Collura. Che gli stava capitando al suo vice? Le rispostazze del triestino ai passeggeri durarono fino a metà dopopranzo, quando il commissario decise d’intervenire. «Premuda, lei è stanco. La sostituisco io. Vada a riposarsi.» Il vice lasciò l’ufficio senza ringraziarlo. Appena Cecè ebbe un momento di tregua, chiamò un napoletano dello staff commissariale che del triestino era amico. Avevano a lungo navigato insieme. «Premuda ha ricevuto qualche cattiva notizia da casa?» Il triestino viveva con la madre, non si era mai maritato, come Cecè. «No, commissario, la signora Premuda sta bene.» «Ma allora cos’ha? Oggi mi è parso così insofferente, nervoso.» Il napoletano fece un sorrisetto e non disse niente. «Non faccia il riservato con me. Si vede benissimo che muore dalla voglia di dirmi quello che è successo al signor Premuda.» «Non l’ha capito? Si è innamorato.» Cecè stunò. Ma se qualche giorno avanti Premuda aveva fatto un liscebusso ad un addetto che faceva troppo lo spiritoso con una passeggera! Se gli aveva detto che quel comportamento infrangeva l’etica professionale! «Gli è capitato altre volte?» «Mai. E mi pare che sia una cosa seria. Stanotte, per caso, li ho visti sul ponte A, lui e lei, in un posto scuro. Parlavano fitto fitto, si tenevano le mani.» «Lei sa chi è la ragazza?» «L’ho saputo per caso. Si chiama Anna Zirelli una delle due figlie di…» Cecè non lo stava più a sentire, sapeva benissimo chi fosse la picciotta che aveva un posto d’onore al tavolo del comandante. Figlia di un industriale tra i più noti, compariva spesso sui rotocalchi, da sola o in compagnia della sorella Giulia. Il poviro Premuda era capitato proprio male: se era innamorato per davvero, si rendeva macari conto che la picciotta non era cosa da mettersi seriamente con un vice commissario di bordo. Una storia da crociera, senza importanza, questo forse sì, ma destinata a finire al termine della navigazione. Il matino appresso, trasendo nel suo ufficio, la prima cosa che Cecè fece fu quella di taliàre attentamente il vice. Aveva una faccia bella sirena, ai passeggeri sorrideva affabile, era disponibile come sempre. Forse tra Anna e Scipio c’era stata il giorno avanti un’azzuffatina, poi dovevano aver fatto la pace. Cecè se ne rallegrò: in primisi perché lui non era capace di dare adenzia ai crocieristi come invece lo era Premuda; in secundisi perché al triestino ci si era tanticchia affezionato. Il terzo giorno da quando era principiata la facenna, il barometro personale di Scipio Premuda segnò di bel nuovo nuovamente tempesta. Durante la nottata passata non doveva avere chiuso occhio e, fatto assolutamente inaudito, si era rasato malamente. Nelle giornate normali, la sua faccia era liscia come una palla di bigliardo e Cecè Collura, che pativa di un pelo duro e fitto, lo invidiava. A mezza matinata il vice non ce la fece a reggere. «Le chiedo perdono, commissario, ma non mi sento bene.» «Vada pure. Ah, si faccia dare un’occhiata dal dottore.» «Signorsì.» Collura però era sicuro che Premuda non si sarebbe fatto vedere in infermeria, la sua malatia non era curabile con medicinali. Taliò il napoletano amico di Premuda e questi gli ricambiò l’occhiata, chiaramente preoccupato. «Commissà, dovete fare qualcosa. Quello, il signor Premuda, sta uscendo pazzo.» Già, ma fare che cosa? La sera, durante la cena, non staccò gli occhi da Anna che se ne stava a chiacchiariare, sempre sorridente, con il comandante e con gli altri commensali, tutte persone importanti. Non pareva per niente risentire dell’azzuffatina che aveva avuta con Scipio. Il quale Scipio, verso la fine della cena, comparse per un momento sulla porta del ristorante. Pareva uno nisciuto da una foresta vergine nella quale si era sperso da una mesata. Anna lo vide e di subito gli occhi le si fecero più sparluccicanti, la parlantina più animata. Trovò macari il momento giusto per rivolgere a Scipio un rapidissimo sorriso. A quel sorriso il triestino chiaramente strammò, poi sorrise a sua volta e scomparì. Evidentemente era corso a mettersi in ordine, pieno di felicità. La matina del giorno appresso Scipio Premuda era così contento da non rendersi conto di canticchiare mentre stava in ufficio. Poi venne l’ora di andare a pranzo, ma dovettero tardare tanticchia. Premuda trasì nel ristorante con Cecè che già tutti stavano mangiando. Appena Anna vide Scipio il sorriso le si aggelò sulle labbra, lanciò al triestino una taliata irritata e sdegnosa, fece persino un evidente gesto di fastidio, parse avesse voluto scacciare una mosca. Premuda, di subito giamo, pareva un morto, variò avanti e narrè, s’afferrò a un tavolino per non cadere. Fece fatica a parlare. «Non… non ho appetito. Mi scusi.» E sinni niscì dal ristorante camminando quasi che ci fosse mare forte. Al commissario stavolta il suo vice fece veramente pena. Che gioco crudele aveva deciso di fare quella picciotta? Il denaro, perché ricchissima lo era, e la bellezza, perché bellissima lo era, non l’autorizzavano a tanta cattiveria. E da quel momento Cecè Collura pigliò a taliarla non come un omo qualsiasi talia una bella fimmina, ma con la puntuta attenzione di uno sbirro che vuole scoprire quello che in realtà si nasconde darrè un paro d’occhi azzurri che paiono chiari e innocenti, darrè un sorriso che pare sincero come quello di una picciliddra appena nata. La taliò talmente che a un certo momento la picciotta si sentì osservata e lo taliò a sua volta. Cecè non distolse lo sguardo, fu Anna a calare gli occhi per prima. Nel dopopranzo, il vice non si fece vedere in ufficio, il napoletano gli riferì che Premuda si era fatto dare dal medico un forte sonnifero. Stava andando alla deriva, poviro triestino. A cena, Cecè Collura notò una cosa che gli parse curiosa: Anna, di tanto in tanto, lanciava una taliata rapida verso la porta, quasi s’aspettasse di veder comparire qualcuno. Che non poteva essere altri che Premuda. Alla fine della cena, l’umore della picciotta era cangiato, macari lei pareva diventata nirbusa e insofferente. Il commissario quella sera si ritirò presto nella sua cabina per poter ragionare in pace sulla faccenda che gli pareva stramma assai. A un certo momento pigliò la decisione d’andare a parlare a core aperto col suo vice. Lo trovò appena arrisbigliato dalla lunga dormita artificiale, intordonuto e senza difese. Vigliaccamente, Cecè ne approfittò e attaccò senza mezze parole. «Voglio sapere tutto. Se vuole, lo può considerare un ordine.» E Scipio Premuda parlò, forse non aspettava altro che potersi confidare con qualcuno. Con Anna Zirelli era stato un colpo di fulmine, non gli era mai capitato prima nella vita. E macari Anna diceva d’essersi innamorata di lui, solo che il suo atteggiamento appariva spesso del tutto illogico, una sera era dolcissima, tenera, e il giorno appresso dura, scontrosa, non voleva rivolgergli manco la parola. E questo senza un motivo apparente. Non c’era purtroppo che una sola spiegazione, concluse distrutto il triestino: Anna era affetta da una qualche malattia che le procurava un grave scompenso psicologico. «Non credo proprio che si tratti di una malattia» – disse il commissario. «Ah, no? Quindi si diverte con me, vuole ridere alle mie spalle!» «Non si tratta nemmeno di questo, almeno credo.» «Allora perché mi tratta così? Me lo dica, per carità, se lo sa.» «Ma dia ventiquattr’ore» – fece Cecè Collura – Ma mi deve dare la sua parola d’onoreche per tutto il tempo che mi necessita lei se ne starà chiùso in cabina senza vedere nessuno. Faccio spargere la voce che è malato.» Ventiquattr’ore stavano a significare un pranzo e una cena. E Cecè Collura fu puntualissimo tanto a pranzo quanto a cena. Poi andò a parlare col cameriere che serviva al tavolo del comandante, il quale aveva notato la stessa cosa che aveva attirato l’attenzione del commissario. Le parole del cameriere rinforzarono l’idea che si era fatta di tutta la facenna. Un’idea che poteva parere pazzesca, ma che a ben considerare le cose non lo era poi tanto. Andò a fare quattro passi sul ponte A e la vide, Anna Zirelli, che se ne stava sola, i gomiti appoggiati alla ringhiera, a taliare il mare. Molto triste, ogni tanto volgeva lo sguardo torno torno, manon vedeva la persona che tanto desiderava veder apparire nello scuro. Cecè Collura capì che quello era il momento giusto per dare la botta finale. «Mi perdoni, signorina Zirelli, se la disturbo. Io sono…» «… il commissario di bordo. So tutto di lei, so che è un poliziotto il quale…» «Scipio le ha detto di me?» – l’interruppe Cecè. «Sì. E mi ha detto che lei è uno sbirro molto intelligente e pericoloso.» «Pericoloso per chi ha qualcosa da nascondere. Come lei. Allora, mi dice quello che ho già intuito o faccio perquisire la sua cabina? Scelga lei.» «E che spera di trovare nella mia cabina di così importante?» «Io non spero di trovare, so con certezza chi vi troverò. Sua sorella Giulia, la sua quasi gemella.» Anna Zirelli tirò un sospiro profondo, parse sollevata. «Come ha fatto a capire?» «Avete gusti diversi, non solo in fatto di uomini. Giulia, per esempio, è allergica alle pesche, mentre lei ne è ghiotta. Una volta che Giulia, costretta dalle circostanze, ha dovuto mangiarne una, è stata costretta a correre dal medico di bordo. Perché avete messo su questa storia? Non certo per risparmiare, i soldi non vi mancano.» «Abbiamo fatto una scommessa con degli amici. Eravamo certe che nessuno ci avrebbe scoperte. Ci alternavamo a pranzo e a cena e non c’è stato uno che abbia notato la benché minima differenzatra noi due. Poi è successo che mi sono innamorata di Scipio, un tipo d’uomo che mia sorella detesta. Tutto qua. Una stupida scommessa che ormai non sopportavamo più né io né Giulia. E ora che cosa intende fare? Ci denunzierà al comandante?» «Manco per sogno. Solo che la vostra recita termina qui. Fino alla fine del viaggio sua sorella Giulia dovrà starsene in cabina, consegnata. A circolare, e a incontrare Scipio, dovrà essere solo lei. Buonanotte.» Un finto commissario, un finto cantante, una finta crocierista, un finto fantasma e ora due fimmine che volevano sembrare una. Ma quella crociera era vera o virtuale? Bella, giovane, nuda praticamente assassinata Dopo manco due ore dall’attracco, sbrigate in fretta le formalità di rito, i passeggeri erano scesi tutti a terra, sciamando eccitati verso i mercatini della città araba. Sarebbero rientrati a bordo a sera, i piedi doloranti, l’immancabile mal di pancia, le braccia impedite da sporte e sacchetti stracolmi di oggetti tanto variopinti quanto assolutamente inutili. Cecè Collura si fece persuaso che a bordo non era rimasto un crocierista a pagarlo a peso d’oro, macari buona parte dell’equipaggio e del personale di servizio sarebbe stato messo in franchigia (si diceva così? Dei termini marinari non era tanto sicuro, gli veniva ancora di scangiare il babordo con il tribordo e viceversa). Non aveva che due possibilità davanti a sé: sbracarsi sul letto e farsi una sullenne dormitina, saltando pure il pranzo, o acchittarsi e scendere a terra. Decise di sbarcare e principiò a vestirsi in borghese. Si era appena infilato i pantaloni che il campanello della porta sonò. Raprì. Sulla soglia c’erano un marinaio e una signora anziana che tremava tutta e non arrinisciva a parlare. «Che succede?» «Mah, non so, commissario, ho incontrato la signora che correva per i corridoi, non è riuscita a dirmi niente, allora ho pensato bene di accompagnarla qui. Sono stato fortunato di trovarla ancora a bordo.» “Tu sei stato fortunato e io invece no” – pensò Cecè che oramai all’idea della visita alla città ci si era affezionato. «Potevi accompagnarla in ufficio.» «L’ho fatto, commissario, ma non c’era nessuno.» “Quando i gatti non ci sono, i topi ballano” – pensò ancora Cecè, rassegnandosi all’evidenza: addio sbarco, addio mercatini. «Si accomodi, signora.» A chi parlava, al muro? L’anziana fimmina si era paralizzata, gli occhi sbarracati, il respiro ansante, una mano artigliata allo stipite, l’altra che stropicciava convulsamente la gonna. Era chiaramente sotto choc. «Aiutami a farla entrare, poi corri a chiamare qualcuno, un medico, un infermiere.» Il marinaio faticò a staccare le dita della fimmina dallo stipite una ad una e, dato che non arrinisciva a cataminarsi, la sollevarono di peso e la portarono dintra. Dovettero forzarla per metterla assittata sulla poltrona. Il marinaio niscì di corsa dalla cabina e Cecè rimase solo con la donna, rigida e muta che pareva una pala di ficodindia. «Signora, mi sente?» Nenti. Manco le ciglia batteva. Ma che cavolo le era capitato per arridursi in quello stato? Finalmente arrivò il dottore. Gli bastò una sola, rapida occhiata. «É sotto choc. Non è in grado di muoversi. Ora faccio venire una barella, la porto in infermeria, le farò sapere.» Cecè andò in ufficio, trovò un addetto di servizio. «Tu dov’eri poco fa?» «Ero qua, commissario, non mi sono mai mosso.» Cecè preferì non attaccare turilla esorvolare. «Sei capace di farmi passare rapidamente al computer le schede con le foto dei crocieristi?» «Ma sono più di mille, commissario!» «E tu provaci con santa pacienza.» Ebbero, in un certo qualmodo, fortuna, perché dopo tre quarti d’ora Cecè Collura gridò: «Ferma!». Era lei, non c’era dubbio. Firmiani Tosca, di Firenze, anni 70, nubile. Seguivano l’indirizzo e altri dati. Occupava la cabina 27 del corridoio 23b. Cecè Collura si precipitò nel corridoio 23b ch’era un vero e proprio deserto. La porta della cabina 27 era naturalmente chiusa a chiave. Si mise a santiare, e ora dove la trovava una cammarera? Poi s’arricordò che qualche giorno avanti si era fatto dare un passepartout per ogni evenienza. Tornò di corsa nella sua cabina, trovò il passepartout, si ritrovò davanti alla 27 col fiato grosso. Raprì, trasì. Niente d’anormale, tutto in ordine, il letto rifatto. Richiuse e tornò in ufficio. «Commissario, l’ha chiamata il dottore.» Corse in infermeria, s’assittò su una seggia allato al lettuccio sul quale era distesa la signora Firmiani. «Sono il commissario di bordo, può dirmi…» «Ho visto una morta assassinata» – articolò con estrema chiarezza la signora. E, per rincarare la dose, aggiunse: «Con questiocchi l’ho vista. Era morta. Una coltellata al cuore». «E come fa a sapere che è stata accoltellata a cuore?» – spiò Cecè ardentemente sperando che quella fosse completamente fora di testa. Perché se in caso contrario diceva la verità, la crociera si sarebbe dovuta fermare. Un disastro. Spiò ancora: «E dove l’avrebbe vista questa donna assassinata?». «Non avrei, l’ho vista. E basta. Ieri sera ho detto ai miei commensali che io oggi non sarei scesa a terra. È il mio giorno di meditazione. Però stamattina, svegliandomi, avevo un gran mal di testa. Ho cercato di raccogliermi, ma non ce l’ho fatta. Allora ho deciso di fare quattro passi sul ponte. Passando davanti alla cabina 31 ho notato la porta spalancata. Si vedeva il letto e, sopra, una giovane donna nuda. Sono entrata, ho visto il sangue, il coltello piantato sul cuore. Non ho capito più niente, sono corsa via gridando.» Il commissario non la lasciò terminare, era già fora correndo. Passò davanti alla cabina della signora Firmiani, la 27, che faceva angolo, svoltò, si fermò davanti alla 31 la cui porta era chiusa. Come mai? La signora aveva detto d’averla vista aperta. Aveva ancora in tasca il passepartout, riaprì e restò ammammaloccuto. La cabina era perfettamente in ordine, del cadavere di una fimmina nuda accoltellata manco l’ummira. Taliò, per scrupolo nel bagno. Nenti. Che forse la signora si era, terrorizzata e sconvolta, sbagliata di nummaro? Raprì, pigliato da una prescia crescente, le porte della 29 edella 33. L’ordine regnava a Varsavia. Tornò nella 31. Sonò il campanello per chiamare la cammarera addetta, la quale s’appresentò, elegantemente vestita, dopo un quarto d’ora di sempre più furibonde sonatine di Cecè Collura. Aveva un’ariata leggermente seccata. «Stavo per scendere a terra, signore.» «Non sono un signore, sono il commissario di bordo.» L’atteggiamento della cammarera cangiò di colpo. «Mi scusi, non sapevo…» «Ha rifatto lei questa cabina?» «Certamente. Mezz’ora fa.» Come faceva a spiarle: “Ha visto per caso sul letto una fimmina nuda assassinata?”. Si limitò a domandare: «Ha notato niente di strano? Che so, lenzuola macchiate, un po’ di sangue, disordine…». La cammarera sgranò gli occhi. «Assolutamente. Tutto era come le altre mattine. La signorina De Angelis è una persona molto ordinata. E gentile.» «Lei sa se è scesa a terra?» «Non saprei, commissario.» Collura la congedò, era certo che la cammareranon mentiva. Bisognava ragionarci sopra tanticchia. Era assolutamente da escludere che qualcuno avesse avuto tempo e modo di far scomparire il cadavere. Per portarlo dove? Gettarlo in mare, in pieno giorno, con la nave attraccata? E comunque, magari a puliziare alla svelta la cabina, tracce di sangue ne sarebbero rimaste dovunque e la cammarera se ne sarebbe certamente accorta, da una ferita da coltello al cuore il sangue sarebbe schizzato a fiotti, inondando le lenzuola… A proposito, dove avrebbero ammucciato le lenzuola macchiate? E dove si erano forniti di un paro di linzola di bucato come quelli che ora c’erano dintra al letto? Stava usando il plurale perché una persona, da sola, non sarebbe riuscita a fare tutto quello che abbisognava. A meno di non ipotizzare che il delitto era stato commesso dalle cammarere… L’escluse decisamente, a pelle, a fiuto, a intuito di sbirro. Non c’erano che due soluzioni possibili che ambedue escludevano il delitto: un macabro scherzo ai danni della signora Firmiani oppure la signora era leggermente fora di testa e vedeva cose non c’erano. La seconda soluzione era plausibile: i crocieristi, prima d’essere ammessi abordo, non passano visite mediche o psichiatriche. Tornò in infermeria e, senza farsi vedere dalla signora, chiamò sparte il medico. «Senta, a suo parere, la signora può avere avuto le traveggole?» «In che senso, scusi?» «Nel senso che ha creduto d’aver visto un cadavere che in realtà non c’era.» «Tutto è possibile, commissario, ma non credo sia il caso della signora Firmiani. È molto malata, questo sì, ma le cure alle quali si è sottoposta, gli interventi…» «Ma di che sta parlando, dottore?» «La signora Firmiani è gravemente malata di cuore. Le hanno applicato tre by-pass. Mi meraviglio che, con un’emozione così, non ci sia rimasta sul colpo.» Un campanello, da qualche parte, principiò a suonare fastidiosamente. Il medico taliò interrogativo il commissario, d’improvviso l’aveva visto astrarsi. «Cos’è questo campanello?» – spiò Cecè. «Quale campanello?» – fece a sua volta il medico che non sentiva niente. Quel commissario era proprio un tipo strano. Cecè non rispose, aveva capito che il campanello sonava dintra alla sua testa. «Devo fare qualche domanda alla signora.» «Va bene, ma non la stanchi.» «Ha visto il cadavere? Chi è stato ad assassinarla? L’ha scoperto?» «Non dubiti che arriverò alla verità» – rispose Cecè diplomatico. E proseguì: «Lei conosceva la signorina De Angelis?». «Come no? L’ho conosciuta in crociera. Povera ragazza! Pranzavamo e cenavamo allo stesso tavolo. Chi l’avrebbe mai detto che…» Cominciò ad ansimare, come se le mancasse il fiato. Cecè si scantò, con la coda dell’occhio taliò se il medico era nei paraggi. C’era. Si sentì rassicurato. Si susì, gli si avvicinò. «La signora sta proprio male. La potrebbe tenere ancora per un po’ in infermeria?» «Per un po’? Lei scherza. Non la faccio uscire da qui prima di tre-quattro giorni.» Andò nel retroufficio, chiamò un suo amico che travagliava nella Questura di Firenze. «Mi devi fare un favore. Devo sapere tutto della signora Tosca Firmiani, hai tre ore di tempo per richiamarmi Dall’immagine del computer, Emanuela De Angelis, milanese, venticinque, risultava essere non solo una gran bella picciotta, ma la quintessenza dell’innocenza. Allo scadere delle tre ore lo chiamarono da Firenze. Parlò a lungo al telefono, andò soddisfatto a mangiare poi si stinnicchiò sul letto e dormì fino al tramonto, quando un addetto lo svegliò avvertendolo che i crocieristi stavano per tornare a bordo. Una delle ultime ad acchianare fu la signorina De Angelis. Cecè le si avvicinò sorridente: «Mi permette una domanda? Da quanto tempo è l’amante di Carlo Firmiani, lo scioperato figlio della signora Tosca? Avevate architettato un delitto perfetto: stasera, vedendola viva, la signora sicuramente ci sarebbe rimasta. E Carlo avrebbe ereditato una fortuna». La picciotta scoppiò a piangere. E al lungo elenco delle persone che non erano quelle che parevano, Cecè Collura ci aggiunse una finta morta. Ma quella crociera era vera o virtuale? Un mazzo di donne per il petroliere Bill Da qualche tempo il commissario Collura aveva notato che la signora Agata Masseroni, maritata con il signor Bill McGivern, petroliere texano, era alquanto cangiata d’umore, parlava picca e non si faceva più le sue belle risate contagiose a scialacore. Alla coppia era spettato il privilegio d’assittarsi a pranzo e a cena, al tavolo del commissario, secondo un cerimoniale basato essenzialmente sui conti in banca, veri o presunti, dei partecipanti alla crociera. Ogni sera, alle nove spaccate, il petroliere McGivern si susiva dal tavolo, salutava e andava a corcarsi, come da un’abitudine tramandatagli dai Pionieri del West, suoi antenati. Gli altri commensali erano i coniugi Distefano, cinquantini con una sfrenata passione per il ballo che scomparivano appena finito di mangiare per tuffarsi «nel vortice delle danze» e la coppia Donandoni, che in due assommavano centosettant’anni d’età e che perciò principiavano ad avere gli occhi a pampineddra per il sonno già appena cominciava a scurare. Perciò dopo la cena Collura e la signora Agata potevano restarsene tanticchia a chiacchierare. Collura, notato il cangiamento, aveva un core d’asino e uno di leone: avrebbe voluto spiare alla signora cosa le stesse capitando, ma, per ritegno, non si arrisolveva a farlo. Una sera, pigliato coraggio, fu la signora Agata che s’addecise a confidarsi. Non fece preamboli, andò dritta all’argomento. «Dottor Collura, credo che mio marito mi tradisca.» «Nel Texas?» «No, qui, sulla nave.» Cecè ammammalucchì, la taliò a bocca aperta, non arriniscì più a spiccare parola. «Perché mi guarda così? Può succedere, sa, dopo trent’anni di matrimonio. Del resto, Bill è un gran bell’uomo.» Cecè, a causa delle ultime parole della signora, continuò ad ammammalucchire. È vero che l’amore è cieco, come si usa dire, ma è macari vero che trovi sempre qualcuno pronto a farti tornare la vista. Possibile che nessuno nei due continenti avesse mai fatto notare alla signora Agata che suomarito stava a mezzo tra la razza umana e la razza equina? Bastava taliargli identi, lunghi, gialli, sporgenti, come gettava le gambe quando caminava, come pigliava fiato dalle froge, come invece di ridere nitriva. Però poteva darsi che una fimmina, considerando il portafoglio di McGivern, si fosse persuasa che quell’omo non era certo Apollo, ma poco ci fagliava. «Ne sono ancora così innamorata!» – fece la signora Agata sospirando e diventando una vampa di foco per la vergogna – «Ci siamo sposati che lui non aveva che dieci dollari in tasca. Si è fatto da sé, sgobbando senza un giorno di riposo. Non ci siamo mai lasciati. E ora…» Soffocò un singhiozzo. Cecè Collura si scantò che quella si mettesse a piangere a vista di tutti. «Facciamo due passi.» Niscirono sul ponte affollato, la sirata invogliava a stare all’aria aperta. Passiarono in silenzio per un quarto d’ora, poi la signora Agata taliò il ralogio e disse: «Possiamo andare.» Andare dove? Collura preferì non spiare. Rientrarono, Cecè appresso alla fimmina percorse mezzo corridoio 1a, dove si aprivano le cabine più lussuose. Davanti alla 18 la signora si fermò, cavò chiave dalla borsetta, raprì: «Venga, commissario.» «Ma forse il signor McGivern starà dormendo…» «Entri, per favore.» Ubbidì. Dintra non c’era nessuno, i due letti erano intatti. La signora raprì la porta del bagno: vacante. E qui, nella sua cabina, la fimmina si abbandonò finalmente a un pianto sconsolato, cadendo assittata sul letto. Collura, imbarazzatissimo, le si fece allato e, come da copione, principiò a darle colpettini leggeri sulla spalla. «Coraggio, coraggio» – murmuriò. «Fa così da tre sere» – disse la signora asciucandosi le lacrime. «Lo sa verso che ora torna?» «Certo che lo so. Fingo di dormire ma, mi capisca, non riesco a chiudere occhio. Mi giro e mi rigiro nel letto, affondo la testa nel cuscino per non far sentire ai vicini che piango, ieri notte mi sono scolata quattro bottigliette di whisky che ho trovate nel frigobar… cinque.» «Una bottiglietta in più o in meno non fa differenza» – fece comprensivo il commissario. «No, non ha capito. Torna verso le cinque del mattino.» Se la tirava lunga la nottata, il texano, doveva averci la resistenza. Ma che voleva in sostanza Agata Masseroni in McGivern da lui? Non ebbe necessità di spiarglielo. «Vorrei che lei facesse qualcosa.» «A disposizione, signora, per quanto non credo che la cosa rientri nei miei…» «Glielo sto chiedendo come amico.» «D’accordo, sì, ma non vedo cosa possa fare.» «Scopra chi è la donna, al resto penserò io. Me lo promette?» E gli pigliò le mani. Cecè si liberò, sentendo che principiava a sudare, stava cominciando a sentirsi assufficare. «Una domanda sola, signora: le assenze di suo marito si verificano solo la notte?» «Sempre di notte. Di giorno non si allontana da me. E c’è una cosa strana, commissario. Il suo atteggiamento con me è quello di sempre, tenero, premuroso… innamorato.» Un’altra vampata di foco all’ultima parola, pudicamente detta. «Cercherò di fare del mio meglio, signora. Buonanotte.» Niscì quasi di corsa dalla cabina, se ne andò a passiare sul ponte per ragionare meglio sulla facenna. A conoscere il nome dell’amante di mister McGivern ci sarebbe voluto picca e nenti, certamente si trattava di una che viaggiava da sola o in compagnia di un’amica che macari si allontanava dalla cabina quando il mascolo arrivava. Oppure non si allontanava e il texano si spogliava e si corcava in mezzo, va a sapere con questi omini alla John Wayne. Ad ogni modo, bastava fare una ricerca al computer e avrebbe avuto le risposte giuste. Però questa soluzione non gli piaceva, il nome dell’amante l’avrebbe potuto scoprire con una ricerca all’antica. Una volta scopertolo però, non l’avrebbe mai fatto conoscere alla signora Agata, capace che quella affrontava la rivale e succedeva un quarantotto. L’indomani a sira, all’ora della cena, Cecè Collura s’appresentò al tavolo ma non s’assittò: si scusò con gli ospiti di non poter mangiare con loro come di solito, ma aveva – disse – un problema d’amministrazione da risolvere urgentemente. Invece si sistemò nel retroufficio del commissariato e si sbafò la cena fredda che aveva ordinato. Poi, alle nove precise, munito di un passepartout, raprì la porta di uno sgabuzzino di servizio nel corridoio 1a, allocato proprio davanti alla cabina dei McGivern e si mise ad aspittare con santa pacienza. Sentì il mister texano arrivare, trasire, chiudere. Dopo manco dieci minuti lo sentì nesciri, chiudere, incamminarsi al piccolo trotto. Lo seguì nel corridoio. Il mister svoltò l’angolo e si fermò davanti alla cabina 6, non usò il campanello, tuppiò leggermente con le nocche, tre colpetti brevi, pausa, altri tre colpetti, pausa, tre colpetti ancora. La porta si raprì, il mister trasì, la porta si richiuse. Un segnale convenuto, preciso. Vuoi vidiri che la signora Agata aveva ragione? Gli venne fatto di provocare uno sconquasso facendosi raprire la porta con lostesso sistema usato da McGivern, ma poi ci ripensò e tornò in ufficio. Chiamò sparte il suo vice Premuda. «Vuole controllare chi occupa la cabina 6 del corridoio la?» «L’avvocato Cicerchia» – rispose l’altro senza la minima esitazione. Cecè Collura lo taliò imparpagliato. Perché il vice, senza bisogno di consultare il computer, aveva la risposta pronta? Premuda prevenne la domanda e si spiegò, sgombrando dalla testa di Cecè il pinsero che gli era venuto, e cioè che mister McGivern fosse di gusti sessuali tanticchia complicati. «Ha già fatto una crociera con me. Lo conosco bene. Nella sua cabina organizza pokerini riservati a miliardari. Viaggia con una valigia piena di carte da gioco nuove, che fa accuratamente confrollare agli sventurati che seggono al suo tavolo. Perché immancabilmente li pela. Sarà anche un avvocato, ma secondo me è principalmente un baro abilissimo.» Collura ne fu contento per la signora Agata. Però, subito appresso, pigliò in lui sopravvento lo sbirro. «Mi pare che il gioco d’azzardo sia proibito.» «Lo è, commissario. Ma noi cosa possiamo farci? Non possiamo irrompere nella cabina, questo è certo. D’altra parte nemmeno l’altra volta ci fu, che so, una denunzia, una protesta contro Cicerchia. Abbiamo le mani legate.» Alla fine della cena della sera dopo, quando McGivern si susì e scomparse, Collura comunicò alla signora Agata la novità. La signora, di colpo, partì con una risata fragorosa, era tornata al suo umore normale. «Ma sa, forse alla fine di questa crociera suo marito sarà stato alleggerito e parecchio.» «Non m’importa, basta che non abbia un’amante. Miliardi non gliene mancano, possiede persino la banca dove li deposita.» Mentalmente, Cece s’inchinò a quella logica fimminina. Ma la facenna del baro che agiva indisturbato non se l’agliuttì. Doveva inventarsi qualche cosa. Si fece dare da Premuda tutti i particolari possibili. «A quanto io ne so, commissario, Cicerchia porta con sé anche le fiches che convertono alla fine. Non credo ci sia un tetto ai rilanci. Nelle prime tre sere, Cicerchia vince e perde, perde in modo sensibile, poi, dalla quarta sera in poi, comincia a vincere. «Non solo si rifà, ma spenna di brutto gli altri. Corre su di lui una leggenda, non va al bagno durante le partite, è capace di star seduto al tavolo una giornata intera.» «Chiamano qualche volta il cameriere per farsi portare da bere, che so, un panino…» «Mai. Cicerchia ogni mattina si fa abbondantemente riempire il frigobar.» Cicerchia si era blindato bene. Cecè ci perse qualche ora di sonno, poi, nella matinata, si fece persuaso che aveva messo male il problema. Non si trattava di scoprire come faceva quello a barare, ma di metterlo in condizioni di non trovare più compagni di gioco. Calcolò che almeno da una sera Cicerchia aveva cominciato a vincere. E pensò a una cosa semplicissima. In matinata andò in infermeria, si fece dare un certo medicinale, lo consegnò al cammarere che serviva al tavolo di Cicerchia, gli diede precise istruzioni. Aveva principiato a fare macari lui un gioco d’azzardo, peggio di quelli che faceva il sedicente avvocato. Non andò quella sera a corcarsi, in attesa degli eventi. Premuda, ignaro del trainello che il suo capo aveva preparato per Cicerchia, volle tenergli compagnia. Verso le due di notte uno steward arrivò di corsa, riferì che una violenta lite era scoppiata nella cabina 6 del corridoio 1a. «Vada a vedere che succede» – disse pigramente Collura. Ma lo sapeva già. Premuda, di ritorno dopo un’ora, gli contò la scena che il commissario si era immaginata. «Cicerchia è passato alla terza fase e ha cominciato a vincere di brutto. Però, contrariamente alle altre sere, ogni mezz’ora interrompeva per andare in bagno. La cosa ha insospettito gli altri. Si sono domandati perché l’avvocato, proprio quando vinceva, andava in bagno. Che faceva? Cambiava le carte? Hanno preteso di perquisire il locale, Cicerchia si è opposto, sono corse male parole, è scoppiata la rissa. Ho dovuto accompagnare Cicerchia in infermeria, ma ormai s’è sparsa la voce che è un baro. E ora mi dica, commissario, e stato lei a organizzare tutto?» «Sì» – ammise Cecè Collura – «con l’aiuto del dottore che m’ha dato un potente diuretico.» Un baro vero fatto scoprire con un falso indizio. La crociera, vera o virtuale, continuava. I gioielli in fondo al mare Il comandante della nave era un gran pignolo, e questo era bene, lo giustificava Cecè Collura considerato che aveva la responsabilità di quasi duemila persone. Ma certe volte – sempre secondo Cecè – esagerava. Una volta che al ristorante notò un cammarere coi guanti non perfettamente bianchi, lo chiamò sparte e gli fece un liscebusso tale che a momenti quello cadeva in terra svenuto. Un giorno convocò a rapporto tutti gli ufficiali e annunziò loro che il giorno appresso si sarebbe fatta un’esercitazione di abbandono nave: tutto l’equipaggio e il personale di bordo dovevano cooperare affinché l’esercitazione si svolgesse senza incidenti e riuscisse alla perfezione. «E che incidenti Possono capitare» – si spiò Collura – «se i passeggeri sanno che si tratta di una cosa fatta per finta?» Toccava a lui avvertire i crocieristi, ma abilmente si scansò e incarricò della facenna il suo vice Premuda. Naturalmente, una certa quantità di crocieristi s’appresentò all’ufficio commissariato per esporre dubbi e problemi: «Dobbiamo procedere di corsa o a passo normale?» «Possiamo portare con noi valigie?» «Scusino, ma che bisogno c’è di questa esercitazione se il mare è una tavola?» «Siamo sicuri che si tratta di un’esercitazione finta nel senso che c’è un pericolo vero e non ce lo volete dire?» Quando la camurria finì, Cecè aveva i capelli ritti per il nirbuso. L’indomani matino alle undici, la sirena sonò il previsto signale. I passeggeri si comportarono esattamente come una scolaresca elementare alla fine della lezione: sciamarono fino ai punti di raccolta scherzando, ridendo, ammuttandosi. Al comandante quell’atteggiamento non piacque per niente. E riconvocò gli ufficiali. «Ritengo non valida l’esercitazione. È stata presa alla leggera dai crocieristi. E, quel ch’è peggio, questo clima euforico da gita campestre ha contagiato anche voi. Dal ponte, ho visto qualcuno di lorsignori che rideva. Proveremo di nuovo. Lei, commissario, avverta i passeggeri che la prossima esercitazione avrà luogo senza preavviso. Potro ordinarla anche di notte.» Cecè Collura s’infuscò, il comandante evidentemente era sotto a una botta di pignolaggine. Come potevano gli ufficiali imporre serietà ai crocieristi che sapevano di non correre nessun pericolo? E poi, cosa più inquietante, il signor comandante non la conosceva la storiella di Pierino che gridava «al lupo, al lupo» per sgherzo e poi, quando il lupo arrivò veramente, nessuno ci credette? Cecè non si riteneva superstizioso, ma, per il sì o per il no, se un gatto nivuro gli attraversava la strada, pigliava un altro percorso. Stavolta i passeggeri che s’appresentarono all’ufficio commissariato furono di più della prima volta. «Io dormo nuda. Dovrò vestirmi o arrivare al punto di riunione così come mi trovo?» «Senta, commissario, io soffro d’insonnia, riescoa prender sonno dopo le cinque del mattino. Vorrebbe essere tanto cortese di pregare il comandante di far scattare l’allarme tra l’una e le tre di notte?» «Se l’esercitazione dell’altra volta è stata veramente finta, chi m’assicura che la prossima non sia veramente vera?» Il segnale d’abbandono nave il comandante, che in quell’occasione rivelò avere leggere tendenze sadiche, lo fece suonare alle cinco del matino. Intordonuti dal sonno, i crocieristi stavolta non ebbero gana di ridere o di sgherzare, s’avviarono al punto di riunione con passo da corteo funebre. Non ci furono incidenti e il comandante riconvocò gliufficiali. «Non c’è male, posso considerarmi abbastanza soddisfatto. È necessario però fare un’ultima esercitazione, più completa. I crocieristi non dovranno limitarsi araggiungere il punto di riunione, ma salire sulle scialuppe che verranno messe in mare. La terremo in pieno giorno, alle quindici. Lei, commissario, stavolta avverta i passeggeri e spieghi loro cosa dovranno fare.» L’umore di Cecè addiventò scuro comeuna nottata di frivaro. Non arrinisciva a levarsi dalla testa una voce che ripeteva come un disco inceppato: “Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”. Invece si sbagliò, non fu quella la volta che la gatta ci lasciò la zampa. Tutto andò benissimo, il comandante restò soddisfatto, si congratulò con gli ufficiali, disse che sarebbe stato di parola, niente più esercitazioni d’abbandono nave. Però, a essere sinceri sino in fondo, proprio benissimo non andò, in quanto la trentenne e splendida Irene Martino, moglie del Cavaliere del lavoro Martino Martino, perdette in mare il borsone da viaggio che si era portata appresso sulla scialuppa. E dintra il borsone ci stavano tutti i gioielli che sfoggiava col più piccolo pretesto e che erano stati assicurati per miliardi due e mezzo. Quando la signora s’appresentò col marito sissantino per denunziare l’incidente, a sentire il valore dei gioielli persi in mare, Cecè Collura stunò. L’incantevole signora sorrise: «Non faccia quella faccia, commissario, mi ripagherà l’assicurazione. E poi Cicciotto me ne comprerà altri, vero, Cicciotto?» Cicciotto, al secolo Martino cav. Martino (salumi & affini), calò la testa in segno d’assenso e taliò innamorato la mogliettina. Ogni volta che si rimaritava, se la pigliava sempre più picciotta: forse si augurava di campare fino a ottant’anni per impalmare una diciottenne. «Mi perdoni la domanda, signora. Come mai non li aveva depositati in una delle nostre cassette di sicurezza?» «L’ho fatto, commissario. Ma, vede, quando ciè stata annunziata la nuova esercitazione, ho deciso, malauguratamente, di prelevarli e tenerli con me. Non mi andava di abbandonarli, sia pure per poco, poveri gioiellini miei!» E scoppiò a piangere. O a ridere. Il verso che faceva era ambivalente. Ma forse piangeva, se il cav. Martino Martino le diede affettuosi colpettini sulla schiena sussurrandole: «Non piangere, cara, Cicciotto tuo te ne comprerà altri più belli. Se vuoi, telefono subito al gioielliere.» La bellissima disse che non c’era tutta questa prescia. Cecè Collura si fece dare tutti i dati dell’assicurazione e telefonò alla Società per comunicare la gradita notizia che, con molta probabilità, avrebbero dovuto sborsare due miliardi e mezzo. Venne richiamato dalla Società assicuratrice in serata: gli facevano noto che al prossimo scalo si sarebbe imbarcato un loro funzionario per svolgere le normali pratiche che precedevano il risarcimento del danno. Cecè Collura appizzò le orecchie. Primo: quello che gli aveva telefonato voleva fare apparire il fatto come normale amministrazione, il suo tono era troppo, come dire, conciliante, rassicurante. E in genere le società d’assicurazione non la fanno mai tanfo semplice. Secondo: se tutta la faccenda non presentava problemi, perché s’affrettavano a mandare a bordo un loro funzionario? Collura, sbirro nato, sentì feto d’abbrusciato. «Premuda, lei saprebbe dirmi qual era la scialuppa sulla quale hanno preso posto il cavalier Martino Martino e sua moglie?» «Un momento solo, commissario» – fece il triestino. E andò nel retroufficio a compulsare il computer. Tornò quasi immediatamente. «La scialuppa 14. I marinai che la governavano erano Luigi Toi e Francesco Liguori. Li convoco?» Collura taliò ammirato il suo vice: capiva le cose a volo. Il marinaio Toi dichiarò che della faccenda della borsa caduta in mare non sapeva praticamente niente, aveva solo sentito il grido della signora: «Oddio, i gioielli!». Assai più esauriente fu invece il secondo marinaio. La bella signora, disse, teneva il borsone sulle ginocchia… «E tu dove tenevi gli occhi?» – gli spiò a tradimento Collura. «Sulla signora» – ammise il marinaio Liguori – «È così bella. A un tratto la signora s’accorse d’avere le scarpette sportive slacciate. Siè chinata, ma il borsone le dava fastidio. Se l’è levato dalle ginocchia e l’ha messo tra lei e il marito. Questi si è voltato verso la moglie e col gomito ha urtato il borsone che è caduto in acqua. Ho cercato, sporgendomi, di pigliarlo, ma era troppo tardi. La signora ha gridato: “Oddio, i gioielli!”. Mi è parsa però solo dispiaciuta.» «Spiegati meglio.» «Beh, una donna che perde tutti i suoi gioielli piange, si dispera… Lei no, ecco.» Il marinaio era un picciotto sveglio, aveva contato i fatti con precisione e non aveva manifestato il minimo sospetto che la facenna fosse stata tutta architettata tra marito e mogliere, come invece lui andava sempre più persuadendosi. Ci ragionò sopra a lungo e poi decise di giocare tutto per tutto. Per perquisire la cabina dei Martino avrebbe dovuto domandare il permesso al comandante, ma era certo che quello, pignolo com’era e sulla base di un semplice sospetto, non glielo avrebbe mai dato. S’informò discretamente con la cammarera addetta alla cabina sulle abitudini della coppia: i Martino andavano a pranzo sempre alle tredici e tornavano alle quindici spaccate. Due ore di tempo: ce l’avrebbe fatta? Per sicurezza, passò al ristorante: i Martino erano assittati al loro posto. Si precipitò nella cabina che occupavano, raprì col passepartout, richiuse la porta alle sue spalle. La perquisizione fatta con estrema quatela per non lasciare traccia del passaggio di uno straneo, durò poco più di un quarto d’ora. Raprendo una scatola di scarpe in fondo all’armadio, dovette a fatica trattenere un grido di trionfo: i gioielli, che ben conosceva per averli visti addosso alla signora, erano tutti malamente stipati là dentro. Possibile che dopo tutto il teatro che avevano fatto, li lasciassero così, quasi allo scoperto, alla mercé di una cammarera qualsiasi? Forse – si persuase Cecè – non avevano ancora avuto il tempo di trovare un nascondiglio sicuro. Il Cavalier Martino e la sua dolce mogliere l’avevano pensata bella: tenersi i gioielli e farseli pagare dall’assicurazione. Niscì, chiuse nuovamente la porta, andò a mangiare con soddisfazione. Il giorno appresso era previsto lo scalo e il rappresentante della Società s’appresentò all’ufficio commissariato. Quando seppe che il commissario era un commissario sbirro provvisoriamente ceduto al mare, cangiò di colpo modo e parola. «Ha detto ai Martino che sarei arrivato?» – spiò quello dell’assicurazione che si chiamava De Dominici. «Me ne sono guardato bene» – fece Cecè. E spiò a sua volta: «C’è qualcosa che non va?» «C’è che il Cavaliere è in balia degli strozzini. Le basta?» Collura si era assicurato che i Martino fossero scesi a terra. «Venga con me.» Guidò De Dominici nella cabina della coppia, gli mostrò trionfante i gioielli nella scatola di scarpe. De Dominici, che nelle vene doveva avere sangue di pesce, non disse né ai né bai, si limitò a taliare i gioielli di sfuggita. «Queste sono le copie» – decretò – «Il cavaliere Martino ce l’aveva fatto sapere.» Collura aggelò: aveva sbagliato tutto. E decise di non occuparsi più della facenna. La sera stessa il rappresentante se ne ripartì, lasciando intendere che l’assicurazione avrebbe pagato. La notte, nel suo letto, Cecè Collura si contò una storia. C’è un sissantino innamorato della giovane moglie. La vendita dei gioielli che lei possiede, assediato com’è dagli strozzini, potrebbe dargli tanticchia d’ossigeno. Ma non osa dirlo a Irene, tanto più che la picciotta ignora la sua situazione economica disperata. Quel giorno, sulla scialuppa, gli si presenta una soluzione: far cadere in acqua i veri gioielli e riscuotere i soldi dell’assicurazione. Per i gioielli nuovi da ricomprare, si vedrà. Cecè Collura si ripromise di non contare quella storia a nessuno: gli era servita solo per pigliare sonno. E s’inquadrava perfettamente con le altre storie che gli erano capitate per cui non arrinisciva più a capacitarsi se quella crociera fosse vera o virtuale. Che fine ha fatto la piccola Irene? Prima d’accettare l’offerta d’imbarco, Cecè Collura ne aveva parlato col suo maestro e amico Salvo Montalbano, che faceva il suo stesso misteri a Vigata, ma era omo di grande spirenzia. Montalbano l’aveva taliato a lungo senza parlare, poi si era addeciso a raprire bocca. «Cecè, tu l’hai mai fatto qualche volo transoceanico?» Alla sola idea, la fronte di Collura s’imperlò di sudore. «No, fino a questo momento il Signore mi ha risparmiato.» «Vedi, Cecè, quando t’appresenti a bordo dell’aereo, ti ricevono le hostess che sono linde e pinte. Divisa senza una piega, manco un capello fora di posto. Dopo tanticchia che si è partiti, le hostess si levano la divisa e indossano una speciedi vistitazzo da travaglio. E lo sai perché?» «No, non lo so e manco lo vorrei sapiri.» «Devi saperlo, invece. Si cangiano il vestito perché addiventano serve. Agli ordini di quello che non gli piace il mangiare e ne vuole uno diverso, agli ordini di chi soffre per il volo e si vomita addosso, agli ordini di una madre che deve cangiare il pannolino a un picciliddro, agli ordini…» Cecè Collura, bianco in faccia, l’interruppe. «E secondo te un commissario di bordo deve puliziare il sederino ai neonati?» «Non dico questo; ma quasi.» Forse, rifletté dopo qualche giorno di navigazione Cecè Collura, Montalbano era stato troppo pessimista, come del resto era nel suo carattere. È vero, rogne e camurrie coi crocieristi ce n’erano ogni giorno, ma capitava macari ogni tanto qualche cosa che metteva in ballo le sue doti di sbirro. Come quando la figlia della signora Spoto, che aveva appena tre mesi, si volatilizzò. La signora Laura Spoto doveva avere passato la trentina e forse era una bella fimmina. Forse, perché quella che stava davanti a Cecè Collura era una povirazza con gli occhi rossi e abbottati dalle lacrime, due solchi profondi ai lati della bocca, la pelle di un cattivo colore. Contò che, dopo aver ce nato, era andata a dar da mangiare alla sua bambina che si chiamava Irene. Come faceva ogni sera. «L’allatta lei, signora?» No, non l’allattava lei, ma si era portata appresso tutto il necessario e la cabina era attrezzatissima. Proseguì, tra i singhiozzi, dicendo che verso le ventidue, essendosi Irene addormentata, aveva deciso di pigliare tanticchia d’aria facendo quattro passi sul ponte più vicino alla sua cabina, una matrimoniale esterna. Quando era tornata, dopo manco mezz’ora, aveva aperto la porta e non aveva visto la bambina sul letto dove l’aveva lasciata. Pensò fosse caduta malgrado l’avesse messa in mezzo a due cuscini per protezione. La cercò sempre più disperatamente. «È sicura d’aver chiuso a chiave la porta della cabina?» «Sicurissima. Ci sto attenta.» E subito dopo queste parole ebbe una violenta crisi di pianto, alla quale seguì un collasso. Il triestino telefonò all’ambulatorio, fece venire un medico. Questi, appena le diede un’occhiata, volle fosse immediatamente trasferita in infermeria. Prima di principiare l’indagine, Cecè Collura andò a parlare col comandante che, alla notizia, impallidì. «Questa è la cosa peggiore che ci potesse capitare! Una bambina di tre mesi non si mette a camminare da sola! È chiaro che qualcuno l’ha rapita. Discrezione, mi raccomando. O tutti chiederanno di sbarcare.» «Il computer ci ha fornito i dati della passeggera. Ha un marito a Genova, non si è imbarcato. Che faccio, comandante, l’avverto della situazione?» «Per carità! Non se ne parla nemmeno! Non solo non ci sarebbe di nessuna utilità, ma si metterebbe a fare il diavolo a quattro, i giornali lo verrebbero a sapere e buonanotte alla crociera. Cautela, mi raccomando, commissario.» «Ho dato disposizioni che nessuno s’avvicini alla 38, la cabina della signora Spoto. E ho convocato la cameriera e l’inserviente addetti al corridoio» – disse il triestino appena lo vide tornare. E seguitò: «Vuole che andiamo a dare un’occhiata?». «Prima vorrei parlare con questi due. E intanto mi faccia sapere come sta la signora, se è in grado di rispondere alle nostre domande.» Dall’interrogatorio dell’inserviente e della cammarera risultò che quest’ultima, verso le ventidue, aveva visto la signora Spoto uscire dalla cabina, chiudere a chiave la porta e, prima d’allontanarsi, farlela solita raccomandazione. «Solita? E quale?» «Se sente piangere la bambina, mi venga a chiamare. Sarò sul ponte B.» «E lei l’ha sentita, stasera?» «Stasera no, ma ieri sì. E sono andata ad avvertire la signora che è venuta subito.» «Non ha notato niente di sospetto?» La cammarera ebbe un attimo d’esitazione, poi parlò decisa. «Commissario, quando la signora non ha trovato la bambina, è venuta a cercarmi, sconvolta. Mi ha domandato se qualcuno era entrato in sua assenza nella cabina e io ho risposto di no, ed era la verità. Quindi non ci sono che due sole persone sospettabili: io e lo steward. E noi due le giuriamo che non siamo stati noi a rapire la piccola.» Oltre ad essere onesta, la faccia della cammarera era quella di una fimmina intelligente. Tornò il triestino, alla signora avevano dato un sedativo, dormiva. Cecè Collura si fece accompagnare alla cabina della signora Spoto dalla cammarera che raprì la porta col passepartout, la signora si era portata appresso la chiave. «Chi ci sta alla 37?» «I signori Duclos, sono francesi, devono essere sposini.» «E alla 39?» «È vuota, l’occuperanno al prossimo scalo.» La cabina, in disordine, portava i segni della disperata ricerca della signora Spoto. C’era un passegino e tutto quello che poteva servire a una picciliddra di tre mesi, biberon, poppatoi, pannolini. Nel frigobar, tra l’altro, due scatole di latte, una era aperta. «A voi risulta che la bambina stesse bene in salute?» «A quanto pare, sì. Finora non aveva avuto bisogno del pediatra di bordo. Noi però non l’abbiamo mai vista.» «Che significa?» – spiò Cecè sorpreso. «Quando noi entravamo per rifare il letto e pulire la stanza, la signora era già pronta con la bambina in braccio o in passeggino e andava in corridoio ad aspettare che avessimo finito. Era molto gelosa della bambina, nessuno la doveva toccare. La teneva sempre coperta, diceva che si raffreddava facilmente.» «Va bene, torni alle sue occupazioni. E non faccia parola con nessuno di quello che sta succedendo.» Rimasto solo, Cecè Collura sentì accentuarsi il disagio che aveva avvertito trasendo in cabina. Raprì un album di fotografie che stava posato sul comodino. Ritraevano la stessa picciliddra, da quando aveva pochi giorni fino a tre mesi. Solamente in due otre c’era macari la mamma, il padre invece non compariva mai. L’ultima foto dell’album ritraeva la signora Spoto, un primo piano. Era come Collura l’aveva vista poco prima nell’ufficio del commissariato, due solchi profondi ai lati della bocca, gli occhi non gonfi di pianto ma spenti. Quanto diversa dalla giovane donna che sorrideva felice con la sua bambina nelle altre fotografie! Tuppiarono leggermente alla porta. Sulla soglia c’erano la cammarera e una giovane coppia. «I signori Duclos» – li presentò la cammarera. «Abbiamo sentito del rumore» – fece il signor Duclos in un italiano misto di francese – «Io e ma femme abbiamo pensato che la petite…» «Sta bene, la petite» – mentì Collura – «O meglio, ha avuto solo un piccolo disturbo da bambini. È in infermeria con la mamma.» «Meglio così» – fece la signora Duclos – «Io e mio marito ci siamo affezionati. Di tanto in tanto la sentivamo piangere, le pareti sono così sottili.» Se ne andarono. Collura s’assittò sul letto e ripigliò in mano l’album di fotografie. Tutto a un tratto gli lampo un’idea che gli aggelò la spina dorsale. Dal telefono della cabina chiamò l’infermeria, la signora riposava ancora. «Ha con sé la borsetta? Sì? Fammela avere subito in ufficio.» Suonò per la cameriera e quella si precipitò. «Rimetta in ordine la cabina. E sul letto sistemi due cuscini, sa, come si fa per evitare che i bambini cadano.» Quando arrivò in ufficio, la borsetta della signora Spoto era già sulla sua scrivania. La raprì. E dintra vitrovò quello che si aspettava, ma invece di provarne soddisfazione sentì una fitta di malinconia pungergli il cuore. Un minuscolo registratore, due cassette. Mise la prima. Solo il fruscio d’una registrazione d’ambiente, senza una voce o un rumore. Stoppò, riavvolse il nastro, lo fece scorrere avanti veloce. Appena sentì un suono, mandò il nastro a velocità normale. E subito, alto, chiaro, risuonò nell’ufficio il pianto della bambina scomparsa. «Ha trovato la piccola?» – spiò Premuda trasendo di corsa, un sorriso felice sulla faccia. «Sì, è qui dentro» – fece Collura indicando il registratore. «Dio mio! Perché?» – spiò il vice sbiancando. «Mi chiami il marito, a Genova, subito.» Appena seppe che sua moglie si trovava sulla nave, il signor Spoto scoppiò a piangere. Erano giorni che la cercava dovunque, era sparita da casa approfittando della sua assenza e di una momentanea distrazione dell’infermiera che l’assisteva. Laura aveva perso la bambina cinque anni avanti, a tre mesi. Ne aveva avuto un tracollo e da allora non si era più ripresa. Cliniche, cure, tutto inutile. Si era fissata che la bambina non era morta, era lui, il marito, a sottrargliela e per questo ogni tanto scappava da casa stringendo al petto una bambola. «La venga a prendere al prossimo scalo» – disse il commissario. E poi, rivolto a Premuda che aveva sentito tutto e appariva disfatto: «Coraggio, torniamo in cabina.» Dopo un’ora di ricerche, trovarono la bambola in un’intercapedine darrè il lavabo. Con delicatezza, come se fosse stata una picciliddra vera, Cecè Collura la depose sul letto tra i due cuscini. «E ora che facciamo?» – spiò il vice. «Io vado a trovare la signora Spoto. Lei aspetti qui una mezz’oretta, poi metta in moto il registratore e sparisca. Prima del pianto della bambina ci sono almeno venti minuti di silenzio. «Basteranno. La signora sarà pazza, ma in certe cose ragiona perfettamente. Quando usciva dalla cabina, metteva in moto il registratore che a un certo momento faceva sentire il pianto. La cameriera allora correva sul ponte a chiamare la signora. E tutto pareva vero.» La signora Spoto si era appena svegliata, quando vide il commissario lo taliò ansiosa. Cecè fece una faccia trionfante. «Ho una bellissima notizia, signora! Abbiamo ritrovato la sua bambina!» La signora Spoto saltò dal lettino, gli occhi sparluccicanti di gioia, si mise le scarpe, il commissario le offrì il braccio. Appena imboccarono il corridoio dove c’era la cabina 38, il pianto della bambina si udì benissimo. «Irene!» – gridò la signora e si mise a correre verso la sua illusione. Cecè non ebbe la forza di spiarsi se quella crociera era vera o virtuale. La scomparsa della vedova inconsolabile A pensarci bene, chi sono i crocieristi? Sono gli abitanti di un piccolo paese provvisorio e in movimento. Passati sì e no tre giorni di navigazione, tutti conoscono vita, morte e miracoli di tutti, vizi privati e pubbliche virtù. E comincia quel cucirsi i panni addosso che, dalle parti di Cecè Collura, è chiamato “sparlatina”. Il napoletano amico di Premuda era poi uno specialista nella finissima arte dell’affibbiare nomignoli: il commendator Gaudenzio Pirolli, calvo, grassissimo, gambette invisibili, divenne subito “rolling stone”; la noiosissima signora Tarantino, che quando t’attaccava discorso non la finiva più, la “mosca cavallina”. E via di questo passo. La signora Gemma Ardigò venne invece soprannominata la “vedova inconsolabile”. Va detto subito che il marito della vedova, Mario Vittorio Ardigò, luminare della chirurgia cardiovascolare, era vivo e, relativamente al fatto di essere sittantino, macari vegeto. Allora perché chiamare vedova inconsolabile la signora Gemma? Perché non solo vestiva sempre di nero, ma era perennemente malinconica e diffondeva intorno a sé una mestizia quasi palpabile. Era una trentacinquina di gran classe, ma uno la doveva taliare a lungo prima di rendersi conto che era di sorprendente bellezza. Però nessun mascolo in cerca d’avventura aveva mai osato avvicinarsi a lei durante la crociera e del resto la signora non dava confidenza a nessuno. Tra i paesani, pardon, tra i crocieristi si era diffusa la voce che la signora Ardigò fosse reduce da una grave crisi depressiva le cui cause erano ignote. A convincerla a fare quella crociera, dicevano i soliti beneinformati, era stato il marito luminare non tanto per finalità terapeutiche quanto piuttosto per avere tanticchia di sollievo dall’atmosfera da due novembre che trovava a casa quando tornava stanco dal lavoro. «Le cose non stanno così» – era intervenuto il commendator De Cristofaris – «Io lo conosco benissimo l’esimio professor Ardigò. Ha due segretarie giovanissime e prosperose che indossano minigonne cervicali e con le quali se la spassa. Ma è gelosissimo della moglie, quando torna a casa le fa scenate, la tratta peggio di uno schiavista, se non tiene la povera signora Gemma legata con una corda alla caviglia, poco ci manca.» Nella notte precedente l’arrivo nel porto che rappresentava la tappa conclusiva della crociera, il centralinista ricevette una chiamata per la signora Gemma. Era da poco passata la mezzanotte, il centralinista rimase stupito: l’unico a telefonare alla signora era il marito, puntualmente, ogni mattina alle nove. Macari questa volta riconobbe la voce del luminare, ma rispose come gli era stato ordinato di rispondere: «La signora non vuole che le si passino telefonate dalle 10 di sera alle 9 del mattino». «Sono il marito, non faccia storie. È una faccenda urgente.» Il centralinista provò e il telefono della cabina 90, quella della signora Gemma, risultò occupato. «La signora sta telefonando, signore.» «A chi?!!» – ruggì il chirurgo con tanta ferocia che il centralinista atterrì. «Po… po… posso ri… provare.» «E riprovi! Glielo devo dire io?» Ci riprovò. Sempre occupato. «Sta ancora parlando, signore.» «Aaarrrggghhh!» – urlò il chirurgo – «Ritelefonerò tra dieci minuti!» Il centralinista riprovò per conto suo, voleva evitare di rimetterci l’udito per sopravvenuta rottura del timpano. Il telefono della cabina 90 restò ostinatamente occupato. Il centralinista chiamò Premuda, che era di guardia al commissariato, e gli riferì la situazione. «Perché ti preoccupi?» – fece il vicecommissario – «Probabilmente la signora, volutamente o involontariamente, ha staccato il ricevitore.» Svegliò l’addetta al piano, le disse di recarsi alla cabina 90, di bussare discretamente e d’avvertire la signora Ardigò dirimettere il ricevitore a posto perché il marito desiderava parlarle. Non passarono neanche cinque minuti che l’addetta richiamò il commissariato. «Ho bussato insistentemente. Non risponde nessuno. Che faccio? Apro col passepartout?» «Neanche per sogno» – disse Premuda – «Quella sicuramente avrà preso qualche sonnifero e non si sveglia manco a cannonate.» Poi, al centralinista: «Quando il marito ritelefona, ci parlo io». Quasi nonriuscì a terminare la frase, il professor Ardigò era tornato alla carica. «Sono Premuda, vicecommissario di bordo. Le volevo dire che non credo che il telefono sia occupato, penso che il ricevitore sia stato staccato dalla signora stessa che vuole riposare.» «Ma mi faccia il piacere! Mandi qualcuno abussare alla porta della cabina!» «Già fatto, professore. La signora non ha risposto. Probabilmente ha preso qualche sonnifero…» «Ma non dica sciocchezze! Io ho proibito a mia moglie di prendere sonniferi! E lei ubbidisce ai miei ordini! Non si prova a discutere nemmeno! Faccia aprire quella maledetta porta e veda cosa è successo!» «Senta, professore, noi non possiamo violare la privacy…» «Me ne frego della privacy della signora! È mia moglie! Che privacy vuole che abbia con me? Richiamo tra dieci minuti.» I modi di quell’uomo avevano urtato Premuda che reagì con un colpo di genio, inventandosi una cosa che poteva avere una sua plausibilità. «Eh, no. Da questo momento in poi e fino alle otto di domattina non si può comunicare con la nave. Tutte le comunicazioni dovranno restare a disposizione per le manovre d’accostamento. Mi dispiace, buona notte.» L’aveva fatto per una sorta d’antipatia verso il professore, ma in realtà c’indovinò. Alle cinque del mattino in commissariato s’appresentò Cecè Collura, aveva capito che le procedure per lo sbarco dei crocieristi sarebbero state complesse e, per quanto possibile, voleva dare una mano d’aiuto al suo vice. Senza dare nessuna importanza alla facenna, Premuda l’informò delle telefonate a vuoto del professor Ardigò. S’aspettava che Collura reagisse con un certo divertimento e invece vide che il commissario parse disubito preoccupato. «Senta, Premuda, ma siamo certi che possiamo stare tranquilli? Lei lo sa com’è la signora Ardigò, no? La chiamano la vedova inconsolabile! E se avesse veramente preso dei sonniferi, contrariamente agli ordini del professore?» «Beh, sarei contento per lei, dimostrerebbe una certa indipendenza dal marito che, mi creda, commissario…» «Premuda, non mi sono spiegato bene. Volevo dire: e se avesse preso una dose eccessiva di sonniferi? Quella è una fimmina che pare sempre sull’orlo del suicidio!» Il sorriso scomparse dalla bocca di Premuda. «Madonna santa! Non ci avevo pensato!» Si fecero di corsa scalette, controscalette, corridoi, corridoietti e finalmente arrivarono davanti alla porta della 90 che Cecè Collura rapii col passepartout e con una certa ansia. Il microfono era staccato, le valigie erano già pronte per lo sbarco, ma della signora Gemma non c’era traccia. Premuda origliò alla porta del bagno, nessun rumore. Un terribile pensiero gli attraversò la mente. Pallido, si rivolse a Cecè Collura: «E se si è gettata in mare?». «Che ore sono?» – spiò Cecè. «Quasi le sei.» «Abbiamo due ore prima che il professore ritelefoni. Diamoci da fare. Lei, Premuda, vada a parlare con gli uomini di guardia. Si faccia dire se hanno notato qualcosa d’anormale.» Premuda si precipitò. Cecè niscì dalla cabina e s’imbatté quasi subito nell’addetta al corridoio. «Senta un po’…» «Piglio servizio alle sette» – rispose l’addetta, sgarbata. «Va bene, ma potrei sapere qualcosa della signora del 90?» «E che vuole sapere? Quella va a letto alle nove e si sveglia alle otto.» Cecè tornò nella cabina, pigliò un foglio di carta, scrisse poche parole: che la signora, una volta rientrata, telefonasse immediatamente al commissariato. Non credeva al suicidio: quella era il tipo di fimmina che, se si decideva a suicidarsi, avrebbe lasciato una lettera d’addio di centoventi facciate. E lettere così nella cabina non ne aveva trovate. Dopo manco mezz’ora ch’era in commissariato, arrivò Premuda, gli uomini di guardia non avevano niente da segnalare. Alle sette e mezzo, la signora Gemma Ardigò telefonò dalla cabina, era molto seccata che qualcuno fosse entrato in sua assenza. Che avevano di tanto importante da dirle al commissariato? «Vengo giù io» disse Cecè. Si fece scale, scalette, corridoi, corridoietti a passo svelto, c’era poco tempo prima della telefonata del luminare. La signora gli aprì la porta, melanconica sì, ma risentita. «Perché vi siete permessi…» «C’è un problema, signora. Stanotte ha telefonato suo marito…» «Cielo! Mio marito!» – fece la signora Gemma come nelle migliori commedie di Feydeau. Da quella battuta famosa e dal fatto che la faccia pallida di suo della signora arriniscì ad essere ancora più pallida alla notizia, Cecè ebbe la rivelazione inaudita. «Era in un’altra cabina, vero? Con un amico?» «Sì» – ammise la vedova inconsolabile abbassando pudicamente gli occhi. Ma li rialzò subito, aggiungendo: «Le cose però non stanno come lei può pensare». «Io non penso niente» – disse Cecè – «Vorrei solamente…» Ma la signora oramà sentiva il bisognodi dire tutto. «Con Giulio Ghiro ci siamo sempre amati, ma tra noi non c’è mai stato niente, glielo giuro! Lui è un filosofo, ha scritto libri bellissimi, come Le ragioni della melancholia e l’ultimo, Dalla parte del non essere. Li conosce?» Giùlio Ghiro! Come non averci pensato prima? Il solitario, cupo crocierista della 102, quello che il micidiale napoletano aveva soprannominato “le ultime ore di un condannato a morte”! La perfetta anima gemella della signora GemmaArdigò! «… e così abbiamo trovato il modo d’incontrarci qua a bordo, ma solo per parlare, commissario, mi creda, per parlare! E ora come faccio con mio marito che è così ossessivamente geloso?» «Suo marito conosce il signor Ghiro?» «No. Non l’ha mai incontrato.» In quel momento il telefono squillò. Collura sollevò il ricevitore, fece cenno alla signora di starsene zitta e ascoltare. «Professore Ardigò? Sono Collura, commissario di bordo. C’è stato un maledetto disguido. Ieri sera un’anziana signora amica di sua moglie, scendendo una scaletta, si è rotta il femore. Sua moglie, con generoso altruismo, ha voluto restarle accanto tutta la notte in infermeria ed è dall’infermeria che stiamo rispondendo alla sua telefonata. È colpa mia di non avere avvertito il centralinista e il mio vice Premuda… Le passo la signora.» E capitò il miracolo. La signora Gemma Ardigò gli sorrise. Poi pigliò il ricevitore, ascoltò. «Hanno svaligiato la casa? E vuoi la descrizione dei gioielli per la denunzia? Ora ci provo…» Cecè si allontanò discretamente. Aveva creato dal nulla un’anziana signora col femore rotto, un altro personaggio virtuale di quella crociera decisamente virtuale. Intervista sul commissario Collura Nel 1998, il quotidiano «La Stampa» si rivolge a Camilleri proponendogli una collaborazione estiva. Nascono così gli otto racconti che hanno come protagonista il commissario di bordo Cecè Collura … «La Stampa» mi aveva chiesto una serie di racconti, io ci pensai un po’ su e mi ricordai che ero stato a lungo indeciso sul nome da dare al commissario Montalbano quando era venuto fuori ne La forma dell’acqua. Avevo allora due nomi che mi giravano nella testa: uno era Montalbano e l’altro era Collura, cognomi tipicamente siciliani se altri mai ve ne furono. Poi mi venne l’idea di rendere grazie a Vazquez Montalbán e così optai per il commissario Montalbano. Ma ora dovendo scrivere dei racconti mi venne in mente di trovare un personaggio fisso. E subito è stato come una sorta di risarcimento nei confronti del commissario Collura: qualunque fosse diventata la funzione di questo personaggio che ancora non era nato, comunque si sarebbe chiamato Collura, visto che, poveraccio, era rimasto nell’anonimato rispetto a Montalbano che io avevo scelto come protagonista dei miei gialli. La seconda cosa che mi venne in mente, perché mi piace scommettere con me stesso, era quella di avere la possibilità di fare delle indagini all’interno di un luogo esattamente delimitato. È un po’ il giochetto che spesso e volentieri fa Agatha Christie quandosceglie l’Orient Express o un aereo per le sue storie. E quindi scelsi una nave da crociera perché offre una possibilità enorme di incontri con persone diversissime tra di loro. Nacque così il commissario di bordo. Il commissario di bordo non è un vero e proprio poliziotto: il commissario di bordo è soprattutto quello che si occupa del buon andamento dei crocieristi, della crociera stessa e del personale di bordo, ma non è un investigatore. Allora mi venne in mente di farne un poliziotto momentaneamente a riposo che ha una certa deformazione professionale anche quando si trova a svolgere un compito che poliziesco vero e proprio non è. La collaborazione a «La Stampa» imponeva due obblighi: quello di scrivere le storie di Collura a scadenze ben precise e quello di rispettare una lunghezza prestabilita. Come ha vissuto queste due diverse “imposizioni”? Io venivo da una esperienza giornalistica che era durata circa due anni con l’edizione regionale siciliana della «Repubblica» alla quale ogni settimana consegnavo due-tre cartelle di commento a quello che era avvenuto in Sicilia e in Italia. È una sorta di disciplina alla quale ti sottoponi e a me piacciono le discipline che uno si impone, i pensum mi piacciono moltissimo. A rispettare le scadenze ero dunque allenato. Il problema un po’ più serio era invece dato dalla lunghezza dei racconti che è standard: se tu superi di dieci righe la dimensione stabilita ti dicono “Guardi, dottore, bisogna tagliare” e questo è un problema perché credo che un racconto giallo che si possa tagliare sia un racconto giallo fallito. Dietro di me c’era però la lunghissima esperienza dell’Enciclopedia dello Spettacolo dove in quaranta righe dovevi definire uno scrittore o un regista. Anche a questo, francamente, ero allenato. Ho sbagliato un pochino la lunghezza del primo racconto ma dal secondo in poi non ci sono stati problemi. Quando aveva 12 anni sognava di fare l’ufficiale di marina. In varie occasioni ha raccontato come, svanito questo sogno, si sia rifatto leggendo romanzi e racconti di mare. La sua consuetudine con questo genere di romanzi ha contribuito alla stesura delle storie di Cecè Collura? Beh, sì, certo che mi sono venuti alla memoria i racconti di mare che ho letto. Però i grandi romanzi di mare non comportano storie di passeggeri. Conrad e Melville non descrivono navi con passeggeri, dove ci sono la sala da pranzo e spazi simili. Mi fece un po’ da guida un romanzo che mi colpì molto in giovinezza, scritto da un francese di cui non ricordo nemmeno il nome ma che si intitolava L’étoile du Nord, La stella del Nord, e venne pubblicato prima della guerra da Rizzoli nella serie di piccoli volumetti con la copertina verde e gialla che dirigeva Cesare Zavattini. È un romanzo straordinario, che si svolge su una nave da crociera: fin dall’inizio si capisce che c’è qualche cosa che non va in questo gigante del mare appena varato ma l’equipaggio finge che tutto vada tranquillamente. E invece le cose via via peggiorano. E c’è questa fraternità fra gli uomini dell’equipaggio, il loro rapporto con quelli che fanno la crociera. E un romanzo molto bello, che vedrei volentieri ripubblicato, anche se non ricordo altro se non questa atmosfera che mi è servita per i racconti di Collura … … chissà che non lo ripubblichi la “Libreria dell’Orso”… … lo potrebbe ripubblicare la “Libreria dell’Orso”. Lei è conosciuto da tutti come l’autore che ha inventato Montalbano. Non c’è un po’ di rischio a mettere accanto a Montalbano un’altra figura di commissario? Ma è un commissario di bordo: questo credo che il pubblico lo capirà immediatamente. Si tratta di un’altra cosa. E poi è un amico di Montalbano. Voglio dire che il tipo di indagini che lui svolge non interesserebbero a Montalbano: c’è una netta divisione fra i due personaggi. Montalbano non sarebbe mai salito su una nave da crociera per prendersi un periodo di riposo… … Montalbano, in parte, è come me: credo che si annoierebbe mortalmente a salire su una nave da crociera. Su un peschereccio sì, ma su una nave da crociera proprio non è il caso. Lo spazio breve del racconto non consente a Cecè Collura di imporsi al lettore con una fisionomia ben determinata, cosa che invece avviene per Montalbano. È d’accordo con questa osservazione? Sì, perfettamente d’accordo. Le apparenti divagazioni che ci sono nei romanzi o nei racconti lunghi di Montalbano, ma anche nei racconti di dieci cartelle, mi consentono in realtà di precisare molto del personaggio. Qui, più che il disegno del personaggio, conta il fatto, l’episodio. Nel primo racconto, a proposito di Cecè viene detto che «non era omo d’acqua, ma di terraferma». Camilleri, che è siciliano come Cecè e come Montalbano, è uomo d’acqua o di terraferma? Io sono uomo d’acqua e di terraferma. Sono tutte e due le cose. Sono talmente uomo d’acqua che ogni tanto mi prende una tale nostalgia del mare che assolutamente devo provvedere in qualche modo, anche andando nella spiaggia più vicina, piena di lattine, di rifiuti o di quello che vuole lei, ma l’odore del mare è una cosa indispensabile per me e per Montalbano. Tra i racconti, il primo ha una caratteristica che lo differenzia dagli altri: il suo legame con la realtà politica italiana. Il personaggio è un uomo miliardario, che in gioventù ha fatto il cantante sulle navi da crociera, che è stato anche presidente del Consiglio (e ora, fra l’altro, ricopre di nuovo questo incarico) e che, all’età di sessant’anni, torna in incognito a fare il cantante sulla nave dove si trova Collura. È evidente il riferimento a Silvio Berlusconi. La diversità del primo racconto rispetto agli altri è stata dovuta ad una sorta di incertezza mia. Cioè a dire; l’idea originaria, quando mi hanno chiesto questa collaborazione a «LaStampa», era di mettere dentro questa crociera una quantità di uomini politici e divertirmi con loro. Poi ho scoperto che con gli uomini politici ci si diverte assai poco e in fondo offrono pochi spunti per cose di questo tipo. E allora, dopo la prima storia di Cecè Collura, tutti gli altri racconti virano al giallo poliziesco sia pure molto blando. È stata una correzione di rotta, dato che stiamo parlando di navigazione. Berlusconi, con il quale polemizza spesso e che ha fatto diventare protagonista anche di uno di questi racconti, ha mai preso il telefono per parlare con lei, per sapere come mai lo scrittore più letto in Italia sia così ostile nei suoi confronti? Ma no. Non l’ha mai preso il telefono. Credo che non ci pensi neppure a prendere il telefono per chiamarmi. Un signore che dice a Bush «Caro George», che è chiamato «zio» dalle figlie di Putin, si figuri se solleva il telefono per chiamare uno scrittore, sia pure di successo, ma sempre appartenente a una razza inferiore. Rocco Mortelliti ha scritto un libretto partendo da uno dei racconti di Collura, Il fantasma nella cabina, e questo libretto, musicato da Marco Betta, verrà messo in scena in numerosi teatri italiani. Ci sono altri racconti di Collura che, dopo la pubblicazione su «La Stampa», hanno avuto una vita ulteriore o avranno ulteriori sviluppi? Questi racconti hanno incuriosito molti e in varie forme. Per esempio, era stata tentata una produzione cinematografica. Tra l’altro, c’era stato un bellissimo e serio intervento di sceneggiatura di Suso Cecchi d’Amico che aveva fatto un’opera pregevole per dare una sorta di cornice unitaria a questi episodi staccati tra di loro, e però poi, come avviene nel novanta per cento dei casi, questa proposta cinematografica non si realizzò. E mi è dispiaciuto perché era molto bella l’idea della Suso Cecchi d’Amico. Poi è venuta la proposta di fare un’opera lirica con Il fantasma nella cabina: Rocco Mortelliti ne ha tirato fuori un libretto e curerà la regia di questa opera per il “Festival delle novità” del Teatro Donizetti di Bergamo al quale sono molto legato, perché nel ’58 ho fatto la mia prima e ultima regia lirica in quel teatro, San Giovanni decollato , musica di Alfredo Sangiorgi, in tre atti, direttore Franco Mannino. Ebbe un grossissimo successo e ricevetti una quantità di proposte per fare il regista di opera lirica. Ma il numero di giorni di prove così limitato e così ristretto mi atterriva, per cui dissi «No, no, no» e probabilmente mi sono fregato una bella carriera di regista lirico. Questi racconti apparsi nel 1998 su un quotidiano ora diventano un libro. Si potrebbe dire che per il grande pubblico nascono per la prima volta… Sì, e sono molto curioso di vedere come reggono al libro. Veramente questi racconti sono stati scritti di settimana in settimana, obbedivano a delle scadenze estremamente precise, e quindi dovendoli scrivere con queste imposizioni temporali potevano verificarsi delle false partenze, perché vedevo che mi portavano, nella maggior parte dei casi, a un respiro maggiore di quello che mi era concesso. E quindi sono, come dire, un po’ compressi. Mi fa molta curiosità vedere che cosa ne viene fuori a leggerli l’uno dopo l’altro e provare se hanno una loro sostanza, sia pure leggera. Ogni racconto termina con una frase simile, che suona in questo modo: “È una crociera vera o virtuale?”. Questa domanda (alla quale, nell’ultima storia, viene data una risposta: la crociera appare «decisamente virtuale») contribuisce a creare un legame tra gli otto episodi, rappresenta una sorta di ritornello che collega le diverse storie… Mi ricordo, per esempio, che, subito dopo il primo, scrissi il racconto Che fine ha fatto la piccola Irene? , la storia di quella madre che crede di avere un figlio. Ci pensai un po’ prima di pubblicarla, perché ebbi delle remore, cioè a dire: “Ma insomma, debbono essere dei racconti leggeri, estivi, da leggere sotto l’ombrellone, e io gli vado a raccontare una storia triste di questo tipo?”. E infatti questo racconto apparve su «La Stampa» come penultimo. Però il fatto dell’inesistenza del personaggio, di una assenza considerata come una presenza, mi diede anche il via per Il fantasma nella cabina, secondo episodio apparso sul quotidiano di Torino. Tanto è vero che arrivai alla conclusione di chiedere: “Ma quella crociera era vera o virtuale?”. Pensa che Cecè tornerà a trovarlo? Che chieda di nuovo, come personaggio, di vivere sulla pagina scritta? Non escludo, non escludo. Perché con Cecè Collura mi è successo quello che mi successe con Montalbano nel primo romanzo. Nel primo romanzo io ho considerato Montalbano come una funzione, non come un personaggio: il commissario era lo strumento per svolgere l’indagine. Qui è ancora più scoperto il fatto che Cecè Collura sia una funzione. A me non piace descrivere dei personaggi che rimangono una funzione. Non è escluso che Cecè Collura possa diventare un personaggio. E non credo però che possa diventare un personaggio autonomo. Mi piacerebbe tanto inventarmi una storia nella quale Cecè Collura e Montalbano si trovano assieme. Roma, 19 settembre 2002